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Capitolo II David Foster Wallace e il postmodernismo

3. La rappresentazione della realtà: il paradosso del linguaggio

3.1 Wallace e Wittgenstein

La visione wittengeisteniana del linguaggio, posta da Wallace al centro del suo romanzo, viene esplicitata in due opere tra loro antitetiche da cui lo scrittore deriva la sua personale teoria comunicativa: nel Tractatus logico-philosophicus438 afferma che il linguaggio riflette la realtà e, pertanto, il concetto di pensiero astratto è privo di senso, implicando quindi la perdita del mondo esterno e l’impossibilità di conoscere con certezza nulla al di fuori di se stessi, in quanto «il mondo è tutto ciò che accade»439. Il mondo, quindi, è un’enorme massa di dati, di fatti logicamente distinti che non hanno una connessione intrinseca fra loro: «Il mondo si disintegra nei fatti … una cosa può accadere o non accadere e restare uguale»440.

Wittgenstein asserisce dunque che il linguaggio può descrivere solo ciò di cui l’uomo ha una esperienza sensibile: se egli vuole interpretare il mondo a partire da esso deve scegliere quello più chiaro e preciso, il rapporto più diretto fra il linguaggio e i suoi referenti, fra lo specchio e la cosa riflessa: «Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»441. Dal momento che il linguaggio è lo specchio del mondo, quest’ultimo è metafisicamente ed esclusivamente composto di quei “fatti” rappresentati dalle affermazioni: Wittgenstein rifiuta l’esistenza di realtà metafisiche e afferma che il linguaggio può solamente creare delle immagini di realtà. Presupponendo quindi che l’uomo pensa logicamente con e all’interno del linguaggio, allora i limiti del linguaggio costituiscono anche i limiti della comprensione

438 A tale proposito, è opportuno leggere il romanzo di David Markson, Wittgenstein’s Mistress, di cui lo

stesso Wallace scrive un’interessante e dettagliata recensione. Questo romanzo si figura come la rappresentazione delle implicazioni etico-politiche della metafisica della matematica descritto dal

Tractatus di Wittgenstein. La protagonista, Kate, una pittrice, sola su un’isola decide di scrivere come

modalità di comunicazione, come strumento per alleviare la propria insicurezza ontologica e dimostrare che “io esisto”. Il suo solipsistico mondo è vuoto ad eccezione di dati, fili epistemici che tenta – disperatamente – di intrecciare, di trovare una connessione fra i vari “fatti”. La sua vita appare così essere una monade in un mondo di fatti diffratti: «Solo che la grande domanda è: da dove vengono i fatti, se il mondo è “vuoto”?». Wallace, nel suo saggio, argomenta le ragioni per le quali considera Kate l’emblema dell’individuo solitario ed alienato, «il solipsismo desacralizzato & paradossale della persona americana nella cultura del gregge che venera solo l’Io trasparente, fatto di solipsisti & scettici colpevolmente passivi che cercano di scaldarsi le morbide mani al fuoco di dati incrementato dai computer in un’Era informatica in cui l’immagine comunemente accettata & l’eros imposto sostituiscono la fisionomia attiva o il mistero sacrale come fine, valore, significato», che egli tenta di superare.

439

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1989, p. 3.

440 Ivi, n. 1.20-1.21. A tale proposito è interessante il romanzo di Thomas Pynchon, L’arcobaleno della

gravità, in cui vi è la convinzione che niente è collegato a nient’altro e che nulla ha intrinsecamente a che

fare con il lettore.

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dell’esperienza del mondo e di sé442. Così, se l’individuo parla di e con immagini e simulacri, egli non potrà mai attestare la veridicità della relazione tra le immagini mentali e il mondo esterno attuale, né se la realtà esterna esista: non vi è quindi certezza da parte dell’individuo di una realtà fuori di sé, ma solo quella dentro di sé, che porta – per l’appunto – al solipsismo: «Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in punto inesteso e resta la realtà coordinata ad essa»443.

Nelle Ricerche filosofiche, di converso, sostiene l’inconsistenza della sua visione precedente, l’impossibilità di ridurre l’eterogeneità del linguaggio a una struttura atomica indivisibile e cerca di evitare le conseguenze solipsistiche della logica matematica come linguaggio-paradigma. Al contrario, afferma che il linguaggio debba essere piuttosto considerato come «una rete complessa di similitudini sovrapposte e intrecciate: talvolta similitudini nel complesso, altre volte similitudini nei dettagli»444. Wittgenstein paragona tali somiglianze a quelle familiari: individui che possono somigliare ma, non per questo, condividono uno stesso comun denominatore. Allo stesso modo, il linguaggio non si costruisce attorno a un’essenza unica ma, piuttosto, «gli usi del linguaggio sono legati dal sovrapporsi di molte fibre l’una sull’altra»445

. Pertanto afferma che è impossibile raggiungere l’essenza del linguaggio:

La parola «significato» si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio. E talvolta il significato di un nome si definisce indicando il suo portatore.446

Non è infatti possibile, per il filosofo, determinare un significato trascendendo dal linguaggio che viene utilizzato e, pertanto, la maggior parte dei problemi filosofici deriva da “mis-interpretazioni” o da “cattive interpretazioni” del linguaggio causate dall’illusione di un rapporto univoco e imprescindibile tra la parola e l’oggetto che essa descrive. Di conseguenza, egli propone non di considerare le parole come contenitori pieni di significato ma come elementi funzionali nella vita di tutti i giorni, in veste di “giochi”. Il significato di una parola è pertanto determinato dal suo uso in una frase specifica.

442

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, n. 5.61-5.62; n. 5.6; n. 5.63.

443 Ivi, n. 5.64.

444 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 44. 445 Ivi, p. 47.

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Mando uno a fare la spesa. Gli do un biglietto su cui stanno i segni: «cinque mele rosse». Quello porta il biglietto al fruttivendolo; questi apre il cassetto su cui c’è il segno di «mele»; quindi cerca in una tabella la parola «rosso» e trova, in corrispondenza ad essa, un campione di colore; poi recita la successione dei numeri cardinali … fino alla parola «cinque» e ad ogni numero tira fuori dal cassetto una mela che ha il colore del campione. Così, o pressappoco così, si opera con le parole.447

Il linguaggio così viene considerato nient’altro che un codice comunemente accettato, un gioco, in cui i vari interlocutori assumono un ruolo. A tale proposito, Wallace dichiara che questo libro è «the single most comprehensible and beautiful argument against solipsism that’s ever been made [and language] is always… a function of relationship between persons and dependent on human community»448.

Per determinare il significato di una parola, dunque, sarà necessario conoscere le “regole del gioco”, tra cui la grammatica, il contesto socio-culturale etc… Ma – aspetto di fondamentale importanza –, il linguaggio può significare qualcosa solo se gli attori che prendono parte a un dialogo condividono le stesse “regole”. A tale proposito Wallace afferma: «a word like pain only mean what it does for me because of the way the community I’m part of has tacitly agreed to use pain»449

.

Il linguaggio così non può essere separato dal mondo reale in cui viene utilizzato, per questo è intrinsecamente legato a ciò che Wittgenstein chiama “le forme di vita”: «un giuoco linguistico può sussistere soltanto dove sussista un tutto costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto»450. In questo senso il linguaggio può essere considerato come un insieme di giochi linguistici, interpretati come «termini di

paragone, intesi a gettar luce, attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del

nostro linguaggio»451, e la cui molteplicità è relazionata ai suoi numerosi scopi, «e questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati»452. Senza una “comunità interpretativa” – afferma anche Stanley Fish – che condivide le stesse regole non vi è produzione di senso, né una vera e propria comunicazione, in quanto il significato della parola è ridotto al suo uso:

447 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 10

448 Larry McCaffery, An Interview with David Foster Wallace, cit., pp. 143-144. 449

David Foster Wallace, Tense Present: Democracy, English, and the Wars over Usage, in Harpers, April 2001, 47n.

450 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. xvi. 451 Ivi, p. 71.

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Se il significato è l’uso che facciamo della parola, non ha alcun senso parlare di un tale convenire. Però comprendiamo il significato di una parola, quando la ascoltiamo o la pronunciamo; lo afferriamo di colpo; e ciò che afferriamo è certamente qualcosa di diverso dall’“uso”, che ha un’estensione nel tempo!453

È questo il postulato wittgensteiniano che permette a Wallace di superare la cosiddetta morte postmoderna dell’autoriflessività sancita da Barth. Quest’ultimo, infatti, nella composizione delle sue opere trae ispirazione dalle teorie dei poststrutturalisti, come Derrida e Lacan.

Dal momento in cui le parole non hanno una diretta relazione con la realtà a cui si riferiscono, esse assumono un significato solo nell’interazione con altre parole454: il mondo viene messo al bando dal linguaggio che si pone come autoriflessivo e chiuso. Un assunto trasposto nella teorizzazione degli espedienti metanarrativi di Barth, dove la letteratura si fa fautrice di una realtà illusoria e pone tra il romanzo e il mondo la medesima distanza esistente tra il significante e il significato derridiani, permettendo di delineare due problemi che affliggono gli scrittori a lui contemporanei. Il primo problema teorizzato riguarda il paradosso della funzione dell’autore di descrivere la realtà, in quanto lo fa attraverso un linguaggio che allontana il lettore dalla stessa. Per questo motivo, i protagonisti dei romanzi di Barth, nella maggior parte dei casi scrittori a loro volta, vengono presentati come alienati dalla realtà circostante e, come segno di onestà e non autenticità degli eventi presenti nella narrazione, condividono con il lettore gli espedienti metanarrativi e la loro disperazione di umili “prestigiatori” che giocano con le parole. Il secondo, invece, riguarda la situazione storica: dichiarando che il linguaggio è autoriflessivo, Barth afferma che i romanzi non possiedono legami con la realtà, ma questo non impedisce loro di intrattenere relazioni con altri romanzi. In The

Literature of Exhaustion, egli afferma che nel modernismo espedienti come lo stream of

consciousness o le forme spaziali si configuravano come accessi privilegiati alla realtà, ma nel postmodernismo si è appurato che la “realtà” non è altro che un costrutto del linguaggio. Pertanto, avendo “esaurito” le convenzioni letterarie del modernismo, nel postmodernismo i dispositivi narrativi vengono usati in maniera cosciente e autoriflessiva, drammatizzando così la morte del romanzo all’interno del romanzo stesso.

453 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 74.

454 Cfr. Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990 «Essenzialmente e

lecitamente, ogni concetto è presente in una catena o in un sistema in cui si fa riferimento all’altro, ad altri concetti, mediante il gioco sistematico delle differenze».

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Pur essendo d’accordo in parte con la teoria barthiana, Wallace si rifà a Wittgenstein per operare un superamento del semplice gioco di parole postmoderno teso a restituire al romanzo un rinnovato legame con il mondo circostante. Nella concezione derridiana di Barth del linguaggio, infatti, il significato non è generato dalla corrispondenza tra le parole e i loro referenti ma esso, ambiguo e instabile, è il frutto della relazione tra le diverse parole all’interno di un testo: il risultato del “gioco” fra le diverse catene di significato. Wallace, al contrario, afferma che il significato di una parola non dipende dalla cosa a cui si riferisce, ma dalla sua funzione all’interno del gioco linguistico di cui esso fa parte. In entrambi i casi si parla di gioco, ma mentre in Derrida esso viene considerato solo come una qualità intrinseca del linguaggio stesso, nel gioco di Wittgenstein intervengono più di un partecipante (tra tutti, il legame tra l’autore e il lettore). Infatti, secondo il filosofo francese, il significato non si erige su una realtà esterna stabile, ma viene generato dall’infinita interazione di una catena di segni e, di conseguenza, diviene il frutto di un’interpretazione: il testo sostituisce così il mondo “reale” con quello autoriflessivo costruito all’interno del romanzo. Wittgenstein, invece, afferma come il linguaggio non si trovi all’esterno, ma si concretizza nel mondo stesso, soprattutto tra gli individui che condividono le stesse regole del gioco. Il linguaggio, pertanto, non aliena gli uomini, ma può esistere solamente come un prodotto dell’interazione e accettazione comunicativa tra gli stessi individui455

:

They obviously ... mean whatever you want them to mean. Whatever you want to use them for … “Function,” he said. “The extreme unction of function. Function. From the Latin ‘func,’ meaning foul-smelling due to persistent overuse. She has crawled off. She is either dead, or functioning furiously … “See, maybe Lenore isn’t gone at all. Maybe you’re who’s gone, when all is said and done. Maybe ... this one I particularly like ... maybe Dad’s gone, spiralled into the industrial void.456

Di converso in Pynchon, in accordo con Barth e la teoria postmodernista, i giochi di parole si riferiscono solamente ad elementi presenti nel testo e agli enigmi “linguistici”: dubbi sul vero significato del termine Trystero «owing to no clear meaning for the word

trystero, unless it be a pseudo-Italianate variant on triste (= wretched, depraved)»457, il gruppo di Miles – il manager di un hotel – si chiama “the Paranoids” e Oedipa

455 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 12.

456 David Foster Wallace, The Broom of the System, cit., pp. 211-212. 457

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controbatte «You are a paranoid»458, l’acronimo W.A.S.T.E. «WE AWAIT SILENT TRISTERO’S EMPIRE»459

, «Kirby is a code name, nobody real»460.

In The Broom of the System, invece, i numerosi esempi sui giochi di parole si riferiscono alla relazione comunicativa tra i vari interlocutori: «[Mindy] coughs a deep little cough»461, «“Stuff and bother,” says Mindy, or rather, “Stuth and bozzer”»462, «He is a shy and sinsitive person»463 tra sensitive – sensibile – e sin – peccato;

“Well then we’re real unfortunately not going to be able to leave.” “That’s fortunately of very little concern to me because I’m not going to be here because I’m leaving,” Lenore says.464

Essi sono inoltre legati all’identità di Lenore «“I’m Lenore Beadsman, but I guess I’m here to see Lenore Beadsman, too. She’s my great-grandmother, and I»465

, «I am Lenoreless»466, «very Lenorishly»467, «she felt in her marrow we would. She said “marrow”»468

.

Ms. Beadsman, you’re not one of those spunky girls, are you? One of those girls with spunk? My wife has spunk. Or rather she had spunk. Or rather she was my wife. Spunk is apt to make me uncontrollably ravenous.469

Nel testo ritroviamo inoltre esempi di antinomia, relativi agli indizi lasciati dalla nonna:

“Noxzema” on the can. The person’s head was an explosion of squiggles of ink … “The big killer question … is supposed to be whether the barber shaves himself. I think that’s why his head’s exploded, here.” … “If he does, he doesn’t, and if he doesn‘t, he does.470

458

Thomas Pynchon, The Crying of Lot 49, cit., p. 18.

459 Ivi, p. 128. 460 Ivi, p. 84.

461 David Foster Wallace, The Broom of the System, cit., p. 13. 462 Ivi, p. 15. 463 Ivi, p. 24. 464 Ivi, p. 26. 465 Ivi, p. 34. 466 Ivi, p. 46. 467 Ivi, p. 60. 468 Ivi, p. 60. 469 Ivi, p. 84. 470 Ivi, p. 45.

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Infine, vi sono giochi di parole basati sull’assonanza: «Won’t be an outlook, eventually. Only an inlook»471, «A popcorn popper that popped popcorn»472 «if you sheet on my bed, I will keel you» (tra sheets – lenzuola – e shit – cacare).

Blaphemous?” Clarice dies, looks at Lenore. “Blasphemous,” she says. Her eyes aren’t all that bad, really, just unusually cheerful, as if she’s got a joke she’s not telling.

“Blissphemous,” says Mindy. “Blossphemous.” “Blousephemous.” “Bluesphemous.” “Boisterous.” “Boisteronahalfshell.” “Bucephalus.” Barney Rubble.” “Baba Yaga. ” “Bolshevik.” “Blaphemous!”473 E sillogismi: “Syllogism?”

“Yeah,” Lenore said. “Like a tiny little argument.” ... “One. Obviously somebody has to win the lottery. Two. I am somebody. Three. Therefore obviously I have to win the lottery.474

Inoltre il romanzo sottolinea come le parole, diversamente da quanto affermato dai postmodernisti, realizzino le cose, come atti illocutivi: «Some words have to be explicitly uttered, Lenore. Only by actually uttering certain words does one really do what one says. ‘Love’ is one of those words, performative words. Some words can literally make things real»475.

Ciò che Wallace vuole infatti mostrare è come il linguaggio non sia un sistema chiuso che produce il suo significato in un’autoriflessività senza fine, ma il romanzo

471

David Foster Wallace, The Broom of the System, cit., p. 86.

472 Ivi, p. 89. 473 Ivi, p. 14. 474 Ivi, p. 238. 475

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metafinzionale diviene un sistema aperto di comunicazione, un gioco brillante ed elaborato tra l’autore e il lettore:

Le parole, pronunciate sensatamente, non hanno soltanto una dimensione in superficie, ma anche una in profondità! Sicuramente, quando vengono pronunciate con senso, accade qualcosa di diverso da quello che accade quando vengono semplicemente pronunciate … Posso dire che le parole hanno profondità; o che qualcosa accade dentro di me, nel mio intimo; oppure che hanno un’atmosfera.476

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