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Social Media Marketing: il futuro della Gdo. I casi Lidl ed Eurospin.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

Marketing e Ricerche di Mercato

Relazione sul tema:

Social Media Marketing: il futuro della Gdo.

I casi Lidl ed Eurospin.

Asja Rossetti

Docente Referente: Alessandro Gandolfo

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1

Sommario

INTRODUZIONE ... 3

1. LA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA ... 5

1.1. L’EVOLUZIONE DELLA GDO ... 5

1.2. L’ORIGINE DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE IN ITALIA ... 10

1.3. LA GRANDE DISTRIBUZIONE MODERNA: IL MERCATO ITALIANO ... 14

1.4. IL MARKETING NELLA GDO ... 20

2. I SOCIAL MEDIA ... 25

2.1. L’EVOLUZIONE DEL WEB: DAL WEB 1.0 AL 4.0 ... 25

2.2. LA DIFFUSIONE DEI SOCIAL MEDIA ... 29

2.3. LA RETE NELLE AZIENDE: IL SOCIAL MEDIA MARKETING ... 36

2.3.1. IL SOCIAL MEDIA MARKETING NELLE GDO ITALIANE ... 39

2.3.2. IL SOCIAL MEDIA MARKETING OLTREOCEANO: IL CASO WALMART ... 43

3. LA METODOLOGIA DELLA RICERCA ... 46

3.1. INTRODUZIONE ALLA RICERCA ... 46

3.1.1. DESCRIZIONE DATABASE INIZIALE ... 48

3.1.2. DESCRIZIONE GRIGLIE DI CODIFICA ... 51

3.1.3. ESEMPI DI CODIFICA ... 57

3.2. L’EVOLUZIONE DELLE GRIGLIE ... 60

3.2.1. BENEFICI IN SEGUITO ALL’EVOLUZIONE DELLE GRIGLIE ... 63

3.3. AFFIDABILITÀ E ACCURATEZZA DEI DATI: L’INDICE DI COHEN ... 65

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2

4.1. DATASET FINALE E STRUMENTI PER L’ANALISI ... 72

4.2. L’ATTIVITÀ SOCIAL DELLE INSEGNE ... 74

4.2.1. ON FACEBOOK ... 74

4.2.2. ON INSTAGRAM ... 80

4.3. I CONTENUTI PUBBLICATI DAI DUE DISCOUNT ... 83

4.3.1. ON FACEBOOK ... 83

4.3.2. ON INSTAGRAM ... 86

4.4. LE METRICHE PER I SOCIAL MEDIA: I KPI ... 88

4.4.1. ON FACEBOOK ... 89

4.4.2. ON INSTAGRAM ... 95

4.5. LA COMUNICAZIONE CON I CLIENTI ... 99

4.5.1. ON FACEBOOK ... 99

4.5.2. ON INSTAGRAM ... 102

4.6. SOCIAL MEDIA LATO USER: L’APPROCCIO DEI CLIENTI NEI CONFRONTI DEI DUE DISCOUNT ... 104 4.6.1. ON FACEBOOK ... 104 4.6.2. ON INSTAGRAM ... 110 CONCLUSIONI... 113 ALLEGATI ... 118 Bibliografia ... 130

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INTRODUZIONE

Alla base di questo studio vi è l’analisi dell’approccio al Social Media Marketing da parte dei retailers della Grande distribuzione organizzata. In particolare, l’elaborato pone l’attenzione sull’attività social di due discount operanti in Italia: Lidl ed Eurospin.

La motivazione che mi ha portato ad approfondire questo tema deriva dal fatto che i Social Media stanno diventando potenti mezzi nelle mani delle aziende per costruire una comunicazione vincente. In particolare, mi sono occupata del settore distributivo alimentare poiché è un segmento emergente in questo nuovo ambito comunicativo.

L’obiettivo di questa tesi è quello di fornire un’indagine che compari le strategie utilizzate dai due discount, mettendo in luce sia le differenze, sia le somiglianze. Il trattato, quindi, mira a profilare una strategia di Social Media Marketing, che per molte aziende è ancora un mistero.

L’analisi è avvenuta tramite i dati raccolti sui Social networks: Facebook ed Instagram. Questi dati sono frutto del monitoraggio dei canali in un arco temporale di tre mesi. Le variabili che si sono considerate nella costruzione del database fanno riferimento sia all’attività dell’azienda, ma in parte anche all’attività dei consumatori sulle piattaforme delle insegne.

La tesi è articolata in quattro capitoli.

Nel primo capitolo viene fornita una definizione della Grande distribuzione organizzata, seguita da un excursus storico sulla nascita di essa: partendo dal primo supermercato americano e arrivando alla diffusione del fenomeno in Italia, con la nascita del Supermarkets Italiani spa. In seguito, si passa ad un’esplorazione del settore nel contesto odierno, sia in riferimento al territorio nazionale, sia con cenni all’esterno. Infine, si pone l’attenzione su alcuni strumenti di marketing adoperati dalle aziende del settore distributivo.

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4 Il secondo capitolo è dedicato alla presentazione dei Social Media: partendo dall’evoluzione della rete che ha permesso di arrivare agli strumenti di cui oggi disponiamo e proseguendo sulla definizione di questi nuovi strumenti e il loro grado di diffusione nel mondo. Successivamente, si passa a guardare ai Social Media come a strumenti di marketing indispensabili per le aziende, in particolare indagando sul loro utilizzo nel settore distributivo alimentare italiano.

Il terzo capitolo è dedicato alla descrizione delle modalità di conduzione della ricerca effettuata: vengono qui definiti gli obiettivi che stanno alla base dello studio, come è stato organizzato il lavoro di raccolta dati e secondo quali regole, infine, vengono specificati gli strumenti di cui mi sono servita per la rilevazione dei dati e per la loro successiva convalida statistica.

Nel quarto capitolo è presente l’analisi dei dati raccolti. Si cerca di scovare le linee comuni nell’attività social delle due insegne ed inoltre di individuare i punti di discordanza. L’analisi di confronto non si limita all’operato dell’insegne, ma viene condotta anche per le communities dei seguaci dei retailers.

Grazie a questo studio di ricerca è stato possibile indagare due diversi approcci al Social Media Marketing, risultati che saranno dettagliatamente trattati nelle conclusioni finali di questo elaborato.

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5

1. LA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA

1.1.

L’EVOLUZIONE DELLA GDO

La GDO, acronimo di Grande Distribuzione Organizzata, è definita dall’Istituto Treccani come il moderno sistema di vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non di largo consumo, realizzati tramite una rete di punti vendita (Treccani, 2008). Un tratto caratteristico di questa forma di attività è riscontrabile nell’utilizzo di grandi superfici adibite all’area di vendita in senso stretto, senza quindi considerare le aree destinate agli uffici, al magazzino o ai parcheggi. La metratura minima della superficie di vendita stabilita per definirsi una GDO è di 200 mq per gli esercizi operanti nel settore alimentare e di 400 mq per le restanti categorie (Tieri & Gamba, 2009). Gli esercizi commerciali facenti parte della GDO vengono suddivisi e raggruppati in quattro tipologie, differenziati per determinate caratteristiche, ad esempio, la dimensione del punto vendita, l’ampiezza e la profondità degli assortimenti, il posizionamento di prezzo e la presenza di determinati servizi per il cliente. Secondo la società Nielsen, specializzata nelle ricerche di mercato e operante in oltre 100 paesi del mondo, i canali di vendita della Grande Distribuzione Organizzata alimentare possono essere così classificati:

• Ipermercato: esercizio commerciale avente un'area di vendita superiore ai 2.500 mq. L’assortimento presente nell’ipermercato è ampio e profondo, capace quindi di assicurare una vasta scelta di prodotti al consumatore. È, inoltre, caratterizzato da una suddivisione in reparti, specializzati sia nel settore alimentare, sia nel settore non food. All'interno di questa classificazione, il segmento che va dai 2.500 mq ai 4.000 mq è detto Iperstore;

• Supermercato: struttura con un'area di vendita che va dai 400 mq ai 2.500 mq. Dispone di un assortimento prevalentemente alimentare, ma sono presenti, anche se in misura minore, gli articoli non alimentari. All'interno di questa fascia dimensionale, è possibile discriminare ulteriormente, definendo “Supermercati Integrati” quelle attività che rientrano nel segmento

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6 che va dai 2.000 mq ai 2.500 mq, e “Superstore” quelli aventi dimensioni tanto rilevanti da essere considerati il confine tra supermercati e ipermercati;

• Libero servizio: struttura con un'area di vendita al dettaglio che va dai 100 ai 400 mq. All'interno di questa fascia dimensionale, il segmento che va dai 200 mq ai 400 mq è detto

Superette;

• Discount: esercizio al dettaglio con una superficie compresa tra i 300 mq e i 1000 mq. L’obiettivo che caratterizza questa tipologia di commercio al dettaglio è quella di praticare prezzi più bassi possibili, sia nel settore alimentare sia in quello non food. L’assortimento di un discount è poco profondo e non prevede in linea di massima la presenza di prodotti a marca industriale, ma offre prodotti a marca commerciale;

La Grande Distribuzione Organizzata opera attraverso catene di più punti di vendita che rimandano ad un unico marchio. A livello centrale di singolo marchio sono sviluppate le politiche commerciali e le relative campagne pubblicitarie. Altre sono le attività svolte a livello centrale, come le politiche di approvvigionamento, cioè la scelta e la trattativa con i fornitori e la gestione degli acquisti. Sotto il profilo della gestione del singolo punto vendita, possono invece essere introdotte distinzioni tra:

• Grande Distribuzione (GD), in cui imprese commerciali di dimensioni assolutamente rilevanti gestiscono in modo centralizzato i propri punti vendita, che si configurano quindi come “filiali” di un'unica entità economica;

• Distribuzione Organizzata (DO), in cui operatori commerciali indipendenti hanno la piena gestione del singolo punto vendita, ma che centralizzano alcune funzioni aziendali. Vengono condivisi, infatti, con la sede principale la gestione degli acquisti, con l'obiettivo di aumentare il potere contrattuale nei confronti dei fornitori, e alcune funzioni strategiche quali le decisioni in campo promozionale e pubblicitario, l'insegna comune e i prodotti a marchio privato.

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7 La configurazione attuale dei player della grande distribuzione è il frutto del susseguirsi di continue evoluzioni storiche e cambiamenti del mercato, che hanno fondamenta nella Seconda Rivoluzione Industriale. Il 1870 sancisce l’inizio di una rivoluzione che, grazie ad innovazioni fondamentali per il divenire, ha posto le basi per la nascita di quello che è l’attuale sistema di commercio al dettaglio. Ford, ad esempio, diede una spinta decisiva all’espansione della motorizzazione con la creazione della catena di montaggio, Edison brevettò in quegli anni la lampadina ad incandescenza, vennero fatti inoltre, passi da gigante anche in ambito chimico, migliorando le modalità per la conservazione del cibo. Questo miglioramento fu accompagnato da uno sviluppo nell’attività distributiva: fondamentali furono la creazione di “magazzini centrali” che permisero di gestire interi ordini dai fornitori, l’introduzione degli inventari e del pronto rifornimento dei punti vendita che ridussero situazioni di out of stock e l’invenzione del packaging per evitare il deterioramento dei prodotti (Caprotti, 2014). Tutti questi piccoli pezzi di puzzle permisero all’americano Clarence Saunder nel 1916 di creare, a Memphis, in Tennesse, il primo negozio con una superficie suddivisa in reparti aventi scaffali contenenti più di 600 prodotti: il Piggly Wiggly (Figura 1). Questo, essendo il primo negozio in cui i clienti potevano scegliere autonomamente i prodotti dagli scaffali, spinse i produttori a diversificare i propri prodotti attraverso il packaging, cercando di mettere in risalto il marchio; ebbe inoltre altri primati, come l’introduzione delle casse e dei carrelli per la spesa, l’utilizzo di contenitori refrigeranti, l’impiego di uniformi per i dipendenti e l’esposizione del prezzo per tutti i prodotti. Nel suo momento di massima diffusione, il Piggly Wiggly aprì 2660 negozi per un fatturato annuo di180milioni di dollari (Galli, 2016). L’idea di vendita self-service proposta da Piggly Wiggly, vide una forte espansione tra gli anni 20 e gli anni 30 e fu ben presto adottata anche da altre catene di negozi, raggiungendo Ralph’s sulla West Coast. Questo fenomeno, però, fu solo l’inizio di una lunga evoluzione che porterà ai supermercati che conosciamo oggi: gli shop, infatti, si estendevano su superfici di vendita ristrette; l’utilizzo del packaging, seppur avesse acquisito più importanza, era ancora ai suoi albori; ed, infine, non si era ancora affermata l’idea di “servizio per i clienti”.

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8 La vera svolta che portò all’affermazione di questa tipologia di vendita si ebbe durante la Grande Crisi del ’29. Micheal Cullen iniziò a sviluppare il concetto del commercio di massa, progettando un negozio self- service che si basasse su bassi margini di guadagno per prodotto, ma alti volumi di vendita. Inizialmente presentò la sua idea alla “Kroger Store”, dove era dirigente, ma il mancato entusiasmo per la sua intuizione, lo spinse a lasciare il lavoro e trasferirsi a Long Island, dove realizzò il primo supermercato della storia. Il 4 agosto 1930 in un garage sulla Jamaica Avenue nacque il “King Kullen Grocery Company” (Figura 2). Secondo la visione di Cullen, i punti vendita self-service dovevano estendersi su grandi aree; anche la posizione giocava un ruolo fondamentale per la riuscita di questo progetto: i punti vendita dovevano essere localizzati in zone periferiche per favorire l’accesso al parcheggio ed essere facilmente raggiungibili.

Un altro aspetto da non sottovalutare era l’ampio assortimento dei prodotti: i prezzi erano così vantaggiosi che i King Kullen’s si guadagnarono l’appellativo di “più grandi demolitori di prezzi al mondo”. Fu un successo. Nel 1936 erano operanti già diciassette supermercati “King Kullen”, con un incasso medio annuo di 6 milioni di dollari (King Kullen, 2018). Era nata una nuova era, quella del supermarket (Caprotti, 2014).

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9 L’intuizione di Cullen fu così apprezzata e riconosciuta che oltrepassò i confini americani, raggiungendo l’Europa e, nel 1948, venne, così, inaugurato il primo supermercato europeo a Streatham, in Inghilterra. Il concetto di “supermercato” venne ripreso in Europa ma, per adattarsi al diverso contesto culturale, fu debitamente modificato: questo portò allo sviluppo di nuovi format. Ad esempio, in Germania si diffusero i discount, inventati dai fratelli Albrecht nel 1945: questi puntavano alla semplicità e all’essenzialità, ponendo più attenzione al prezzo che alla forma. A conquistare il gusto dei consumatori francesi fu, invece, l’ipermercato. Ispirandosi ai grandi magazzini, nati in Francia quasi un secolo prima, gli ipermercati si caratterizzavano per un più vasto assortimento di prodotti e per superfici di vendita maggiori, il tutto immerso in un ambiente accuratamente arredato che, a differenza del discount tedesco, puntava al lusso e allo sfarzo.

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1.2.

L’ORIGINE DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE IN

ITALIA

La cultura dei supermercati aveva oramai conquistato molti paesi d’Europa: fu, però, solo nel 1956 che si presentò l’occasione anche per l’Italia. Il Dipartimento dell’Agricoltura USA, con l’ausilio della National Association of Food Chain, allestì in quell’anno a Roma (in zona Eur), un vero e proprio supermercato. Quest’ultimo si estendeva su una superficie di mille metri quadrati, era pieno di attrezzature moderne mai viste in Italia e prevedeva numerosi scaffali ordinatamente montati che contenevano numerosi prodotti. Si potevano, inoltre, vedere commesse che spingevano appositi carrelli così da istruire i visitatori circa il loro funzionamento. In prossimità dell’uscita, infine, era possibile giungere alle casse automatiche per effettuare il pagamento della merce. L’allestimento del “Supermarkets- Usa”, così venne denominato, riscontrò molto interesse sia da parte degli italiani, che accorsero all’esposizione in 450'000, sia da parte dei media. Nonostante il grande successo avuto, il nuovo sistema self-service non riuscì, però, a radicarsi sul suolo italiano, poiché la tradizione commerciale nazionale era ancora rappresentata da piccoli negozi. Secondo il censimento Istat del 1971, si può notare che all’epoca erano presenti solo 607 supermercati (due terzi dei quali erano collocati al Nord) e incidevano solamente per il 3,7% dei consumi alimentari.

Il decollo dei supermercati self-service non tardò ad arrivare e, circa un anno dopo, nel 1957, l’americano Rockfeller, famoso imprenditore operante nel settore del petrolio (Standard Oil), decise di esportare oltreoceano quello che era l’American way of life: fu così che, grazie agli accordi presi con i fratelli Caprotti, i fratelli Crespi e Marco Brunelli, nacque a Milano, in un ex officina di Viale Regina Giovanna, la “Supermarkets Italiani Spa” (oggi conosciuta come “Esselunga”). L’Italia, oramai alle porte del Boom economico, era matura e pronta al cambiamento. Due furono gli elementi essenziali per lo sviluppo di questa forma commerciale: innanzitutto, l’impiego sempre più massiccio delle donne nel mondo del lavoro, che portò ad una diminuzione del tempo dedicato alle faccende domestiche con il conseguente passaggio dalla spesa giornaliera alla spesa settimanale; inoltre fu

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11 rilevante la nascita di una televisione commerciale che fosse in grado di stimolare, attraverso la pubblicità, i desideri di consumismo che si stavano sprigionando nei consumatori italiani e che trovarono sfogo nei supermercati (Figura 3).

In pochi anni, la presenza dei supermercati si diramò per tutta la penisola. Si potevano apprezzare diverse realtà, alcune operanti solamente a livello regionale come la “Romana Supermarkets” che dal 1966 operava nella capitale, la Pam dei Bastianello che era presente nel padovano, il gruppo Bennet che si distingueva in Lombardia e la famiglia Garoschi dominava nel territorio ligure e piemontese, altre invece che operavano a livello nazionale e che si cimentarono nel settore alimentare: la Standa e la Rinascente, due grandi magazzini sorti nell’Ottocento. Queste due catene adottarono strategie totalmente differenti: la prima integrò i prodotti alimentari nei propri magazzini, pubblicizzandosi così con lo slogan “alla Standa c’è tutto”; la seconda fondando la Sma, ossia la società autonoma di supermercati. Essa era specializzata unicamente nel settore food.

In aggiunta alle forme commerciali originatesi, trovarono fortuna altre due profili imprenditoriali: il commercio associato e le cooperative dei consumatori. Per quanto riguarda la prima forma imprenditoriale, La Vège ne rappresenta il primo risultato, seguita poi dalla Despar. Per quanto

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12 riguarda, invece, le cooperative, queste comparvero nella realtà italiana prima con Coop Italia, nel 1955, e successivamente con Conad, fondata a Bologna nel 1962. A complemento di questi gruppi maggiormente rappresentativi, non va, però, dimenticato il contributo di quelle medio-piccole attività che concorsero anch’esse all’accrescimento del settore attraverso supermercati di piccole dimensioni: le superette (Scarpellini, 2008).

Osservando il panorama italiano nei venti anni dopo la prima apparizione del supermercato in Italia, possiamo notare come i negozi tradizionali non scomparvero, anzi erano ancora i favoriti, detenendo ben il 40,6% della quota di mercato nel settore alimentare. I supermercati assumevano una posizione secondaria, possedendo, infatti, il 30,6% della porzione di mercato nell’ambito retail. Quote di mercato ancora più basse erano attribuite agli altri format meno tradizionali, che cumulativamente detenevano solo il 28,8%, non raggiungendo nemmeno la parte detenuta indipendentemente dai supermercati e dai negozi tradizionali. Successivamente, l’introduzione del Decreto Bersani (d.lgs. n. 114/98) portò ad una liberalizzazione del settore commerciale al dettaglio, verso un’ottica di modernizzazione e sviluppo della rete distributiva ed un alleggerimento burocratico che aveva imposto fino ad allora rilevanti barriere per lo sviluppo di un moderno sistema di distribuzione. A confermare il successo ottenuto in campo legislativo sono i dati successivi al 1998: il primato dei negozi tradizionali venne meno, così da privilegiare i supermercati, i quali, nel 2004, acquisirono 9 punti percentuali rispetto al 1996; i negozi tradizionali, invece, subirono una contrazione di 17,2 punti percentuali.

Il quadro cambiò notevolmente anche per gli ipermercati i quali, sempre nel periodo di riferimento, incrementarono la loro quota di mercato del 83%, mentre gli altri format continuarono a crescere, ma ad un ritmo più moderato. I dati mostrano che nel 2006, la predominanza dei supermercati a discapito dei negozi tradizionali si accentuò e ci fu un continuo accrescimento anche per le altre forme del dettaglio (Tabella 1).

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13 Per quanto riguarda l’evoluzione del numero dei punti di vendita in Italia, considerando il periodo 1996-2006, è possibile osservare come il numero di ipermercati sia cresciuto del 105%, i supermercati del 37%, le superette del 18% e gli hard discount del 59%.

In termini generali, la distribuzione moderna alimentare è passata dal possedere 13.810 pdv (punti di vendita) nel 1996 ad 18.480 nel 2006, aumentando quindi del 33% (Tabella 2).

Tabella1- L’evoluzione dei canali nell’alimentare: 1996-2006 . Fonte: (Pianta Distribuzione,

2016)

Tabella 2- L’evoluzione della distribuzione per numero di pdv: 1996-2006. Fonte: (Pianta

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1.3.

LA GRANDE DISTRIBUZIONE MODERNA: IL MERCATO

ITALIANO

Una volta compresi i presupposti che hanno condotto alla Gdo moderna, è opportuno fare un’analisi del contesto nazionale odierno. Dall’ultimo report di Mediobanca è possibile vedere come il fatturato aggregato dei maggiori player della Gdo Italiana, considerando il periodo dal 2012 al 2016, sia aumentato del7,9%, passando da 60,4 a 65,1 miliardi di euro. Quali sono, però, i maggiori operatori della Grande Distribuzione Organizzata sul nostro mercato?

Ben undici sono le insegne considerate protagoniste dell’ambito alimentare, le quali globalmente rappresentano il 72% del settore. Coop Italia domina con il 14,2% delle quote di mercato e vanta un fatturato annuo di 12.379 milioni di euro, seguita da Conad con il 12% ed un fatturato di 12.400 milioni di euro e da Selex con il 9,9% e un ricavato di 10.400 milioni annui (Tabella 3). Mediobanca evidenzia, però, come nel periodo considerato, il miglior risultato in termini di crescita dei ricavi spetta ai discount: Lidl Italia ha incrementato del 46% la sua porzione di mercato con un fatturato, al 2016, di 3.990 milioni, ed Eurospin Italia, con un fatturato maggiore, ossia di 4.696 milioni cresce del 34,1%. Ben distanziati in termini percentuali sono Selex (+18,7%), Conad (+13,6%), Esselunga

Tabella 3- La ripartizione % delle quote di mercato della GDO alimentare nel 2016. Fonte: (Barrile, 2018)

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15 (+11,4%) e Iper-Unes (+5,9%). È possibile apprezzare, invece, un forte calo in termini di fatturato per quanto riguarda Auchan-SMA con un -21,2%, seguita da declini più modesti come il Gruppo Pam (-6,1%), Carrefour (-4,6%) e Coop (-2,0%) (Tabella 4).

Come suggerisce l’ultimo report annuale sul Grande dettaglio Nazionale, il declino dei ricavi dell’insegna francese Carrefour è motivata dalla diminuzione del 2.4% dei punti di vendita, lo stesso non si può affermare, però, per Auchan e per il Gruppo Pam che invece hanno pure incrementato la capillarità del loro servizio, la prima del 13%, mentre la seconda del 15,9%.

Anche Coop ha subito una diminuzione dei pdv: dal 2012 si sono ridotti del 2,9%, ma si intravede uno spiraglio di luce, dovuto al modico incremento dello 0,3% nell’ultimo anno rispetto al 2015. In media le altre insegne, invece, continuano ad accrescere la loro presenza sul territorio, registrando

Tabella 4- Mercato GDO alimentare: il confronto tra fatturati delle principali insegne (2016, in mln di euro e var. %). Fonte: (Barrile, 2018).

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16 per Conad un aumento del 3,3%, per Esselunga del 6,3%, Eurospin Italia del 16,4% e Lidl Italia del 3,2% (Tabella 5).

A livello globale, nel 2017, le aree di vendita della Gdo italiana, in termini di mq, sono rimaste immutate, ma il numero dei punti di vendita si è ridotto dell’1,2% (Rapporto Coop, 2017). La diminuzione ha interessato primariamente gli ipermercati, che hanno registrato un calo del 7,7% e le attività del libero servizio che si sono ridotte del 2,9%. Questa contrazione è stata in parte neutralizzata dall’aumento del 7% dei superstore e dei discount, quest’ultimi registrando un aumento dell’1,5%. Il dato relativo ai supermercati rimane pressoché inalterato con una lieve riduzione dello 0,4% (Figura 4). Il superstore è definito dal Rapporto Coop del 2017 come il format più efficiente, registrando vendite medie pari a 8.500 euro/mq, seguito dall’Ipermercato con 5.900 euro/mq e dal supermercato con 5.300 euro/mq.

Tabella 5- Mercato GDO alimentare: il confronto fra le principali insegne per n°

di pdv (2016, in unità). Fonte: (Barrile, 2018).

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17 Secondo l’indagine condotta dall’Istituto di credito Mediobanca sugli operatori nazionali considerando i protagonisti del ramo alimentare (ad esclusione dell’unione volontaria del Gruppo VéGé), emergono tre aspetti contraddittori che caratterizzano il settore della Grande Distribuzione Italiana: la bassa presenza di grandi superfici, avvalorata dai dati precedentemente analizzati; un’offerta complessivamente elevata, pari a 289 mq ogni mille abitanti, dietro solo alla Germania; e una bassa concentrazione con i primi cinque operatori che rappresentano poco oltre il 50% del mercato contro incidenze dal 60% all’80% in Spagna, Germania, Francia e Regno Unito.

Continuando l’analisi per quanto riguardo la redditività delle insegne, espressa come vendite per mq, Esselunga si conferma, nel 2016, come la più efficiente, riservandosi vendite pari a 16.000 euro/mq, distinguendosi particolarmente dagli altri operatori. Gli altri gruppi, infatti, si posizionano abbondantemente al di sotto: Coop ottiene vendite pari a 6.729 euro/mq, l’Iper-Unes 6.004 euro/mq e le restanti non superano le 6.000 vendite al mq (Figura 5).

Figura 4- Andamento dei format di vendita, in termini di mq di n° di pdv: 2016-2017. Fonte: (Coop, 2017).

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18 Esselunga mantiene il primato in termini di efficienza anche a livello internazionale, seguita dal gruppo olandese Ahold Delhaize, con 13,0 migliaia di euro per mq. In terza posizione troviamo Woolworths (10.960 euro/mq) e alle sue spalle si posiziona Tesco (10.900 euro/mq) (Figura 6). Confrontando il mercato della Gdo italiana con le rispettive insegne internazionali si può notare come il primo sia di minori dimensioni: prendendo in esame Coop e Conad, leader nel settore, è possibile osservare come siano ben lontani per fatturato dai numeri registrati dai principali gruppi internazionali. Seconda la classifica delle prime 150 aziende distributive per ricavi nel 2016, le insegne nazionali compaiono solamente alla 72° posizione per quanto riguarda Coop e alla 78° in riferimento a Conad. Significativo è il divario numerico: Conad e Coop chiudono a fine anno con un fatturato rispettivamente di 13.000 e 12.000 milioni di dollari, mentre l’americana Wal-Mart, in testa alla classifica, registra ben 485.873 milioni di dollari a fine dell’anno 2016. Questo però è un confronto un po’ forzato, in quanto Wal-Mart rappresenta un’eccezione. Esso, infatti, vanta un fatturato ben quattro volte maggiore sia rispetto anche alla seconda in classifica, Costco Wholesale Corporation con 118.719 e alla terza The Kroger Co. con 115.337 (Tabella 6). Nonostante questo, permane un enorme gap tra la nostra realtà e le compagnie oltreoceano.

Figura 5 -La redditività: principali insegne della GDO alimentare italiana: vendite per mq (2016, in mgl di

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19 Il limite principale dei nostri distributori è quello di operare esclusivamente sul suolo nazionale, ma non è l’unico: infatti, si confermano, con alcune eccezioni, anche meno efficienti rispetto ai player internazionali. Analizzando il rendimento del capitale investito (ROI), le insegne italiane registrano percentuali al di sotto degli 8%, in alcuni casi anche percentuali negative, rispetto alla media internazionale che gode di valori compresi tra 15-20 %. Uniche eccezioni italiane sono Eurospin (20,7%), Lidl Italia (16,3), Esselunga (15%) (Figura 7).

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1.4.

IL MARKETING NELLA GDO

La conquista di quote di mercato da parte di una insegna a discapito delle altre dipende da numerosi fattori: dall’offerta commerciale tipica dell’insegna, dal formato di vendita, dalla concorrenzialità dei prezzi, dai servizi offerti ai clienti e, da non sottovalutare, dalle strategie di marketing utilizzate al fine di spiccare rispetto ai concorrenti e risultare appetibili ai potenziali consumatori. In un mercato oramai saturo, come quello del settore distributivo, quest’ultimo fattore potrebbe essere imprescindibile per guadagnarsi porzioni di mercato sempre maggiori. Il Marketing utilizzato dalle catene distributive è definito “Retail Marketing”. “Il Retail marketing consiste nel complesso delle azioni commerciali del distributore rivolte ai consumatori finali che, nel breve periodo, hanno lo scopo di convincerli ad acquistare presso i punti vendita di una determinata catena, influenzando anche il loro comportamento d’acquisto e a più lungo termine, quello di sviluppare e consolidare la loro fedeltà nei confronti dell’insegna (store loyalty)” (Gandolfo & Sbrana, 2007).

Lo sviluppo dimensionale della Grande Distribuzione Organizzata ha portato quest’ultima a maturare interessi contrapposti a quelli delle grandi industrie, così da attuare individualmente strategie commerciali finalizzate a favorire il loro utile. Questo fenomeno è stato il motore che ha portato alla nascita del retail marketing. Infatti, quando il settore della distribuzione al dettaglio era composto unicamente da piccole imprese a conduzione famigliare, sarebbe stato irragionevole sostenere strategie commerciali in quanto, per questi piccoli rivenditori, sarebbero risultate economicamente troppo onerose.

Gli strumenti di marketing a disposizione del retail possono essere vari. Tra i principali riportiamo i seguenti: le offerte speciali e le promozioni (in-store promotions), l’offerta di un assortimento caratterizzato e differenziato e l’offerta di servizi commerciale appetibili per il consumatore.

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21 Le offerte e le azioni promozionali consistono nella vendita di un prodotto di largo consumo a prezzi scontati o nella vendita sottocosto di formati convenienza (esempio il 3x2). Esse generalmente hanno una durata limitata e sono caratterizzate da diverse finalità:

• aumentare il traffico all’interno del punto di vendita; • aumentare la rotazione dei prodotti;

• e aumentare la fidelizzazione del cliente.

Questa leva di marketing è oramai una costante nella strategia dei rivenditori, infatti viene regolarmente offerta ai consumatori. In origine, però, le promozioni e le offerte erano unicamente attività sporadiche.

L’assortimento di una catena al dettaglio deve essere caratterizzato e differenziato, evitando di uniformarsi all’offerta delle altre insegne. In ogni pdv non possono sicuramente mancare i prodotti delle grandi marche, perché richiesti esplicitamente dal cliente e perché contribuiscono ad aumentare i volumi di vendita; è, però, necessario offrire anche prodotti reperibili esclusivamente in un determinato negozio. Sono caratteristici, infatti, nell’assortimento delle varie Gdo, i prodotti a marchio, disponibili solo nel retailer di riferimento, i prodotti tipici e locali, i prodotti di alta qualità e molti altri che hanno appunto la finalità di caratterizzare la merce a disposizione dell’acquirente.

La varietà dei servizi commerciali proposti dai distributori costituisce parte rilevante della loro

offerta. L’offerta dei prodotti costituisce solamente la componente materiale dell’output dei distributori, esiste, però, anche una componente immateriale rappresentata dai servizi proposti dall’impresa. I servizi commerciali si distinguono in due categorie: quelli primari, indispensabili al fine del trasferimento dei beni; quelli secondari, che sono accessori e completano l’offerta dell’operatore adattandola alle esigenze di acquisto dei consumatori (Figura 6).

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22 Nel contesto fortemente competitivo in cui ci troviamo, si è formato un consumatore molto esigente, che non si accontenta più di giovare dei vantaggi favoriti dalle funzioni commerciali primarie, quali quelle di trasferimento e di adattamento, ma le considera del tutto scontate. Sono proprio le funzioni secondarie che offre l’insegna a conquistare l’attenzione del cliente. Quindi, il distributore deve impegnarsi ora a migliorare i servizi considerati indispensabili per il cliente, come la presenza di un ampio parcheggio, di orari più flessibili e di casse veloci, poiché sono quest’ultimi ad influenzare maggiormente la decisione circa quale sia l’insegna migliore per rifornirsi.

Dal Rapporto Coop 2017 è possibile capire quali siano i criteri principali che stanno alla base della scelta del negozio da parte dei consumatori italiani, prendendo in esame gli anni 2015-2016 (Figura 7). Al di là dello studio circa il cambiamento delle preferenze dei clienti durante i due anni, quello che sicuramente può darci informazioni interessanti è l’analisi della natura delle categorie che spingono l’acquirente a recarsi in un pdv rispetto ad un altro. Molte categorie fanno riferimento all’ assortimento: avere un’offerta di prodotti varia e completa è un fattore essenziale. Anche la presenza di prodotti commerciali con una qualità idonea a sostituire quelli industriali è considerato un tratto decisivo per gli italiani. I servizi, come precedentemente affermato, ricoprono un ruolo importante: è infatti principalmente apprezzata la comodità nel raggiungere lo store ed un buon servizio da parte

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23 del personale. Non viene meno l’importanza delle promozioni e della convenienza in termini di qualità prezzo, sebbene con minor rilevanza rispetto all’anno precedente. Recentemente, inoltre, la gradevolezza dell’ambiente in cui si va a fare la spesa ha assunto un ruolo importante.

L’ambiente di vendita è, infatti, una risorsa preziosa per il distributore, in quanto totalmente sfruttabile da quest’ultimo per garantire una shopper experience piacevole per il consumatore. Ma non finisce qui, il layout merceologico interno al negozio, permette una suddivisione dei reparti tale da facilitare il consumatore a trovare quello che cerca, considerata dall’indagine la motivazione principale per la scelta del pdv. Attenzione, però, spesso le imprese si scontrano contro questo desiderio dei compratori, cambiando la disposizione dei reparti al fine di disorientare il cliente e indurlo a permanere più tempo nello store con la convinzione che ciò comporti un aumento del valore dello scontrino medio. Questa non è l’unica strategia utilizzata dalle Gdo per incrementare le vendite, infatti anche la disposizione delle scaffalature, dei banconi e dei banchi-frigo non è casuale, ma spesso studiata attentamente per guidare il percorso dei clienti, in modo tale da costringerli a transitare in aree meno frequentate. Come suggerisce Zocchi: “il retailer deve facilitare il consumatore in quello

che cerca e allo stesso tempo stimolare quello che non cerca”.

Infine, la disposizione dei prodotti sugli scaffali è un altro mezzo nelle mani della Gdo per ottenere migliori risultati in termini di margini di profitto. Non è indifferente in quale ripiano dello scaffale vengano riposti i prodotti: molte evidenze empiriche hanno dimostrato che i facing all’altezza degli occhi o delle mani sono più remunerativi rispetto quelli in prossimità del suolo e quelli troppi in alto.

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24 Ad oggi, però, per poter applicare le leve del retail marketing nel modo più efficace, è necessario porre la massima attenzione alla scelta di canali di comunicazione ad hoc. Essi si dividono “tradizionali”, come giornali, periodici, radio e tv, in “innovativi”, quali il web e in particolare i social media. Poiché esistono numerose trattazioni riguardanti i mezzi di comunicazione tradizionali, sarà mio interesse analizzare in dettaglio, nel prossimo capitolo, quelli che sono i nuovi protagonisti del

retail marketing: i social media.

Figura 7- Nuovi fattori chiave nei criteri di scelta del negozio (confronto 2015-2016). Fonte: (Coop, 2017).

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2. I SOCIAL MEDIA

Nel corso dell’ultimo ventennio le innovazioni ottenute a livello tecnologico hanno modificato di gran lunga il vecchio modo di comunicare. L’avvento di nuovi dispositivi e il miglioramento delle connessioni online hanno permesso, infatti, di creare nuove forme di comunicazione tra le quali annoveriamo, ad esempio, i social media.

Al momento il 42% della popolazione mondiale è iscritta ad almeno un social media e i ritmi di crescita sono incessanti: nell’ultimo anno le iscrizioni ai vari social media sono incrementate di 362 milioni di nuovi utenti. La continua crescita è imputabile in particolare alla recente diffusione di

device mobili, come smartphone o tablet, che permettono di usufruire della rete Internet dappertutto.

Questo capitolo si imporrà, quindi, di descrivere l’evoluzione digitale (ancora in corso), di analizzare la diffusione di queste nuove forme di comunicazione e il loro utilizzo sempre più massiccio nelle aziende; ci soffermeremo, in particolare, su quelle facenti parte del settore della distribuzione alimentare.

2.1.

L’EVOLUZIONE DEL WEB: DAL WEB 1.0 AL 4.0

“Internet ha sostanzialmente trasformato, se non addirittura rivoluzionato, il nostro modo di comunicare, di scambiare informazioni e di organizzare attività di natura sociale, politica ed economica” (Corinto, 2012). Esso offre agli utenti una vasta serie di contenuti informativi e di svariati servizi: il principale è il World Wide Web. Data l’importanza di quest’ultimo nella vita di tutti i giorni e di tutti noi, è interessante aver una chiara visione di come si è arrivati fino al Web che noi tutti oggi conosciamo, ripercorrendone le tappe principali della sua evoluzione.

Era il 1991 quando Berners-Lee, capo ricercatore del CERN, pubblicò il primo sito web, finalizzato alla creazione di un sistema che agevolasse la comunicazione e la condivisione di informazioni tra scienziati di tutto il mondo. Due anni dopo, grazie ad aggiornamenti continui sul primo prototipo, nel

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26 1993 Marc Andressen trasformò questo importante mezzo di comunicazione scientifica in un prodotto commerciale, creando appunto Netscape. Da quel momento la tecnologia uscì dalle università per entrare anche nelle aziende e nelle abitazioni.

A contribuire alla diffusione delle rete nelle aziende fu in primo luogo la riduzione dei costi dell’elettronica, ma anche i vantaggi che la stessa rete portava: Internet consentiva a chiunque di scambiarsi dati e questo ne aumentava il valore della rete. “Interoperare”, infatti, arricchisce la comunità in modo esponenziale, come teorizzato da Metcalfe nell’omonima legge: “il valore della rete è proporzionale al quadrato del numero dei suoi componenti”.

Gli anni dal 1990 al 2000 sono stati gli anni del Web 1.0, definiti dallo stesso Berners gli anni dell’“only read Web”, in quanto il Web era rappresentato da siti statici in solo formato HTML che erano la semplice trasposizione online di fogli Word. Il Web era un libro pieno di contenuti accessibili agli utenti con lo scopo di mera consultazione ed informazione, ma che negava ogni possibilità di interazione tra utente e contenuto, dando così luogo ad una comunicazione unicamente unidirezionale. Furono proprio gli evidenti limiti generati dall’ impossibilità, da parte dell’utente, di interagire con i contenuti, che portarono questi siti vetrina a subire una trasformazione verso la ricercata dinamicità. La metamorfosi ebbe inizio con l’utilizzo di nuovi linguaggi di programmazione ausiliari all’HTML che resero possibile l’inserimento di commenti e il procrearsi dei primi forum e dei primi blog: questa fase di transizione viene definita Web 1.5.

I cambiamenti, però, non finirono qui, nel tempo si originarono community, social network, wiki che favorirono sempre di più l’interattività degli utenti, dando vita alla seconda fase del Web: il Web 2.0.

La prima definizione di Web 2.0 è stata chiarita dallo studioso Tim O’ Reilly durante un meeting svolto nel 2004:

“Web 2.0 is the network as platform, spanning all connected devices; Web 2.0 applications are those

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updated service that gets better the more people use it, consuming and remixing data from multiple sources, including individual users, while providing their own data and services in a form that allows remixing by others, creating network effects through an "architecture of participation," and going beyond the page metaphor of Web 1.0 to deliver rich user experiences”.

Il Web 2.0 portò l’utente al centro della scena. I fattori che caratterizzarono questo nuovo Web furono: • la condivisione dei contenuti da parte degli individui;

• l’interazione tra i membri della comunità digitale;

• la nascita di una nuova modalità di comunicazione bidirezionale con le aziende che spesso ha portato ad una vera e propria co-partnership.

Il web è ora un ambiente dinamico, dove l’utente non ha più un ruolo passivo, ma rivendica la sua opinione attivamente. Inoltre, il Web dell’interattività, a differenza del suo antenato, non prevede la necessità di doti informatiche per interfacciarsi ad esso, ma la facilità ne è il suo tratto distintivo. Un esempio è rappresentato proprio dai social networks: tutti noi siamo in grado facilmente di usarli e accederci in ogni momento per relazionarci con gli altri, per pubblicare foto, informazioni e video oppure solamente per svago.

L’evoluzione non si era ancora fermata, ma si iniziò già a parlare, nel 2006, di Web 3.0, definito il cosiddetto “read-write-execute Web”. Il CEO di Google, Eric Schmidt, al Seoul Digital Forum lo definisce come:

“Web 3.0 will be applications that are pieced together – with the characteristics that the apps are

relatively small, the data is in the cloud, the apps can run on any device (PC or mobile phone), the applications are very fast and very customizable, and are distributed virally (social networks, email, etc)”.

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28 Le parole chiave di questa nuova era digitale sono i “dati” e la “semantica”. “Web semantico” è, infatti, un altro modo utilizzato per definire il web di terza generazione. Il World Wide Web è ora un “ambiente in cui i contenuti pubblicati sono associati ad informazioni e dati, ossia metadati, che ne specificano il contesto semantico in un formato adatto all’interrogazione e all’interpretazione e, più in generale, all’elaborazione automatica” (Barners-Lee, 2001). Quindi si tratta di un Web in grado di capire quali siano le richieste dell’utente. Prima del web semantico non era così semplice effettuare una ricerca: era necessario scrivere esattamente le parole chiave di ciò che si cercava e questo non era nemmeno una garanzia di successo.Oggi, invece, effettuare una ricerca sul web è semplicissimo: basta scrivere l’argomento a cui siamo interessati e i motori di ricerca, grazie ai loro algoritmi, ci offrono molti risultati inerenti al tema.

Come dice il padre del web, Barners- Lee: “Il Web semantico è un web che non solo legge i dati ma li interpreta” (Barners-Lee, 2001).

Dal punto di vista sociologico il Web 3.0 è definito “Web potenziato”, in quanto è considerato un canale mediatico così influente da condizionare addirittura la società più di quanto avesse mai osato ogni altro canale prima d’ora. Il concetto è nato nel 2011 in seguito alle Rivoluzioni del Nordafrica, che, secondo i sostenitori di questa teoria, sono sorte dai contrasti politici guidati attraverso i social network che sono sfociati poi in manifestazioni e rivolte (Pulcini, 2013).

Recentemente si sente già parlare anche di 4.0. C’è chi inizia a fare previsione a riguardo e sul dove ci porterà. Qualcuno azzarda prevedendo la nascita di un alter ego digitale per ognuno di noi. Un alter ego che sarà sempre più presente nella vita reale e che sarà in grado di relazionarsi alle nuove interfacce, come ad esempio la domotica. Inoltre, c’è, però, chi mostra un velo di preoccupazione poiché se il Web potenziato è stato in grado di cambiare la società, il timore che possa cambiare anche la realtà è una prospettiva spaventosa. Nessuno sa con certezza quali saranno le innovazioni del Web 4.0, ma sicuramente un ruolo fondamentale verrà ricoperto dalla realtà aumentata e dai big data.

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2.2.

LA DIFFUSIONE DEI SOCIAL MEDIA

Andreas Kaplan e Micheal Haenlein, professori di marketing all’ ESCP Europe Business School, qualificano i social media come “un gruppo di applicazioni basate sul Web e costruite sui paradigmi (tecnologici e ideologici) del Web 2.0, che permettono lo scambio e la creazione di user-generated content” (Kaplan & Haenlein, 2010).

Altri studiosi di marketing li considerano “strumenti di comunicazione, trasmissione, collaborazione e crescita online tra reti interconnesse e interdipendenti di persone, comunità e organizzazioni, potenziate da funzionalità tecnologiche e mobilità” (Tuten & Salomon, 2014).

Esistono molte altre definizioni sul concetto e ciascuna di queste pone attenzione ad un diverso aspetto delle molteplici sfumature tipiche dei social media, difatti quest’ultimi costituiscono un ambiente troppo complesso da circoscrivere interamente. Possiamo, però, pensare ai social media come al luogo in cui i nativi digitali socializzano. I social media ci permettono di compiere innumerevoli attività che favoriscono l’interazione sociale: creare un blog per condividere i nostri hobby, contattare persone che non si vedono da anni, divertirsi con giochi social, chattare con amici e tante altre. Una lista infinita di attività sintetizzabili con l’espressione “cultura della partecipazione”, poiché è la partecipazione, la comunicazione, la collaborazione, la condivisione, la socializzazione le basi dei nuovi mezzi di comunicazione.

La complessità nel definire questi mezzi di comunicazione è dovuta, inoltre, alla molteplicità e la variabilità dei canali e dei veicoli di cui dispongono. È possibile distinguere questi canali, raggruppando quelli simili e differenziando quelli dissimili. Si arriva, così, ad individuare 4 aree nell’ambito dei social media (Tuten & Salomon, 2014):

• L’area della Social Community: i canali appartenenti a questa prima area si focalizzano su attività finalizzate a riunire soggetti accomunati dai medesimi interessi. Tutti i social media

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30 pongono attenzione alle relazioni, ma per le social community la costruzione di legami tra individui ne è il principio fondante. La comunicazione, la collaborazione e la condivisione sono altri tratti essenziali di questi canali, in quanto favoriscono i rapporti tra i nodi della rete. Tra i principali canali appartenenti a quest’area ci sono: i siti di social network, le bacheche elettroniche, i forum e i wiki.

In particolare, ritengo utile dare una breve definizione di quelli che sono i siti di social network, poiché come si vedrà in seguito rappresentano le piattaforme più popolari sia a livello nazionale, che a livello internazionale. La traduzione letterale di social networks è “reti sociali”, ovvero piattaforme online che mettono in relazione diversi soggetti, creando, così, reti di persone tra loro interconnesse in base a determinati vincoli. Il fattore comune di tutti i social network presenti è la possibilità per i membri di costruire e gestire un proprio profilo, individuare altri membri e interagire tra di loro grazie ai servizi resi disponibili dalla piattaforma. La forza dei social networks consiste proprio nell’interazione che si genera tra i nodi della rete. Milgram, nel 1967, dimostrò empiricamente che ogni persona può essere collegata a qualsiasi altra attraverso una catena di conoscenze, formata da non più di sette intermediari (“teoria del mondo piccolo”). L’esperimento è stato recentemente riproposto portando a risultati interessanti, infatti si è dimostrato come con l’avvento dei social networks sia diminuita la distanza tra le persone: solo quattro intermediari sono necessari, al giorno d’oggi, per relazionarci con qualsiasi persona nel mondo.

• L’area del Social Publishing: in quest’area vengono compresi quegli host che favoriscono la diffusione di contenuti ad un pubblico. Tra i canali presenti in quest’aria troviamo blog e microblog, ma anche canali di condivisione di dati, di documenti, di video e di immagine, ossia i cosiddetti siti di media sharing.

• L’area del Social Entertainment: quest’area è composta dai giochi social, dai mondi virtuali e dalle comunità di intrattenimento, ossia quei canali che permettono di svagarsi.

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31 • L’area del Social Commerce: è rappresentato da tutti quei canali che favoriscono l’acquisto e la vendita online di prodotti e servizi. Il social Commerce è un sotto insieme dell’e-commerce vero e proprio, ma che sfrutta i social media per consentire una comunicazione tra venditore e acquirente durante la fase d’acquisto. Tra i canali di quest’area troviamo le recensioni e le valutazioni, i siti e gli aggregatori di occasioni come Groupon, i mercati di social shopping e le vetrine social.

Di seguito viene riportata la suddivisione delle 4 aree che compongono lo spazio dei social media e per ciascuna alcuni dei corrispondenti veicoli (Figura 8).

È possibile dimostrare l’incontenibile successo dei social media esaminando alcuni dati dell’indagine condotta da “We are social”, in collaborazione con Hootsuite, che, nel gennaio 2018, hanno analizzato i comportamenti digitali di 239 paesi del mondo. Si puòosservare come attualmente 4.021 miliardi di utenti al mondo usufruiscono di una rete Internet, ossia ben il 53% dell’intera popolazione

Figura 8- Aree dei social media e relativi strumenti. Fonte: (Tuten & Salomon, 2014).

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32 mondiale. Di questi il 42% utilizza anche i social media, vale a dire 3.196 miliardi di persone. Si tratta di cifre importanti che ogni anno non si arrendono alla continua crescita: infatti, rispetto all’anno precedente, nel 2018 si è registrato un incremento del 13% di nuovi utenti social (Lombardi, 2018).

Focalizzandoci, in particolare, sulle abitudini social degli italiani, si può dimostrare come l’Italia sia un paese molto digitalizzato, in quanto il 73% della popolazione si serve di un accesso Internet e il 57%, ossia 34 milioni di italiani, sono inoltre attivi su almeno un social media. Un aspetto interessante da evidenziare è dovuto anche all’incremento dell’utilizzo di device mobili per accedere ai social media, infatti 9 italiani su 10 vi accedono da mobile. La mobilità può considerarsi sicuramente un fattore che ha fortemente contribuito all’affermazione di queste piattaforme, in quanto rende possibile il loro raggiungimento in ogni momento e in ogni luogo (Figura 9).

Figura 9 – Il digital nel 2018 nel mondo e in Italia. Fonte: (We are social, 2018).

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33 La possibilità di accedere ad Internet in qualsiasi momento della giornata, ha contribuito inoltre a cambiare alcune abitudini degli italiani, i quali sono i primi ad accendere lo smartphone e gli ultimi a spengerlo rispetto agli altri cittadini europei (Mancinelli, 2016). Inoltre, il tempo che viene speso in media servendosi delle funzioni della rete è in media di 6,08 ore al giorno, di cui quasi 2 ore spese davanti ad una piattaforma social e 45 minuti per ascoltare musica in streaming. Internet sta diventato il media principale in questa era digitale, sostituendo oramai la vecchia televisione a cui rimangono solamente 3 ore di considerazione da parte degli italiani (Figura 10).

Una volta compresa l’entità di questo fenomeno, è interessante domandarsi quali sono le piattaforme di social media più utilizzate dagli utenti nazionali e quelli internazionali. Si può notare, innanzitutto, come lo sviluppo dei social networks e delle app di messaggistica siano le applicazioni più popolari tra gli utilizzatori, infatti compaiono nelle prime posizioni. Al 2018 è possibile trovare in testa alla classifica dei servizi social più diffusi a livello internazionale il social network Facebook. Quest’ultimo vanta, infatti, 2.167 milioni di utenti registrati, seguito da YouTube con 1.500 milioni di iscritti. Al terzo posto di questa graduatoria si piazzano a pari merito Whatsapp e Messanger (entrambe app di messaggistica istantanea di proprietà di Mark Zuckerberg) con 1.300 milioni di iscritti. Differente è lo scenario per quanto riguarda l’Italia: il primato in ambito nazionale appartiene a YouTube, che vede il 62% della popolazione registrata al canale, seguito da Facebook che conta 2 punti percentuali in meno (Figura 11).

L’impero dei social media sta crescendo a ritmi considerevoli: Facebook cresce all’anno di un 15%, le app di messaggistica sono incrementate del 30%, ma esemplare è la crescita che sta registrando il social network più giovane, Instagram. Quest’ultimo nel 2017 presentava 500 milioni di iscritti in tutto il mondo e all’inizio del 2018 ne conta già 800 milioni, registrando una crescita del 62,5%. Anche nel contesto nazionale Instagram sta prendendo sempre più piede, vedendo 19 milioni di utenti attivi ogni mese rispetto all’anno precedente che ne registrava 14 milioni. Rich Greenfield, analista di BTIG sostiene che “Instagram sia diventato un vero gigante in termini di crescita degli utenti e del

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34 loro coinvolgimento”. Infatti, sta riscontrando una elevata popolarità che in pochi anno lo porterà sicuramente alle vette della classifica, accanto al cugino Facebook.

I due social networks hanno, però, caratteristiche differenti in riferimento alla composizione demografica dei loro utenti (Figura 12). Facebook non è più il social dei giovanissimi, infatti, come si può vedere dalla figura 11, in Italia è utilizzato prevalentemente da persone che hanno più di 35 anni (il 58%) e la classe d’età maggiormente rappresentativa è quella che va dai 34-45 anni. Si è, inoltre, verificato un calo di giovani che si servono di questa piattaforma social. L’entità di questa diminuzione è riportata dallo studio di VicosBlog, blog di marketing e social media diretto da Vincenzo Cosenza, il quale afferma una riduzione del 40% per gli appartenenti alla categoria 13-18, del 17% per i giovani dai 19-24 anni e infine del 12% per quanto riguarda la classe di età 25-29. Le

Figura 11- Piattaforme social maggiormente attive. Fonte: (We are social, 2018)

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35 fasce ad incrementare sono invece quelle più alte: i 46-55 e gli over 55 riportano una crescita del 17%.

Contrariamente, Instagram è più popolare tra categorie più giovani: il 59% degli individui hanno meno di 35 anni e i maggiori utilizzatori hanno un’età compresa tra 19 e i 24 anni (sono ben il 20,6% degli utenti totali). Ancora scarsa è la presenza, invece, di fasce di età più elevate che contano solamente il 9%.

Per quanto riguarda il genere degli iscritti ai due networks, ci sono delle piccole differenze. Facebook raggruppa più utenti uomini che rappresentano il 52% degli utenti, mentre Instagram si compone maggiormente di donne che rappresentano il 51% del totale.

Figura 12- Grafico a torta con le distribuzioni di frequenza in termini percentuali degli utenti Facebook e Instagram in base al genere e all’età. Fonte: (Vincos Blog, 2018).

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2.3.

LA RETE NELLE AZIENDE: IL SOCIAL MEDIA

MARKETING

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, i social media offrono innumerevoli funzionalità che mirano a favorire ed a moltiplicare le relazioni tra utenti. Le potenzialità di questi mezzi, però, non si esauriscono solamente considerando le relazioni tra singoli utenti, ma sono una risorsa indispensabile per creare relazioni anche tra le imprese e i loro fan. Questi mezzi di comunicazione, infatti, vengono sfruttati dalle organizzazioni al fine di creare relazioni con i clienti e promuovere il proprio brand. Questo approccio strategico prende il nome di social media marketing. Quest’ultimo è una forma di Internet marketing che sfrutta le capacità dei social media e delle applicazioni web di generare interazione (engagement) e condivisione (social sharing) al fine di aumentare la visibilità e la notorietà di una marca o brand (DigitalCoach, 2018). Negli ultimi anni, le aziende hanno compreso l’importanza di questi strumenti innovativi ed hanno iniziato ad usufruirne. Secondo alcuni dati Eurostat, nel 2017, il 47% delle aziende europee ha usato almeno un social media. Per quanto riguarda lo scenario italiano ben il 44% delle aziende comunicano attraverso questi canali. Inoltre, sempre secondo l’Eurostat emerge come le piattaforme social preferite dall’azienda siano in particolare i social networks, i quali, sono infatti utilizzati dal 45% dell’aziende, diversamente dai canali di condivisione e dai blog, i quali sono meno popolari e sono utilizzati rispettivamente solo dal 16% e dal 14% delle organizzazioni. Analogo è il panorama italiano che vede l’utilizzo del social network da parte del 42% dell’aziende e vede basse percentuali di utilizzo per quanto riguarda i siti di condivisione come YouTube (solo il 16% dell’aziende se ne serve) e per quanto riguarda i blog come Twitter (solo il 10% dell’aziende ne hanno uno). La preferenza che porta le imprese a privilegiare piattaforme di networks rispetto ad altre ci è oscura, ma come ci suggerisce un articolo de “Il Sole 24 ore” è ricercabile nell’obiettivo ultimo delle aziende: se l’intento è quello di utilizzare questi strumenti come mezzi pubblicitari, è coerente prediligere i social con una più ampia platea di soggetti, ossia i social networks come Facebook (Saporiti, 2018).

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37 Sono numerosi i vantaggi che queste forme di comunicazione procurano alle imprese, infatti possono:

• migliorare la customer satisfaction; • incrementare la brand loyalty;

• migliorare il servizio di customer care; • incrementare le vendite;

• aumentare il traffico verso il sito web; • incrementare la brand awareness; • sviluppare relazioni con i propri clienti.

Questi vantaggi se non sfruttati con intelligenza possono generare anche catastrofi. Infatti, la critica di un singolo utente ha una cassa di risonanza elevata e se non adeguatamente trattata può generare un passaparola negativo nei confronti dell’azienda in grado di danneggiare notevolmente la sua immagine. Anche la mancata capacità nell’utilizzo di queste piattaforme social o la mancata comprensione del loro potenziale può essere deleteria. Molte imprese, infatti, hanno una piattaforma social, che però non aggiornano o assumono un ruolo passivo nelle discussioni ed “essere sui social e non usarli è anche peggio che non esserci” (Colombo, 2018). Un altro problema è dato dal fatto che molte aziende non collegano il proprio social con il loro sito web, dimostrando quindi di non capirne le enormi potenzialità.

Dal convegno “Il dialogo con il consumatore attraverso i social media”, organizzato da IBC (Associazione industrie Beni di Consumo) è emerso che le aziende italiane non sono ancora in grado di utilizzare questi canali innovativi e la loro conoscenza a riguardo è ancora insufficiente. Quali sono i consigli che possono aiutare le imprese a raggiungere un livello di performance efficacie? Guido di Fraia, direttore dell’Executive Master in Social Media Marketing all’università IULM, al sopracitato convegno rispose in questo modo: “Serve che ci sia una strategia dietro all’uso dei social media, che parta dall’azienda e che non si deleghi, come spesso accade, alle agenzie di comunicazione esterne.

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38 Del resto, sui media classici, non si dà alle agenzie il compito di fare una strategia di business per ottenere risultati di vendita. Perché per i social dovrebbe essere diverso?” (Pozzetti, 2017). Come suggerito dal direttore Iulm è necessario, quindi, ideare una strategia di social media marketing in modo dettagliato, come avviene per tutti gli altri canali tradizionali.

Non esiste una strategia di social media marketing universalmente diffusa, ma ogni azienda deve crearne una opposita, in base al settore in cui opera, agli obiettivi che intende realizzare e al target a cui si riferisce. In sede di pianificazione della strategia di social media marketing è, però, consigliabile seguire alcune fasi indispensabili per una riuscita ottimale. Le fasi di pianificazione sono le seguenti (Tuten & Salomon, 2014):

• Analizzare il settore di riferimento: la prima è una fase esplorativa, la quale ha il fine di identificare al meglio il mercato in cui l’azienda opera. È necessario, inoltre, recuperare informazioni sul settore di riferimento e sui concorrenti operanti nel mercato. Come per la pianificazione della strategia utilizzata sugli altri media, è possibile utilizzare lo strumento dell’analisi SWOT, il quale permette di focalizzarsi sui punti di forza e di debolezza dell’azienda e di scorgere quelle che sono le minacce da evitare e le opportunità da cogliere. Infine, occorre tenere presente chi sono i competitor dell’impresa e il loro comportamento sui social media.

• Identificare gli obiettivi di marketing: dopo aver compreso appieno il mercato in cui si opera, è utile interrogarsi su quali siano gli obiettivi che si vogliono raggiungere attraverso la comunicazione sui social. Gli obiettivi auspicabili dalle aziende attraverso questo tipo di comunicazione sono numerosi, ma è necessario concentrarsi su obiettivi che siano SMART, ossia specifici, misurabili, raggiungibili, realistici e temporalmente definiti.

• Identificare e profilare il target a cui si vuole comunicare: si rende, quindi, necessaria l’identificazione e la profilazione dei clienti andando ad analizzare quali sono loro caratteristiche socio-demografiche e le loro abitudini social.

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39 • Individuare i canali di social media più idonei: una volta segmentato il mercato ed analizzato il target di interesse, è indispensabile scegliere i canali più idonei a raggiungerlo. È uno spreco di risorse, infatti, occuparsi di una piattaforma social che non sia in grado di raggiungere i nostri consumatori o che non sia coerente con gli obiettivi pianificati.

• Creare contenuti interessanti per il pubblico: è indispensabile pubblicare contenuti di qualità in modo costante nel tempo, così da attirare e stimolare l’interazione ma anche per ottenere condivisioni da parte del pubblico-target. Per ottenere questo, è strettamente necessario che la strategia dei messaggi rimanga in linea con gli obiettivi dell’azienda e risulti interessante per gli utenti: i contenuti devono essere variabili e sempre innovativi, facendo leva principalmente sui contenuti visivi, che si identificano come quelli che garantiscono il miglior ritorno.

• Creare un piano di azione: una volta creati i contenuti è fondamentale stabilire, attraverso un piano editoriale, la frequenza delle pubblicazioni, la fascia oraria più idonea per massimizzare le visualizzazioni ed infine è necessario stilare un budget per stabilire l’impatto economici di ciascuna attività.

• Misurare i risultati: come ultima fase è opportuno servirsi di indicatori di performance per valutare l’efficacia della comunicazione e il raggiungimento dei risultati. Il feedback è indispensabile in quanto permette di comprendere se la strategia utilizzata è risultata idonea o è necessario pianificarne un'altra.

Queste sono solo alcune linee generali da tenere presente, sarà poi compito della social media manager dell’azienda definirne una ad hoc.

2.3.1. IL SOCIAL MEDIA MARKETING NELLE GDO ITALIANE

In tutto il mondo ed in particolare in Italia non si è ancora del tutto affermata l’idea dei social media come strumento di marketing. Sono soprattutto le grandi imprese industriali a farne uso, ma recentemente anche le insegne della grande distribuzione organizzata hanno percepito l’importanza

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40 di questa comunicazione nell’ambito retailer. Infatti, attualmente la presenza delle insegne grocery sulle piattaforme social sta aumentando. Per avere una visione delle dinamiche del fenomeno relative alla grande distribuzione italiana, ho rilevato la presenza di alcune di esse nelle piattaforme Facebook ed Instagram. La scelta dei due social networks non è casuale: Facebook, come abbiamo precedentemente dimostrato, è il network più diffuso a livello internazionale e nazionale, ma anche quello preferito dalle aziende; Instagram, invece, è un social networks recente che ha riscontrato un immediato successo e ritengo, quindi, che abbia grandi potenzialità. Questa è anche la motivazione per cui nel mio studio di ricerca, presentato nel prossimo capitolo, ho monitorato quelle determinate piattaforme social. Per quanto riguarda la scelta delle insegne, ho ritenuto opportuno considerare le prime 10 insegne nel settore della Gdo in termini di quote di mercato: Auchan, Carrefour, Coop, Conad, Esselunga, Eurospin, Iper, Lidl, Pam e il Gruppo Selex.

Analizzando i dati che i due social networks mettono a disposizione, è interessante porre l’attenzione sul successo ottenuto dalle insegne ad oggi (Ottobre 2018), calcolato in termini di numero di follower, e inoltre è significativo osservare l’anno di iscrizione delle insegne alle piattaforme social.Possiamo vedere come Coop è il primo retailer che si è affacciato al mondo dei social, prima con Facebook nel 2010 e poi con Instagram nel 2012. Negli anni successivi, l’intraprendenza della cooperativa Coop è stata apprezzata dalle concorrenti, le quali sono corse a presidiare il social Facebook. Nel 2016, tutte le 10 insegne erano presenti su Facebook. Per quando riguarda Instagram, invece, l’iscrizione da parte dei distributori è giunta più tardi: Pam si è aggiunta quest’anno a fine luglio e manca ancora all’appello il Gruppo Selex.

A proposito del successo ottenuto in questi anni delle pagine Facebook delle insegne, vediamo come le francesi dominino rispetto alle altre: Carrefour spopola con più di 10 milioni di follower, seguita da Auchan con 3 milioni di fan. Al terzo posto si trova il retailer tedesco con poco più di 2 milioni di utenti che seguono la sua pagina. Tutte le altre sono sotto al milione. È interessante notare, però, come Coop nonostante fosse stata la prima ad adoperare i due social, non abbia giovato di nessun vantaggio

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41 competitivo, infatti conta poco più di 117 mila utenti. Contrariamente Esselunga, nonostante sia online solamente dal 2016, vanta già più di 621 mila seguaci. Selex è, invece, l’insegna che presenta meno follower rispetto a tutte le altre, questo è probabilmente dovuto al fatto che la pagina Facebook non è contraddistinta dalla “spunta blu” che gli dona l’ufficialità, quindi probabilmente è stata creata da alcuni fan e non dalla vera azienda.

Passando ad analizzare i dati di Instagram, è possibile vedere come il numero di follower sia ancora molto ridotto rispetto a Facebook. Credo che le principali cause siano, in particolare, due: innanzitutto, perché la presenza delle insegne su questo social è ancora un fenomeno recente e secondariamente perché i maggiori adopter di questo social sono i giovanissimi, i quali hanno interessi che esulano da queste categorie merceologiche.

Ritornando all’analisi, è possibile vedere come Lidl sia leader indiscussa in questo campo, il discount tedesco vanta, infatti, 205 mila seguaci distanziandosi molto dalle altre. Esselunga anche in questo social, nonostante sia presente da solo un anno, ha già conquistato molti utenti. Anche l’operato di Eurospin si contraddistingue, contando ben 59.400 follower, a differenza delle restanti insegne che rimangono ancora indietro in questa “corsa ai follower”. Nella tabella 5 è possibile vedere in dettaglio tutti i dati sintetizzati precedentemente, ossia il numero di follower e l’anno di iscrizione ai due social per i 10 distributori del panorama alimentare italiano.

Questo è solamente un piccolo quadro che mostra la presenza di alcune insegne della Gdo italiana nel mondo dei social media, sarà invece la finalità del mio trattato di ricerca approfondire ed analizzare la strategia di social media marketing intrapresa da due grandi insegne della Grande distribuzione organizzata operante in Italia: Eurospin e Lidl. La mia attenzione si è basata su queste due insegne per due motivi in particolare. In primo luogo, ho deciso di occuparmi di due discount poiché, come visibile dall’analisi di mercato presentata nel capitolo precedente, è emerso come siano in forte ascesa rispetto alle altre forme commerciali, registrando ritmi di crescita elevati.

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42 Secondariamente, è stato mio interesse analizzare l’operato di Lidl, in quanto viene considerata l’insegna più social nel panorama italiano. L’insegna tedesca sta svolgendo un ottimo lavoro in campo

digital: ha aperto il suo profilo ufficiale su Facebook nel 2012, arrivando a conquistare 2 milioni di

follower in pochissimi anni. Il raggiungimento di questo obiettivo è stato celebrato da Lidl, sul medesimo canale, attraverso un divertente video in cui vedeva le emoji girare nel punto di vendita ringraziando i consumatori, riconfermando anche in questo modo le doti digital dell’insegna (Lidl Italia, crescono i fan su Facebook, 2017).

Insegne GDO Numero Follower (Ottobre 2018)

Anno di iscrizione Numero Follower (Ottobre 2018) Anno di iscrizione Auchan 3.127.510 2014 33.200 2017 Carrefour 10.700.742 2014 26.600 2015 Coop 117.084 2010 18.700 2012 Conad 920.017 2012 8.497 2015 Esselunga 621.113 2016 44.900 2017 Eurospin 904.640 2012 59.400 2015 Iper 77.908 2014 5.313 2016 Lidl 2.076.188 2012 205.000 2015 Pam 142.672 2015 4.905 2018 Selex 16.414 2016 - -

Tabella 5 – Numero di follower e anno di iscrizione sulle piattaforme Facebook e Instagram di 10 Gdo italiane, nel 2018. (Fonte: Elaborazione personale dei dati Instagram e Facebook)

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