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Qual è il retroterra storico nel quale affonda le radici la condizione attuale delle donne in Italia? È questa la domanda alla base del nostro intervento che, in una brevissima carrellata attraverso una dimensione di lungo periodo, prendendo le mosse dagli ultimi decenni dell‟Ottocento per arrivare fino agli anni Ottanta del Novecento, si propone di mettere in evidenza i tratti caratteristici della condizione femminile e soprattutto dei movimenti che nel corso del tempo si sono fatti promotori di un progetto di emancipazione (più o meno reale) per le donne.

Quando si parla dell‟esperienza del femminismo, del momento cioè in cui le donne hanno fatto la loro comparsa sulla scena pubblica per rivendicare la propria “liberazione” si pensa subito agli anni Settanta. L‟immagine delle italiane in piazza è immediatamente collegata alla «stagione dei movimenti». Ma in realtà è agli ultimi decenni dell‟Ottocento che risalgono le origini del pensiero femminista: nel 1880 erano nate infatti le prime Leghe per la difesa

degli interessi femminili, incentrate sulla rivendicazioni dei diritti delle

lavoratrici e il diritto di voto. Poi, all‟inizio del secolo, avevano preso corpo altre iniziative: si erano costituite l‟Associazione per la donna, L‟Unione femminile nazionale, il Comitato nazionale pro suffragio e il Consiglio nazionale delle donne italiane, che avrebbero affiancato alla battaglia per i diritti civili un‟intensa attività assistenziale. Se negli anni Settanta del „900 il principio ispiratore del neofemminismo era stata la rivendicazione della

2 Name of First Author and Name of Second Author «differenza» femminile, quasi un secolo prima le battaglie per la conquista dei diritti che l‟introduzione del Codice Pisanelli aveva negato alle donne all‟indomani dell‟Unità, erano state combattute dalle prime femministe in nome dell‟affermazione del loro ruolo sociale come madri. Da allora il maternalismo sarebbe rimasto l‟elemento dominante nella tradizione del femminismo italiano. 1

D‟altra parte, anche la concezione cattolica sia pure con diversa finalità sottolineava la differenza tra uomini e donne, in particolare nei diritti e nei doveri all‟interno della coppia coniugale. Come ebbe a sottolineare Leone XIII nella Arcanum Divinae Sapientiae (1880), il matrimonio nella dottrina cattolica è un istituto sociale di origine divina, sul quale la Chiesa affermava una competenza esclusiva. Nella famiglia, fondata su un sacramento e un contratto non separabili l‟uno dall‟altro, le relazioni della coppia erano ispirate a un principio di subordinazione della donna all‟uomo, «principe della famiglia e capo della moglie». La dignità della donna, sposa e madre, derivava non dall‟affermazione di diritti individuali di cittadinanza, ma dalla conformità a compiti e doveri ordinati nella coppia secondo la legge naturale: in lui che governa e in lei che obbedisce, sottolineava Leone XIII, è la carità divina che modera i doveri. Questo forte ancoraggio dell‟istituto del matrimonio e della famiglia al diritto naturale era destinato a condizionare a lungo in Italia la condizione giuridica e sociale delle donne, rafforzando lo stereotipo della “vocazione” materna e familiare come carattere perenne del femminile, così come la soggezione, che nella concezione cattolica non è schiavitù, precisava Leone XIII, perché nel matrimonio cristiano la donna rende obbedienza all‟uomo come compagna, non come ancella. Senza disconoscere la fondamentale missione familiare della donna, tra Otto e Novecento la Chiesa andava ormai precisando i lineamenti di una militanza femminile che appariva ormai auspicabile e necessaria, per ricondurre nell‟alveo del suo insegnamento una società e una cultura dominate dal positivismo e dall‟indifferenza religiosa, e per contrastare il femminismo, che parlava di diritti e di libertà e che almeno inizialmente pareva intrecciare il suo percorso con le rivendicazioni del socialismo.

Inizialmente si era stabilita infatti una certa fluidità, tra la militanza nelle organizzazioni femministe e socialiste e tra i due movimenti sembrava profilarsi la prospettiva di un camino in comune. Nello Statuto del Partito

Socialista dei Lavoratori italiani si riconosceva, non a caso, l‟uguaglianza

giuridica e politica delle donne e si faceva propria la parola d‟ordine «a uguale lavoro uguale salario». Saldamente inseriti nel solco della tradizione secondinternazionalista che con la pubblicazione de La donna e il Socialismo di August Bebel aveva dato avvio alla nascita di una corrente emancipazionista, i socialisti italiani si sarebbero in seguito adeguati alla linea

1

Cfr. A. Buttafuoco, Questioni di cittadinanza: donne e diritti sociali

Contribution Title 3 imboccata al Congresso di Zurigo nel 1893, secondo cui le priorità della lotta politica si incentravano sulla richiesta di un legislazione di tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli. Ed è su questo terreno che si otterranno gli unici risultati concreti (la legge Carcano del 1903), mentre i rapporti tra femminismo e socialismo andranno progressivamente deteriorandosi, fino alla definitiva rottura segnata dalla dichiarazione dell‟incompatibilità dell‟adesione alle due organizzazioni, nel 1911.

La Chiesa d‟altra parte aveva già respinto ogni possibilità di incontro con il femminismo: la stessa espressione «femminismo cristiano», con cui alcune cattoliche nei primi anni del Novecento avevano tentato di individuare una propria militanza distinta dai gruppi femministi di ispirazione laica e socialista, subirà una brusca delegittimazione ed avrà breve corso. Dopo la rottura con questi ultimi, consumatasi a Roma nel 1908 durante il primo congresso nazionale delle donne italiane, nasce così l‟Unione fra le donne cattoliche d‟Italia, voluta da Pio X, su posizioni decisamente più conservatrici di quelle che avevano caratterizzato nei primi anni del secolo il Fascio democratico cristiano femminile e la rivista «Pensiero e Azione», fondati entrambi da Adelaide Coari, una delle più significative esponenti del femminismo cristiano. Dall‟Unione sarebbe nata nel 1918, per iniziativa di Armida Barelli, la Gioventù femminile di Azione cattolica. Un moderato accesso delle donne all‟istruzione era ormai anche per Pio X un portato dei tempi che non era più possibile contrastare, ma era del tutto contrario al voto politico. Quanto al lavoro extra-domestico, nella cultura cattolica che considerava l‟esclusiva destinazione familiare della donna una preziosa e insostituibile risorsa per l‟unità della famiglia e l‟ordine sociale, questo era visto al più come una dolorosa necessità dalle inevitabili ricadute negative nell‟educazione dei figli e nella coesione della coppia.

Ma anche sul fronte socialista, la figura della donna lavoratrice appare tutt‟altro che valorizzata in quelli stessi anni. Nel corso di un‟ «età giolittiana» che vedeva la crescita e il consolidarsi delle strutture del movimento operaio, la presenza delle donne (che insieme ai fanciulli rappresentavano nel 1901 più del 40% della manodopera impiegata nell‟industria) subiva infatti una contrazione sostanziale sia all‟interno delle organizzazioni sindacali, sia per quanto riguarda la partecipazione agli scioperi. Per farsene un‟idea basti pensare che le 18.000 iscrizioni del 1902 alla Federazione delle Arti tessili – nel settore cioè dove si concentrava la maggior parte della manodopera femminile – due anni dopo di erano già ridotte a 8.000, mentre la partecipazione agli scioperi calava dal 40% alla fine dell‟800 al 23,4% del 1903.

Ma che cosa si nasconde dietro questa apparente “involuzione” della tradizione socialista in tema di eguaglianza tra i sessi? In realtà la questione è complessa: molte restano le ambiguità sul piano teorico e tutt‟altro che scontata l‟interpretazione dei fatti. Il presupposto da cui partire del resto, quando si parla di relazioni di genere, è che spesso le prese di posizione ufficiali

4 Name of First Author and Name of Second Author corrispondono all‟esatto rovesciamento della realtà. Ed è da questo assunto di fondo che ha preso le mosse l‟interpretazione di Brigitte Studer, tesa a dimostrare come sin dalle origini la strategia del movimento operaio si rivelasse saldamente male centered.1

Lo stesso Hobsbawm, per parte sua, aveva osservato che la contraddizione più profonda del movimento operaio risiedeva proprio nella professione di un‟ideologia di emancipazione sessuale, destinata poi a tradursi nella pratica nello scoraggiamento della partecipazione paritaria di uomini e donne alle organizzazioni e alle lotte del lavoro.2

Se l‟ideologia socialista si presenta dunque – ed è ancor oggi considerata - come quella che ha dato il maggiore contributo, tra il XIX e il XX secolo, alla battaglia per l‟eguaglianza dei sessi, di fatto, la storia del movimento operaio va in tutt‟altra direzione. Fonte primaria della contraddizione il principio secondo cui l‟eliminazione delle discriminazioni di genere, prospettata come il risultato automatico della rivoluzione socialista, appare altrettanto irrealizzabile, per definizione, in un contesto di tipo capitalistico. Qui, concentrandosi sul tema del lavoro, quello della donna finisce inevitabilmente col risolversi in un “doppio sfruttamento” da parte del capitale, che assumendo manodopera femminile si assicura la disponibilità di forza-lavoro a prezzi inferiori, con la conseguenza di deprimere i salari maschili e di generare la disgregazione della famiglia proletaria. Non è dunque difficile scorgere al di sotto delle rivendicazioni della eguaglianza salariale che caratterizza i primi decenni della strategia socialista un obiettivo essenzialmente espulsivo della concorrenza della manodopera femminile sul mercato del lavoro, da parte degli organizzatori sindacali: fine ultimo il “salario familiare”, che avrebbe consentito al capofamiglia di mantenere moglie e figli. I primi ad organizzarsi, d‟altra parte, ci ricorda Studer, sono gli operai qualificati, e per loro l‟obiettivo di incarnare il modello del male breadwinner – centrale, per tutto il XX secolo nell‟ideologia socialista non meno che in quella cattolica– appare più a portata di mano. Il quadro è destinato a cambiare quando la massa dei lavoratori dequalificati comincia ad apparire maggioritaria, e il supporto del salario femminile risulta indispensabile al sostentamento della famiglia; allora si profila la nuova strategia di tipo «protettivo» del lavoro della donna, destinata a sfociare in una legislazione tanto largamente aggirata nella pratica quanto funzionale, sul piano simbolico, nel differenziare il contributo

1 B. Studer, Genre et Class dans le movement ouvrier, in J. Batou, M. Cerutti, . Heimberg, Pour une histoire des gens sans histoire, Lousanne, Editions d‟En Bas, 1995, pp. 121-36.; cfr. anche L. Frader, S. O. Rose, Gender and Class in

Modern Europe, Ithaca and London, Cornell University Press, 1996, pp. 193-

210 . 2

E. Hobsbawm, Uomo e donna:immagini a sinistra, in Lavoro cultura e

Contribution Title 5 economico femminile, etichettato comunque come occasionale e accessorio, rispetto a quello dell‟uomo.

Considerata come un‟eterna minorenne, osservava al tempo Anna Maria Mozzoni, l‟operaia d‟altra parte non aveva accesso a nessun tipo di specializzazione.1

In sostanza, se a livello internazionale si levano alcune voci in difesa del valore emancipatorio del lavoro, nel sottofondo appare evidente la condivisione della costruzione di genere tipica del modello borghese di famiglia, secondo la quale la donna sposata è essenzialmente destinata alla cura del marito e dei figli. E non poche energie vengono investite in una campagna di “educazione alla maternità” destinata alle donne del popolo, mentre a imperare sono le teorie positiviste. Così l‟immagine di donna che tende a delinearsi a partire da fine „800, nella propaganda socialista, è quella di una figura debole e remissiva, «intristita da secoli di ignoranza», e «intisichita» dal lavoro: preda dei sentimenti, il suo orizzonte mentale non travalica i confini dello spazio domestico. Per questo, si afferma, è insensibile al richiamo della solidarietà. La scarsa partecipazione alle lotte sindacali lo dimostra, si ribadisce, senza tener conto del fatto che, come ha osservato Franco Della Peruta, le organizzazioni sindacali stesse, saldamente in mani maschili, sono tutte orientate alla difesa degli interessi dei lavoratori qualificati e non tengono in alcuna considerazione le rivendicazioni femminili.2

E‟ così che le donne, indiscusse protagoniste delle «lotte di popolo» di Ancien Régime, come ha sottolineato Edward Thompson3 vengono sostanzialmente espulse dall‟orizzonte della storia della «lotta di classe», mentre nelle campagne, dove è concentrata la maggior parte delle lavoratrici (e dei lavoratori), continua ad imperare il patriarcato.

Anche sul piano politico le rivendicazioni del suffragio femminile appaiono più formali che reali, mentre ad affermarsi dopo il 1912 sarà il fermo rifiuto di ogni forma di compromesso con la «democrazia borghese», al cui interno si tende a catalogare qualsiasi componente di tipo “femminista”.

Sul contributo delle donne, in chiave prettamente antimilitarista, si punta in occasione della guerra di Libia, e poi soprattutto della guerra mondiale, che le avrebbe viste giocare un ruolo di primo piano nelle manifestazioni pacifiste. Ma un conflitto di genere è destinato a riaccendersi - più violento che mai – nel contesto bellico, e non tenderà a attenuarsi nel dopoguerra, di fronte all‟emergenza del reinserimento dei reduci nel mondo del lavoro.

1 Cfr. adesso A. M. Murari, L’idea più avanzata del secolo. Anna Maria

Mozzoni e il femminismo italiano, Roma, Aracne 2008.

2

F. della Peruta, La fisionomia della classe operaia, in M. Antonioli, M. Bergamaschi, L. Ganapini (a cura di), Milano operaia dall’800 a oggi, Cariplo- Laterza, Milano-Bari, 1993, p. 6.

3

E.P. Thompson, Società patrizia cultura plebea, Torino, Einaudi 1981, „ p.98 e id., Customs in Common, London, The Merlin Press, 1991, p. 305.

6 Name of First Author and Name of Second Author Proprio gli anni della prima guerra mondiale rappresentano del resto un momento di particolare tensione fra i sessi. La nostalgia degli affetti familiari non immunizza i soldati da un risentimento sordo nei confronti di donne che, immaginate dalle trincee, appaiono troppo disponibili a prendere il posto dei richiamati, contribuendo con il loro lavoro per l‟industria bellica alla prosecuzione della guerra. Mentre la stampa liberale e cattolica esalta l‟abnegazione delle italiane, quella socialista, per parte sua, si impegna a rafforzare i risentimenti maschili. La guerra rappresenta, non a caso, il momento di maggior valorizzazione del lavoro femminile. Non certo perché, come si sarebbe affermato al tempo, le donne per la prima volta avevano lasciato la casa per la fabbrica. Né perché, come ha osservato Barbara Curli, esse avessero effettivamente «sostituito» gli uomini sul posto di lavoro.1 Quanto perché avevano avuto accesso per la prima volta a settori produttivi – come quello della meccanica – fino a quel momento di competenza esclusivamente maschile, e il loro ruolo appariva per questo straordinariamente “visibile”.

Le guerre del resto – ha affermato Thébaud – rappresentano sempre un momento di «rafforzamento» del femminile.2 Tanto più la prima guerra mondiale che per i militari, ha ricordato Leed, si era trasformata in una vera e propria esperienza di «femminilizzazione», di passività e di estenuanti attese.3 Non solo il contributo delle donne appare per la prima volta essenziale nel campo del lavoro, ma significativo si rivela anche il ruolo delle organizzazioni femministe, che dalla posizione di iniziale pacifismo, erano passate ad un sostegno attivo ai combattenti, impegnandosi in tutta una serie di opere assistenziali.

L‟apporto femminile allo sforzo bellico viene dunque sancito dall‟abolizione dell‟autorizzazione maritale, nel 1919: l‟unica riforma significativa sul piano del diritto, in età liberale, in tema di rapporti fra i sessi. Ad avviarsi in realtà sarà anche una discussione sulla richiesta del voto amministrativo, che sarebbe stato poi Mussolini a concedere nel 1925 – peccato però che di lì a pochi mesi avrebbe abolito le elezioni.

Anche adesso, nelle rivendicazioni di diritti da parte delle donne a dominare è la chiave maternalista, mentre sempre molto deboli sono destinate a restare in Italia le istanze neomalthusiane, che tutt‟altro rilievo avevano invece assunto all‟estero: in Francia, ad esempio, ma anche in Belgio. L‟unico testo destinato ad una vasta circolazione è il volumetto di Luigi Berta e Secondo Giorni,

L’arte di non fare figli, uscito nel 1912 e distribuito in più di 27.000 copie.

1 B. Curli, Italiane al lavoro (1914-1920), Venezia, Marsilio, 1998, 2

F. Thébaud, La Grande guerra: età della donna o trionfo della differenza

sessuale?, in G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza 1992, pp. 25-90.

3

E. J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella

Contribution Title 7 Se d‟altra parte la guerra avrebbe suscitato ovunque preoccupazioni sul piano demografico, il pronatalismo sarà uno dei cavalli di battaglia del fascismo. Mogli e madri esemplari, le donne italiche – secondo i progetti mussoliniani – avrebbero dovuto pensare essenzialmente a far figli.

D‟altra parte Pio XI nella Casti Connubii (1930), destinata a rimanere una pietra miliare del pensiero cattolico, ribadiva che «qualsiasi uso del matrimonio, in cui per la umana malizia l‟atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura». Nell‟enciclica le pratiche di limitazione delle nascite, e l‟aborto, che rientravano in quello che chiamava «uso perverso del matrimonio», erano legati proprio all‟emancipazione della donna, che espressamente si definiva una richiesta di eguaglianza nei diritti che vorrebbe scalzare «la fedele e onesta sottomissione della moglie al marito»: «emancipazione» nella direzione della società domestica, nell‟amministrazione del patrimonio, «e nell‟esclusione e soppressione della prole». Secondo i sostenitori di questa dottrina, esercitando la propria «libera volontà» - ma piuttosto «nefanda scelleratezza», affermava il pontefice - la donna si sarebbe sottratta ai suoi pesi di madre, alla cura domestica e alla famiglia, per dedicarsi così «agli affari e agli uffici, anche pubblici». Il giudizio di Pio XI al riguardo era durissimo: si trattava di una falsa libertà, della corruzione dell‟indole femminile e della dignità materna, di una «innaturale uguaglianza con l‟uomo», contraria al bene della famiglia e alla «doverosa unità e fermezza dell‟ordine e della società domestica».

Nella realtà, d‟altro canto, i reiterati appelli sia del regime che dei vertici vaticani alla maternità non sembrano trovare un riscontro positivo. Né i tassi di natalità subiscono improvvise impennate, né il numero delle lavoratrici registra una drastica contrazione. Anzi si avrà un forte aumento delle presenze femminili nel terziario e in fondo solo simbolica finirà col rivelarsi la valenza della legislazione espulsiva dal pubblico impiego del 1938: entrata in vigore nel ‟40 sarà infatti abolita dopo pochi mesi, a causa dell‟ingresso in guerra. Fortemente conservatore – se non addirittura misogino – il fascismo avrebbe finito peraltro con l‟avere ricadute contraddittorie sul piano delle relazioni di genere. Mai come durante il regime si è registrata una differenza di classe tanto forte tra le donne, ha osservato Vittoria De Grazia1. Ma soprattutto, come ha sottolineato Dittrich-Johansen, proprio negli anni Trenta, paradossalmente, per le italiane si sarebbe profilata per la prima volta una via d‟accesso alla sfera pubblica.2 Il progetto di un‟organizzazione tendenzialmente totalitaria della società italiana non poteva certo escludere le masse femminili, ed è così che alle piccoloborghesi si prospetta anche la possibilità di intraprendere vere e proprie “carriere” politiche.

1 V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio 1993, p. 32. 2

H. Dittrich-Johansen, Le militi dell’idea. Storia delle organizzazioni

8 Name of First Author and Name of Second Author La definitiva conquista della «cittadinanza» sarà comunque ancora una volta il «premio» che le italiane riceveranno solo nel corso della seconda guerra mondiale. Una guerra che si sarebbe rivelata molto diversa dalla prima, sul piano dei rapporti di genere. Se nel 1915-18 si era verificata una netta separazione tra combattenti e fronte interno, in un conflitto di trincea destinato a innescare il risentimento dei militari nei confronti degli “imboscati” e della masse femminili in generale, durante la seconda guerra mondiale, che vede il dissolvimento del fronte e annovera immense perdite tra i civili, a imperare è uno spirito solidaristico tra uomini e donne, uniti nello sforzo comune di sopravvivere e di gettare le basi per un futuro migliore.

Sarà quindi un clima di rinnovata collaborazione fra i sessi a caratterizzare la stagione del secondo dopoguerra, che vede d‟altra parte le grandi innovazioni sul piano politico fare aggio, come osserva De Luna, su una sostanziale continuità sul versante del costume.1 La nuova Italia repubblicana, che vedeva il prestigio della Chiesa - uscita miracolosamente indenne dal crollo del fascismo – raggiungere il suo massimo storico, finisce in tal modo con il collocare al centro delle propria identità sociale l‟istituzione familiare, nella sua versione più tradizionale e gerarchica. Ed è così che, nella realtà come nella propaganda politica, si assiste al ripristino dei ruoli “naturali” dei sessi.