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Di solito restavo a casa e preparavo la cena insieme alla nonna. Mi mettevo un ampio grembiule, davo ai più piccoli qualcosina da mangiare per distrarli e promettevo loro che se si fossero comportati bene, avrebbero ricevuto una sorpresa. Con uova, farina e olio preparavo tortine e dolcetti fritti.

Dal canto suo, la nonna faceva un riso al latte straordinario. Lo lasciava raffreddare e lo cospargeva di zucchero e cannella macinata per poi biscottare la superficie con una piastra di ferro rovente. Non so come, ma riusciva a rendere la crosta talmente dura che quando la rompevamo con il cucchiaino s'infrangeva come un pezzo di vetro. Poco tempo dopo, la cannella terminò e non riuscimmo più a trovarne. Alla fine, anche il pane fu razionato. Che io ricordi, da allora lo fu sempre.

Dato che i miei fratelli si stancavano presto di aspettare, entravano in cucina e non appena mi distraevo, rubavano l'impasto. Poi si accusavano a vicenda di essersi impossessati del bottino e bisticciavano. La nonna interveniva e difendeva costantemente Mario, il più piccolo.

Lolo, che aveva solo un anno in più, era molto tranquillo. Per quanto lo provocassero, non si arrabbiava mai, come se tutto gli fosse indifferente, ad eccezione della sua collezione di cianfrusaglie. Quando controllavamo le tasche o la cartella di scuola, trovavamo di tutto: bossoli di proiettili, bottoni e tappi di bottiglie spianati dai tram. Dovevo tenerlo d'occhio perché era molto piccolo e se vedeva delle monete in giro, le

fregava per comprarsi le figurine. Approfittava delle gite in spiaggia per raccogliere sassi e

conchiglie di vari tipi e restava sorpreso dal fatto che quando si asciugavano, perdevano il loro colore vivo. Le custodiva sotto il letto in una cassa di legno maleodorante a causa delle conchiglie, che mamma svuotava di tanto in tanto.

Lito era proprio un demonio: rideva e piangeva di continuo. Per lui non esistevano i mezzi termini. Aveva l'abitudine di giocare a fare la guerra con il suo gruppo di amici sulle rovine della caserma di Simancas. Raccoglievano pezzi di mitraglia e se li lanciavano dietro con la fionda. Una sera tornò a casa di cattivo umore, con la faccia insanguinata e un taglio sulla fronte. Dopo tanta resistenza, confessò che avevano attaccato briga con una banda di ragazzi più grandi e più preparati e avevano perso. Non sapeva chi fossero e non

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li aveva mai visti prima. Com'era logico, mamma e papà gli proibirono di tornare sulle rovine.

Il più grande, Monchi, assomigliava più di tutti a papà, soprattutto per la sua costituzione magra, gli occhi chiari e le labbra piene e leggermente voluminose. Curioso di natura, stava poco a casa e girava per tutta Gijón con i pattini di Aure. A volte accompagnava papà, mentre altre guardava gli allenamenti dei miliziani. Trascorreva anche molto tempo nella fabbrica in cui blindavano le auto.

Un giorno fu invitato ad assistere alla fucilazione di un uomo accusato di sabotaggio. Monchi accettò senza pensarci due volte, ma quando furono sul punto di sparare iniziò a gridare che non lo facessero.

– Non so se fosse colpevole o meno – mi spiegò dopo –. So solo che ero terrorizzato per lui.

Dovettero portarlo via di lì. Si udirono gli spari e Monchi iniziò a tremare. Poi, il comandante del plotone gli chiese chi era suo padre. Poiché conoscevano papà e Monchi era un bambino, gli permisero di andarsene. Quando me lo raccontò, tremava ancora.

Dopo ciò che era successo ad Aure, mi preoccupavo molto quando uno dei miei fratelli tardava a tornare a casa. Una sera io e papà andammo in cerca di Lolo. Era molto tardi e poco prima avevano bombardato. Dopo esserci recati in tutti i posti dove secondo noi avrebbe potuto essere e quando iniziammo a pensare al peggio, lo trovammo per strada. Camminava lentamente, con le mani dietro la schiena e addossato al muro. Quando gli chiedemmo dove era stato, alzò le spalle ed esclamò:

– Ma dove volete che sia stato? Qua in giro.

Non riuscimmo a cavargli di bocca una parola in più.

Durante la cena papà lo raccontò tra le risate. Si notava che, nonostante la paura iniziale, Lolo si stava divertendo. Intanto il più piccolo ci guardava sbalordito, incapace di capire perché ci stessimo preoccupando tanto per lui. Di tutti i fratelli solo lui e Monchi avevano ereditato da papà gli occhi chiari, quasi trasparenti.

La nonna cercava sempre di spostare l'attenzione da Lolo a Mario, il suo nipote preferito. Per questo mamma si arrabbiava con lei e diceva che l'avrebbe rovinato con tutte quelle attenzioni. Mario era sempre attaccato alla gonna della nonna e se non la vedeva, si sentiva perso e la chiamava gridando.

La piccola Olga, che a quel tempo aveva quattro anni, era una bambina tranquilla, dormiva molto e dava poco lavoro.

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Nel gennaio del 1937 a Gijón nevicò. Era strano vedere la spiaggia innevata come un grandissimo tappeto bianco che arrivava fino al mare. Gli ampi gradini della Escalerona erano leggermente coperti di neve e sul palo di cemento risplendeva un cappello lucente. I rami degli alberi, i tetti delle case e gli ombrelli aperti dei passanti erano tappezzati di bianco.

Di notte, quando mi affacciavo alla finestra, osservavo i fiocchi di neve che fluttuavano e cadevano trasversalmente verso le luci dei lampioni. E allora pensavo ai miliziani trincerati in montagna, infreddoliti e affamati, che pregavano per loro e per tutti noi e desideravo intensamente che potessero fermare il nemico. Dentro di me, tuttavia, iniziavo a nutrire il timore che il loro sforzo, compreso il sacrificio della loro vita, fosse inutile.

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