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vista attraverso il cuore dei figliuol

– ...e i suoi fratelli, vedendo che il padre l’amava, non gli potevano parlare ami- chevolmente.

(Gen 37,4)

Ben diversa è la casa guardata attraverso il cuore dei figli. Purtroppo siamo dei figliuoli di nome soltan- to e la fraternità ne porta le conseguenze. Il titolo di figliuolo, perché sia buono, deve essere provato alla pietra di paragone dell’amore fraterno.

– Se uno dice: «io amo Dio» e odia il suo fratello, è bugiardo, perché chi non ama il suo fratello che ha veduto, non può amar Dio che non ha veduto. E que- sto è il comandamento che abbiamo da Lui: che chi ama Dio ami anche il suo fratello (Gv 4,20-21).

Il «mondo» è l’insieme dell’insufficienza dell’uo- mo nel rispondere al comandamento di Dio: è il no- stro spirito fuori e in contrasto con l’amore di Dio.

Ora, un «mondo» che è spirito può penetrare ovunque: non ci sono confini che lo trattengano, ge- rarchie che lo infrenino. L’anti-Chiesa può essere nel- la Chiesa stessa: come l’anticristo può essere accanto- nato nel mio animo di credente e di cristiano.

Siamo tutti fuori e tutti dentro perché ognuno, nel- la propria inadempienza, è mancante; come nella pro- pria insufficienza ha già la possibilità di rientrare.

Un po’ di Chiesa è ovunque; un po’ di mondo è ovunque. Dei due figliuoli della Parabola, nessuno è dentro del tutto. Sono ambedue fuori; non interamen- te però, poiché al Prodigo rimane la possibilità del ri- torno e al Maggiore la possibilità di trovarsi in mag- gior comunione col Padre.

La santificazione è la prova che non si è mai finito di progredire verso l’interiore divino. Essa è il conti- nuo ritorno.

Ciò che noi chiamiamo ritorno non è che il passo esterno, quello che raggiunge la tonalità più appari- scente del ritorno, il quale è un’eternità di aspirazioni e di anelito verso Dio.

La Chiesa, Corpo di Cristo, opera quasi come un sacramento.24

Non è l’umanità del Signore?

Ne ha la sensibilità. Essa è un segno sensibile del- la grazia; significa la grazia, quantunque non sempre la comunichi per l’incapacità del soggetto.

Il Sacramento-Chiesa o Casa del Padre non esclude le vie extra-sacramentali. È la condizione ordinaria di un innesto indispensabile se l’anima vuole vivere e pro- gredire nella fraternità. L’incorporazione non è un fat- to di vita, ma una condizione di vita: non un qualche co- sa di magico, ma un’operazione sacramentate, cioè un incontro o collaborazione di Grazia e di buona volontà. Se uno non vive, la colpa non è della Casa: anzi, una più grande responsabilità grava sulle sue spalle,

24«Quasi» è un’aggiunta inserita poco prima della stampa su indica-

perché, pur essendo dentro, non vive della vita che è dentro.

Così il Maggiore dei Figliuoli della Parabola. Se uno gliene muove critica, non menoma, ma di- fende la santità della Chiesa: separa una responsabi- lità che potrebbe essere fatta ricadere sul Padre.

Sembrerebbe un dovere ordinario la critica inter- na; invece essa suscita opposizioni, condanne e guai senza numero, così che pochi o nessuno vi mettono mano.

Si è voluto scusare una tale mancanza col fatto pa- tente che dal secolo XVI a oggi i costumi del clero al- to e basso sono immensamente migliorati e che i dog- mi hanno ricevuto una definizione, a termine e chiu- sura di una secolare critica.

Il miglioramento è innegabile; ma sarebbe più grande se noi del di dentro si sapesse fare su noi stes- si un esame più sincero e spassionato.

C’è una timidezza eccessiva, che non si concilia né con la fede né con la storia, la quale ci conferma invece il beneficio della critica interna. Se non ce li diciamo noi i nostri difetti, gli altri ce li scopriranno, li hanno anzi già scoperti e a quel modo e con conseguenze che ben co- nosciamo. Quante critiche maligne e dissolventi può evitare un’umile e chiara confessione dei nostri torti!

Per disarmare non c’è di meglio che prevenire. Il coraggio dell’iniziativa è il segreto della vittoria. Al- trimenti, ci viene imposta la tattica avversaria e biso- gna adattarsi alla difesa.

Ora, ogni apologia è snervante ed in parte ineffi- cace, anche se brillantemente condotta. Le giustifica- zioni non sono sempre ragioni.

Chi assale ha l’attraenza della bravura e fa colpo anche se non documenta.

E ben più in alto chi si auto-denuncia di chi è co- stretto a confessare dietro denuncia altrui.

D’accordo: nessuno è obbligato a diffamare sé stesso; ma se per noi viene diffamato l’innocente, la denuncia è un dovere.

La critica interna non può essere condotta con i criteri della esterna: soprattutto l’animo è tutt’altra cosa.

Vi sono cose che si possono dire soltanto in ginoc- chio e piangendo, e chi riesce a dirle in questo modo non dev’essere giudicato figlio meno devoto di colui che applaudisce soltanto.

Per coprire il vuoto di una Fede non c’è che far ru- more.

Qualcuno fa troppo facile il passaggio dal Cristo- Persona al Cristo-Chiesa, da un’Umanità uscita dal seno purissimo di Maria Vergine a una umanità che siamo tutti noi, con le nostre tristezze.

Come pretendere che esse non appaiano anche agli occhi più onesti e benevoli?

L’umano è il primo che ci viene incontro e ciò che vi è di difettoso in esso ci colpisce ancora più presto e crudamente.

La critica interna non ha niente di assoluto e di ne- gativo. È il frutto di una Fede che non è vaga aspira- zione verso l’Evangelo, ma accettazione viva e com- pleta di Cristo Dio-Uomo: il riconoscimento della Chiesa considerata la necessaria continuazione della sua perpetua immanente azione tra gli uomini.

«Urbs sublimis, urbs beata supra petram collocata, urbs in portu satis tuto, de longinquo te saluto, te saluto, te suspiro, te affecto, te requiro».25

Quando uno ha la grazia di credere e di pregare così non può adagiarsi in una obliosa accoglienza di ciò che nella Chiesa è indiscutibilmente opera poco bella dell’uomo e ne oscura il divino, rendendone dif- ficile il riconoscimento e la efficacia.

Egli sente di poterla amare anche così, che deve amarla così. Le debolezze e i difetti della Chiesa lo fanno soffrire anche più di prima, ma non lo scanda- lizzano più, non lo trattengono dall’abbracciarla con tenerezza e pietà filiale. Sono le sue debolezze, i suoi difetti. Deve quindi soffrire con essa e per essa per una redenzione da compiere in sé più che negli altri. Egli sente che deve divenire nelle mani di Dio uno che soffre per compiere le sofferenze di Cristo a pro del suo Corpo, che è la Chiesa.

Può darsi ch’egli senta anche il dovere di parlare. La riforma non è una parola scomunicata e un de- siderio biasimevole.

25«Città sublime, città beata situata sopra una roccia, città in un por-

to abbastanza sicuro, da lontano ti saluto, ti saluto, ti sospiro, ti bramo, ti cerco». Si tratta dell’inno attribuito a ILDEBERTO DILEVARDIN, vescovo di

Tours, vissuto nel XII secolo, che però inizia con il verso «Urbs coelestis, urbs beata».

I Santi e gli spiriti più cristiani di ogni tempo l’han- no voluta, preparata, predicata anche. E se accade che qualcuno ecceda e venga giustamente riprovato, deve giudicarsi più doveroso il silenzio?

La Fede resiste ad ogni biasimo e ad ogni più dispe- rante risultato: e siano pure immeritevoli coloro che la condannano, l’anima fedele si attaccherà alle mani che la scomunicano per baciarle, protestando umilmente l’amore che non si vince, la libertà che non si doma.

Simili spiriti sono degli innamorati che hanno ve- duto una volta l’Anima della Chiesa e non si sgomen- tano più delle fattezze esteriori.

E se talora essi non riescono a trattenere lo sdegno e si ergono in una dolorosa fierezza per far sentire il loro grido che pare un singulto, chi mai oserà ripro- varli?

Chi crede così non si erge mai per ribellarsi o do- minare, ma per meglio servire: servire come figli, a cui importa della famiglia, perché la responsabilità di es- sa non può scaricarsi su alcuni membri soltanto, es- sendo tutti chiamati, benché in maniera diversa, a ri- spondere della Chiesa.

Purtroppo, poiché non si è santi, e non si ha quin- di un amore veramente puro, la critica interna è quasi sempre piena di passioni, delle cui iridescenze talvol- ta solo traluce.

Il santo sì che riesce a mettere della venerazione perfino nell’asprezza dell’invettiva e nell’ammoni- mento più severo riesce a far sentire la dolcezza del vero amore!

Egli non declina perché ben radicato nella Fede: non si adira senza carità, conoscendo la propria mise-

ria: non si sgomenta degli insuccessi, sapendo di esse- re chiamato soltanto a lavorare per la verità.

Purtroppo non è facile salire con lo spirito in quel- l’atmosfera superiore dove è possibile conciliare ciò che è difficile accordare quaggiù: un animo devoto e rispettoso e un carattere dignitoso e libero.

Ma se la Grazia ve lo porta, la Chiesa ha trovato accanto al sacerdozio gerarchico la voce del profeta, il quale viene suscitato dalla Provvidenza non per ac- cendere un nuovo piccolo focolare nella Casa del Pa- dre, ma per far più bella e calda la fiamma che eter- namente vive in essa; per allargare, se mai, la dimora che poco avveduti fratelli hanno resa angusta, affin- ché tutti gli uomini vi trovino posto e si riscaldino.

Appassionato di una causa che infinitamente lo sorpassa, il profeta non nutre che il desiderio di esse- re trovato operaio inconfondibile nel giorno del Si- gnore.

Il Confiteor

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