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Il costing for pricing: il caso di una web agency

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Academic year: 2021

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Sommario

Introduzione ... 3

L’economia digitale ... 6

1.1: Definizione e caratteristiche ... 6

1.2: Importanza nel tessuto economico e sociale ... 10

1.3: Il contributo alla formazione del PIL ... 13

1.4: Il contributo alla creazione di posti di lavoro ... 15

1.5: Le web agencies ... 16

1.6: Sviluppi futuri del mondo digitale ... 20

Contabilità dei costi: utilità, tradizione ed innovazione ... 26

2.1: Full costing e contabilità per centri di costo ... 29

2.2: Direct costing ... 31

2.3: Activity-based costing ... 33

2.4: Time-driven activity-based costing ... 38

2.5: Target costing ... 44

L’informazione di costo per le decisioni di prezzo ... 51

3.1: L’importanza del prezzo per la vendita del prodotto ... 51

3.2: Il processo di scelta del prezzo ... 53

3.3: La distanza tra teoria e pratica nel costing for pricing ... 54

3.4: Riconciliare teoria e pratica nel costing for pricing ... 61

3.4.1: Analisi di una simulazione sull’utilizzo del costo per la determinazione del prezzo ... 64

3.5: Quale soluzione deve adottare un’azienda? ... 67

Il caso FWA ... 70

4.1: Il profilo aziendale ... 70

4.2: La scelta del metodo di contabilità dei costi ... 72

4.3: Il time-driven activity-based costing in FWA ... 75

4.3.1: Identificazione dei raggruppamenti di risorse impiegate per le attività ... 76

4.3.2: Identificazione dei costi sostenuti da ogni raggruppamento di risorse ... 76

4.3.3: Identificazione del costo unitario di ogni activity cost pool ... 77

4.3.4: Identificazione delle attività svolte in ogni centro di attività ... 79

4.3.5: Definizione del tempo necessario per lo svolgimento di ogni attività ... 81

4.3.6: Identificazione delle varianti di svolgimento delle attività ... 83

4.3.7: Definizione del tempo necessario per ogni variante di svolgimento dell’attività ... 84

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4.4: Attribuzione delle attività al prodotto ... 87

4.4.1: Realizzazione di un sito internet standard ... 87

4.4.2: Realizzazione di sito internet con piattaforma e-commerce ... 89

4.4.3: Creazione e gestione campagna pubblicitaria di una pagina Facebook ... 91

4.5: Le decisioni di prezzo in FWA ... 93

Conclusioni ... 96

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Introduzione

L’Italia è un paese in lenta e difficoltosa ripresa dopo la crisi economica mondiale patita tra il 2007 ed il 2010 (anche se alcuni strascichi sono visibili ancora oggi, ad esempio il problema del debito sovrano) a causa di un elevatissimo numero di fattori, tra cui si possono individuare un imperfetto mercato del lavoro, la persistenza e l’aumento delle diseguaglianze sociali ed una carenza di infrastrutture praticamente in ogni ambito.

A far da contraltare a questo, notiamo come lo sviluppo tecnologico sia stato sempre più veloce. Per rilevarlo è sufficiente riflettere sulla nostra vita quotidiana e confrontarla con ciò che facevamo (ed era possibile fare) solo 15 anni fa: ci accorgeremmo subito di quante cose siano cambiate nel nostro lifestyle a causa soprattutto dell’Information and Communication Technology. Ad esempio, secondo una ricerca condotta da We Are Social pubblicata ad inizio 2017, è emerso che, nell’anno precedente, noi italiani abbiamo trascorso almeno due ore al giorno su qualche social network1: riesce difficile pensare come avremmo passato quei 120 minuti solo un decennio fa, e come faremmo attualmente senza la possibilità di accedere a Facebook ed altre piattaforme.

La pervasività di Internet nella nostra routine quotidiana è cosa lampante, ed ha offerto una miriade di possibilità sia per le nostre scelte di semplici consumatori (basta pensare all’aiuto fornito da Tripadvisor per scegliere un ristorante durante le nostre vacanze, processo che, in precedenza, subiva molto l’influenza del passaparola e della vicinanza ad un determinato luogo) che per quelle delle aziende di ogni settore.

Allargando il raggio d’azione al campo dei dispositivi tecnologici, sono molti altri gli “oggetti di culto” che hanno fatto capolino negli ultimi anni grazie allo sviluppo tecnologico: notebook, TV LCD, USB sticks, cloud e smartphone sono beni estremamente diffusi, molto utili ed alcuni difficilmente prevedibili all’alba del Terzo Millennio, epoca in cui Ebay ed Amazon si affacciavano timidamente sul

1 Fonte: We Are Social, gennaio 2017, citato da Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche,

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mondo, e che il tempo riconoscerà come attori decisamente importanti nel mondo economico attuale.

Come verrà analizzato nel primo capitolo di questo lavoro, ci troviamo a vivere nell’era dell’economia digitale, ambito in cui si svilupperà la società nel prossimo futuro, e dove l’Italia non parte certamente in vantaggio su altri player europei dalle minori dimensioni come, ad esempio, la Repubblica d’Irlanda2. Per

recuperare questo gap, è necessario non solo investire pesantemente in infrastrutture tecnologiche (come peraltro risulta essere previsto tramite l’attuazione del piano Industria 4.03), ma anche ampliare i canali comunicativi e quelli di vendita, per evitare che i competitor stranieri conquistino quote di mercato rilevanti nel mercato domestico: in questa ottica si inseriscono le web agency, aziende che forniscono aiuto alle imprese per comunicare efficacemente su Internet, nuova arena competitiva dalle opportunità strategiche sempre più ampie e priva di ostacoli geografici.

Il progresso tecnologico è però rapido al punto tale che la contabilità analitica, strumento ritenuto molto importante per la gestione aziendale, spesso non mantiene il passo, risultando così sempre in ritardo rispetto a ciò che il mercato impone: questo espone l’impresa a rischi rilevanti in ambito competitivo, derivanti dalla scarsa qualità delle informazioni ottenute per decidere aspetti fondamentali come la determinazione del costo di un determinato prodotto ed il suo prezzo di vendita.

In aggiunta a questo, è utile tenere a mente che le PMI sono il vero motore del nostro Paese (e più in generale dell’Europa intera), e che spesso le ridotte dimensioni aziendali sono ostacolo ad un’implementazione di un sistema di contabilità analitica funzionale all’attività produttiva svolta: a tal proposito, si ritiene che l’affidarsi ai sistemi di contabilità analitica più diffusi (ma anche meno onerosi) sia estremamente dannoso per l’azienda e scarsamente utile per

2 Si rimanda al capitolo 1 del presente lavoro per un approfondimento sul tema

3 Si veda http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/industria40 per un approfondimento sul

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5

quest’ultima, dal momento che sono stati ideati per contesti produttivi ed esigenze decisamente differenti da quelli attuali. Lo scopo di questo lavoro è identificato proprio nella ricerca di un sistema di contabilità dei costi applicabile efficacemente al settore sia nell’immediato che nel lungo termine, per aiutare l’organizzazione a prendere correttamente delle decisioni riguardanti il prezzo di un prodotto sul mercato, elemento sempre più importante nel contesto economico-sociale attuale. Il presente elaborato si articola in quattro capitoli: nel primo verrà analizzato il tema dell’economia digitale, illustrandone le caratteristiche, l’importanza nel tessuto economico e gli sviluppi futuri; nel secondo si parlerà dei sistemi di contabilità analitica e la sua evoluzione nel corso degli anni, con un occhio di riguardo alla loro adattabilità al settore ICT; nel terzo capitolo si discuteranno le varie tecniche utilizzabili per decidere il prezzo di un prodotto basandosi sulle informazioni di costo ottenute e le problematiche ad esso collegate (sia dal punto di vista teorico che da quello pratico), mentre nel quarto capitolo verrà illustrato un caso aziendale riguardante l’applicazione del time-driven activity-based costing in una web agency, al fine di migliorare il proprio sistema di contabilità analitica ed utilizzarlo per decidere il prezzo di alcuni suoi prodotti e valutarne la loro profittabilità.

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L’economia digitale 1.1: Definizione e caratteristiche

Il termine “economia digitale” (digital economy è l’equivalente in lingua inglese, ormai molto diffuso anche in italiano) è riferito ad un’economia basata soprattutto sulle tecnologie informatiche. Il termine è comparso per la prima volta nel 1995 nel libro “The Digital Economy: Promise and Peril in the Age of Networked Intelligence” di Don Tapscott, economista e manager canadese: egli fu uno dei primi capace di descrivere come Internet avrebbe cambiato il mondo ed il modo di fare business.

Deloitte definisce l’economia digitale come l’attività economica risultante da miliardi di connessioni online tra persone, business, apparecchiature, dati e processi. Basata sull’iperconnettività propria dei nostri tempi, essa sta prendendo sempre più piede e sta modificando la struttura delle imprese, l’interazione delle aziende con l’ambiente esterno e le modalità tramite le quali i consumatori ottengono informazioni, servizi e beni4.

Per esemplificare l’impatto dell’economia digitale sui modelli di business tradizionali, basta pensare che Uber non possiede nessun veicolo, Facebook non crea nessun tipo di contenuti, Alibaba non ha scorte di magazzino, ed Airbnb non ha nessun edificio di sua proprietà: nonostante peculiarità possano essere ritenute come enormi ostacoli alla competitività dell’azienda secondo la teoria manageriale tradizionale, ciascuna di queste imprese risulta essere leader nel proprio settore5. La digital economy è spesso accostata ad altri termini come internet economy o

web economy, ma essa si discosta da quest’ultime due in quanto comprende non

solo la rete ed il suo utilizzo, ma abbraccia anche la produzione di hardware e

software: in sostanza non solo siti Internet ed e-commerce, ma anche apparecchi

(personal computer e smartphone, tra gli altri) ed applicazioni.

4 Fonte: https://www2.deloitte.com/mt/en/pages/technology/articles/mt-what-is-digital-economy.html 5 Fonte:

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Secondo Mesenbourg6, il concetto di economia digitale può essere espresso

attraverso tre componenti principali: business elettronico, infrastrutture per il business elettronico, commercio elettronico. Per business elettronico si intende l’insieme di tutti i processi che un’organizzazione mette in atto in una rete informatizzata, col termine infrastrutture per il business elettronico ci si riferisce a tutto ciò che serve per creare e mantenere un sistema per operare in rete (ad esempio hardware, software, telecomunicazioni e capitale umano), mentre per commercio elettronico si intende il trasferimento immateriale della proprietà del bene (ad esempio un acquisto di un libro online). A queste tre componenti principali negli ultimi anni si sono aggiunte la gestione dei social media e ed i motori di ricerca in Internet7.

Il termine “economia digitale” è strettamente legato al concetto di “mercato digitale”, cioè quel luogo (figurato) in cui avvengono queste transazioni riguardanti prodotti o servizi basati su tecnologie informatiche. Seguendo la segmentazione operata da Assinform8, il mercato digitale si compone di quattro

macro-aree di prodotti/servizi: dispositivi e sistemi, software e soluzioni, servizi ICT, contenuti e pubblicità digitale9.

Più nel dettaglio, per dispositivi e sistemi si intendono tutti gli apparecchi digitali fissi e mobili e le infrastrutture per renderli funzionanti (PC fissi e portatili, smartphone, tablet, videocamere, ATM, POS…); per il segmento software e soluzioni ci si riferisce alle componenti software in locale (sistemi operativi o di rete, programmi per la gestione delle infrastrutture, browser Internet, motori di ricerca, applicazioni in generale…); per servizi ICT si parla di consulenza, sviluppo e formazione di questi ultimi (cloud, hosting, assistenza tecnica…), ma anche di servizi di telecomunicazione (quindi fonia fissa e mobile, cioè chiamate, SMS, MMS, dati, accesso ad Internet); mentre per la macro-area contenuti e pubblicità digitale ci si riferisce alla vendita di contenuti digitali (acquisto giornali

6 Fonte: T.L.Mesenbourg, Measuring the Digital Economy. U.S. Bureau of the Census, 2001 7 Fonte: http://odec.org.uk/the-concept-of-a-digital-economy

8 Associazione italiana per l’Information Technology

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online, intrattenimento, giochi, musica, banche dati), ed all’advertising online,

cioè ai ricavi derivanti dalla pubblicità tramite banner, inserzioni, posizionamento sui motori di ricerca, trasmissione televisiva (sia TV che IPTV) e sponsorizzazione sui vari social.

Come si può notare, questo è un settore dallo spettro molto ampio e dal dinamismo decisamente elevato, al punto tale che in meno di 15 anni si sono dovuti ridefinire i suoi confini, andando ad abbracciare fenomeni molto difficili da prevedere ad inizio anni 2000 come, ad esempio, i social network, il cui impatto è stato talmente elevato dal far pensare che sia in corso una terza rivoluzione capitalistica, dopo quella dovuta alla creazione delle società ad azionariato diffuso (cioè le prime

company) e dopo la nascita del sistema delle ferrovie e delle telecomunicazioni.

Infatti, così come le necessità di finanziamento della costruzione delle prime ferrovie portò alla creazione del mercato dei capitali così come lo conosciamo adesso, la nascita e lo sfruttamento di Internet come piattaforma condivisa ha portato all’aumento della mobilità delle persone e ad una maggiore interconnessione tra queste ultime, alla nascita della business intelligence e dei

social media.

Questa facilità nel rapportarsi con gli individui, azzerando praticamente la distanza fisica che gli separava l’uno dall’altro, ha portato ad un incremento della qualità e quantità degli scambi economici, soprattutto grazie all’accesso alle informazioni facile ed a costo praticamente nullo, oltre alla possibilità di immagazzinarle e modificarle per le proprie esigenze.

L’economia digitale è caratterizzata infatti dall’elevato assorbimento di conoscenza per la creazione di nuovi prodotti e servizi, aumentando così l’importanza dell’apprendimento, dell’innovazione, della globalizzazione e dello sviluppo sostenibile: questi sono tutti elementi particolarmente apprezzati nella società del terzo millennio, così attenta alla felicità ed al soddisfacimento dei propri desideri ed inclinazioni, senza dimenticare l’interesse per l’ambiente.

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Di fatto, la digital economy è il risultato dell’interazione tra computer, telecomunicazioni, internet ed elettronica in generale, che sono componenti totalmente diverse e decisamente distanti da quelle che caratterizzavano l’economia tradizionale. Secondo Nitescu10, rispetto a quest’ultima, possiamo dire

che l’economia digitale:

 ha creato un nuovo modello di business (cioè l’e-commerce) radicalmente efficiente, soprattutto grazie alla forte riduzione dei costi di transazione presenti nel paradigma economico precedente

 ha creato il mercato della conoscenza scientifica, spingendo ancor di più alla ricerca ed alla sperimentazione

 ha aumentato il rapporto e l’empatia tra produttore e consumatore, rendendo quest’ultimo ancor più centrale nella relazione ed aiutando l’azienda sul mercato, facilitandone la conoscenza dello stesso

 ha portato le aziende a cooperare l’una con l’altra piuttosto che a competere tra loro, in modo che si possano seguire ancor più attentamente i bisogni sempre più mutevoli delle persone, riducendo le conseguenze economiche derivanti da una loro mancata soddisfazione

 ha aumentato il valore aggiunto dei prodotti grazie al maggiore impiego di capacità sempre più sviluppate e specializzate, svincolandosi così dall’importanza del processo di approvvigionamento delle materie prime  ha creato una quantità pressoché infinita di opportunità di business, grazie

alla possibilità di ascoltare facilmente il cliente e poter redigere un’offerta

ad hoc, quasi su misura, difficilmente pensabile tempo fa

 ha aumentato lo spirito imprenditoriale grazie all’incremento dell’innovazione e della velocità dei processi produttivi

 ha aumentato il numero di posti di lavoro ad ogni livello economico. A livello microeconomico si può dire che l’economia digitale (eccetto la produzione di apparecchi come PC, smartphone e tablet) è caratterizzata da

10 Fonte: A.Nitescu, Trends and dimensions of digital economy, in “Analele Universităţii Constantin

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un’elevata incidenza di costi fissi e da bassi costi marginali: produrre un bene di questo tipo richiede infatti investimenti importanti in denaro e tempo, spesso indipendenti dalla quantità di output prodotto. Infatti i beni digitali si caratterizzano per essere non escludibili, cioè beni la cui fruizione da parte di un consumatore non implica l’impossibilità di fruirne da parte di un’altra persona.

1.2: Importanza nel tessuto economico e sociale

Come osserviamo nella vita di tutti i giorni, è molto facile avere a che fare con prodotti informatici (basta pensare che in Italia quasi il 90% delle persone tra 11 e 74 anni accede ad Internet in qualsiasi luogo e con qualsiasi strumento11): a confermare l’impressione interviene il dato relativo all’acquisto, da parte dei consumatori, di beni digitali. Infatti il giro d’affari nel 2016 è pari a circa 29 miliardi di euro12, in crescita dell’1,3% rispetto all’anno precedente. Si acquistano soprattutto smartphone, mentre calano gli acquisti dei PC desktop, ormai soppiantati dai laptop.

Sono numeri che però non fanno dell’Italia in un Paese all’avanguardia: la banda larga (elemento pressoché fondamentale in questo mondo) è diffusa solo al 79% del territorio, dato di quattro punti percentuali sotto la media europea13; e le persone che hanno accesso al web sono ormai il 66% della popolazione italiana, in crescita del 4% ma in rallentamento rispetto agli anni precedenti14.

Per quanto riguarda la digitalizzazione delle aziende italiane, la tabella seguente offre uno spaccato della situazione in base alle dimensioni delle imprese (dati Istat, dicembre 2016)15:

11 Fonte: Audiweb, febbraio 2017, citato in Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche,

policy, 2017, pag. 42

12 Fonte: Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag.41

13 Fonte: Istat, 2016, citato in Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag.

42

14 Fonte: Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag. 42 15 Fonte: Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag. 43

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Fenomeno osservato Numero di addetti

10+ 10-49 50-99 100-249 250 e oltre

Connessione a banda larga fissa 92,4% 91,8% 96,5% 96,4% 97,9%

Connessione a banda larga mobile 63,8% 61,0% 79,8% 87,5% 94,2%

Presenza progetti in area big data 9,0% 7,7% 14,6% 21,5% 29,8%

Adozione servizi cloud di livello elevato 7,3% 6,5% 10,3% 14,2% 24,9%

La cosa che salta più all’occhio è che la digitalizzazione va di pari passo con le dimensioni aziendali, e così più è elevato il numero di addetti, più le tecnologie ICT pervadono la vita dell’impresa. Questo potrebbe frenare lo sviluppo delle PMI, elemento fondamentale dell’economia italiana (ma anche europea), che più di tutte hanno bisogno di innovazione e tecnologia per sopravvivere ad un ambiente sempre più complesso.

Prescindendo dalla grandezza, la tabella seguente offre un quadro sintetico della situazione relativa alla presenza di tecnologie ICT nelle imprese italiane con più di 10 addetti16 (fonte: Istat, 2017):

Fenomeno nell’impresa Tasso %

Utilizzo computer 99,2

Accesso ad Internet 98,2

Accesso ad Internet tramite banda mobile 63,8 Accesso ad Internet tramite banda fissa 92,4 Possesso di un sito web o una pagina su Internet 71,3 Operazioni di vendita e/o acquisto online nell’anno precedente 45,5 Imprese attive nell’e-commerce 11 Addetti che utilizzano il computer almeno una volta alla settimana 48,4 Addetti che utilizzano computer connessi almeno una volta alla settimana 42,6 Imprese che acquistano servizi di cloud computing 21,5

Data l’importanza dell’economia digitale nel mondo, l’Unione Europea commissiona molti studi al riguardo: uno di questi è il Digital Economy and Society Index (il DESI), un indicatore sintetico della digitalizzazione di un Paese

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basandosi sul livello di connettività, sulla presenza di digital skills, sull’utilizzo di Internet da parte dei cittadini, e sul livello di digitalizzazione dei servizi pubblici. Il grafico seguente indica la situazione continentale17.

1: Ranking DESI Paesi Unione Europea, 2017

Purtroppo l’Italia si colloca al quart’ultimo posto di questa classifica, affossata dalla scarsa dimestichezza della popolazione con gli strumenti digitali, condizione che può precludere lo sviluppo di queste tecnologie.

Ci sono altri numeri, però, che ci rinfrancano sul futuro digitale del nostro Paese: il 30% della popolazione ha avuto a che fare con l’e-commerce (settore che ha superato in Italia i 20 miliardi di euro), le connessioni ad Internet tramite

smartphone sono cresciute del 44% rispetto al 201518, e quasi un italiano su tre ha

un telefono di nuova generazione19.

Il collegamento tra questi strumenti ed il mondo dei social è pressoché immediato: osserviamo infatti come il numero di utenti dei Social Media sia cresciuto dell’11%

17 Fonte: Italy DESI country profile, 2017, pag. 1

18 Fonte: School of Management Politecnico di Milano, 2015, citato da Assinform, Il digitale in Italia

2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag. 42

19 Fonte: Censis, 2016, citato da Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017,

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(17% considerando gli accessi anche da mobile), pari al 47% della popolazione20,

che trascorre in media 2 ore al giorno sui vari Facebook, YouTube e WhatsApp. Tutti questi dati sopra esposti suggeriscono un elevato contributo alla formazione del PIL nazionale ed europeo, e conseguentemente alla creazione di posti di lavoro. Questi aspetti verranno analizzati nel dettaglio nei due paragrafi seguenti.

1.3: Il contributo alla formazione del PIL

Secondo il rapporto sul progresso digitale europeo del 201721, il digital market

continentale contribuisce per il 4,2% alla formazione del PIL continentale22: un

apporto decisamente importante all’economia dell’UE, ma comunque inferiore a ciò che fanno Giappone, Stati Uniti e Cina (che si attestano rispettivamente al 5,4%; 5,3% e 4,7% del proprio prodotto interno lordo23). Un settore che non

conosce stagnazione e decrescita: se escludiamo l’annus horribilis dell’economia (cioè il 2009), il segno positivo fa capolino ad ogni risultato annuale.

Scomponendo il dato in macro-settori24, osserviamo come il 91% del valore

aggiunto del settore derivi dai servizi ICT (cioè dalla parte “immateriale”), mentre il restante 9% provenga dalla manifattura di prodotti ICT (relativo invece alla parte “materiale” del settore).

Poco sorprendentemente, i cinque maggiori paesi dell’Unione (cioè Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna) contribuiscono per il 68% all’intero valore aggiunto dell’economia digitale25. La situazione si modifica leggermente

osservano l’incidenza del settore ICT sul PIL del Paese26: in testa alla graduatoria

20 Fonte: We Are Social, gennaio 2017, citato da Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche,

policy, 2017, pag. 43

21 Europe’s Digital Progress Report 2017

22 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017,

pag.1

23 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017,

pag.1

24 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017,

pag.1

25 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017,

pag.2

26 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017,

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si trova infatti la Repubblica d’Irlanda, con il 12,1% del prodotto interno lordo che deriva proprio dalle infrastrutture tecnologiche e dalle telecomunicazioni, seguita da Svezia, Lussemburgo e Romania (tutte però sotto il 6%). Chi deve fare di più, secondo questi dati, è la Grecia (fanalino di coda con il 3% del proprio PIL proveniente dal settore), ma anche l’Italia, quint’ultima in questa classifica. Occupandoci del nostro Paese, nel 2014 il 3,23% del nostro prodotto interno lordo proveniva dall’economia digitale27 (un quarto rispetto alla Repubblica d’Irlanda),

e nel 2016 il mercato digitale italiano valeva circa 66 miliardi di euro28, mostrando

una crescita pari all’1,8% rispetto all’anno precedente.

Scendendo più nello specifico, per Assinform il mercato digitale italiano è così composto29:

2: Percentuale composizione mercato digitale italiano (2017)

27 Fonte: http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=isoc_bde15ag&lang=en 28 Fonte: Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag. 15

29 Rielaborazione ed adattamento di Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy,

2017, pag.17

26%

9% 50%

15%

Percentuale composizione mercato digitale

italiano (2017)

Dispositivi e sistemi Software e soluzioni ICT Servizi ICT e TLC

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15

Come si può osservare, la scena è per metà occupata dai servizi ICT e TLC, cioè dai servizi cloud , hosting e telefonia: il settore traina di conseguenza quello dei dispositivi e sistemi, cioè di tutti gli apparecchi (sostanzialmente PC, smartphone e tablet) che, di fatto, si servono di questi servizi.

I tassi di crescita per macro-area di prodotto-servizio30 mostrano come i dispositivi

e sistemi abbiano registrato una crescita (tra il 2015 ed il 2016) pari all’1,4%, i

software e soluzioni ICT siano cresciuti del 4,8%, i servizi ICT e TLC abbiano

registrato un aumento dell’1,4% ed il comparto relativo ai contenuti e pubblicità digitale abbia conosciuto un incremento addirittura del 9%, risultando quindi il settore più in crescita nel periodo preso in considerazione.

1.4: Il contributo alla creazione di posti di lavoro

Dal punto di vista dell’occupazione31, questo mercato crea posti di lavoro per 6,3

milioni di persone nell’area EU-2832, pari al 2,8% del totale degli occupati nel

continente. Un dato tutto sommato in linea a ciò che si osserva negli Stati Uniti (dove la percentuale si attesta al 2,7%), inferiore rispetto a quello giapponese (dove il 3,6% degli occupati lavora in questo settore), ma comunque più elevato in confronto a quello relativo alla situazione in Cina (dove l’1,9% dei lavoratori della Repubblica Popolare opera in ICT).

Così come per la formazione del PIL europeo, anche per quanto riguarda l’occupazione sono i big five a dare il maggior contributo33: il 64% degli impiegati

dell’Unione lavora in Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna (sebbene quest’ultima sia incalzata dalla Polonia). La situazione si ribalta considerando l’incidenza del numero di lavoratori nell’ICT rispetto al numero totale: risulta infatti che Lussemburgo, Malta, Repubblica d’Irlanda ed Ungheria siano i Paesi

30 Fonte: Adattamento di Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag.17 31 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017, pag.

4

32 Secondo la definizione data dall’Unione Europea, l’area EU-28 è composta da: Austria, Belgio,

Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Repubblica d’Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Regno Unito, Croazia.

33 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017, pag.

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europei più digital oriented, attestandosi tutti intorno al 4%, mentre l’Italia si posiziona quasi a metà classifica, avvicinandosi alla media europea.

Il mercato però si è dimostrato piuttosto stabile nel corso del periodo 2006-2014, suggerendo uno sforzo profuso più sull’innovazione che sulla creazione di posti di lavoro34: a dimostrazione di ciò interviene l’indice relativo alla produttività del

lavoro, nel quale spicca di nuovo il dato della Repubblica d’Irlanda, dove ogni impiegato del settore porta 291.000 euro di valore aggiunto all’aggregato totale, quasi doppiando il secondo nella graduatoria, cioè il Lussemburgo. Anche in questo caso l’Italia si trova “a metà del guado”, sfiorando i 100.000 euro di valore aggiunto pro capite, non discostandosi di molto dalla media europea.

I dati precedentemente esposti hanno suggerito un’elevata importanza ed influenza del mondo digitale nell’economia e nella società attuale, con il settore dei contenuti digitali e pubblicità online che registra la maggiore crescita: in questo contesto si inseriscono le web agencies.

1.5: Le web agencies

Fornire una definizione di web agency è difficile, lo è ancor di più renderla univoca e valida nel tempo, a causa dell’enorme sviluppo e dinamicità che caratterizza il mondo digitale, e soprattutto quello di Internet.

Il mondo accademico non ha fornito un aiuto sulla questione, e l’unico contributo al riguardo è contenuto in un articolo del 2011 di Nemeslaki, Fuleki e Balàzs35, dove le web agencies vengono definite come:

“providers of the nuts-and-bolts of internet presence for their customers from domain registration to graphical design all the way to the development and implementation of complex back-end processes.” (Nemeslaki et al., 2011, pag.

388)

34 Fonte: Europe’s Digital Progress Report 2017 – The EU ICT sector and its R&D performance, 2017, pag.

7

35 Fonte: A. Nemeslaki, D.Fuleki, Z.T.Balàzs; Modelling Value Delivery and Organizational Capability

Building in the Hungarian Web Agency Industry, contenuto in 24th Bled eConferenceeFuture: Creating Solutions for the Individual, Organisations and Society, pag. 387-406

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In sostanza i tre autori definivano le web agencies come organizzazioni che si occupavano di registrazione del dominio e design grafico di un sito web. La realtà sul campo italiano mostra però come questa definizione sia decisamente restrittiva sull’operato di queste aziende sul nostro territorio.

Servendosi di una banale ricerca su Google digitando web agency come keyword, è stato possibile accedere ai vari siti internet di queste organizzazioni, all’interno dei quali ognuna di queste definiva il proprio perimetro di azione, descrivendo in breve i servizi da loro offerti. L’indagine ha portato all’identificazione di un mini-campione di 12 aziende, con sede in Toscana, Lombardia, Campania, Veneto e Lazio, operanti, sia a livello provinciale/regionale che a livello nazionale, principalmente nel mondo B2B.

Ciò che è emerso dalla lettura della descrizione dei vari servizi offerti da ciascuna di queste organizzazioni è la presenza di un raggio d’azione decisamente più ampio rispetto a quello descritto dai tre autori ungheresi sopra citati. In sostanza i tratti comuni alle varie aziende sono la fornitura di servizi come:

 web design (progettazione siti web dal punto di vista tecnico)

 content management (creazione e gestione dei contenuti multimediali del sito)

 realizzazione piattaforme web

 web marketing (soluzioni pubblicitarie da applicare in Internet)  search engine marketing (gestione visibilità sui motori di ricerca)

 social media marketing (gestione pagine social ed aumento visibilità sui social)

 e-mail marketing (pubblicità via mail)

 analytics (analisi di mercato e dei risultati ottenuti dalle varie iniziative)  e-commerce

Come appena esposto, l’attività di una web agency non si limita alla progettazione e gestione di una piattaforma destinata all’e-commerce, ma abbraccia tutta una serie di fenomeni produttivi e comunicativi legati al mondo di Internet.

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Probabilmente la definizione fornita da Nemeslaki, Fuleki e Balàsz era adatta alla situazione di fine anni Novanta, quando la rete Internet si affacciava sul panorama mondiale e quando gli unici compiti di un membro di un’agenzia web erano quelli di fare un sito, mandarlo online ed ottimizzare il proprio posizionamento su un motore di ricerca (a quei tempi Altervista).

Sempre riferendoci a quell’epoca, notiamo come l’unica figura davvero fondamentale in una web agency fosse il web master, cioè chi “scriveva” le pagine web e si occupava della propria visibilità in quanto “esperto del mondo di Internet”. Nel mondo attuale, affidare un’agenzia web ad una sola persona con un profilo del genere sarebbe semplicemente autodistruttivo, data la complessità ambientale e la struttura dell’universo Internet.

A testimoniare questo, basta pensare che sono ben 25 le figure professionali identificate come operanti nel web, e che sono caratterizzate da un’eterogeneità decisamente elevata36. È infatti errato lo stereotipo per il quale si crede che,

all’interno di una web agency, lavorino unicamente ingegneri informatici e figure simili (nonostante questi ne rappresentino comunque la maggioranza): scorrendo la lista stilata da IWA Italia37 a fine 2014, si notano anche profili provenienti da altri campi, come esperti in comunicazione, esperti di marketing, data analyst, persino fotografi.

La numerosità dei profili generalmente presenti in un’agenzia web moderna suggerisce un’alta complessità delle attività svolte all’interno di essa, e soprattutto una crescente necessità di stare al passo coi tempi: se una volta era necessario avere conoscenze relative unicamente alla costruzione di un sito Internet ed ai loro contenuti per aiutare il cliente a pubblicizzare la propria impresa, adesso è pressoché obbligatorio curare anche la parte social e search engine per aiutare la vendita dei propri prodotti.

36 Fonte: Associazione IWA Italy, G3 Web Skills Profiles versione 2.0. Generation 3 European ICT

Professional Profiles, 2014

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Analizzando il campione selezionato, si nota anche come il perimetro d’azione delle web agency si ampli a seconda delle dimensioni e delle inclinazioni dei propri membri: spesso infatti si affiancano alle attività sopra citate anche l’offerta di servizi extra come la logistica, la produzione di contenuti fotografici, video e audio

ad hoc piuttosto complessi (addirittura cortometraggi), l’organizzazione e la

pubblicizzazione di eventi per l’azienda cliente, la tenuta di corsi di formazione o l’attività di consulenza in ambito pubblicitario in generale (quindi occupandosi di promuovere l’azienda utilizzando anche canali classici come TV, radio e giornali). Utilizzando la tassonomia di Assinform (cfr. pag.7 di questo lavoro), potremmo collocare le web agencies a cavallo dei servizi ICT e dei contenuti digitali: un ibrido dall’importanza decisamente alta e crescente.

Il fenomeno delle aziende web negli USA è conosciuto da tempo a causa della maggiore consapevolezza da parte delle imprese del territorio dell’importanza di Internet, della comunicazione tramite questo canale e delle sue potenzialità. In Italia il processo di sviluppo è partito in ritardo, è stato rallentato dalla crisi economica ma, grazie a quest’ultima, ha subito recentemente una forte accelerazione, dal momento che il web è stato riconosciuto come via più efficace (e conveniente) per innescare la ripresa. Infatti affidarsi ai servizi di una web

agency significa38:

 comunicare e fare business con altre imprese  comunicare direttamente coi consumatori finali  rimuovere le barriere spazio-temporali

 attivare una relazione diretta e personale con i consumatori

 poter monitorare in tempo reale le performance delle risorse impiegate in pubblicità.

A conti fatti, possiamo affermare che, nel periodo attuale (ma probabilmente anche nel prossimo futuro), sia necessario per le imprese affidarsi ad una agenzia web per curare tutti questi aspetti legati alla comunicazione tramite canali online,

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oppure, se le condizioni non permettono l’outsourcing di questi servizi, sviluppare internamente tutte queste competenze per sfruttare tutti i vantaggi derivanti dalla cura di questi aspetti: si prospetta quindi un blue ocean in cui navigare per tutte le

web agencies.

1.6: Sviluppi futuri del mondo digitale

Data l’importanza ricoperta dal mercato digitale nel tessuto economico e sociale europeo, l’Unione ha deciso di includerlo in numerosi progetti di sviluppo continentale, per far sì che le opportunità fornite dalla digital economy vengano sfruttate, affrontando le numerose sfide (identificate dal framework “Monitoring

the Digital and Economy Society 2016-2021” commissionato dalla Commissione

Europea) da affrontare, cioè la scarsa disponibilità di digital skills, la presenza di mercati fortemente emergenti, la tutela dei consumatori, la riorganizzazione industriale, la creazione ed il mantenimento di fiducia, sicurezza e privacy.

In relazione a ciò, la Commissione Europea ha inserito l’adozione della “Strategia per il Mercato Unico Digitale” tra le sue priorità. Sono tre i suoi pilastri fondanti39:

 miglioramento dell’accesso per aziende e consumatori al mercato dei beni e dei servizi digitali in tutta Europa

 creazione delle giuste condizioni per permettere la fioritura delle reti e dei servizi digitali

 massimizzare la crescita potenziale dell’economia digitale europea.

Per fare ciò bisogna operare per rimuovere le barriere nel commercio online (come la presenza di sistemi di geo-blocking eccessivi ed ingiustificabili), per armonizzare le leggi sulla tutela dei consumatori e per semplificare i regimi fiscali relativi all’imposta sul valore aggiunto. Inoltre sarà necessario fornire ai cittadini adeguate competenze nell’operare online (sia per svago che per accedere ai servizi pubblici) al fine di aumentarne fiducia e confidenza.

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Lo sviluppo delle tecnologie digitali comporterà una revisione delle norme relative alle telecomunicazioni ed al settore dei media, al fine di facilitare l’accesso alla rete, di assicurare una corretta competizione nel mercato e di preservare la sicurezza nel mondo di Internet.

Questo si riflette anche nell’inclusione del miglioramento dell’accesso, dell’uso e della qualità delle TIC (tecnologie informatiche e della comunicazione) tra gli 11 obiettivi tematici per la politica di coesione per il periodo 2014-2020, finanziata per oltre 20 miliardi di euro dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e dal fondo di coesione40.

Il FESR attribuisce priorità alle iniziative in questo settore relative a41:

 ampliamento della diffusione della banda larga e introduzione delle reti ad alta velocità

 sviluppo di prodotti e servizi TIC e dell’e-commerce

 potenziamento delle applicazioni TIC per la pubblica amministrazione online, l’e-learning, l’inclusione digitale, la cultura digitale e la sanità elettronica.

Queste sono tutte iniziative che aiuteranno a moltiplicare le opportunità strategiche e competitive delle imprese, ormai immerse nell’Industria 4.0, cioè nella

“trasformazione dei processi core business delle aziende manifatturiere in chiave digitale ed innovativa”42.

Il termine Industria 4.0 è stato utilizzato per la prima volta alla Fiera di Hannover nel 2011, ed evoca l’avvento di una quarta rivoluzione industriale, successiva a quella dell’utilizzo delle macchine a vapore, delle macchine elettriche e dell’automazione. Precursori in questo ambito sono stati gli Stati Uniti (che si sono concentrati più sulla digitalizzazione e sulla creazione di piattaforme collaborative, anche intra-aziendali) e la Germania (che si è focalizzata più sullo sviluppo di

40 Fonte: http://ec.europa.eu/regional_policy/it/policy/themes/ict/ 41 Fonte: http://ec.europa.eu/regional_policy/it/policy/themes/ict/

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22

tecnologie utili per continuare sulla via dell’automazione). Il perimetro dell’

Industria 4.0 è definito dalle seguenti tecnologie43:  Connessione alla rete

 Big data & analytics

 Cube security (sicurezza dei dati virtuali)

 Internet of things (raccolta informazioni dalle macchine per azioni correttive)

 Connected products (interconnessione tra tutti i macchinari della fabbrica)  Cloud computing (per permettere l’accesso da remoto all’attività ed ai dati

aziendali)

 Robot autonomi e droni  Realtà aumentata.

Fortunatamente, dopo una breve fase di stallo, nel 2016 anche l’Italia si è mossa sul campo, soprattutto in ambito policy, con il Piano Industriale Industria 4.0, che prevede le seguenti azioni44:

 Investimenti innovativi, tramite

o Incentivi ad investimenti privati

o Incentivi a spese in ricerca, sviluppo ed innovazione

o Rafforzamento ecosistema finanziario (anche delle startup) o Iper e super-ammortamento

 Sviluppo competenze, tramite

o Diffusione cultura Industria 4.0 (tramite scuola digitale ed alternanza scuola-lavoro)

o Sviluppo di percorsi d’istruzione ad hoc

43 Fonte: NetConsultingCube, 2017, citato da Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche,

policy, 2017, pag.48

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23

 Creazione infrastrutture abilitanti, tramite o Predisposizione piano banda ultra larga

o Definizione di standard e criteri di interoperabilità nell’Internet of

things

 Creazione strumenti pubblici di supporto

o Garanzia di investimenti privati a supporto di quelli innovativi o Rafforzamento ed innovazione del presidio di mercati internazionali o Supporto alla contrattazione aziendale in tema di salario dei

dipendenti.

Secondo Assinform45, Industria 4.0 impatterà sul concetto stesso di fabbrica per come lo intendiamo adesso, passando dai sistemi produttivi rigidi a sistemi modulabili a seconda delle richieste quantitative e qualitative, rendendoli adattabili anche a prodotti diversi: questo andrà ad impattare anche sulle relazioni clienti-fornitori, rendendole più durature e meno soggette ai mutamenti ambientali. Dal punto di vista occupazionale e sociale, l’avere fabbriche più intelligenti ed efficienti ridurrà l’esigenza di attuare azioni di outsourcing ed offshoring di determinate attività per mancanza di competenze, aumentando i margini economici, che permetteranno quindi il controllo totale sui processi strategici aziendali.

In base a queste iniziative, Assinform ha sintetizzato con un grafico l’andamento (reale e previsto) del PIL italiano e quello relativo al mercato digitale nazionale46:

45 Rielaborazione da: Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag. 51 46 Fonte: Assinform, Il digitale in Italia 2017: mercati, dinamiche, policy, 2017, pag. 119

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3: Andamento del PIL e del mercato digitale in Italia a confronto, 2014-2019E

Si nota come la distanza tra prodotto interno lordo italiano e quello del mercato digitale si faccia sempre più ampia col passare degli anni, dimostrando davvero l’importanza (ma anche la redditività) del digital market per lo sviluppo del nostro Paese. Andando più nello specifico, il trend delle performance delle quattro macro-aree è decisamente positivo, così come illustrato nella prossima tabella47:

Settore 2016-2017 2017-2018 2018-2019

Dispositivi e sistemi +1,7% +1,3% +1,6%

Software e soluzioni ICT +5,7% +6,5% +6,5%

Servizi ICT e TLC +0,7% +1,3% +1,7%

Contenuti e pubblicità digitale +6,9% +6,7% +6,4%

Saltano all’occhio le impennate nei settori dei software e soluzioni ICT, ma anche in quello dei contenuti e pubblicità digitale, con aumenti che superano il 6% su base annua, suggerendone una crescente importanza. Secondo queste previsioni, al termine del triennio preso in considerazione la composizione del mercato digitale italiano sarebbe la seguente:

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25

4: Composizione Mercato Digitale Italiano a fine 2019

Nonostante rimanga prevalente la quota relativa ai servizi ICT e TLC (che, di fatto, sono basilari per il funzionamento di questo mercato), si nota l’importanza crescente delle componenti software e soluzioni ICT e di quelle relative ai contenuti ed alla pubblicità digitale, suggerendo quindi una crescente importanza ricoperta dalle web agencies nel prossimo futuro.

Nonostante tutto, risulta inutile farsi spingere dal vento dell’innovazione se non si ha un affidabile sistema amministrativo-contabile, specialmente in contabilità analitica: anche quest’ultima ha dovuto “reinventarsi” nel corso degli anni, così come osservato nel prossimo capitolo.

25%

11% 48%

16%

Composizione Mercato Digitale Italiano a fine

2019

Dispositivi e sistemi Software e soluzioni ICT Servizi ICT e TLC

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26

Contabilità dei costi: utilità, tradizione ed innovazione

La contabilità dei costi fa parte della contabilità direzionale ed è nata per sopperire al deficit informativo derivante dall’utilizzo della contabilità generale, il cui risultato finale è il bilancio. In questo insieme di documenti, infatti, i costi vengono divisi per natura, al fine di misurare reddito e capitale di funzionamento dell’impresa, risultando poco utili alla gestione ordinaria dell’attività aziendale, che necessità di tutto un altro tipo di dati.

La contabilità dei costi è parte della contabilità analitica, che comprende anche analisi riguardanti la componente dei ricavi: quest’ultima sezione è però molto ridotta, al punto tale che i due termini spesso sono considerati sinonimi48. Adottarla

significa abbandonare l’accuratezza dei dati ottenuti con la contabilità generale e generarne altri, più tempestivi, completi ed utili a rilevare tutto ciò che orbita attorno all’attività imprenditoriale.

Con la contabilità dei costi è possibile infatti classificare i costi non solo per natura, ma anche per destinazione o secondo altri criteri, al fine di soddisfare qualsiasi esigenza di analisi di un fenomeno: misurazione dell’efficienza, supporto informativo per i giudizi di convenienza, supporto informativo al processo di programmazione e controllo sono alcuni degli scopi per il quale viene utilizzata la contabilità analitica, che “comunica” i propri risultati ai diretti interessati con

report ad hoc, quindi non vincolati ad una forma così come accade con il bilancio.

Nonostante l’utilità decisamente acclarata nel corso di tutti questi anni di applicazione in numerosi contesti aziendali, non è così scontato rilevare l’utilizzo di un sistema di contabilità analitica realmente indipendente dalle informazioni ottenibili dal processo di formazione del bilancio (influenzato da molte necessità extra operative, a causa della sua destinazione principalmente agli stakeholders esterni all’azienda). Questo inficia la qualità della gestione aziendale, e può

48 In questo lavoro contabilità analitica e contabilità dei costi verranno trattate come sinonimi dal

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27

deteriorare le performance dell’impresa in caso di ambiente socio-economico decisamente turbolento.

L’attualità di queste condizioni esterne suggerisce un cambio culturale da parte del

management, che deve svincolarsi dal seguire unicamente i desideri del cliente e

le azioni della concorrenza ed iniziare a guardare anche all’interno della propria azienda: se non è possibile lavorare sulla componente ricavi per aumentare la propria redditività, è necessario concentrarsi sulla componente costi. In questi casi è più importante spendere meglio rispetto che spendere meno, soprattutto per garantirsi un guadagno stabile nel medio-lungo periodo: la contabilità analitica e, più specificamente, il cost management, servono proprio a questo.

Nonostante ciò, secondo uno studio condotto da Bubbio e Rubello49, l’85% delle

imprese italiane utilizza una contabilità dei costi strutturata, principalmente col fine di supportare il processo decisionale ed aiutare quello di formazione del prezzo di vendita. A far da contraltare al dato appena esposto, c’è il rimanente 15% delle aziende rispondenti al questionario che dichiara di aver rinunciato a questi vantaggi per gli elevati costi di introduzione e progettazione di una contabilità dei costi, per una carenza di risorse umane da dedicarvi e per un’inadeguatezza dei sistemi informatici in uso.

Sulla percentuale di aziende sprovviste di contabilità dei costi, probabilmente influisce anche l’alta diffusione di strumenti di analisi nati ed applicabili principalmente alle imprese manifatturiere, che sono anche quelli più antichi: si parla di fine Ottocento ed inizio Novecento, periodo in cui la prima necessità era la ricerca dell’efficienza del sistema produttivo per soddisfare la domanda di mercato, ed il rapporto causa-effetto tra bassi costi e reddito era saldissimo ed indiscutibile50.

Con la trasformazione dell’economia dalla produzione industriale e di massa verso una sempre più orientata alla specializzazione, alla dematerializzazione, alla

49 Fonte: A. Bubbio e U.Rubello, Calcolo dei costi: quali pratiche vengono seguite dalle imprese italiane?,

Liuc Papers n. 201, Serie Economia aziendale 28, 2007, pag.3

50 Fonte: P.Miolo Vitali, Strumenti per l’analisi dei costi. Approfondimenti di cost accounting, vol.II,

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personalizzazione ed alla qualità, questi strumenti hanno iniziato a rivelare alcune debolezze, ed hanno calato la propria utilità fornita al processo informativo aziendale: a prescindere dall’epoca e dal settore, nel momento in cui la contabilità analitica fornisce informazioni fuorvianti per la determinazione del costo unitario di prodotto o non riesce a fornire risposte ad alcune problematiche aziendali, essa cessa di essere funzionale per l’organizzazione, e pone l’impresa in una posizione di pericolo per la propria competitività e sopravvivenza.

In un’economia così fortemente orientata all’innovazione come quella digitale (soprattutto nel settore ICT), rimanere ancorati a logiche passate, utilizzando strumenti vetusti e dalla ridotta utilità, rischia di essere veramente dannoso non solo per le aziende, ma anche per l’intero sistema Paese, costretto così a rimanere costantemente con il freno a mano tirato, con le conseguenze che stiamo provando sulla nostra pelle ogni giorno.

Fortunatamente, teoria economico-aziendale e pratica imprenditoriale (cioè mondo accademico e manager d’azienda) da parecchio tempo tentano di collaborare ricercando le vie di miglioramento e le soluzioni ai problemi identificati: un processo che, nel corso degli anni, ha permesso di “innovare la tradizione”, consentendo di fornire varie risposte ai problemi relativi all’attribuzione dei costi indiretti (siano essi di ricerca e sviluppo, di marketing o di struttura) all’unità di prodotto (da sempre tema spinoso della materia), ma non solo.

Così facendo, si è passati dai metodi tradizionali di calcolo del costo del prodotto, come il full costing (sia puro che tramite centri di costo) ed il direct costing, a quelli più innovativi, come l’activity-based costing ed il time-driven activity-based

costing: adesso ogni azienda, in base al settore in cui opera, ma anche in base alla

cultura presente nell’organizzazione, può adottare un sistema di calcolo dei costi (o un sistema ibrido tra due o più metodi) ritenuto adeguato ad alimentare il proprio processo decisionale, oppure può decidere di crearne uno partendo da zero (anche se il processo di implementazione rischia di essere eccessivamente lungo) o

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29

partendo dal prezzo sul mercato del prodotto, ragionando così in ottica target

costing.

I metodi sopra citati verranno analizzati nei prossimi paragrafi, con un focus sui benefici e sulle problematiche (emerse o potenziali) riguardanti la loro applicazione nelle imprese del settore digitale.

2.1: Full costing e contabilità per centri di costo

Il metodo di calcolo del costo di prodotto a full costing si fonda sul principio

dell’assorbimento integrale dei costi, secondo il quale il costo di tutti i fattori impiegati deve concorrere alla determinazione del costo totale dell’oggetto di costo.51

L’assorbimento integrale dei costi, elemento fondante di questo metodo, implica anche l’attribuzione di una parte di costi indiretti sostenuti per produrre uno o più output, a prescindere dalla propria natura. Nel mondo moderno, e più precisamente nel mondo digitale, le spese di ricerca e sviluppo sono sempre più importanti, ed impattano sempre di più sui costi sostenuti dall’azienda: data la loro natura di costo indiretto, la loro corretta imputazione ad un prodotto diventa quindi ancor più fondamentale.

Infatti, nel momento in cui la quota di costi indiretti diventa sempre più alta, cresce contemporaneamente la parte di costi soggetta ad un rischio di cattiva imputazione, e quindi aumenta la possibilità di definire un costo unitario di prodotto non corretto, circostanza che porta gravi ripercussioni sull’intero sistema decisionale aziendale, dato che dalle informazioni di costo dipendono, tra gli altri, le scelte di prezzo di prodotto ed i sistemi di incentivazione del personale.

La causa del problema risiede nella scelta della base di riparto dei costi indiretti, nello specifico nel collegamento causale tra criterio scelto ed obiettivo dell’allocazione: più il processo produttivo è complesso, più si alza la probabilità

51 Fonte: L.Cinquini, Strumenti per l’analisi dei costi, fondamenti di cost accounting, vol. I, Giappichelli

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30

che il driver di costo scelto non sia relativo a tutti i fattori produttivi contenuti nell’aggregato di costi indiretti oggetto della ripartizione.

Accade sovente che l’allocazione di questi costi avvenga utilizzando basi volumetriche (come quantità di ore manodopera o quantità prodotta), ignorando così la componente relativa alla complessità del processo produttivo, con il costo di beni a bassa tiratura che viene di conseguenza sottostimato e quello di beni molto standardizzati che subisce l’effetto opposto: questo fenomeno è conosciuto come sovvenzionamento incrociato, che è la principale problematica dei sistemi a costo pieno52. Ad esempio, l’utilizzo della quantità di prodotti come cost driver

per attribuire le spese di ricerca e sviluppo relative a due applicazioni nel campo della robotica (una più sofisticata e l’altra più semplice, quindi più prodotta) comporta una distorsione nella determinazione dei costi in questione: il primo prodotto si verrà attribuita una quantità minore di queste spese, ed il secondo una maggiore, quando invece è accaduto il contrario.

L’inconveniente può essere parzialmente risolto adottando una base di riparto differente per ogni aggregazione di costi indiretti definita (cioè utilizzando il full

costing a base multipla): l’accuratezza delle informazioni ottenuta aumenta, ma

questo non avviene automaticamente, dal momento che non si riduce assolutamente la possibilità di scegliere un driver di costo non rappresentante il consumo di fattori produttivi. Anzi, scegliendo questo sistema si ha addirittura la possibilità che gli errori commessi aumentino, peggiorando ancor di più la situazione, visto che il processo viene ripetuto più volte.

Anche la contabilità per centri di costo, nonostante la sua relativa innovatività, non riesce a dare una risposta al problema: prendere spunto dall’organigramma aziendale per definire la mappa dei centri di responsabilità, aggregarvi al suo interno i costi a prescindere dalla loro natura e poi attribuirli al costo di prodotto risulta essere ancora una soluzione non pienamente sufficiente alla risoluzione dell’inconveniente.

52 Fonte: R. Giannetti in P.Miolo Vitali (a cura di), Strumenti per l’analisi dei costi. Approfondimenti di

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Con l’adozione di questo sistema, infatti, non viene superato l’ostacolo relativo alla scelta della base di riparto ed alla sua possibile non pertinenza rispetto alla determinante di costo, perché di fatto non viene modificato il relativo procedimento di individuazione: rimane così irrisolto il problema del

sovvenzionamento incrociato.

Tuttavia il sistema di cost accounting basato sui centri di costo, in determinati contesti, porta non pochi benefici, tra questi l’identificazione di un link univoco tra le performance di un centro di responsabilità (che spesso coincide con un’unità organizzativa) e quelle del suo manager responsabile53, che comporta un beneficio

apprezzabile, tra l’altro, per il clima aziendale che per la contabilità dei costi. Ai fini del funzionamento efficace del processo decisionale, la scelta di adottare il sistema della contabilità per centri di costo certamente non risolve gli eventuali problemi di competitività sul mercato dell’impresa.

A prescindere dalle difficoltà di implementazione del metodo e dai rischi che sono insiti nello stesso, quasi la metà delle imprese italiane utilizza il full costing54.

2.2: Direct costing

Nella pratica del direct costing, si evita l’attribuzione dei costi indiretti al prodotto, ma implicitamente si demanda interamente al margine di contribuzione la copertura degli stessi.

Come suggerisce la denominazione, questa tecnica prende in considerazione unicamente i costi direttamente sostenuti per la produzione del prodotto, affidandosi alla tecnica del markup per la determinazione del prezzo di un’unità di output, prezzo che dovrà essere in grado di coprire la parte di costi fissi idealmente attribuiti al prodotto, ma anche fornire la remunerazione desiderata al capitale immesso in azienda.

53 Fonte: R. Giannetti in P.Miolo Vitali (a cura di), Strumenti per l’analisi dei costi. Approfondimenti di

cost accounting, vol.II, Giappichelli Editore, 2009, pag. 76-79

54 Fonte: A. Bubbio e U.Rubello, Calcolo dei costi: quali pratiche vengono seguite dalle imprese italiane?,

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32

Risulta subito evidente la semplicità della tecnica che, di fatto, non affronta volutamente la questione spinosa dell’influenza dei costi indiretti sul prodotto, affidando implicitamente al markup la risoluzione del problema (con gli inconvenienti che verranno illustrati approfonditamente nel prossimo capitolo). La soluzione è adatta non solo a tutte quelle aziende restie ad applicare la contabilità direzionale nella propria organizzazione per colpa della sua difficoltà d’implementazione (dovuta a fattori sia tecnici che culturali) o per la sua onerosità in termini monetari, ma si rende affascinante anche nei confronti delle imprese che non hanno trovato nelle altre tecniche contabili le risposte necessarie per alimentare un sistema di cost management adatto alla complessità del contesto in cui si opera.

L’inconveniente principale all’applicazione pratica del metodo risiede nella difficoltà (tendente all’impossibilità) di determinazione della curva di domanda, dal momento che il processo richiede un’elevata numerosità di informazioni relative ai bisogni della propria clientela potenziale, alla loro situazione reddituale ed al valore attribuito da essi al prodotto: tre elementi che risultano essere non facilmente ottenibili senza un elevato contributo in termini di risorse e che potrebbero comunque non sufficienti per rappresentare la reale situazione della domanda di un bene.

Gli altri limiti al direct costing55, riguardano l’oggettiva difficoltà di riuscire a

separare i costi variabili da quelli fissi (distinzione che spesso comporta l’identificazione di costi diretti ed indiretti), l’onerosità del rendere diretti i costi indiretti (esempio lampante l’installazione di un contatore per la misurazione dell’energia elettrica di ogni singolo macchinario) ed il passaggio progressivo di alcuni costi da diretti ad indiretti, dovuto alla crescente automatizzazione dei processi produttivi, che fa incrementare la percentuale di impiegati di supporto alla produzione.

55 Fonte: L.Cinquini, Strumenti per l’analisi dei costi, fondamenti di cost accounting, vol. I, Giappichelli

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33

Gli elementi fin qui esposti suggeriscono una regressione alla gestione puramente intuitiva dell’azienda qualora si applichi il direct costing, condizione assolutamente sconsigliata nel contesto generale, a prescindere dal settore in cui si opera: nonostante ciò, il 43% delle imprese italiane utilizza questo metodo di rilevazione dei costi56, preferendo la semplicità di attuazione del sistema alla

qualità dei dati da esso forniti.

2.3: Activity-based costing

L’activity-based costing (ABC) si basa sulla logica che “non sono i prodotti che

consumano fattori produttivi, ma sono le attività che si generano dalla combinazione di tali fattori da parte del sistema umano aziendale”57.

In sostanza, finché un fattore produttivo non viene impiegato e combinato con un altro, esso non fornisce nessun apporto al processo di trasformazione: sono le attività che li mettono in relazione e fanno sì gli input creino utilità al processo produttivo.

L’apporto fondamentale del metodo dell’ABC rispetto alle tecniche del full costing e del direct costing sta nel ribaltamento dell’ottica tradizionale secondo la quale il costo unitario di prodotto è formato dalla somma di costi diretti ed indiretti rispetto ad esso: con l’activity-based costing questa visione viene superata, dal momento che i costi sono espressione del valore delle attività domandate dal prodotto, e sono determinati in base al valore dei servizi resi dai fattori produttivi alle attività secondo un criterio di specialità.

Con questa tecnica i costi vengono classificati in base al livello in cui essi vengono rilevati: esistono così costi a livello di unità di prodotto, di lotto, di prodotto o di unità organizzativa58.

56 Fonte: A. Bubbio e U.Rubello, Calcolo dei costi: quali pratiche vengono seguite dalle imprese italiane?,

Liuc Papers n. 201, Serie Economia aziendale 28, 2007, pag.7

57 Fonte: L. Cinquini, in P.Miolo Vitali (a cura di), Strumenti per l’analisi dei costi. Approfondimenti di cost

accounting, vol.II, Giappichelli Editore, 2009, pag.116

58Si veda al riguardo: John C. Lere, "Activity‐based costing: a powerful tool for pricing", Journal of

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34

Più precisamente, i costi a livello di unità di prodotto (ad esempio la quantità di materia prima necessaria per la produzione di una singola unità di output) sono variabili sia nell’ABC che nei metodi di costing precedentemente esposti, i costi a livello di lotto (ad esempio i costi relativi all’attività di controllo qualità di uno

stint produttivo), secondo la logica tradizionale, sarebbero rimasti costi indiretti,

dal momento che la loro quantità non varia in base al volume produttivo, ma rispetto al numero di lotti in cui viene divisa la produzione, i costi a livello di linea di prodotto riguardano invece i costi sostenuti per tutte le unità prodotte (ad esempio i costi relativi al perfezionamento di un determinato processo) e grazie all’ABC possono essere attribuiti al costo unitario di prodotto secondo un criterio funzionale, mentre i costi relativi ad ogni unità organizzativa (come ad esempio quelli dei processi di fatturazione) non variano in base alla quantità di prodotti, essendo relativi alla struttura aziendale in senso stretto, continuando a comportarsi come costi fissi.

Il contributo più importante fornito dalla tecnica dell’activity-based costing sta proprio nella possibilità di rendere diretti molti costi ritenuti come indiretti utilizzando i metodi tradizionali: questo ovviamente aiuta (e non poco) il processo decisionale aziendale, e lo rende molto più efficace, diminuendo la possibilità di fornire informazioni errate a quest’ultimo. Il beneficio è decisamente maggiore per le imprese di servizi, ed in special modo per quelle che operano nel mercato digitale, che vedrebbero così risolti i problemi relativi alla ricerca di un criterio causale per l’attribuzione dei costi indiretti al prodotto.

Mentre con i sistemi di costing tradizionali il processo della determinazione del costo di prodotto si esplicava solo con l’identificazione dei costi sostenuti e la loro attribuzione, con l’activity-based costing si articola in tre fasi: definizione delle attività, attribuzione dei costi alle attività, attribuzione dei costi delle attività al prodotto tramite utilizzo di appositi activity driver (che ne misurano frequenza ed intensità di utilizzo)59.

59 Fonte: P.Miolo Vitali, Strumenti per l’analisi dei costi. Approfondimenti di cost accounting, vol.II,

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