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Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di laurea
IL SUICIDIO TRA MORALE E DIRITTO.
LA RIFLESSIONE DEL CRIMINALISTA LUIGI CREMANI (1748-1838)
Il Candidato Il Relatore
Tommaso Gavarini Prof.ssa Chiara Galligani
ii INDICE
Introduzione……….…………....p. V Capitolo 1: Il suicidio nel diritto romano
1.1. Suicidio come atto lecito e il caso degli impiccati………..p. 1 1.2. Eredi e Fisco a confronto. Uccidersi prima della
sentenza……….………..p. 6 1.3. Il processo fiscale………....p. 12 1.4. L’emersione delle giuste cause di suicidio (iustae
causae)………...p. 12
1.5. Il suicidio e il tentativo di suicidio dei soldati....p. 18 1.6. Tesi di Durkheim circa la repressione penale del
suicidio a Roma e relativa critica………...p. 20 1.7. Episodi di suicidio a causa delle sofferenze di una malattia e del tedio della vita……….p. 22 1.8. Libera facoltà di morte e la posizione di Mommsen
con relative critiche………....p. 25 1.9. L’eutanasia nella cultura greco-romana…..……p. 28
Capitolo 2: Il suicidio nell’età di mezzo
2.1. Il suicidio nella giustizia secolare………....p. 32 2.2. Teorie dottrinarie in tema di suicidio……..…….p. 36 2.2.1. Riflessioni dei giuristi del Trecento-Quattrocento………p. 37 2.2.2. Riflessioni dei giuristi cinquecenteschi……….p. 42 2.2.3. Il suicidio in alcuni autori del Seicento, Settecento ed Ottocento…...……….…p. 52
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2.3. La Castiglia……….……….p. 54 2.4. Conseguenze patrimoniali del suicidio per la dottrina del diritto comune…….………..p. 59 2.5. La depenalizzazione del suicidio e del tentativo di suicidio………....p. 64 2.6. Il concetto di suicidio secondo Leopardi……….p. 69
Capitolo 3: Il suicidio secondo il diritto canonico
3.1. Evoluzione della normativa ecclesiastica a partire dal concilio di Arles………...…...…p. 74 3.2. Recezione nel Decretum dell’insegnamento di Agostino………..p. 81 3.3. Eutanasia spirituale e cultura teologica…………p. 85 3.4. Ragionevolezza dei suicidi indiretti……….p. 90 3.5. Un’esempio di eutanasia cristiana: martirio voluto ed eutanasia da martirio (caso dei circumcelliones)……p. 93
Capitolo 4: La riflessione di Luigi Cremani sul tema del suicidio
4.1. Vita e opere di Luigi Cremani………..…………p. 98 4.2. Modus operandi giurisdizionale di Luigi Cremani………..………...p. 103 4.3. Analisi dell’articulus IX del trattato De Iure
Criminali del criminalista Aloysi
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Fonti letterarie romane………..……p. 119
Fonti giuridiche...………..……p. 120
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INTRODUZIONE
Il tema della disciplina giuridica della condotta suicidaria è stato fino dall’epoca dell’antica Roma un punto di incontro cruciale tra diverse dottrine e diritto positivo.
Da sempre si sono fronteggiate in merito riflessioni contrastanti.
Il mio intento è quello di delineare la disciplina del suicidio partendo dal diritto romano che, in linea generale, ne sancì la liceità, salvo determinate eccezioni inerenti l’ambito patrimoniale in cui era prevista la
publicatio bonorum del suicida imputato per delitti
tassativi. Vi erano poi altre eccezioni relative allo status del suicida, ovvero a seconda che si trattasse di un miles o di un servo.
Passerò poi all’epoca medievale, dove assistiamo al confronto di numerose riflessioni appartenenti ad interpreti facenti parte di scuole di pensiero diverse.
Nel proseguo del testo, cercherò di evidenziare il contrasto tra la disciplina del fatto suicidario dettata dal diritto canonico che condannava l’atto estremo dal punto di vista morale, prevedendo come sanzione per il cadavere il divieto delle esequie funebri, e il diritto laico medievale che invece predisponeva misure violente e inumane sui miseri corpi senza vita con lo scopo di terrorizzare il popolo.
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In seguito a questa analisi, andrò a delineare il pensiero del criminalista settecentesco Luigi Cremani che, sull’argomento, seppe recuperare elementi del diritto canonico, del diritto romano e del diritto positivo medievale e moderno. Quest’ultima analisi è determinata, per lo più, dallo studio dell’articulus IX del libro III del trattato De Iure Criminali del penalista aretino.
Dopo aver passato in rassegna la vita e il modo di procedere giurisdizionale di Cremani in veste di presidente e direttore della Camera Nera, attiva in Toscana nel 1799-1800, analizzerò la sua dottrina in merito al suicidio.
Vista la singolarità del personaggio, testimoniata anche dal forte spirito reazionario e conservatore, sarà interessante confrontare la sua riflessione sul fine vita con altri autori medievali e latini.
Nel corso della trattazione verrà dedicato uno spazio oltre che alla riflessione di alcuni giuristi medievali spagnoli anche a quella del poeta Giacomo Leopardi che fece proprie le cosiddette iustae causae del suicidio, che già erano state indicate come scusanti dal diritto romano.
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CAPITOLO 1
Il suicidio nel diritto romano
1.1. Suicidio come atto lecito e il caso degli impiccati
Benché alcuni abbiano sostenuto che anche la lex
Cornelia de sicariis et veneficis condanni il suicidio, il
giurista Paolo, vissuto in età severiana, ci mostra una realtà diversa, riscontrabile direttamente in un passo del Digesto:
In lege Cornelia dolus pro facto accipitur. Neque in hac lege culpa lata pro dolo accipitur quare si quis alto se praecipitaverit et super alium venerit eumque occiderit, … ad huius legis coercitionem non pertinet1.
Il testo contiene un’ipotesi simile a quella dell’aberratio
ictus: un tale intenzionato a suicidarsi si precipita
dall’alto, ma cade per errore su un’altra persona, uccidendola e rimanendo lui stesso in vita. Un fatto del genere a Roma non veniva condannato, poiché la legge richiedeva il dolo; e perché ci fosse dolo, occorreva il tentativo doloso di omicidio. Non era sufficiente l’uccisione provocata per colpa, per quanto grave essa potesse essere, giacché l’intenzione di chi si era gettato
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giù dall’alto era manifestamente finalizzata al suicidio. Da qui deriva che anche il semplice tentativo di suicidio che non avesse provocato danneggiamento a terzi non veniva perseguito. Il suicidio non ricadeva sotto la nozione del qui hominem occiderit della lex Cornelia e, poiché la lex Cornelia equiparava il tentativo di omicidio all’omicidio consumato, analogamente non doveva essere perseguibile non solo il suicidio tentato, ma neppure quello portato a compimento2.
Si può affermare con certezza quasi assoluta che neppure le antichissime XII Tavole contenevano disposizioni contrarie al suicidio: diversamente, sarebbe davvero singolare il fatto che i giuristi di età imperiale, nell’affrontare la questione, non abbiano mai fatto riferimento a norme così antiche e venerande.
Un passo del commentario di Servio all’Eneide virgiliana ci consente di valutare con maggior precisione il reale statuto del suicidio nella considerazione morale e giuridica della società romana delle origini.
Cautum fuerat in pontificalibus libris, ut qui laqueo vitam finisset, insepultus abiceretur […]. Cassius autem Hemina ait, Tarquinum Superbum, cum cloacas populum facere coegisset, et ob hanc iniuram multi se suspendio necarent, iussisse corpora eorum cruci affigi. Tunc primum turpe habitum est mortem sibi consciscere. Et Varro ait suspendiosis, quibus iusta fieri ius non sit,
2 A. WACKE, Il suicidio nel diritto romano e nella storia del diritto, in Studi in onore di Cesare Gianfilippo, Milano 1984, p. 694.
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suspensis oscillis, veluti per imitationem mortis parentari3.
Occorre subito sottolineare che l’intero brano si riferisce esclusivamente al suicidio per impiccagione, e le prove addotte per giustificare la tesi estensiva si rivelano prive di fondamento4.
In effetti, nella seconda parte del passo in questione Servio riferisce la notizia dell’annalista Cassio Emina sulla decisione di Tarquinio Prisco di far crocifiggere quanti, tramite il suicidio, avevano voluto sottrarsi alla pesante fatica dei lavori di canalizzazione a Roma. Durkheim cita tale provvedimento di Tarquinio come esempio di repressione statale della morte volontaria. Egli, tra l’altro, integra il racconto di Servio con quello, relativo agli stessi fatti e agli stessi provvedimenti, di Plinio il Vecchio5.
Cum id opus Tarquinius Priscus plebis manibus faceret essetque labor incertum maior an longior, passim conscita nece Quiritibus taedium fugientibus, novum inexcogitatum ante posteaque remedium invenit ille rex ut omnium ita defunctorum corpora figeret cruci spectanda simul civibus et feris volucribusque laceranda. Quam ob rem pudor Romani nominis proprius, qui saepe res
3 SERVIO, ad Aeneidem, I, 292.
4 R. MARRA, Suicidio diritto e anomia, Napoli 1987, pp. 34-35; la prova risulterebbe in un brano di Festo: Carnificis
loco habebatur is qui se vulnerasset ut moreretur; T. MOMMSEN, Romisches Staatsrecht, Lipsia 1887, p. 328, nota 2;
si riscontra tale tesi in: FESTO (epitome P. 49M: curis est Sabine hasta unde Romulus quirimus qui eam ferebat, est
dictus.); OVIDIO, Fasti 2, 475; ed appunto in SERVIO, ad Aeneidem, I, 292. Mommsen interpreta carnificis loco
richiamando il divieto di sepoltura che sarebbe stato prescritto per i carnefici. In realtà la frase può essere spiegata con riferimento alla sola consuetudine effettivamente attestata in materia, in base a cui si proibiva al boia di abitare all’interno delle città. Perciò, chi avesse attentato senza esito alla propria vita, era condannato ad essere isolato dal resto della comunità, e a condividere dunque la medesima condizione dei carnefici.
Segue l’opinione di Mommsen: Y. GRISE, Le suicide, Parigi 1982, p. 142.
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perditas servavit in proeliis, tunc quoque subvenit, sed illo tempore in post vitam erubescens, cum puderet vivos tamquam puditurum esset extinctos.
Ebbene è proprio il racconto di Plinio il Vecchio che ci consente di pronunciarci sul problema in modo definitivo. Anzitutto il provvedimento di Tarquinio non si riferisce ad una consuetudine fissata per legge: esso fu fissato per quella particolare situazione e mai più ripetuto in seguito. Inequivocabile è il significato del sintagma novum
inexcogitatum ante posteaque remedium. In secondo
luogo, dal contesto si deduce chiaramente che la crocifissione non fu tanto una sanzione legislativa contro i suicidi, quanto una punizione a carattere religioso, mirante a suscitare nei superstiti, tramite l’abile evocazione di pratiche religiose e rituali, orrore e vergogna per quanto sarebbe capitato loro in caso di suicidio6. La crocifissione è, da un lato un rifiuto di sepoltura particolarmente crudele e infamante, dall’altro, richiamando e prolungando l’atto di sospensione del suicida, accresce la ripugnanza per l’atto da lui compiuto e diventa imitazione ancora più squallida di quel genere di morte.
In definitiva, dal racconto di Plinio il Vecchio emerge che il provvedimento in questione, benché proveniente dall’autorità regia, puntava intenzionalmente sull’orrore religioso suscitato dall’atto suicidario.
6 E. DURKHEIM, Il suicidio. Studio di sociologia, Parigi 1897, p. 394; diversamente in R. MARRA, Suicidio, cit., pp. 36-37
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Un altro caso riguarda il trattamento di coloro che si erano suicidati mediante impiccagione, un metodo considerato sia a Roma che in Grecia particolarmente ignobile ed infamante. La testimonianza di Nerazio documenta che il divieto del lutto post mortem vigeva in modo assoluto per gli impiccati indipendentemente dalla motivazione scatenante, mentre per le altre categorie di suicidi il divieto sussisteva solo se essi si fossero tolti la vita nella consapevolezza di aver commesso un reato, non se si fossero uccisi per disgusto o tedio della vita7. Coloro che si suicidavano usando la corda erano chiamati
suspendiosi ed equiparati ai nemici dello Stato ed ai
condannati per alto tradimento, tant’è che, secondo Servio, i pontefici negavano loro la sepoltura. L’orrore dei Greci e dei Latini per la fine dell’impiccato derivava dalla convinzione che, a causa del soffocamento e dello stringimento delle vie respiratorie, l’anima non potesse uscire dalla bocca, con la conseguente preclusione dell’approdo nell’al di là. Pertanto, chi optava per questa modalità di suicidio veniva ritenuto morto contro le leggi naturali e il suo cadavere considerato impuro8.
Durkheim, prendendo in esame il commentario di Servio dell’Eneide virgiliana sul suicidio, da cui risulta che la sanzione prevista, ossia il divieto di sepoltura, era di carattere religioso, stabilisce un’assoluta corrispondenza tra il diritto codificato dalle XII tavole e il diritto pontificale e asserisce l’esistenza di una condanna
7 D. 3.2.11.3 (Ulpianus libro 6, ad edictum): Non solent autem lugeri, ut Neratius ait, hostes vel perduellionis damnati
nec suspendiosi nec qui manus sibi intulerunt non taedio vitae, sed mala conscientia.
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unanime del suicidio da parte sia delle autorità civili, sia di quelle religiose9.
Il significato di questi riti espiatori e l’orrore religioso suscitato dalla profanazione della morte, considerata sacra, consente di comprendere meglio anche la reale natura della sanzione religiosa -il diniego di sepoltura- prevista per gli impiccati. Tale tipo di suicidio non suscitava un giudizio di condanna morale, ma, propriamente, un sentimento di avversione e di ripulsa, così che la misura prevista della privazione della sepoltura, non era tanto una sanzione diretta al suicida, quanto piuttosto un accorgimento adottato dai viventi per difendersi dalla contaminazione della morte sacrilega e infamante10. In conclusione, non solo il diritto romano antico non prevedeva alcuna repressione della morte volontaria, ma lo stesso diritto sacerdotale, nel prescrivere per un solo atto di suicidio talune operazioni rituali, adottava in realtà precauzioni di natura magico-religiosa e non vere e proprie misure repressive.
1.2. Eredi e Fisco a confronto. Uccidersi prima della sentenza
9 E. DURKHEIM, Il suicidio, cit., p. 394.
10 R. MARRA, Suicidio, cit., pp. 37-39; PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, XXXVI, par. XXIV. Sul punto si
veda anche A. BAYET, Le suicide et la morale, Parigi 1922, p. 297. L’interpretazione di Bayet, per essere coerente, deve essere integrata con l’argomento della profanazione umana del rito ad opera del suicida e con la restaurazione della sacralità originaria di quella morte per mezzo della cerimonia degli oscilla; diversamente non si comprende come una morte sacra sia potuta divenire una morte infamante, né, per converso, in base a quale principio si è ritenuto che la sospensione delle figure votive potesse purificare l’atto dell’impiccagione da parte dei suicidi.
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Il diritto romano, almeno in età classica e nell’epoca successiva, conosceva la confisca del patrimonio attivo (publicatio o ademptio bonorum) come misura penale conseguente alla condanna per determinati illeciti, che si applicava stabilmente per i condannati alla pena capitale e alla deportazione: infatti tra gli introiti del Fisco ovvero della cassa imperiale, spiccavano proprio i beni dei condannati (bona damnatorum).
Un effetto collaterale della confisca era l’incapacità successoria del condannato a morte; così il testamento diventava inefficace ed era preclusa la successione legittima. Secondo la regola generale, affinché potesse attestarsi la pubblicazione dei beni, era necessario che vi fosse stata la sentenza di condanna. Pertanto, fino alla pronuncia definitiva, l’inquisito conservava la totale disponibilità del patrimonio.
Come si ricava da Tacito, il crimen si estingueva con la morte, anche se volontaria. Da qui la facoltà concessa ad accusati o condannati di suicidarsi prima che il processo avesse il suo epilogo e che si potesse attuare la condanna (ante perfectum iudicium)11: nella fattispecie si tratta del
cosiddetto “libero arbitrio della morte”. Dunque, era molto frequente che l’imputato di crimini perseguibili con la pena capitale o la deportazione optasse per la morte anticipata, prima della sentenza, così da evitare la perdita dei beni e salvaguardare la successione testamentaria12. Tra gli esempi ricordati dagli antichi di un tale modus
11 TACITO, Annales 4,30,2. Particolarmente significativo è un noto passo di Seneca sullo sforzo dei delatori di affrettare la condanna di Cremuzio Cordo onde evitare che la sua morte prima di questa impedisse loro di incassare i beni (SENECA, Consolatio ad Marciam 22,7).
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operandi da parte degli imputati sono celebri: quello
tramandatoci da Valerio Massimo, riguardante Caio Licinio Macro che, accusato di concussione, prima che venisse pronunciata la sentenza, mise al corrente il presidente del tribunale Cicerone che sarebbe morto non da condannato, ma solo da accusato e che i suoi beni non potevano essere messi all’asta13; e quello narrato da Tacito, riguardante i suicidi di Pomponio Labeone e della moglie Passea, sempre al fine di evitare la confisca14. Quest’ultimo episodio, come ha osservato Manfredini, testimonia che il “meccanismo antifiscale” era praticato dagli accusati ancora sotto l’imperatore Tiberio.
Ad un certo punto, presumibilmente in epoca preadrianea, si ebbe il cambiamento, e suicida e Fisco entrarono in rotta di collisione. A tal proposito il giurista Marciano, attivo sotto la dinastia dei Severi, ci ha lasciato un frammento contenuto nel libro 48 del Digesto, fondamentale per la nostra analisi, in merito agli effetti giuridici del suicidio in ambito patrimoniale.
D. 48.21.3 (Marcianus, libro singulari de delatoribus):
Qui rei postulati vel qui in scelere deprehensi metu criminis imminentis mortem sibi consciverunt, heredem non habent. Papinianus tamen libro sexto decimo
13 VALERIO MASSIMO, 9,12,7: Consuli impetu C. Licinius Macer vir praetorius, Calvi pater, repetundarum reus,
dum sententiae diriberentur, maenianum conscendit. Si quidem, cum M. Ciceronem, qui id iudicium cogebat, praetextam ponentem vidisset, misit ad eum qui diceret se non damnatum, sed reum perisse, nec sua bona hastae posse subici, ac protinus sudario, quod forte in manu habebat, ore et faucibus suis coartatis incluso spiritu poenam morte praecucurrit. Qua cognita re Cicero de eo nihil pronuntiavit. Igitur inlustris ingenii orator et ab inopia rei familiaris et a crimine domesticae damnationis inusitato paterni fati genere vindicatus est.
14 TACITO, Annales, 6,29,1: At Romae caede continua Pomponius Labeo, quem praefuisse Moesiae rettuli, per
abruptas venas sanguinem effudit; aemulataque est coniunx Paxaea. Nam promptas eius modi mortes metus carnificis faciebat, et quia damnati publicatis bonis sepultura prohibebantur, eorum qui de se statuebant humabantur corpora, monebant testamenta, pretium festinandi; D.C.A. SHOTTER, The case of Pomponius Labeo, in “Latomus”, 28 (1969),
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digestorum responsorum ita scripsit, ut qui rei criminis non postulati manus sibi intulerint, bona eorum fisco non vindicentur: non enim facti sceleritatem esse obnoxiam, sed conscientiae metum in reo velut confesso teneri placuit; ergo aut postulati esse debent, aut in scelere deprehensi, ut, si se interfecerint, bona eorum confiscentur.
[Coloro che sono stati accusati o colti in flagrante e si suicidano per il timore della pena incombente, non hanno eredi privati. Papiniano scrisse espressamente che i beni del suicida, il quale non era stato ancora accusato, dovevano escludersi dalla confisca. Invero non era il semplice fatto di aver affrettato il loro destino, ma la confessione della colpa, deducibile dalla loro cattiva coscienza, a causare loro pregiudizio.]
Il testo era ritenuto sicuro dai romanisti, in quanto Giustiniano, se avesse deciso di modificarlo, l’avrebbe senz’altro posto in linea con la dottrina cristiana, da cui era profondamente influenzato15.
La parte d’esordio del testo di Marciano ricorda la forma della disposizione di legge, che riprendeva puntuale i requisiti soggettivi ed esprimeva elegantemente la sanzione in termini di incapacità successoria, non di confisca. Essa poteva echeggiare la norma di base che introdusse il cambiamento16.
15 A. WACKE, Il suicidio nel diritto romano, cit., pp. 696-698; A. MANFREDINI, Il Suicidio, cit., pp. 44- 59.
16 La maggior parte degli studiosi vi riconosce un intervento imperiale, ma Jobbe-Duval un senatoconsulto. E. JOBBE-DUVAL, Les morts malfaisants, (Larvae, Lémures) d’après le droit et les croyances populaires des Romains, Parigi 1924, p.79; A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., p. 53;
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Quanto invece al contenuto, la fattispecie, dal punto di vista soggettivo, era circoscritta a coloro che erano stati
postulati, ossia - nel linguaggio tecnico del processo
penale - che erano stati formalmente accusati di un crimine, e a coloro che erano stati colti in flagranza di reato17. Tali soggetti perdevano la capacità successoria, se si erano tolti la vita per timore del sovrastante crimine. Nella seconda parte, invece, Marciano introduce il celebre contemporaneo Papiniano, al fine di fargli esplicitare, a scanso di equivoci, quel che sarebbe implicito nell’esordio: “comunque, se si toglie la vita chi non è accusato, i beni non saranno confiscati”18, il che equivale a dire “stiano sicuri gli aspiranti suicidi che, se non sono sotto processo, nessuno può aggredire i loro beni”. Dunque, secondo Manfredini, il “fatto scellerato” non era il suicidio, bensì il crimine di cui il reo era accusato e la frase vorrebbe dire che “non è punito il crimine commesso – essendosi esso estinto con la morte - ma il timore di coscienza”19.
Appurato che la scelleratezza non esprimeva un giudizio di valore sul suicidio, l’attenzione si sposta su un altro aspetto: l’illecito che portava alla confisca non coincideva con il suicidio, e non si trattava nemmeno del crimine di cui il reo era accusato, in quanto estinto con il decesso. Piuttosto era il metus conscientiae, ovvero il timore di
17 Sull’identificazione dei termini postulare e deferre nel quadro dei solemnia accusationis di età classica M. BIANCHINI, Le formalità costitutive del rapporto processuale nel sistema accusatorio romano, Milano 1964, pp. 70 ss.; G. ZANON, Le strutture accusatorie della cognitio extra ordinem nel principato, Padova 1998, pp. 24 ss.; S. PIETRINI, Sull’iniziativa del processo criminale romano: IV-V secolo, Milano 1996.
18 A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., pp. 54-55; così anche A. WACKE, Der Selbstmord im romischen Recht und in
der Rechtswicklung, Berlino 1984, p. 56.
19 A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., p. 57; A. BURDESE, Diritto romano e romanisti, in “Labeo” (1973), p. 95, ove si citano Marciano e Ulpiano e si parla di “antecedente fatto criminoso”.
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coscienza, il rimorso, e chi si uccideva sotto processo, o colto in flagranza di reato commetteva, dunque, l’illecito di “coscienza sporca”, punito con la confisca20.
In tal caso, era come se il suicida, compiendo l’atto estremo, confessasse il precedente reato, considerando che nel diritto romano il reo confessava non solo con le parole ma anche con i fatti.
In sintesi la confisca del patrimonio richiedeva l’esistenza di quattro presupposti:
1. L’incriminazione per un reato che normalmente comportava la confisca dei beni;
2. L’essere stati colti sul fatto o accusati già in precedenza; 3. La conscientia admissi criminis, ossia la coscienza nel
colpevole o nell’accusato, al momento del suicidio, di aver commesso il crimine;
4. In relazione a quest’ultimo punto doveva essere provato il reato commesso. Solo in caso di suicidio ob conscientiam
sceleris, si aveva una confessione presunta. Qualora
invece un altro motivo di suicidio non fosse stato accertabile, si presumeva che l’accusato si fosse ucciso per paura della pena.
Si era così di fronte ad una vera e propria confessione con forza di giudicato, come se ci fosse stata veramente la sentenza di condanna, e quest’ultima, come si è già detto, rappresentava il presupposto per la publicatio bonorum.
12 1.3. Il processo fiscale
Il suicidio dell’accusato promuoveva l’azione di rivendica da parte del Fisco, che si innescava su impulso del delatore, il quale annunciava presso il giudice fiscale che qualcuno si era ucciso metu conscientiae. Il suicida era considerato reo confesso con presunzione assoluta, perciò l’azione del Fisco sfociava immediatamente in una
bonorum distractio, autorizzata dal procuratore imperiale.
Questa situazione perdurò fino a che non venne introdotta una distinzione nelle cause suicidarie e agli eredi fu concessa la facoltà di fornire la prova che il defunto si era tolto la vita per motivo differente dalla paura della coscienza21.
1.4. L’emersione delle giuste cause di suicidio (iustae
causae)
Alla causa suicidaria dell’accusato in attesa di giudizio, Marciano fa un primo accenno all’inizio, quando, nel delineare l’ambito soggettivo della fattispecie, parla di coloro che, sotto giudizio, si sono dati la morte metu criminis imminentis e, poco dopo
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rammenta: piacque che il metus conscientiae fosse sanzionato nel reo come confesso. Chi si fosse tolto la vita mentre su di lui pendeva un’accusa, era considerato reo confesso, cioè colpevole di essersi ucciso per avere effettivamente commesso il reato ascrittogli.
Ebbene, con il primo cambiamento, ai fini della
publicatio bonorum, si rileva una sola causa, la quale,
considerata in via di presunzione come scatenante il gesto suicida, finiva per costituire il titolo di reato da perseguirsi con la confisca.
Invece, l’analisi del frammento di Marciano evidenzia cause suicidarie che giustificavano l’atto estremo e permettevano la salvaguardia dei beni.
Come riferito in proposito da Ulpiano, nel periodo tra il I e il II secolo d. C. Nerazio Prisco affronta il caso delle donne che si fossero risposate senza rispettare il tempus
lugendi (periodo legale di lutto) e afferma che non era
essenziale l’osservanza di tale periodo nei confronti dei nemici, dei condannati di perduellio, dei suspendiosi e di chi si fosse suicidato per mala conscientia; viceversa, il
legitimum tempus doveva essere rispettato, pena
l’infamia, dalle vedove di chi si fosse ucciso taedio
vitae22.
Come è attestato anche dalla Cancelleria dell’Imperatore Adriano, questa fu la prima volta che venne introdotta una simile distinzione. Da quel momento la sorte della successione dell’accusato suicida e dei suoi beni risultò
22ULPIANO, D. 3,2,11,3: Non solent autem lugeri, ut Neratius ait, hostes vel perduellionis damnati nec suspendiosi nec
qui manus sibi intulerunt non taedio vitae, sed mala conscientia: si quis post huiusmodi exitum mariti nupium se collocaverit, infamia notabitur.
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sempre legata all’indagine sulle ragioni per cui si era ucciso, ponendo l’onere della prova a carico degli eredi. Se questi ultimi avessero dimostrato che il suicidio era dipeso da giusta causa, non vi sarebbe stato alcun incameramento da parte del Fisco e il patrimonio del de
cuius sarebbe rimasto intatto. È un momento
fondamentale, in quanto, per la prima volta, le cause suicidarie vennero prese in considerazione dalla legge e acquistarono rilevanza giuridica23.
Circolavano almeno sette iustae causae di suicidio: il tedio della vita, il desiderio di sottrarsi alla malattia e alla sofferenza, il rimpianto provocato dalla morte di un figlio, l’onta di non potere pagare i debiti, la iattanza, l’eccesso di follia, l’idiozia. Oltre a queste vi erano anche altre cause inespresse, a testimonianza della diffusa affermazione che sanciva salva la successione, qualora il suicidio fosse avvenuto taedio vitae et aliquo casu24, vel
alio modo25. L’unica causa iniusta che si registrava era la
mala conscientia, ovvero il timore del crimine
sovrastante26.
Due passi di Marciano distinguono fra i possibili motivi del suicidio27:
1. Si quis autem taedio vitae vel inpatientia doloris alicuius vel alio modo vitam finierit, successorem habere divus Antoninus rescripsit.
23 A. PETRUCCI, Noterelle sul diritto di scelta di morire nell’esperienza giuridica romana, in Pluralismo delle fonti e
metamorfosi del diritto soggettivo nella storia della cultura giuridica, Torino 2016, p. 118; A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., pp. 74-75.
24 C. 9,50,1,1. 25 D. 48,21,3,4.
26 A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., p. 75; A. WACKE, Der Selbstmord, cit., p. 59. 27 A. WACKE, Il suicidio nel diritto romano, cit., p. 699.
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2. Videri autem et patrem, qui sibi manus intulisset, quod diceretur filium suum occidisse, magis dolore filii amissi mortem sibi irrogasse et ideo bona eius non esse publicanda divus Hadrianus rescripsit.
Se un accusato si fosse ucciso per taedium vitae o per un dolore insopportabile o per altre ragioni ammissibili, secondo quanto stabilito da Antonino Caracalla, i suoi beni non erano soggetti a confisca. Un rescritto di Adriano, ricordato nel secondo passo, paragona il dolore fisico insopportabile al dolore morale derivante dalla perdita di un parente prossimo. A tale proposito, viene citato il caso di un padre che si era dato la morte, perché correva voce che avesse ucciso il proprio figlio. Sebbene la cosa fosse poco verosimile, Adriano ritenne la colpevolezza del padre non provata e si pronunciò a suo favore, preferendo accogliere la versione secondo la quale egli si era tolto la vita per il dolore causato dalla perdita del figlio.
Questa decisione è rilevante sotto due profili. In primo luogo, il tenore della giustificazione presuppone che l’uccisione del proprio figlio, di contro al ius vitae
necisque della tradizione antica, fosse considerata in
quell’epoca un delitto capitale, il che avrebbe portato alla pubblicazione del patrimonio. In secondo luogo, nella valutazione dei due motivi concorrenti al suicidio - la
conscientia doloris, che conduceva alla confisca, ed il
dolore per la morte di un parente, che era privo di conseguenze legali - Adriano considerò prevalente il secondo, applicando il principio in dubio pro reo. La
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statuizione, pertanto, segnala la notevole tendenza umanitaria presente nella politica legislativa adrianea28. Il quadro della disciplina dell’istituto suicidario sotto Adriano si completa con l’analisi di un altro frammento del Digesto, riportato dal giurista Marciano:
D. 48,21,3,6: Sic autem hoc distinguitur, interesse qua ex
causa quis sibi mortem conscivit: sicuti cum quaeritur, an is, qui sibi manus intulit et non perpetravit, debeat puniri, quasi de se sententiam tulit. Nam omnimodo puniendus est, nisi taedio vitae vel inpatientia alicuius doloris coactus est hoc facere. Et merito, si sine causa sibi manus intulit, puniendus est: qui enim sibi non pepercit, multo minus alii parcet29.
[Orbene, questo si distingue, cioè per quale causa qualcuno si è tolta la vita e alla stessa maniera si deve distinguere quando ci si chiede se uno, che abbia rivolto la mano contro di sé ma senza compimento, debba essere punito come sentenziato da sé medesimo. Assolutamente deve essere punito, qualora non avesse fatto ciò per tedio della vita o spinto dall’insopportazione di qualche dolore. E meritatamente deve essere punito se ha rivolto la mano contro sé stesso senza causa: chi infatti non ha risparmiato sé stesso, molto meno risparmierà un altro.] Se si considera questo testo di Marciano come genuino e non alterato, la possibile interpretazione è che, come si applicava la distinzione delle cause se il suicidio veniva compiuto, così la si doveva applicare se il suicidio restava
28 A. WACKE, Il suicidio nel diritto romano, cit., pp. 699- 700. 29 D. 48, 21, 3, 6.
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incompiuto. Prendendo in considerazione il verbo punire, si nota che esso figura solo in questo paragrafo (puniri e
puniendus est, ripetuto). La pregnanza del termine ha
suggerito che il caso del tentativo fosse stato pensato come di stretta competenza del giudice penale, presso il quale era in corso di istruzione il processo, senza la presenza di delatori o procuratori fiscali. Il fervore punitivo di Marciano tace circa la sanzione, che taluni studiosi d’oggi identificano nella confisca30. A questo proposito Manfredini va oltre, notando che il verbo puniri viene usato in riferimento solo al corpo vivo e non al corpo morto, perché probabilmente era sottesa una pena corporale ed afflittiva. Secondo Manfredini, dunque, le pene della morte e della deportazione per il tentativo di suicidio erano conseguenza della stessa costruzione giuridica del tentativo, che pertanto doveva essere inquadrato allo stesso modo del suicidio consumato. Per questo, nel testo in discussione, Marciano esordisce proprio riepilogando la necessità di distinguere la causa del suicidio ai fini della sanzione. Sia che si parli di suicidio tentato che di suicidio consumato, si deve presuntivamente valutare il gesto come ammissione di colpevolezza31. In conclusione, da un punto di vista strettamente giuridico, veniva punito non il tentativo di suicidio in sé, ma il delitto oggetto dell’accusa e “confessato” mediante il tentativo32.
30 A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., p. 92; per indirizzi meno recenti e la loro critica si veda G. DE NOTTER, Del
tentato suicidio presso i Romani, Firenze 1886, pp. 22 ss.
31A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., pp. 90- 95.
32A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., p. 94; cfr. A. WACKE, Der Selbstmord im romischen Recht und in der
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1.5. Il suicidio e il tentativo di suicidio dei soldati
I militari fino ad un certo periodo subivano un trattamento speciale.33 Infatti, in caso di suicidio e di tentativo di suicidio, l’estremo atto, ampiamente tollerato tra i civili, veniva duramente represso tra i soldati, laddove con esso si tentava di sfuggire alle specifiche obbligazioni. Tale rigore sanzionatorio rispondeva ad una
ratio speciale: prima di tutto si considerava la violazione
della fede data con il giuramento34; in secondo luogo il suicidio militare, visto come una forma di diserzione, equivaleva al reato ed era dunque incompatibile con i doveri del milite. Pertanto per costui il suicidio si equiparava al furto ai danni di Roma o era comunque un danno per la res publica, che aveva investito sul militare35.
Tuttavia, il giurista Ulpiano, citando le disposizioni dell’imperatore Adriano, afferma che la distinzione delle cause suicidarie, almeno nel 119 d.C., vigeva anche per i militari. Dunque, se il soldato aveva scelto di morire, perché aveva sulla coscienza un crimine militare, il testamento era invalido. Se invece si era tolto la vita per una delle cause considerate ammissibili, l’atto di ultima
33A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., pp. 129 ss.; J. VENDRAND-VOYER, Normes civiques et métier militaire à Rome
sous le principat, Clermond-Ferrand 1983, pp. 218 ss.
34 A. MANFREDINI, Il suicidio, p. 130; M. CARCANI, Dei reati delle pene e dei giudizi militari presso i Romani,
Milano 1874, p. 92, limitatamente al tentativo. Sulla diserzione e il tradimento M.V. SPERANDIO, Dolus pro facto, Milano 1998, p. 66.
35 M.R. DE PASCALE, Sul suicidio del “miles”, in “Labeo” 31 (1985), p. 60; Y. GRISE, Le suicide, cit., p. 271; Grisé riprende G. GARRISON, Le suicide dans l’antiquité et dans les temps modernes, Lione 1885, p. 61;
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volontà era valido36. Quindi, anche il testamentum militis, al pari di quello del civile, era valido se il soldato, incriminato per un delictum militare, si era tolto la vita per un motivo giustificabile, ed in assenza di testamento avrebbe avuto luogo la successione legittima.
È evidente che Adriano intese stabilire la medesima disciplina tra civili e militari, ed è per questo che viene comunemente definito come “Il Principe più rivoluzionario e filantropo dell’era classica”37.
Nel frammento 49 del Digesto, denominato de re militari, Adriano stabilì che chiunque fra i militari si fosse ferito o avesse tentato il suicidio per le così dette cause giuste (per es. il tedio della vita), non doveva essere giustiziato, bensì congedato con ignominia, mentre, in mancanza di causa di giustificazione, doveva essere punito con la pena di morte. Infine per quelli che tentavano nel suicidio per ebbrezza o lascivia era previsto il cambiamento di reparto38.
36 D. 28,3,6,7 (ULPIANO 10 ad Sabinum): … quam distinctionem in militis quoque testamento divus Hadrianus dedit
epistula ad Pomponium Falconem, ut, si quidem ob conscientiam delicti militaris mori maluit, irritum sit eius testamentum: quod si taedio vitae vel dolore, valere testamentum aut, si intestato decessit, cognatis aut, si non sint, legioni ista sint vindicanda.
37 A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., p. 133; E. VOLTERRA, Sulla confisca dei beni dei suicidi, in Scritti giuridici, II volume, Roma 1975, p. 190.
38 D. 49,16,6,7 (Arrio Menandro 3 de re militari): qui se vulneravit vel alias mortem sibi conscivit, imperator
Hadrianus rescripsit, ut modus eius rei statutus sit, ut, si inpatientia doloris aut taedio vitae aut morbo aut furore aut pudore mori maluit, non animadvertatur in eum, sed ignominia mittatur, si nihil tale praetendat, capite puniatur. Per vinum aut lasciviam lapsis capitalis poena remittenda est et militiae mutatio irroganda.
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1.6. Tesi di Durkheim circa la repressione penale del suicidio a Roma e relativa critica
Durkheim riporta solo un paragrafo dal Digesto: l’unico che possa confortare la sua tesi sull’esistenza di una repressione del suicidio a Roma. Si tratta di un altro testo di Marciano: Sic autem hoc distinguitur, interesse qua ex
causa quis sibi mortem conscivit: sicuti cum quaeritur, an is, qui sibi manus intulit et non perpetravit, debeat puniri, quasi de se sententiam tulit. Nam omnimodo puniendus est, nisi taedio vitae vel inpatientia alicuius doloris coactus est hoc facere. Et merito, si sine causa sibi manus intulit, puniendus est: qui enim sibi non pepercit, multo minus alii parcet39.
In questo paragrafo si considera la punizione del tentativo di suicidio, a meno che il gesto non sia stato provocato dal taedium vitae ovvero dall’inpatientia doloris. Si tratta di una previsione del tutto contraria alla tesi dell’impunità del suicidio.
Il brano in questione è manifestamente interpolato. Volterra fornisce le prove degli interventi dei giuristi giustinianei:
1. Non è possibile che Marciano, dopo aver esposto i limiti rigorosi della confisca dei beni dei suicidi, abbia
39 D. 48, 21, 3, 6. A tal proposito Durkheim commenta: “La coscienza pubblica pur biasimandolo in linea generale, si riserbi il diritto di consentirlo in taluni casi. Principio questo assai prossimo a quello che sta alla base dell’istituto di cui parla Quintiliano; ed è tanto fondamentale nella legislazione romana del suicidio che si mantenne fino all’epoca degli imperatori”. E. DURKHEIM, Il suicidio, cit., p. 395; diversamente R. MARRA, Suicidio, cit., p. 63.
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affermato contraddittoriamente la punibilità del tentato suicidio sine causa;
2. La stessa espressione sine causa è priva di senso: solo un folle può togliersi la vita sine causa;
3. Le giustificazioni addotte dalla norma non si accordano
tra di loro: l’affermazione finale et merito… puniendus
est è in palese contrasto con la frase precedente non omnimodo puniendus est, nisi…
4. Infine, molti elementi formali rivelano chiaramente nel testo rimaneggiamenti e adattamenti successivi.
È giusto rammentare che a Roma non si puniva il suicidio compiuto, bensì solo il tentativo di suicidio, in conformità alle esigenze di prevenzione e difesa sociale che si ritrovano poste a fondamento del sistema: “chi non risparmia sé stesso, tanto meno risparmierà gli altri” 40. Durkheim, analizzando il suicidio, da un lato come fenomeno sociale e dall’altro come possibile oggetto di una sanzione normativa, vede una completa corrispondenza tra morale e diritto. Per lo studioso una teoria morale ha lo stesso valore di un insieme irrazionale di timori e superstizioni rituali; egli insiste, dunque, sulla necessità di una regolamentazione istituzionale del fenomeno, quasi che fosse richiesta a gran voce dalle intimorite masse popolari. Appurando che la legge sanzionava il suicidio metu poenae con la confisca dei beni, erroneamente generalizza e attribuisce la condanna morale e la sanzione giuridica ad ogni tipo di morte volontaria. Pur mostrando di riconoscere l’importanza
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della ricerca dei motivi del suicidio41, nella pratica Durkheim si dimostra incapace di capire i numerosi riferimenti al taedium vitae e all’inpatientia doloris, intesi unanimemente nel diritto romano come cause giustificative della morte volontaria42.
1.7. Episodi di suicidio a causa delle sofferenze di una malattia e del tedio della vita
Alcune vicende ipotetiche o reali riferite da autori vissuti tra il I secolo a.C. e gli inizi del II secolo d.C. evidenziano, all’interno della società romana, da un lato la condanna della ricerca della morte per leggerezza e per il piacere di morire, dall’altro l’elogio del gesto di uccidersi, ogni volta che non sia possibile conservare altrimenti la propria dignità e libertà43.
In un passo delle Tusculanae Disputationes Cicerone prende in considerazione per ipotesi il caso di un uomo cieco, sordo e martoriato da ogni sorta di dolori, e si domanda perché egli dovrebbe continuare a sopportare una condizione di vita tanto atroce, quando la morte rappresenterebbe “un porto sicuro” per sottrarsi alle sofferenze. In questo passo del celebre oratore di Arpino
41 E. DURKHEIM, Il suicidio, cit., p. 395: “Non v’è dubbio […] che a Roma la presa in considerazione dei motivi ispiratori del suicidio abbia avuto in ogni tempo una funzione preponderante nella valutazione morale e giuridica che se ne faceva”.
42 E. DURKHEIM, Il suicidio, cit., p. 395; diversamente R. MARRA, Suicidio, cit., pp. 65- 67
43 A. PETRUCCI, Noterelle sul diritto di scelta di morire, cit., p. 106; M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Roma-Bari 2010, pp. 294-297; vedi anche SENECA, Epistola 70: “Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo”.
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traspare la legittimazione o la tolleranza del suicidio come soluzione finale per chi fosse tormentato quotidianamente da dolori fisici insopportabili:
Congerantur in unum omnia, ut idem oculis et auribus captus sit, prematur etiam doloribus acerrumis corporis. Qui primum per se ipsi plerumque conficiunt hominem; sin forte longinquitate producti vehementius tamen torquent, quam ut causa sit cur ferantur, quid est tandem, di boni, quod laboremus? Portus enim praesto est, quoniam mors ibidem est, aeternum nihil sentiendi receptaculum44.
Sulla medesima linea di Cicerone si pone Seneca il filosofo, che in alcune delle sue Epistulae ad Lucilium elogia chi, afflitto da gravi morbi, decide di perire. Emblematica la vicenda di Tullio Marcellino, il quale, affetto da una malattia non inguaribile ma lunga e bisognosa di molte cure, pensa al suicidio e convoca gli amici più stretti per conoscere il loro parere. Un amico stoico, definito da Seneca homo egregius, lo convince all’atto estremo, adducendo la motivazione che una vita in quelle condizioni non era gran cosa a paragone di una morte onorevole. Marcellino, confermata la sua decisione, messi a riparo gli schiavi dall’applicazione del
Senatus Consultum Silanianum, si lascia morire di
inedia45.
44 CICERONE, Disputationes, 5. 40. 117.
45 SENECA, Epistola ad Lucilium, 77, 5-9; Sul Senato Consulto Sillaniano si veda A. PETRUCCI, Noterelle sul diritto
di scelta di morire, cit., p. 108. In forza di tale disposizione erano torturati e messi a morte gli schiavi allorché il
padrone fosse stato rinvenuto morto in casa, senza che si potesse determinare la causa della morte e senza che essi si fossero adoperati per evitarla. Per questo, finché non erano chiarite tali questioni, il testamento del de cuius non veniva letto, così da scongiurare eventuali manomissioni dei colpevoli. Non vi era invece nessun problema in caso di suicidio del padrone per noia della vita o insofferenza del dolore, come puntualizza Ulpiano, 50 ad ed. in D.29.5.1.23: Si quis
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In un’altra lettera a Lucilio, nel parlare della “bella vecchiaia” vissuta da Platone, afferma che è piacevole stare quanto più a lungo possibile in compagnia di sé stessi, quando uno abbia saputo rendersi tale da offrire a sé una compagnia gradita; auspica invece il suicidio nel caso in cui il corpo, trasformatosi in un “edificio putrido e decadente” sia divenuto inabile alle sue normali funzioni. Il corpo malato e mal funzionante conduce a sofferenza anche l’anima e allora è meglio morire subito che vivere male per guadagnare un po’ di tempo inutile46. Seneca, dunque, considerando che soltanto pochi fortunati riescono a godere di una vecchiaia sine iniuria, sancisce il diritto inalienabile dell’uomo, in grave e non risolvibile sofferenza, di togliersi la vita; ritiene però deprecabile affrettare forzatamente la morte in caso di malattia guaribile e non tale da offuscare l’animo47.
Un ultimo esempio può essere quello narrato da Plinio il Giovane, riguardante la morte dell’amico Cornelio Rufo, il quale, ormai stanco dei patimenti inflittigli dalla podagra, tollerata con pazienza per tutta la giovinezza, si lascia perire di inedia ignorando le cure e i consigli del medico48.
non metu criminis imminentis, sed taedio vitae vel inpatientia doloris sibi manus intulit, eius testamentum aperiri et recitari mortis casus non impedit.
46 SENECA, Epistola ad Lucilium, 6.58.34-36: At si inutile ministeriis corpus est, quidni oporteat educere animum
laborantem? Et fortasse Paulo ante quam debet faciendum est, ne cum fieri debebit facere non possis; et cum maius periculum sit male vivendi quam cito moriendi, stultus est qui non exigua temporis mercede magnae rei aleam redimit. Paucos longissima senectus ad mortem sine iniuria pertulit, multis iners vita sine usu sui iacuit: quanto deinde crudelius iudicas aliquid ex vita perdidisse quam ius finiendae?
47 … non relinquam senectutem, si me totum mihi reservabit, totum autem ab illa parte meliore; at si coeperit concutere
mentem, si partes eius convellere, si mihi non vitam reliquerit sed animam, prosiliam ex aedificio putri ac ruenti.
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1.8. Libera facoltà di morte e la posizione di Mommsen con relative critiche
Fin dai tempi della Repubblica il diritto romano dava una sorta di incentivo al suicidio di colui che si trovava sotto processo, garantendo che con la morte volontaria costui sarebbe sfuggito ad ogni condanna e ai suoi effetti (si trattava di una sorta di suicidio preventivo). Secondo Ulpiano la “libera facoltà di morte” era appunto la possibilità per un condannato alla pena capitale di scegliere come morire, sostituendo con il suicidio l’esecuzione49.
Theodor Mommsen delinea il profilo giuridico della pena capitale: “Accade talvolta in epoca repubblicana che la sentenza lasci al condannato la facoltà di scegliere il modo di esecuzione capitale che gli deve essere applicato. Questo addolcimento della pena (strafmilderung) è frequente sotto il Principato, ma allora non può essere accordato dall’organo giudicante, bensì solo dall’imperatore”.50 La libera facoltà di morire viene così intesa come modalità di esecuzione della pena, e la possibilità di mitigare l’esecuzione del suicidio dipende dalla discrezionalità dei giudici sotto la Repubblica e passa successivamente in età imperiale sotto la competenza esclusiva del princeps.
49 SENECA, Epistola 70, 19: …cumque e commodo mori non licuisset nec ad arbitrium suum instrumenta mortis
eligere…; M. BATTAGLINI, Libertà e determinazione nel suicidio, in “Roma antica”, Roma 1919, p. 145.
26 Critiche
Per l’età preclassica la “costruzione” di Mommsen non regge al confronto dei testi e pecca di eccessivo dogmatismo. Ecco alcuni esempi ove, stando alla teoria di Mommsen, dovremmo trovare il prerequisito della condanna e la concessione del suicidio da parte dell’organo giudicante51:
1. Livio racconta che nel 450 a.C., al tempo della rivolta della plebe contro i decemviri, Spurio Oppio, imprigionato, si tolse la vita prima del giorno della sentenza e i suoi beni furono confiscati52. Appio Claudio, ugualmente condotto in prigione, certo ormai della condanna, si suicidò prima che avesse luogo il processo53. Anche a lui vennero pubblicati i beni54.
2. Intorno al 440 a.C., al tempo della guerra contro i Volsci, il tribuno militare Marco Postumio, uomo dalla mente distorta, avendo distribuito alla cieca dure e ignominiose condanne, venne lapidato dall’esercito stanco di subire le sue angherie e prepotenze55. I consoli, fatta un’inchiesta, disposero la condanna solo per alcuni militi, i quali si tolsero la vita prima dell’esecuzione56. 3. Nel 249 a.C. Lucio Giunio, avendo perso la flotta per aver attaccato battaglia a dispetto degli auspici
51 Theodor Mommsen cita per questo periodo unicamente APPIANO, Bellum Civile, I, 3, 26. Molti di più sono i casi
citati da Y. GRISE, Le suicide dans la Rome antique, cit., pp. 34 ss., tra i quali spicca quello del 493 di C. Marcius
Coriolanus per patriottismo (CICERONE, Brutus, 42).
52 LIVIO, Ab Urbe condita, III, 58, 9. 53 LIVIO, Ab Urbe condita, III, 58, 6. 54 LIVIO, Ab Urbe condita, III, 58. 9. 55 LIVIO, Ab Urbe condita, IV, 49-50. 56 LIVIO, Ab Urbe condita, 51, 3.
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sfavorevoli, prevenne l’ignominia della condanna con la morte volontaria57.
In realtà, i casi appena esaminati sono esempi di suicidio compiuto per prevenire la sentenza di condanna, non per addolcire l’esecuzione della pena. In rapporto all’età preclassica, pertanto la tesi di Mommsen non sembra sufficientemente fondata. Viceversa il suo ragionamento risulta senz’altro corretto in rapporto all’età classica e numerosi sono i punti d’appoggio offerti in proposito dalla tradizione letteraria. In particolare riescono illuminanti due passi di Svetonio, tolti rispettivamente dalla Vita di Lucano e da quella di Domiziano. Nel primo passo ci viene detto che il giovane poeta, coinvolto nella congiura dei Pisoni, ottenuto il libero arbitrio della morte, scrive al padre, mangia in abbondanza, quindi offre le vene al medico58. Nel secondo passo ci viene detto che Domiziano concede la libera scelta della morte ad alcune sacerdotesse vestali che hanno violato l’obbligo della castità59.
A titolo di ricapitolazione, pur nel persistere di numerose zone d’ombra, si può affermare che in età preclassica non c’è traccia del suicidio “premiale” o “sostitutivo”, concesso dopo la condanna come addolcimento della pena, e che non esiste, pertanto, la libera facoltà di morte del condannato, intesa quale potere di scegliere come perire. In età classica, nel periodo fra Tiberio e Adriano, si delinea, invece, il suicidio come sostitutivo della pena,
57 VALERIO MASSIMO, Facta et dicta memorabilia, I, 4, 4.
58 SVETONIO, Vita Lucani, 21.
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quello che le fonti chiamano “libera facoltà di morte”, da considerarsi non come diritto del condannato, ma come benevola ed arbitraria concessione del Principe, quasi un favore elargito alle élites dimezzate dalle accuse di lesa maestà60.
1.9. L’eutanasia nella cultura greco-romana
L’eutanasia in Grecia
“Mi varrò del regime per aiutare i malati secondo le mie forze e il mio giudizio, ma mi asterrò dal recar danno e ingiustizia. Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiesto, né mai proporrò un tale consiglio: ugualmente non darò alle donne pessari per provocare l’aborto. Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte.”61
Il passo, noto come giuramento di Ippocrate, resta oggi uno snodo inevitabile per qualsiasi riflessione in tema di eutanasia. Esso, peraltro, è suscettibile di due diverse interpretazioni. Secondo alcuni, il giuramento rappresenterebbe un divieto al medico di fornire veleno, chiunque si fosse presentato a richiederlo, al fine di dissipare qualsiasi dubbio circa la sua partecipazione ad
60 A. MANFREDINI, Il suicidio, cit., p. 219.
61 Testo senza età, prodotto forse in circoli pitagorici da ignoti medici/filosofi riconducibili alla scuola di Ippocrate. In M. CAVINA, Andarsene al momento giusto, Bologna 2015, p. 13.
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un eventuale omicidio e di tutelare l’immagine della categoria dal luogo comune del medico quale assassino impunito62.
Un’altra diffusa ipotesi vuole invece che il committente del farmaco sia unicamente il paziente del medico, nel qual caso il divieto fatto al medico di procurare veleno andrebbe interpretato come presa di posizione contro l’eutanasia attiva63.
Platone, come si evince da La Repubblica, benché contrario al suicidio, era favorevole ad esso nel caso di malati incurabili, a cui egli sosteneva che, a prescindere dal loro volere, si dovessero sospendere le cure: eutanasia passiva, giustificata dal pubblico interesse, ossia dal bene superiore della polis. D’altra parte Asclepio, l’inventore della medicina, rivelò tale scienza solo per le persone di
sana costituzione e con un sano regime di vita, soggette a malattie ben precise; pensò invece che non valesse la pena di curare chi non riuscisse a vivere per il tempo a lui stabilito, perché la sua sopravvivenza sarebbe stata inutile a lui stesso e alla città64.
L’eutanasia nel modello romano
La problematica dell’eutanasia assunse connotati peculiari nel contesto di una società e di una cultura
62 M. CAVINA, Andarsene al momento giusto, cit., p. 14; F. KUDLEIN, Medical and popular ethics in Greece and
Rome, London 1970, p. 118; D.W. AMUNDSEN, The Liability of the Physician in Classical Greek Legal Theory and Practice, London 1977, pp. 173- 183; P.J. HARMS, Physician-Assisted suicide in antiquity, London 2008, pp. 30- 33.
63 M. CAVINA, Andarsene al momento giusto, cit., p. 15; D.W. AMUNDSEN, Medicine, society, and faith in the
ancient and medieval worlds, Baltimora 1996, p.20.
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molto aperte verso la morte suicidaria. L’Epistolario di Plinio il Giovane è ricco di esempi di suicidio per fronteggiare le sofferenze di una grave malattia. Celebre, in particolare, è la vicenda di Arria, moglie del console Cecina Peto, la quale, per dare al marito, malato incurabile, il coraggio di uccidersi, si trafigge il petto e gli porge il pugnale insanguinato, pronunciando una frase
immortale e per così dire divina: Peto, non fa male65. La razionale eutanasia romana prevedeva spesso la presenza più o meno attiva di un medico. L’archetipo è costituito dal suicidio del giurista Tizio Aristone, che, prima di togliersi la vita, chiese agli amici di consultare i medici affinché confermassero l’infausta diagnosi d’incurabilità della malattia. Il caso è interessante anche perché fa luce sulle modalità d’intervento del medico, il quale è chiamato ad offrire assistenza ad un suicidio ragionato e non ad un suicidio compiuto per impulso e impazienza66.
In realtà nel diritto romano il medico era penalmente responsabile per la fornitura di veleno o di farmaco nocivo al paziente potenziale suicida, come ci testimonia
65 PLINIO IL GIOVANE, Epistulae, III, 16, 3-5.
66 PLINIO IL GIOVANE, Epistulae, I, 22, 8-10: Perturbat me longa et pertinax valetudo Titi Aristonis, quem
singulariter et miror et diligo. Nihil est enim illo gravior sanctior doctior. Quam peritus ille et privati iuris et publici, quantum rerum, quantum exemplorum novit. Nihil est quod discere velis quo dille docere non possit; mihi certe quotiens aliquid novique scire cupio, ille thesaurus est. Itaque et mea et omnium amicorum permagni interest, ut ille convalescat. Mirareris, si hic esses quanta constantia hanc valetudinem teleret, ut doloris patiens sit, ut compos sui. Vir enim tantae fortitudinis est, ut nullo cruciatu frangatur. Itaque, etsi scio sapiens esse doloreti ferre, hanc animi magnitudine vehementer admiros.
[Tizio Aristone credeva infatti che le preghiere della moglie, che le lacrime della figlia e che anche noi suoi amici avessimo diritto che egli non deludesse con una morte volontaria le nostre speranze, purché esse non fossero vane. Io credo che questo comportamento sia davvero molto difficile e che meriti un plauso speciale. Infatti il precipitarsi alla morte con uno slancio più o meno incosciente è una cosa comune a molti; invece il riflettere maturamente ed il soppesarne i motivi e, poi, in base al responso della ragione, prendere o scartare la decisione di vivere o di morire, è atteggiamento proprio di un grande spirito].
31
la lex Pompeia de parricidiis o la già citata lex Cornelia
de sicariis et veneficiis del I secolo a.C.67. A dispetto del diritto positivo, la questione della responsabilità del medico era un problema generale e diffuso, visto che addirittura i supremi legislatori potevano trovarsi ad aver bisogno di aiuto per morire. Paradigmatico è il caso dell’imperatore Adriano, che negli ultimi giorni della sua esistenza, in preda a dolori insopportabili, desiderò affrettare la morte, ma non trovò nessuno che avesse il coraggio di assisterlo, anzi, quando chiese un veleno al suo medico, questi, per non assecondare la richiesta, si uccise68.
Un altro celebre episodio, legato ad una morte illustre, si trova in Svetonio, il quale racconta che l’imperatore Nerone, essendo ormai la situazione disperata, desiderò farla finita e, non trovando nessuno disposto ad aiutarlo, esclamò: Ebbene, non ho più né un amico, né un nemico. Alla fine si trafisse la gola con l’aiuto del segretario Epafrodito. Le paure dei sottoposti di Nerone non erano del tutto infondate: anni dopo lo stesso Epafrodito fu esiliato e poi assassinato per ordine di Domiziano, proprio per aver aiutato Nerone ad abbandonare la vita69.
67 M. CAVINA, Andarsene al momento giusto, cit., p. 26; D.W. AMUNDSEN, The liability of the physician in Roman
law, Amsterdam-New York 1973, p. 21; U. BENZENHOFER, Der gute Tod? Geschicte der euthanasie und sterbehilfe,
Gottingen 2009, pp. 20- 21.
68 SPARZIANO, Vita Hadriani, 180-181; richiamato anche da M. CAVINA, Andarsene al momento giusto, cit., p. 27.
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CAPITOLO 2
Il suicidio secondo la dottrina dell’età di mezzo
2.1. Il suicidio nella giustizia secolare
La giustizia medievale ha cercato di individuare nella disciplina del suicidio, quanto meno a grandi linee, i principi sanciti dalla dottrina cristiana70, giungendo a tale conclusione dopo aver preso atto di una serie di rilievi: la circostanza per cui la privazione della sepoltura era stata disposta direttamente dai giudici laici incaricati della questione71, l’assimilazione del suicidio all’omicidio ai fini della pena e l’adozione delle stesse cause di giustificazione previste dai Padri della Chiesa (ad esempio la pazzia, un turbamento dello spirito, ovvero l’assenza di volontà). L’originalità dell’intervento secolare si avvertiva in particolar modo nella scelta delle sanzioni previste, di volta in volta, in aggiunta alle pene religiose.
70 R. MARRA, Suicidio, cit., p.77. Nel Medioevo si instaura un rapporto tale tra diritto religioso e diritto secolare, per cui è il primo a guidare il secondo sulla via della formalizzazione e della razionalità. Anche per questo fondamentale motivo è da respingere la tesi di Bayet secondo cui, nella repressione del suicidio il diritto canonico avrebbe semplicemente recepito, e quasi subito, l’influenza di una realtà giuridica esterna al mondo della Chiesa. A. BAYET, Le
suicide et la morale, cit., p. 389.
71 R. MARRA, Suicidio, cit., p.77; G. GARRISON, Le suicide dans l’antiquité, cit., p. 104; R. VAN DER MADE, Une
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In base alle fonti, si possono distinguere due fasi storiche fondamentali: nell’Alto Medioevo i testi riproducevano quasi alla lettera le disposizioni dei concili canonici del VI secolo, senza considerare l’eventualità che il diritto consuetudinario avesse previsto variazioni o aggiunte alle norme conciliari; nel Basso Medioevo, viceversa, il diritto consuetudinario, conosciuto grazie alle raccolte di costumi locali, prevedeva una repressione ulteriore e distinta rispetto a quella del diritto canonico. In quest’ultimo periodo, inoltre, si assistette, quanto a brutalità e violenza, ad un inasprimento notevole delle sanzioni laiche rispetto a quelle stabilite dal diritto canonico. Di norma le pene previste erano di due tipi: da un lato, misure patrimoniali che contemplavano la confisca dei beni, dall’altro, pene corporali inflitte al cadavere del suicida. La pubblicazione del patrimonio era, di solito, a vantaggio dei signori feudali e limitata, in genere, ai soli beni mobili; più di rado la confisca si estendeva agli immobili, senza legami, in quest’ultima circostanza, con la publicatio bonorum del diritto romano).
Per quanto riguarda la pratica dei supplizi sul cadavere del suicida, questa sembra iniziare relativamente tardi nel Medioevo. Se diamo credito alle raccolte delle consuetudini locali, le pene corporali risultano essere state introdotte nel XIV secolo72, ma tale presunzione non è assoluta. È possibile che usanze simili fossero applicate già in precedenza, sebbene le fonti non ne conservino
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traccia. Trascinare il corpo crudelmente e quanto più a lungo possibile, come prescritto dalla consuetudine di Beaumont73, era un’azione particolarmente efficace per mostrare agli abitanti della città le terribili conseguenze del gesto e suscitare terrore e ribrezzo.74
Il suicidio, dunque, è, qualcosa di proibito sia dal diritto canonico sia da quello comune e, in tale ottica, si giunge all’assimilazione tra il suicida e l’omicida. Da questa identica base di partenza si svilupparono due tipologie di sanzioni totalmente distinte per intensità e significato: da una parte, il diritto canonico che affermava il principio di proprietà divina sull’uomo e concepiva misure (quale il divieto di sepoltura) per sanzionare la disobbedienza del suicida e attestare simbolicamente la rottura con la comunità religiosa; dall’altra parte, invece, il diritto comune che, ricorrendo a riti cruenti (esorcismi, purificazioni, crocifissioni e mutilazioni dei cadaveri) mirava a suscitare e tenere vivi, attraverso la lustratio dei segni e delle tracce lasciate dal gesto, sentimenti di orrore e repulsione, con ovvio intento cautelare e preventivo. In tal modo l’affermazione e la restaurazione del valore violato e la finalità repressiva passavano in secondo piano e il divieto di sepoltura diventava un’altra azione messa in atto non tanto per punire75, quanto per cancellare, nascondere ed esorcizzare quel gesto atroce che era il suicidio; un gesto che, in quanto tale, doveva essere
73 R. MARRA, Suicidio, cit., p. 80; citazione di R. VAN DER MADE, Une page de l’histoire, cit., p. 37.
74 R. MARRA, Suicidio, cit., pp.80- 81; A. WACKE, Il suicidio nel diritto romano, cit., p. 694; tema trattato anche da E. DURKHEIM, Il suicidio, cit., pp. 391- 392. Durkheim vede in questi, e in altri ancor più terribili trattamenti, l’espressione di una riprovazione morale della morte volontaria e, in particolare, l’affermazione dei diritti dell’uomo e della conseguente condanna degli attentati alla persona.