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Videointervista al Professor Antonio Faet

CAPITOLO 5 Un’identità plurale

5.2 Videointervista al Professor Antonio Faet

La videointervista ad Antonio Faeti, Professore di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna è stata svolta con la collaborazione della Professoressa Mirella D’Ascenzo presso la Biblioteca d’Arte e di Storia di San Giorgio in Poggiale a Bologna il 18 maggio 2016.

CHIARA VENTURELLI (d’ora in poi C.): Ho chiesto a Francesca Ciampi di

ricordare quando vi siete conosciuti. Mi ha dato una risposta molto bella: «Mi sembra che ci conosciamo dalla notte dei tempi, che ci conosciamo da sempre». Quindi chiedo a lei, si ricorda quando ha incontrato per la prima volta Cesare Malservisi?

PROF. ANTONIO FAETI (d’ora in poi F.): Certo non si può evitare di ricordare. Quella era l’estate del 1958, avevo 19 anni, ero uscito dall’Istituto magistrale l’anno prima e avevo un programma di vita. Volevo cioè assolutamente vincere il concorso che era stato indetto. Quindi un po’ con l’aiuto della mia guida, la signora Gemma Benzoni, un po’ con il corso di preparazione condotto da Anna Serra presso l’Associazione italiana maestri cattolici - un corso di altissimo livello, ma anche molto ideologizzato ovviamente - riuscii, nonostante l’ansia, ad ottenere un punteggio alto e la sede a Castello di Serravalle (BO). E così “collezionando” maestri famosi incappai in Malservisi, per di più un alter ego perché pittore anche lui. La cosa che mi impressionò molto perché eravamo poveri tutti e due, come lo erano i ragazzi delle magistrali, era il sogno che condividevamo tutti e due di collezionare i Coralli Einaudi. Io andavo a lavorare dal macellaio, che stava vicino al Guazzaloca che poi fu sindaco di Bologna, e me li compravo. Cesare invece se li fabbricava. Prendeva i Bur Rizzoli e faceva da solo il disegno di copertina. Lì vidi

l’idea del genio, l’idea di questo straordinario personaggio oltre che straordinario maestro. Riuscire a falsificare i Coralli Einaudi bisognava saperlo fare, ma bisognava anche avere l’idea. Significava che sì potevamo essere poveri, deprivati, al margine, ma anche che cambiando la copertina la Bur diventava i Coralli. Questo è un programma di vita. Poi naturalmente volevo sapere, visto che era più grande di me, che cosa si dovesse fare per vincere quel concorso. Quindi l’amicizia è cominciata nell’estate del ’58 con l’idea di sentire da un maestro già famoso e seguito attentamente dai superiori, già ascoltato pedagogicamente, cosa dovessi veramente fare per vincere il concorso. Effettivamente mi aiutò moltissimo perché un conto era lo scritto, che era teorico, ma all’orale te la dovevi vedere con una commissione. Quindi l’amicizia incomincia nel 1958 con uno scambio di idee attorno a quello che volevamo fare. Poi le occasioni per vederci furono tantissime perché c’era il “Febbraio Pedagogico” che era un momento di confronto, di colloquio. Inoltre c’erano anche molte situazioni istituzionalizzate di parte cattolica perché con l’egemonia della Democrazia Cristiana si voleva che la scuola fosse strettamente tenuta d’occhio. I Cattolici non volevano rinunciare: avevano la rivista «Scuola italiana moderna», avevano l’editrice La scuola, praticamente si studiava solo nel loro ambito perché la sinistra non aveva le stesse armi, non aveva la stessa tradizione, non aveva neanche le risorse. Quindi questo è stato allora l’inizio dell’amicizia: il colloquio per lo scambio di notizie, informazioni e ricerche. C.: Infatti avete condiviso non solo la condizione di Maestri ma anche uno specifico

clima culturale e storico. Che cosa la colpiva di Malservisi come maestro all’interno di questo specifico clima?

F.: Mi colpiva perché on era come me. Io, il lato arte, il lato poesia, il lato estetica, il lato filosofia li sentivo, mentre nel lato organizzazione, progetto, attenzione sistematica alle cose da fare io non c’ero per nulla. Io andavo moltissimo all’improvvisazione, alla deriva, all’estro. Cesare invece era tutto il contrario: ordinatissimo, progettava, rifletteva sulle manchevolezze di ogni esperienza didattica e la voleva rifare in un altro modo, era immerso in quella cultura, che non era assolutamente la mia, della pianificazione scolastica, dell’idea che nella scuola non si improvvisa, che nella scuola bisogna essere sempre attenti a qualunque evenienza, a qualunque difetto, a qualunque spostamento di piano. Io in questa dimensione non l’ho potuto seguire, pur ammirandolo moltissimo, perché avevo cominciato a seguire Bertin con l’ideale estetico. L’ideale estetico era fatto apposta

per me, nel senso che l’ideale estetico ipotizzava di mettere in cattedra Oscar Wilde. Da questo punto di vista invece le riflessioni di Cesare erano lontanissime. Cesare era un razionalista, era uno che aveva bene in mano le ragioni di fondo, politiche e sociali. Fra l’altro me lo sono spesso chiesto in termini di amicizia, e l’ho chiesto anche a lui, come potessero convivere nella stessa persona due realtà pedagogiche, di filosofia dell’educazione così diverse. Penso che a differenza mia lui facesse delle letture, ma essendo io incapace di formulare la domanda ovviamente non avevo la risposta. Letture per esempio di testi di economia politica, testi di pianificazione. Era il momento - siamo alla fine degli anni Cinquanta - in cui queste cose in Italia si sentivano moltissimo. C’era proprio una deriva sociologica - un nome che si fa per tutti è Ferrarotti681 - che andava verso questa direzione, ottenendo anche dei frutti. Questo spazio - che ripeto non era il mio - nasceva dall’influenza che ebbe, nel secondo dopoguerra, la scuola di Dewey, specialmente attraverso Washburne. E allora nella scuola circolava - però per quelli che avevano più anni di me - anche una dimensione razionalista che aveva nutrito una generazione un po’ discosta dalla mia. E fu subito cancellata dal trionfo democristiano che portò ai programmi del ’55. Programmi il cui inizio fa molto riflettere: «Fondamento e coronamento dell’insegnamento pubblico italiano è la religione cattolica». Qualcosa che oggi non si riesce a dire se non sorridendo. Come può essere che una scuola dello Stato si dichiari confessionale? Tuttavia era così nei programmi con i quali ho dovuto avere a che fare. Allora naturalmente c’era anche qualcuno che cercava di mettere in atto delle proposte diverse ed era della generazione di Cesare, sia per una impostazione eticamente diversa, sia perché aveva l’età per farlo. Bisogna ricordare che Cesare era anche una persona - le canzoni, il ballo, il culto della bicicletta - molto coraggiosa. Queste non erano situazioni in cui potevi scherzare: i due anni iniziali prevedevano il licenziamento immediato per qualunque cosa non piacesse all’Ispettore. Era il famigerato “biennio di prova”. Non era allora un clima facile. Quindi si intende bene che uno come Cesare dicesse: «Allora mi preparo bene fino a diventare letteralmente inattaccabile». Questo, secondo me, spiega la lontananza rispetto al Cesare dei balli, delle canzoni, del dialetto, dei libri più amati, dei romanzi condivisi, cioè l’istanza progettual- razionalista che però allora ci voleva - per chi come lui poteva permettersela - perché altrimenti era battaglia persa. I tempi erano tali che si capisce perfettamente

perché la natura di uno come Cesare fosse del tutto doppia, cioè creativo, piacevole, sempre con la battuta pronta, ma anche di una grande severità metodologica per evitare che dall’altra parte si potesse contestare. Ci si è un po’ dimenticati di quel clima, ma era il clima nostro, un clima di scontro. Questo era il modo di allora, dei nostri primi anni. La politicizzazione democristiana molto forte. Quelli come Cesare - parlo al plurale, ma non mi viene in mente un altro da mettergli vicino - avevano intuito che la libertà, quella vera, dell’insegnamento non si otteneva facendo come me, cioè un po’ l’attore, ma studiando molto attentamente le metodiche, i progetti, le didattiche…così da diventare superiori agli altri, inattaccabili. Come fai ad attaccare uno che ti presenta già un disegno educativo dove sono esposti precisamente e collegati i principi matematici con quelli grammaticali?

C.: Nel 1987 in un’altra occasione di scontro, mi riferisco al caso della benedizione

scolastica negata, lei scrisse un articolo per il Manifesto in cui, riporto, affermava che: «Cesare e Francesca nel 1959 regalano alla scuola tesori di finezze, di sapienze, di effetto, di inventiva»682. Potrebbe fare degli esempi di questi tesori?

F.: Che erano ancora di altro tipo. C.: Sì perché sono passati trent’anni.

F.: Cosa succedeva in quel momento? Quelli sono gli anno Ottanta. Bisogna ricordare che sono gli anni della Thatcher, di Reagan e di Craxi. Cioè, non è solo che trionfasse una destra mondiale, ma questa destra mondiale condizionava moltissimo anche le scelte di quel decennio in Italia. Quindi era rinato, ma con argomenti più rilevanti Quindi era rinata una contrapposizione, ma con argomenti più rilevanti, quasi più feroci, come dimostra l’atteggiamento di quel parroco contro dei maestri che si ostinavano ad essere progressisti. E non era bello! Non era bello perché le armi non erano più quelle di Anna Serra, che in fondo era una di noi e un po’ di “coabitazione” la ricercava realizzava. No, il decennio Reaganiano era molto duro, perché Craxi era di destra, ma socialista. Il Craxismo è ancora tutto da studiare, era spazio dove o cedevi o lottavi. L’articolo infatti è un articolo di lotta a favore di due colleghi, in quel momento io ero professore universitario già di ruolo e quindi avevo una possibilità molto diversa di intervenire. Questo contesto, nello specifico, è il momento in cui tutti e due sentirono più sofferta la loro posizione. Perché tutti e due con le lotte, ormai di trent’anni prima, speravano di non dover

più fare i conti, invece lo scontro con il parroco dimostrava che trent’anni improvvisamente era come se non fossero mai trascorsi. Quindi fu anche un momento di sofferenza. Ci chiedevamo: «Com’è che dobbiamo sempre reinventarci la vita dalle lotte iniziali?». Da ciò l’articolo. Vi rientrava anche un’altra caratteristica di questa nuova condizione di Cesare, la presenza cioè, nell’immaginario dei maestri di trent’anni dopo, dell’antropologia culturale. Questa diventava per Cesare lo spazio pedagogico e didattico di maggior effetto, di maggiore risultanza. E si badi bene che rispetto a quanto prima detto, rispetto ad un’impostazione progettual-razionalistica, quasi Bertiniana, qui siamo invece in una dimensione lontanissima, perché il maestro che tiene presente l’antropologia culturale, il folklore, un tipo di sociologia immaginativa, non tiene più presente quelle diritture progettuali precedentemente descritte, ma ascolta molto e va molto nella direzione che l’ambiente indica. In questo senso, in quel momento eravamo molto più vicini di quanto fossimo trent’anni prima. Il mio modo infatti di lavorare a Castello di Serravalle era stato quello di andare prima di tutto a trovare il gruppo dei bambini uno per uno per imparare dall’aia, dal contadino, da quello che aveva più vigne, a quello che aveva più bestie e così via. In questa dimensione tutto cambia ancora una volta e tutto, secondo me, si qualifica secondo una simbiosi fra la pedagogia che ci portavamo dietro - che era sempre quasi Bertiniana - e un nuovo impegno a studiare l’ambiente, a studiare le tradizioni, a studiare le vocazioni territoriali, le memorie territoriali, anche perché c’eravamo già tutti accorti che c’erano dei “maestri” molto più forti di noi: la televisione, i nuovi media, i fumetti. Tutti avevamo il senso, sul finire degli anni Ottanta, di contare molto poco. Io in quell’epoca andai due volte, in termini proprio di sfida, al Maurizio Costanzo Show. Non facevo più il maestro, ma ero professore di ruolo. E facevo un grande scandalo fra i miei colleghi. Addirittura la mia vecchia professoressa di lettere volle rivedermi, volle ragionare. Io ero andato a presentare In trappola col topo, che era appena riedito, e avevo anche voluto accettare le regole televisive. Corrado Augias anni prima aveva fatto anche un programma in una mia classe. Eravamo divisi quindi come maestri. Cesare però era con me. Da un certo punto di vista si diceva: «Sono il diavolo, in classe quella roba diabolica non entra». Dall’altra si diceva: «Oso addomesticarli, me li prendo». Sono però due posizioni lontanissime, quindi occorreva essere davvero come Cesare, molto capaci di mediare, di mescolare, di mettere insieme qualche cosa di remoto, come sono le sue canzoni in dialetto, con

qualche cosa di presentissimo, com’era la sfacciataggine dei programmatori Rai, che dicevano: «Tanto la scuola siamo noi, voi ormai non contate più niente». Qualcuno me lo disse direttamente anche in trasmissione. Altra sfida, altra dimensione politica, altra dimensione culturale. Come reagì Cesare? In battaglia piena! Cioè accettò il duello e cambiò ancora una volta il suo modo di fare. Da ciò la condanna del prete, nel senso che la Chiesa non sopportava l’inserimento proprio nell’immaginario, perché intuiva che era pericolosissimo. Dalla cultura cattolica o clericale veniva il più bel giornale per ragazzi che sia mai stato fatto al mondo: «Il Vittorioso». Non c’è niente da dire, c’è solo da inchinarsi. L’avevano capito prima di noi, lo facevano direttamente in Vaticano, non era stampato in Italia, però anche quello era un modo per noi maestri di essere sempre o in trincea o sulla difensiva. In quella zona lì si situa l’articolo e anche il contrattacco. Contrattacco che non fu capito dai pedagogisti. Cesare non ebbe mai accanto a sé quello che poteva e doveva avere, cioè la forza di una grande scuola pedagogica e di una facoltà universitaria, che aveva nomi conosciutissimi in tutta Italia. Tuttavia la separazione tra queste due realtà allora era fortissima e non avrebbe dovuto esserci. Noi avremmo dovuto essere strettissimamente legati gli uni agli altri. Non lo eravamo! Cioè, quell’articolo lì non fu discusso in una delle nostre aule. Non glielo portai io che lo avevo scritto, ma non glielo portarono neanche i colleghi. Sarebbe stato invece dovere mio e dovere dei colleghi farne oggetto di pubblica disamina, perché allora cosa serve una facoltà, che continuava ancora a chiamarsi “Scienze della Formazione”, se non sei tu ad intervenire direttamente. All’interno di tutto questo complicatissimo disegno pedagogico e culturale c’era di nuovo Cesare, che di nuovo dava battaglia, di nuovo voleva esserci, di nuovo sapeva esserci. Da ciò lo scontro diretto - inevitabile - dato che, come la chiamavano allora, l’ “agenzia educativa” che voleva essere egemone, Cesare l’aveva messa in secondo o quarto o quinto piano. Dal suo punto di vista il parroco aveva molto ragione perché questi gli portavano via tutto. Intervenendo alle radici, con i bambini, si spiazza l’avversario. Dove voglio andare a parare? Voglio dire che la generazione dei maestri, a cui appartiene Cesare, ha fatto delle fatiche, delle battaglie, delle attivazioni di contrasti che non sembrano nemmeno storicizzabili, tanto oggi da tutto questo si è lontani, perché oggi c’è un indifferentismo patologico, collegato con un narcisismo di massa che non prevedono questo tipo di intervento magistrale. Queste cose bisognerebbe ricostruirle pezzettino per pezzettino, perché il Craxismo

come filosofia politica dell’essere, beh, era tremendo! Cosa fai con i bambini quando la televisione trasmette a colori l’arrivo delle truppe italiane in Iran, in Egitto, in Iraq? Andando più indietro invece di denigrare Cuore, come ha fatto Umberto Eco, bisognerebbe ragionare su cosa fa il maestro quando riceve “il calabrese”. Il maestro di Cuore è un antileghista, ma un antileghista nell’anno in cui si compie la scolarizzazione nella sua classe. E allora? Allora Cuore è del 1886. Quando il maestro apre al ragazzo calabrese dice una cosa che ai leghisti di oggi andrebbe di traverso: «Chi offende questo ragazzo di Calabria offende tutti i morti torturati, incarcerati, gli assassinati del Risorgimento italiano, perché sono tutti in lui. Come dire: «Attento, che se fai uno scherzo a questo stai picchiando Ciro Menotti…». Questa è una cosa che non è matura oggi, non. Si sente oggi, ma in

Cuore c’è già. Domanda: siamo più avanti o più indietro rispetto a Cuore? I

problemi di Cesare maestro non erano molto diversi da questi elencati. Oso temere che anche oggi non siano molto diversi. Non ho documenti sulla coscientizzazione e sulla cultura degli insegnanti di oggi. Ecco, il lavoro che state facendo voi è un lavoro che mi manca molto, nel senso che avendo fatto per tanti anni il maestro anch’io, una storicizzazione autentica dei maestri quasi non si dà.

C.: Cesare Malservisi con i suoi alunni, attraverso i suoi lavori, ha costruito e

ricostruito le microstorie del suo territorio, lavori che sono secondo me particolari. Lei che cosa ne pensa di questi racconti fatti per immagini e di questa ricostruzione di microstorie del territorio?

F.: Credo sia la dimensione emblematica della sua grandezza pedagogica. In realtà questo progetto educativo è fra i migliori che si possono attivare in una dimensione relativa alla scuola elementare. È anche però uno dei più difficili da attivare perché richiede una sorveglianza intellettuale attentissima, altrimenti si cade nel folklore che è pericoloso perché diventa una sorta di falsa coscienza, in senso vetero- marxsista, mentre bisogna essere molto severi, molto precisi, cogliere davvero il centro profondo delle cose. È ovviamente una pratica didattica e pedagogica pochissimo attuata, ma invece è indispensabile perché molto dell’attuale disagio giovanile nasce proprio dalla mancanza di questa componente. Questa componente mira a dar coscienza di sé nel territorio, mire a dare coscienza di sé nella storia, mira a dar coscienza di sé in assoluto. Perché la coscienza territoriale è la coscienza di tutto, è da lì che ricavi il tuo esistere, il tuo radicarti, il tuo contare, significare. Questo per Cesare era importantissimo e questo è l’esito della sua esperienza

didattico-pedagogica. Sono le risultanze alle quali poteva accedere solo perché dietro c’è tantissimo lavoro, tantissima cultura, tantissimi libri letti, ma anche tanta osservazione diretta ed altresì una scelta pedagogica che lo confortava ad andare in questa direzione. Credo che conti molto anche l’esperienza che si faceva da noi in sociologia con Vittorio Capecchi, a cui Cesare era molto legato. Siccome lavoravo con Vittorio ad «Inchiesta», dove pubblicò tantissime cose mie, so che gli stavano tutti e due683 molto, molto vicini. Vittorio era molto bravo. “Inchiesta” serviva proprio ad essere, sul territorio italiano, l’elemento di raccordo per esperienze di questo tipo, che sono tanto più indispensabili adesso, perché adesso che non c’è più memoria, che non c’è più la generazione che racconta, che non c’è più il custode di strada che ti illumina. Bisogna anche ricordare che l’eroismo dei maestri come Cesare non trova conforto nella dimensione pedagogica, neanche nella più alta, neanche nella migliore. E se uno mette accanto a Cesare il capolavoro pedagogico di Bertin Educazione alla ragione i due non vanno nello stesso scaffale. Perché Bertin non profila una possibilità reale, ma una possibilità teorica, grandissima, raffinatissima. Bisognerebbe però vedere cosa succede nell’andare in classe con

Educazione alla Ragione, di questo Bertin non è che se ne fosse molto preoccupato,

era filosofo allievo di Banfi, e che filosofo! Però i maestri invece sono come Cesare: devono vivere la quotidianità, devono formare il cittadino subito, devono prepararlo in modo che alle medie non lo ammazzino. Tante cose che hanno un’altissima dimensione intellettuale, ma in una prossimità quotidiana che è come un eterno guerreggiare. Sono maestri in trincea questi qui, e lo sono sempre. Per questa serie di aspetti bisogna sottolineare che non esiste un libro che si chiami “La generazione di Malservisi ovvero la scuola di impegno nel territorio”, io non l’ho in bibliografia, ma sarebbe davvero indispensabile che ci fosse.

PROF.SSA MIRELLA D’ASCENZO (d’ora in poi D.): Il richiamo alla coscienza