Franco Scaldati (Montelepre, 13 aprile 1943 – Palermo, 1 giugno 2013) è stato un autore per il teatro estremamente prolifico: attore, capocomico e soprattutto drammaturgo, con la sua opera ha contribuito a rinnovare la produzione del teatro siciliano del secondo Novecento. All’interno della mia ricerca di dottorato dedicata alla sua drammaturgia,147 ho avviato una prima riflessione
sistematica sulla sua particolare modalità compositiva, fatta di continui rimaneggiamenti e riscritture, avvenuti anche a distanza di molti anni.
Le esperienze drammaturgiche, attoriali e sceniche di Scaldati trovano il proprio fondamento tanto nella rielaborazione di eventi e incontri – che attingono a storie personali e alla memoria collettiva popolare –, quanto nella costante riflessione sulla scrittura che rimette in gioco anche meccanismi simili a quelli che attua il pensiero nel ricordare un evento, riscrivendolo e ridicendolo in maniera sempre diversa. Se nella mia ricerca le fonti principali sono certamente le opere edite e inedite conservate nel suo archivio privato, tuttavia la natura stessa del suo teatro, costruito insieme alle persone e a contatto diretto con la città, chiede che mi rivolga anche ad altre fonti, come quelle orali, utili a ricostruire la complessità del suo percorso artistico.
In aggiunta alla bibliografia di riferimento, mi sono servita pertanto di alcune interviste fatte nel passato a Scaldati, trascritte e raccolte o in volumi specializzati o in testate quotidiane, e ho raccolto alcune nuove interviste: agli attori Melino Imparato e Antonella Di Salvo, a Franco Maresco, cineasta e amico di Scaldati, alla coppia artistica composta dagli attori-registi Enzo Vetrano e Stefano Randisi.
Melino Imparato e Antonella Di Salvo sono da considerarsi tra i testimoni più importanti del lavoro di Scaldati. Le numerose interviste, raccolte a partire dal 2014 (alle quali sono seguite diverse conversazioni anche a carattere più informale), hanno fatto luce su diversi momenti chiave della carriera dell’artista siciliano. Nello specifico, Antonella Di Salvo, che ha collaborato con Scaldati dalla fine degli anni Ottanta fino ai primissimi dei Duemila, è stata assistente alla regia e cofondatrice della Compagnia Laboratorio Femmine dell’Ombra. In questa veste ha raccontato le origini e il complesso iter del testo multiforme Femmine dell’Ombra, che dà il nome alla compagnia e che costituisce il cuore di molte delle scritture di quegli anni (Angeli Operaie poi divenuto nella
scrittura successiva Ofelia è una dolce pupa tra i cuscini, La gatta rossa, Sul muro c’è l’ombra di una
farfalla, Ombre Folli, L’ombra della luna poi nominato dieci anni dopo Sabella). Nel suo racconto
grande importanza riveste l’attenzione al rapporto tra scrittura e recitazione, le quali, a suo avviso, sono strettamente correlate:
«La sua scrittura era come lui. Se avessi conosciuto Franco, l’avessi visto muoversi, avresti notato come fosse la messa in pratica della sua scrittura che si muoveva. Lui aveva questo particolare modo di camminare, fare tre passi, fermarsi, poi riprendere; e se osservi la sua pagina ti sembra di scorgere un andamento simile».148
Inoltre, ricorda sempre Antonella Di Salvo, nel ripercorrere l’esperienza di conduttrice dei numerosi laboratori presso il Centro Sociale S. Francesco Saverio all’Albergheria (esperienza che è continuata anche in seguito all’interruzione dei rapporti con Scaldati) ha potuto inquadrare con maggiore completezza il processo di allontanamento149 di Scaldati dalla scena ufficiale e il suo prediligere, al
contrario, il lavoro con abitanti del quartiere, non professionisti, in aggiunta al lavoro con la propria compagnia che trova spazio non più tanto nelle stagioni ufficiali, quanto nei festival o nelle rassegne legate al teatro di ricerca.
Parlare con Melino Imparato, d’altro canto, mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con un periodo più ampio di tempo: compagno di strada di Scaldati fin a partire dagli esordi della sua carriera e fino alla morte dell’artista, esclusi solo pochi anni di intervallo (soprattutto durante gli Ottanta), Melino Imparato è colui che ad oggi tiene in mano le redini dell’ultima formazione della compagnia Scaldati. Anche in questo caso la testimonianza verte sulla modalità compositiva drammaturgica e spettacolare, sul contesto, particolarmente utile soprattutto per un inquadramento del periodo storico di avvio.
«Ho conosciuto Franco verso la fine degli anni Sessanta, ’69 credo. Noi avevamo un teatrino dove sostanzialmente ci vedevamo tra amici. Non c’erano posti dove stare, dunque avevamo affittato uno scantinato in via San Martino, che si chiamava Il Buco. Scherzavamo, giocavamo a fare la radio, i drammi radiofonici, e a un certo punto abbiamo deciso che dovevamo fare
148 Intervista di Viviana Raciti ad Antonella Di Salvo, Palermo, 2 dicembre 2014.
149 Si tratta di un allontanamento e non di una rottura senza eccezioni, anche perché, se come autore e capocomico ha preferito la
teatro. C’erano I Travaglini in quel periodo, che facevano un cabaret politico fatto dal notaio Marsala, Salvo Licata, Gigi Burruano. Anche noi, diciottenni, decidemmo di fare questo cabaret politico. Ad un certo punto, non so come, Franco venne a sapere di noi e volle conoscerci. Poi venne fuori l’idea di andare a fare teatro allo Zen, questo quartiere in cui c’era stato il terremoto nel ’68, e la gente della Cala e di San Pietro occupò quelle case dove non c’era nulla, montagne di rifiuti, di sterrato, topi. Assieme ad altri tra cui Salvo Licata, Gigino Gallo, Beppo Cammarata, si occupò uno spazio allo Zen per fare il teatro. Non se ne fece mai, perché finimmo per fare assemblee per creare delle strutture culturali, per le fognature allacciate e così finì l’esperienza allo Zen. Ma l’amicizia con Franco continuò e aprimmo un nostro spazio in via Manin che si chiamava Teatro Eccì con Ninni Truden, Burruano e cominciammo a fare le prime cose di teatro: non solo cose nostre, molte cose le improvvisavamo, poi facevamo Beckett ma anche Lu triunfu di Santa Rosalia, una cosa antichissima che facevano i barbieri nelle sale da barba del centro, con un mandolino e una chitarra, cantando in rima».150
Franco Maresco, regista e sceneggiatore palermitano, negli ultimi anni si è avvicinato sempre più al teatro di Scaldati, dopo alcune sporadiche collaborazioni nei Novanta e dopo averlo chiamato a interpretare il ruolo di Salvatore La Marca nel film Il ritorno di Cagliostro, codiretto assieme a Daniele Ciprì nel 2003. Negli anni Duemila i due avevano fra l’altro lavorato insieme in spettacoli che univano la parola e il jazz, mentre nel 2014 Maresco ha presentato la sua prima regia teatrale di Lucio, uno dei testi simbolo di Scaldati scritto alla fine degli anni Settanta. La testimonianza di Maresco si arricchisce della sua personale ricerca sull’amico e maestro Scaldati che ha trovato compimento nel film documentario dedicato alla vita e al teatro dell’artista palermitano, Gli uomini
di questa città io non li conosco, presentato alla Biennale di Venezia nel 2015. Ho incontrato
Maresco a Palermo nel febbraio 2016 in occasione della prima di Tre di Coppie, spettacolo frutto di un assemblaggio originale di tre testi (uno dei quali inedito) che attraversano tre momenti diversi della produzione dell’autore, per approfondire le affinità artistiche tra i due e il lavoro con attori che in più di un’occasione hanno avuto modo di lavorare insieme a Scaldati.
Taglio diverso ha la conversazione con il duo composto da Enzo Vetrano e Stefano Randisi (avvenuta a gennaio 2017, in prossimità del debutto di Assassina), i quali, pur avendo iniziato a lavorare a Palermo negli stessi anni di Scaldati, si sono presto trasferiti in Emilia Romagna e,
proprio in virtù del cambio – geografico – di pubblico, quando nei Duemila hanno iniziato a lavorare a spettacoli con drammaturgie di Scaldati, hanno ritenuto opportuno compiere un lavoro di asciugatura della lingua d’origine contaminandola con l’italiano. In questo caso il dialogo si è focalizzato in modo particolare sul modo in cui i due artisti sono intervenuti sui testi di partenza: un’operazione questa che, come raccontano, per Totò e Vicé (da loro messo in scena nel 2012) comprese anche un rimaneggiamento da parte di Scaldati stesso, tanto che il testo, che aveva già avuto una prima versione per i tipi di Rubbettino nel 2003, ha trovato una nuova versione nell’edizione postuma, edita da Cue Press nel 2014.
Oltre ad ampliare il corpus di conversazioni di artisti che sono stati a lui vicini e che si sono occupati di mettere in relazione le opere di Franco Scaldati con il proprio teatro (tra i quali Elio De Capitani e Marion D’Amburgo, che misero in scena rispettivamente Il pozzo dei pazzi nel 1990 e Pupa Regina
opere di fango nel 2005; Federico Tiezzi, il quale chiese a Scaldati di scrivere la conclusione della
sua messinscena de I giganti della montagna nel 2007; Dario Enea, per vent’anni in compagnia come scenografo e attore), altre indagini verranno condotte intervistando intellettuali e spettatori d’eccezione che nel tempo si sono confrontati con il suo lavoro, come Guido Valdini (tra i primi critici ad interessarsi del suo teatro e a seguirlo fin dagli esordi), Nino Drago (organizzatore e fondatore della compagnia I Draghi all’interno della quale Scaldati esordì come attore e che poi produsse diversi suoi spettacoli), padre Cosimo Scordato (che per oltre quindici anni ha ospitato presso il Centro San Francesco Saverio all’Albergheria i laboratori di Scaldati).
Un altro aspetto interessante che emerge dall’analisi della drammaturgia di Scaldati in correlazione all’oralità, aspetto che andrà analizzato con attenzione, riguarda alcune fonti di riferimento utilizzate dall’autore soprattutto durante i primi anni di composizione. Scaldati dichiara espressamente di aver creato alcuni personaggi e situazioni proprio a partire da persone e accadimenti realmente esistiti oppure provenienti da racconti ascoltati; emerge nella sua scrittura un retaggio tipicamente appartenente alla tradizione orale, che recupera alcune forme del parlato tanto sul piano dei contenuti quanto soprattutto su un piano sintattico-linguistico, che trasferisce forme e strutture della lingua parlata nello spazio fisico (grafico) della pagina e nella temporalità delle sue varianti. Alla luce di questa considerazione, utilizzare la metodologia proveniente dalla storia orale non diventa soltanto la possibilità per dare voce a una marginalità, ma corrisponde anche a un approccio filologicamente vicino alla modalità compositiva dell’autore col quale