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Valutazione di mutazioni somatiche nel DNA estratto da liquido pleurico e plasma in pazienti con Mesotelioma Pleurico Maligno(MPM)

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Corso di Laurea Magistrale in Biologia Molecolare e Cellulare

Tesi di Laurea Magistrale

Valutazione di mutazioni somatiche nel DNA estratto da liquido pleurico e plasma in pazienti con Mesotelioma Pleurico Maligno (MPM)

Anno Accademico 2019 – 2020 Candidato

Maria Roberta Pagano

Relatore

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Abstract

Il mesotelioma pleurico maligno (MPM) è una patologia rara e letale, la cui insorgenza è determinata dall’esposizione all’asbesto. Negli ultimi anni l’elevata incidenza di casi di MPM ha condotto la ricerca verso l’individuazione di biomarcatori specifici in grado di consentire una immediata diagnosi.

Negli ultimi anni è stato accertato che i fluidi corporei (in particolare il plasma) possono contenere minime tracce di DNA (circulating tumor DNA, ctDNA) derivante dalle neoplasie e questi frammenti di DNA mutante possono costituire una preziosa risorsa per fornire informazioni sul tumore stesso, al fine di eseguire una diagnosi più accurata, effettuare un follow-up clinico più preciso o per scegliere trattamenti terapeutici personalizzati. In futuro le cosiddette “biopsie liquide” potranno giocare un ruolo sempre più importante per la medicina personalizzata. Alcuni tipi tumorali quali per esempio l’epatocarcinoma, sono particolarmente efficaci nel rilasciare ctDNA nel plasma. Altri, quali p.e.s il glioblastoma sembrano avere più difficoltà e sono meno facilmente analizzabili con le biopsie liquide. La presente tesi ha lo scopo di affrontare questo ultimo aspetto. Abbiamo infatti valutato se il liquido pleurico e il plasma di pazienti con MPM presentino ctDNA, in che quantità, e se esso sia in grado di fornire informazioni utili sullo stato mutazionale del tumore. La verifica di queste informazioni permetterebbe di comprendere se liquido pleurico e il plasma possano essere campioni biologici utili per effettuare analisi basate su “biopsie liquide” (LB). A corollario di questa indagine abbiamo anche cercato di comprendere se il panorama mutazionale dell’MPM analizzato mediante biopsie liquide possa essere di supporto per velocizzare una eventuale diagnosi.

La casistica da noi utilizzata è derivata da 3 banche biologiche, una proveniente dall’Ospedale San Martino di Genova (IRCCS, ex Istituto Tumori), una dall’Ospedale Universitario di Cisanello (Pisa) e una dal Dipartimento di malattie toraciche dell’Ospedale della Facoltà di Medicina dell’Università Eskişehir Osmangazidella Turchia. Le biopsie tumorali dei 32 pazienti da noi raccolti sono state sottoposte a whole-exome sequencing (WES) in parallelo al loro campione ematico, là dove disponibile. Mediante vari metodi di filtraggio sono state quindi identificate le putative mutazioni somatiche. Alcune delle variazioni a singolo nucleotide (fino a un massimo di 4 single nucleotide variations, SNV, per paziente) sono state utilizzate per tracciare il DNA tumorale nei fluidi a disposizione (liquido pleurico e/o plasma). Una prima verifica della reale esistenza delle mutazioni prescelte è stata effettuata tramite ASO q-PCR, tecnica non sensibile e semi-quantitativa ma economica. In seguito ad un eventuale riscontro positivo abbiamo utilizzato la più sensibile

digital droplet PCR (ddPCR). Quest’ultima, infatti, permette di evidenziare e misurare con

precisione, tra una moltitudine di sequenze di tipo wild-type, anche minime quantità di DNA mutante (0,1%) rilasciato dal tumore stesso ed eventualmente libero di circolare nei fluidi corporei. Ciascuna mutazione paziente-specifica è stata quindi tracciata mediante ddPCR nei fluidi a disposizione (liquido pleurico e/o il plasma) ottenuti dal paziente stesso.

I risultati hanno dato alcune chiare indicazioni: (1) il liquido pleurico presenta una percentuale di DNA mutante molto simile al campione tumorale da cui proviene, indicando la possibilità che possa dare notevoli informazioni sul tumore, in maniera meno invasiva della biopsia (se presente effusione o essudato pleurico); (2) il plasma può presentare alcune mutazioni del tumore del paziente, ma in percentuali molto ridotte e non in tutti i pazienti; (3) è stato possibile confermare che nelle biopsie tumorali alcuni pazienti presentavano SNV in geni noti costituenti lo stato mutazionale del MPM (ad esempio BAP1 e LATS2), ma che la frequenza dei pazienti recanti tali mutazioni non superava il 10%; (4) non abbiamo ritrovato mutazioni ricorrenti tra i vari pazienti analizzati; (5) conseguenza dei punti 3 e 4:

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nella maggioranza dei casi l’analisi delle mutazioni di un numero ristretto di geni (meno di 20) non permette di identificare con certezza la presenza di un MPM (a meno che non insorga una mutazione in alcuni geni caratterizzanti quali BAP1, in LATS2 o in NF2).

Complessivamente i dati indicano che il liquido pleurico è un tipo di campione biologico adatto per il monitoraggio dei pazienti con MPM mediante biopsie liquide, ma lasciano sperare che anche l’utilizzo del plasma possa dare utili informazioni sul tumore stesso qualora si riesca ad aumentare la sensibilità dei saggi.

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Indice

1. INTRODUZIONE ... 1

1.1. Il mesotelioma pleurico maligno (MPM) ... 1

1.2. Biopsie liquide nei pazienti oncologici e stato dell’arte ... 2

1.3. Biopsie liquide nel MPM ... 6

1.3.1. Biopsie liquide citologiche o proteiche nell’MPM ... 7

1.3.1.1. Sangue ... 7

1.3.1.2. Liquido pleurico ... 8

1.4. Biopsie liquide dell’MPM basate su acidi nucleici ... 8

1.4.1. Marcatori epigenetici (miRNA, ipermetilazioni) ... 8

1.4.2. Mutazioni somatiche e panorama mutazionale dell’MPM, utile per le LB ... 9

2. SCOPO DELLA TESI ... 13

2.1. Problematiche scientifiche e disegno sperimentale per le LB nel MPM ... 13

3. MATERIALI E METODI ... 17

3.1. Dal sequenziamento al filtraggio delle mutazioni ... 17

3.1.1. Filtraggio dei pazienti della Turchia (gruppo T) ... 23

3.1.2. Filtraggio pazienti di Genova (gruppo G) ... 24

3.1.3. Filtraggio pazienti di Pisa (gruppo P) ... 25

3.2. Estrazione DNA a partire da sangue, liquido pleurico e pleura ... 27

3.3. La Allelic Specific Oligonucleotide Real Time qPCR ... 27

3.4. La digital droplet PCR ... 31

4. RISULTATI ... 36

4.1. Risultati dei pazienti del gruppo T ... 36

4.2. Risultati dei pazienti del gruppo G ... 37

4.3. Risultati dei pazienti del gruppo P ... 41

4.4. Analisi biostatistica ... 50

5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONE ... 54

6. APPENDICE ... 58

7. RINGRAZIAMENTI ... 66

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1 1. INTRODUZIONE

1.1. Il mesotelioma pleurico maligno (MPM)

Il Mesotelioma è una neoplasia che si sviluppa dalle cellule del mesotelio, una membrana che costituisce uno strato epiteliale della sierosa che riveste organi del torace, dell’addome e dello spazio che circonda il cuore, formando la pleura, il peritoneo e il pericardio. Nel torace il fluido interposto tra i due foglietti pleurici (parietale e viscerale) è denominato liquido pleurico, ed ha il compito di lubrificare facilitando gli atti respiratori polmonari [2]. Il Mesotelioma pleurico maligno (MPM) è una neoplasia molto rara (con incidenza negli uomini di circa 2.98/100.000 e nelle donne di circa 0.98/100.000) e allo stesso tempo molto aggressiva e resistente ai trattamenti, di conseguenza il tasso di sopravvivenza è alquanto basso. È un tumore che colpisce prevalentemente gli uomini ed in Italia rappresenta lo 0,04% dei tumori diagnosticati nella popolazione maschile e lo 0,02% dei tumori diagnosticati nella popolazione femminile [1]. L’insorgenza dell’MPM è determinata principalmente dall’esposizione all’amianto, ma vi sono anche altri fattori di rischio quali le zeoliti con erionite, radiazioni nell’addome o al torace, così come anche le iniezioni di diossido di torio (utilizzate in ambito medico fino al 1950) [1].

I pazienti con MPM presentano sintomi vaghi e aspecifici come dolore addominale con successiva ascite. Inizialmente i sintomi che possono manifestarsi sono anche dolori nella parte inferiore della schiena o al torace, stanchezza, fiato corto, febbre, tosse, debolezza muscolare, difficoltà nella deglutizione ed anche perdita di peso [1]. Molti sintomi, inoltre, vengono ignorati o interpretati come dolori dovuti ad altre patologie (ad es. tumore ai polmoni) rendendo la diagnosi non sempre tempestiva. Questa è una delle ragioni per cui, malgrado le numerose ricerche e le rinnovate tecnologie, la prognosi rimane infausta con, in

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media, il decesso ad un anno dalla diagnosi. Ad oggi i trattamenti maggiormente indicati sono la chirurgia e la chemioterapia [3]. Solitamente in ambito chirurgico viene eseguita la pneumonectomia extrapleurale che consiste nell’asportazione del polmone, diversamente si applica la pleurectomia e in questo caso il polmone rimane in situ. Le chemioterapie si basano su composti a base di platino (ad es. il cispaltino) e di antifolati (pemetrexed), mentre l’immunoterapia è in fase di valutazione. La radioterapia non è considerata un trattamento standard [8].

Da quanto sopra riportato, è evidente che occorre migliorare notevolmente sia la procedura diagnostica che quella terapeutica. Occorre identificare nuovi marcatori per una diagnosi più precisa e anticipata e per il follow up clinico del paziente. Inoltre, occorre caratterizzare i meccanismi molecolari patogenetici al fine di sviluppare nuovi farmaci.

1.2. Biopsie liquide nei pazienti oncologici e stato dell’arte

Ad oggi, i pazienti malati di cancro, al termine di un esame legato alla caratterizzazione del tumore primario ricevono una diagnosi basata su una biopsia di tipo solido. Le biopsie che comunemente vengono eseguite sono quelle escissionali, incisionali, le agobiopsia, oppure quelle di tipo cutanea o pericutanea, le endoscopiche e quella ottenute mediante esplorazione chirurgica (laparotomia, toracotomia, laparoscopia, toracoscopia, mediastinoscopia...). Queste sono un valido strumento di indagine clinica ma presentano il limite che non sempre il campione tumorale è accessibile [15]. Inoltre, presentano lo svantaggio di essere invasive e possono creare lesioni al paziente. Inoltre, è necessario perforare il tumore più volte per poter ottenere una rappresentatività clonale adeguata e un quantitativo di tessuto idoneo da destinare alle successive analisi. Durante il decorso della patologia potrebbero inoltre essere necessari ulteriori biopsie dato che le caratteristiche molecolari del tumore evolvono col trascorrere del tempo [4]. Teoricamente, queste

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procedure potrebbero perfino comportare il distacco e la migrazione di cellule maligne verso il flusso sanguigno o linfatico favorendo il peggioramento della malattia.

Studi recenti stanno dimostrando che sangue e altri fluidi corporei potrebbero sostituire le biopsie solide. Le “biopsie liquide” (liquid biopsies, LB) infatti permettono di rintracciare in modo alternativo e poco invasivo cellule tumorali (CTC) e DNA tumorale circolante (circulating tumoral DNA, ctDNA) che riflettono quindi le caratteristiche molecolari del tumore e consentono l’identificazione di biomarcatori, utili per la diagnosi. CTC e ctDNA potrebbero quindi essere anche utili per caratterizzare e monitorare il decorso della patologia, se gli studi ne confermeranno il ruolo predittivo e prognostico [7][9]. Il ctDNA comprende il DNA che viene rilasciato dalle cellule tumorali in seguito a meccanismi di necrosi, apoptosi o secrezione tumorale. Il ctDNA che si ritrova nelle biopsie liquide comprende frammenti di DNA di 180 – 200 nucleotidi, corrispondenti quindi ad un nucleosoma. La ricerca di biomarcatori nelle biopsie liquide può rivelarsi promettente per i pazienti con MPM [5]. La conoscenza delle mutazioni del tumore primario potrebbe quindi aiutare, mediante semplice analisi di sangue periferico, a identificare una neoplasia ancora in fase asintomatica oppure a valutare il decorso clinico dopo eventuali interventi terapeutici.

Per la diagnosi oncologica vengono eseguiti differenti test. La diagnosi viene effettuata utilizzando metodiche ad elevata tecnologia che riproducono immagini per la visualizzazione del tumore come: raggi X, scintigrafia, ecografia, risonanza magnetica… A questa prima analisi seguono diversi test di laboratorio eseguiti sul tessuto, previa biopsia solida. Con l’avvento delle LB queste procedure vengono anche accompagnate da test sempre più sensibili come la ddPCR. La ddPCR è una tecnica rivoluzionaria che riesce a quantificare in maniera specifica gli acidi nucleici. Proprio per le sue caratteristiche è stata ampiamente utilizzata nelle LB tumorali, nelle diagnosi prenatali, nella generazione di

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librerie per l’NGS e nello studio di microrganismi. Dalla scoperta della PCR nel 1983 da parte del biochimico Kary Mullis sono stati condotti diversi studi che hanno evoluto la tecnica di PCR originaria [33]. La prima generazione di PCR si basava sull’analisi dei prodotti di PCR su gel di elettroforesi, operazione laboriosa e a scopi esclusivamente qualitativi. La seconda generazione (RT-qPCR) invece può essere utilizzata a scopi quantitativi, seppur con una bassa tolleranza verso sostanze interferenti. Infine, si ha la terza generazione della PCR, la digital droplets PCR, che consente una quantificazione assoluta degli acidi nucleici attraverso la ripartizione dei reagenti della reazione. Nel 1992 è stato concepito il concetto di PCR digitale da Sykes et al. che riuscirono a indagare geni che presentavano mutazioni, attraverso un sistema di diluizione e di quantificazione. Nel 1999 Kenneth KZ e Bert VS hanno effettuato studi con un sistema di diluizioni per misurare la mutazione di K-RAS, implicato nell’insorgenza del tumore colon rettale. Nel 2000 Montesano et al. hanno individuato una mutazione a carico di p53 nel carcinoma epatocellulare e si è valutata la possibilità di ricercare la mutazione nel DNA libero circoalnte da cellule isolate dal plasma [50]. Nel 2004 Hainaut et al. hanno poi dimostrato che il DNA circolante può essere ricercato e recuperato dal plasma e si è ipotizzato potesse anche dare indicazioni circa lo stato del tumore e quindi essere utilizzato come campione biologico per la ricerca di biomarcatori tumorali. In quest’ultimo studio, attraverso un metodo di digestione con restrizione, si è determinata la mutazione Ser-248 in TP53 nel 35% dei tumori [51]. Gli studi proseguirono finché nel 2011 non venne inventata la ddPCR basata sull’emulsione olio-acqua [33]. In letteratura l’utilizzo della ddPCR ha prodotto ottimi risultati per le biopsie liquide plasmatiche, come dimostrano studi condotti su pazienti con carcinoma polmonare, carcinoma pancreatico, melanoma maligno, e carcinoma della vescica uroteliale [17][18].

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Oggi le biopsie liquide hanno una importante applicazione in ambito oncologico per scopi diagnostici, prognostici e terapeutici. Le biopsie liquide, oggi, vengono utilizzate nei tumori solidi, per la ricerca di mutazioni driver, ma anche per monitorare la risposta alla terapia, o identificare meccanismi di resistenza. Si adoperano inoltre diversi kit per rilevare le mutazioni in EGFR nel carcinoma polmonare, e le mutazioni a carico di RAS (KRAS,

NRAS, o BRAF) nel tumore del colon-retto. Si utilizza la metodica dell’NGS per rilevare il

carico mutazionale del tumore. In particolar modo, oggi si pone l’attenzione sul ctDNA che può essere rilevato nelle biopsie liquide e dare informazioni sul tumore e prevedere un certo significato prognostico [45]. Le biopsie liquide sono una risorsa alternativa per la ricerca di acidi nucleici, come dimostra uno studio della Del Re et al. In questo studio infatti si sfrutta il cfDNA per la ricerca di mutazioni a carico di EGFR e soprattutto per il monitoraggio della risposta al trattamento. Le biopsie liquide vengono adoperate per rilevare infatti un eventuale cambiamento molecolare indotto dalla terapia su EGFR. La mutazione T790M nell’esone 20 di EGFR, infatti, conferisce resistenza a Gefitinib, Erlotinib e Afatinib che sono uno standard terapeutico nel trattamento dei pazienti con mutazione a carico di EGFR. La mutazione

C797S di EGFR mostrerebbe invece un meccanismo di resistenza nei confronti di un altro

farmaco, l’Osimertinib. In questo modo, attraverso le LB, è possibile catturare l’eterogeneità del tumore in maniera più efficiente rispetto alle biopsie solide. Questo tipo di studio può pertanto indirizzare il medico nella scelta della terapia da utilizzare [44]. Inoltre, è stato anche dimostrato che la ddPCR dà promettenti risultati anche per le biopsie liquide del liquido pleurico. Un gruppo di ricerca ha effettuato l’analisi di questo fluido tramite ddPCR per la ricerca di specifiche mutazioni a carico del gene EGFR (Epidermal Growth Factor

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significativamente elevato, sia rispetto al sequenziamento diretto, sia rispetto alla tecnica

ARMS (Amplification Refractory Mutation System), dimostrandone il valore clinico [19].

In uno studio sono stati analizzati i cell-free RNA (cfRNA) nel plasma di pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule, carcinoma pancreatico, melanoma maligno e carcinoma della vescica uroteliale, applicando le metodiche dell’NGS e della ddPCR. Si è potuta dimostrare la validità dei cfRNA nella la diagnosi precoce dei tumori solidi e supportare la presenza di probabili marcatori presenti nel plasma, ma da sottoporre ad ulteriori test di convalidazione [18].

1.3. Biopsie liquide nel MPM

I fattori di rischio del MPM sono ben noti, pur tuttavia rimangono da identificare i biomarcatori per una tempestiva diagnosi. Nella diagnosi dell’MPM incorrono in prima analisi i versamenti pleurici, che sono tra le prime manifestazioni cliniche visualizzabili, per cui ci si imbatte in una diagnosi citologica, la cui sensibilità però è normalmente piuttosto bassa. L’attuale standard per la diagnosi della neoplasia si basa sull’analisi immunoistochimica delle biopsie tissutali utilizzando il pannello di marcatori quali:

Calretina, WT-1, Citocheratine 5/6 [25][26]. Nei casi di MPM i fluidi corporei che

potrebbero essere analizzabili sono il liquido pleurico e il sangue. Riguardo al liquido pleurico, il versamento pleurico rappresenta una delle tipiche manifestazioni della patologia. Esso è costituito da un accumulo di liquidi all’interno della cavità pleurica che si accumulano in quantità a causa di processi infiammatori. Essi possono essere attivati da neoplasie polmonari incluso l’MPM, o da altre patologie quali infezioni e malattie autoimmuni. Le biopsie liquide ematiche offrono alcune possibilità alternative. Se la ricerca è mirata a misurare i livelli di specifiche proteine si utilizza il siero. Qualora si ricercassero le CTC occorre effettuare esperimenti di citofluorimetria a flusso sulla componente corpuscolata.

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Infine, se si cerca il ctDNA, si predilige il plasma perché il siero contiene elevate quantità di DNA non tumorale derivanti dalla lisi dei linfociti in seguito al processo di coagulazione.

1.3.1. Biopsie liquide citologiche o proteiche nell’MPM 1.3.1.1. Sangue

Nel MPM il sangue si è rivelato un ottimo mezzo per la ricerca di CTCs [12]. In un lavoro è stato mostrato come le cellule tumorali presentino, a differenza di altre cellule sane, un marcatore, quale la Podoplanina adoperata per l’applicazione di una tecnica, la CellSearch, che individua tali cellule tumorali circolanti sfruttando un anticorpo anti Podoplanina [12]. Theresa Link et al. (2019) hanno dimostrato come il CTC (Calretina), presente nel siero, potesse essere un ottimo biomarcatore nel cancro ovarico [34]. La CTC è stata anche studiata per il suo potenziale ruolo di biomarcatore nella diagnosi di MPM [34].

Recenti studi hanno indicato la presenza di potenziali biomarcatori in diverse biopsie liquide, quali plasma e liquido pleurico. Tra questi potenziali biomarcatori si è vista una iper-espressione della SMRP (soluble mesothelin-related peptide, cioè un peptide derivante dal taglio proteolitico della Mesotelina), dell’Osteopontina (OPN), della Fibulina-3 nel siero. In aggiunta a questi geni l’espressione di HMGB1 si è vista iper-espressa anche in tessuti e linee cellulari di MPM [21]. HMGB1 è primariamente localizzato nel nucleo, ma in seguito all’esposizione alle fibre di asbesto trascola nel citoplasma dove innesca la risposta infiammatoria e l’attivazione di TNF-a. In seguito a questi eventi si attiva anche il pathway

di Notch che quindi potrebbe essere sfruttato per bloccare la progressione del mesotelioma [20]. In uno studio è stata dimostrata la presenta di diversi probabili biomarcatori oltre a SMRP e pOPN quali le citochine IL-6, TNF-a, IL-5 e i fattori di crescita VEGF, IP-10 (Interferon gamma-induced protein 10), HGF [42].

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8 1.3.1.2. Liquido pleurico

Recenti studi hanno indicato la presenza di potenziali biomarcatori anche nel liquido pleurico. Tra questi potenziali biomarcatori si è vista una iper-espressione di VEGF nelle effusioni pleuriche [21]. Dall’estrazione di DNA ed RNA (il sequenziamento dell’intero esoma e trascrittoma è stato analizzato con la tecnica di Ion Torrent platform) da cellule provenienti da effusioni pleuriche di 27 pazienti affetti da MPM per la ricerca di biomarcatori si è potuto constatare una elevata frequenza della delezione del gene CDKN2A (in circa il 95% dei campioni analizzati) ed una sua perdita di espressione. Anche BAP1 presenta elevati livelli di inertions/deletions (indels) ma anche mutazioni puntiformi (single nucleotide variations, SNVs) nel 30% dei campioni tumorali analizzati). Nel 66% dei campioni analizzati si è avuta una perdita del braccio cromosomico 22q, contente NF2. Sono state individuate infine mutazioni meno rappresentate a carico dei geni: TRAF7 (66%), LATS2

(59%) e TP53 (8%). Oltre quest’ultimi geni, meno frequentemente mutati sono: MUC4 (18%), HUWE1 (15%), GRM8 (15%), RIF1 (11%), SLCO5A1 (11%) e PCF11 (7%) [38].

Nelle effusioni pleuriche si è anche notato un incremento dei livelli di MMP-3 (matrix metalloproteinase-3) rispetto a individui non affetti da MPM; questi dati suggeriscono un probabile ruolo del gene nel MPM [43].

1.4. Biopsie liquide dell’MPM basate su acidi nucleici 1.4.1. Marcatori epigenetici (miRNA, ipermetilazioni)

Oltre ai geni citati, si sono trovate evidenze di una de-regolazione dell’espressione a carico anche di diversi geni codificanti per micro-RNA (miRNA). I miRNA sono dei piccoli RNA non codificanti per proteine, che però regolano l’espressione di un gran numero di RNA messaggeri [5][9][21]. Uno studio ha dimostrato la presenza di un long non coding

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biomarcatori per la rilevazione del mesotelioma maligno. La sensibilità di GAS5 è però troppo bassa per poter essere utilizzato come singolo marcatore [35]. Inoltre, un aumento di

miR-625-3p ed un decremento di GAS5 nel sangue, in seguito a chemioterapia, si è rivelato

significativo per la progressione tumorale [36]. Focalizzando l’attenzione sul profilo di

cf-miRNA, si è vista una loro alterazione in pazienti con MPM, ad esempio l’espressione di miR-126-3p risulta sotto regolata [5]. Sono state così individuate metilazioni nel DNA

circolante a carico di miR34 b/c, probabile biomarcatore per la previsione della progressione della neoplasia, utilizzando la ddPCR. Lo stato di metilazione del promotore di miR34 b/c potrebbe essere utile per la predizione della progressione tumorale [27] [28].

Mediante l’utilizzo delle biopsie liquide e lo studio dei cambiamenti epigenetici e genetici si è potuto dimostrare che l’ipermetilazione di geni oncosoppressori può essere un metodo di indagine e di monitoraggio del tumore e questi marker possono essere utilizzati per l’utilizzo di target terapeutici [37].

Uno screening effettuato sui miRNA provenienti dal siero ha consentito di distinguere pazienti affetti da MPM da quelli affetti da adenocarcinoma polmonare (AD). Dal suddetto screening si è evidenziata una sovra-espressione dei miR-1292-5p and miR-409-5p al contrario l’AD; questi due miRNA pertanto è possibile considerarli come potenziali biomarcatori per la distinzione del MPM dall’AD [39].

1.4.2. Mutazioni somatiche e panorama mutazionale dell’MPM, utile per le LB

Nell’MPM è stata studiata l’eventuale presenza di mutazioni tumorali somatiche presenti nel plasma. Un gruppo di ricerca ha infatti dimostrato la presenza di ctDNA nel DNA circolante di individui affetti da MPM. Comunque, fino ad ora gli studi pubblicati sul ctDNA in pazienti affetti da MPM sono molto limitati. Vediamo in primo luogo cosa sappiamo

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riguardo al panorama mutazionale dell’MPM. Riguardo alle copy number variations (CNV), ai riarrangiamenti, alle delezioni, e alle ipermetilazioni è stato visto che questi eventi inattivanti colpiscono frequentemente i loci genici di BAP1, NF2, e CDKN2A. In particolare, le analisi di immunoistochimica su BAP1 in concomitanza con una analisi di CDKN2A tramite FISH forniscono una sensibilità abbastanza elevata da poter confermare una diagnosi di MPM [32]. In uno studio si è dimostrata una elevata inattivazione dovuta ad una mutazione e una perdita del numero di copie nel gene BAP1, associati a ricorrenti mutazioni nei geni CDKN2A, NF2, TP53, LATS2 e SETD2 [10]. La maggior parte dei casi di MPM con una inattivazione in BAP1, mostra, in concomitanza, anche, una perdita di eterozigosi sul cromosoma 3p21.1, in accordo con l’ipotesi di Knudson sull’inattivazione con “due-hits” degli oncosoppressori [10]. BAP1 è stato identificato come un soppressore tumorale che regola la crescita cellulare mediante l’attività di BRCA1. Quest’ultimo si ritrova sotto-espresso nella maggior parte dei campioni di MPM e talvolta si ha la totale perdita di funzione dello stesso. La sua mutazione è stata definita come un parametro importante nella diagnosi differenziale di MPM [2]. Nei campioni di MPM si osserva anche una frequente (61% di 33 casi di MPM) delezione del locus di CDKN2A che si riscontra facilmente mediante uno studio comparativo di ibridazione genomica [11]. In particolare, la perdita di attività del locus CDKN2A è stata spesso associata all’inattivazione della via di segnalazione di NF2/Hippo. Pertanto, si ritiene che l’inattivazione di questi due loci sia cruciale per lo sviluppo nella neoplasia [11]. I meccanismi molecolari dell’oncogenesi nel mesotelioma, così come in tutti i tumori, causano la perdita di regolatori negativi del ciclo cellulare, come

p16, proteina codificante per CDKN2A. L’inattivazione di p16 è dovuta ad un meccanismo

di ipermetilazione del primo esone. Da uno studio di Long Wong et al. (2002) si è scoperto che questo meccanismo di metilazione potrebbe essere invertito trattando le cellule con

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analoghi della citidina. p16 può pertanto essere potenzialmente utilizzato come biomarcatore del mesotelioma [40].

Purtroppo, eventi che portano alla sotto- o sovra- regolazione, alle inattivazioni e ai cambiamenti di localizzazione intracellulare sono difficilmente analizzabili con le semplici metodiche applicabili alle biopsie liquide, come ad esempio la ddPCR. Le SNV (simple

nucleotide variants) si comportano in maniera differente. Dagli studi su interi trascrittomi o

genomi di 216 MPM si è osservato che una certa quota di campioni può presentare sostituzioni nucleotidiche nei geni BAP1, NF2, TP53, SETD2, DDX3X, ULK2, RYR2,

SETDB1 e alterazioni nel pathway di Hippo, mTOR. Sono state anche identificate mutazioni

a carico di DDX3X e DDX51 che codificano per l’RNA elicasi e nel pathway di p53 [29]. La stessa informazione proviene dai database di mutazioni somatiche disponibili gratuitamente (TCGA https://www.cbioportal.org/study/summary?id=meso_tcga_pan_can_atlas_2018 e

COSMIC

https://cancer.sanger.ac.uk/cosmic/browse/tissue?wgs=off&sn=pleura&ss=all&hn=mesot helioma&sh=all&in=t&src=tissue&all_data=n) che riportano i dati ottenuti mediante NGS

(exome o whole-genome sequencing) o semplice sequenziamento con metodica di Sanger in serie di, rispettivamente, 87 e 900 campioni di tessuto maligno pleurico. Il dato che ne emerge è che mutazioni puntiformi (le più utili per le biopsie liquide) ricorrono su un numero piuttosto ampio di geni. In altre parole, non esiste una vera e propria “firma molecolare” rappresentata da un ridotto numero di geni che potrebbe essere facilmente analizzato per capire la presenza del tipo di tumore di cui il paziente è affetto. Dai dati riportati dai database di TCGA risultano maggiormente mutati i geni NF2 (23,3%), BAP1 (20,9%), TP53 (16,3%),

LATS2 (9,3%), SETD2 (9,3%) [30]. Mentre COSMIC riporta tra i geni maggiormente mutati BAP1 (24%), NF2 (18%), TP53 (12%), SETD2 (7%), LATS2 (3%) [31].

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In conclusione, la perdita di BAP1 e CDKN2A, valutati con ibridazioni in situ fluorescente e/o immunoistochimica costituirebbe il miglior biomarcatore per una diagnosi di MPM. Purtroppo, la loro perdita funzionale e/o localizzazione intracellulare non sono facilmente analizzabili nelle biopsie liquide [5].

Comunque, riguardo all’analisi delle SNV, ci sono alcuni lavori scientifici che riportano la presenza di mutazioni tumore-specifiche nel ctDNA di pazienti con MPM. Il ctDNA infatti negli ultimi anni si sta rivelando un ottimale biomarcatore oncologico. Quest’ultimo è ancora però poco utilizzato nel MPM, di cui si cerca di tracciare varianti genetiche specifiche [45]. Uno studio ha utilizzato, ad esempio, il sequenziamento dell’intero esoma e successivamente la ddPCR per la ricerca di una variante tumore-specifica. La frazione di DNA mutato nel

ctDNA variavano in un range di 0,28 – 0,9% [46].

In un altro studio condotto su 122 pazienti egiziani affetti da MPM, si è constatata una mutazione di BAP1, in seguito alla valutazione delle CTC. Le mutazioni sono state poi confermate utilizzando il tessuto tumorale. Il 38,5% dei pazienti affetti da MPM ha mostrato una o più mutazioni a carico di BAP1. Dallo studio si è potuto concludere che la mutazione nel gene di BAP1 è comune in pazienti affetti da MPM ed è associabile anche alla progressione della neoplasia [47].

Come si evince quindi da quanto riportato sopra, l’analisi del ctDNA nei pazienti affetti da MPM è un argomento poco investigato.

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13 2. SCOPO DELLA TESI

Gli obiettivi della presente tesi sperimentale di laurea sono i seguenti: (I) verificare se l’MPM sia un tipo di tumore in grado di rilasciare ctDNA; (II) capire se il liquido pleurico possa essere una valida sorgente di materiale biologico in grado di fornire informazioni sul panorama mutazionale del tumore primario (MPM); (III) verificare se i pazienti affetti da MPM presentino nel loro plasma, delle mutazioni cancro-specifiche analizzabili nel ctDNA.

2.1. Problematiche scientifiche e disegno sperimentale per le LB nel MPM

In seguito alle limitate evidenze di letteratura, ci siamo chiesti se l’MPM sia un tipo di tumore in grado di rilasciare quantità di DNA mutante adeguato a essere tracciato con le biopsie liquide. Nel nostro laboratorio impiegando campioni proveniente da Genova, Pisa e Turchia è stato possibile applicare diverse tecniche per la ricerca mutazionale a partire da biopsie liquide. In particolare, sono stati utilizzati diciotto campioni di biopsie pleuriche con annesso plasma e liquido pleurico proveniente dall’Ospedale San Martino di Genova, nove biopsie pleuriche con corrispettivo sangue intero proveniente dall’Ospedale Cisanello di Pisa, ed infine cinque campioni di biopsie pleuriche, con annesso liquido pleurico, sangue intero e plasma provenienti dal Dipartimento di malattie toraciche dell’Ospedale della Facoltà di Medicina dell’Università Eskişehir Osmangazidella Turchia. Il DNA estratto dalle biopsie tissutali è stato sequenziato per l’intero esoma (exome sequencing) con la tecnica della Next Generation Sequencing (NGS), sfruttando la tecnica della Illumina basata sulla fluorescent sequencing. Le mutazioni che sono state utilizzate per il presente studio in esame sono state le SNV, cioè variazioni a singolo nucleotide (SNV). Per ogni paziente (dove possibile) è stato paragonato l’esoma ottenuto dalla biopsia con quello ottenuto dal sangue periferico e, in seguito a filtraggi dei dati con opportuni strumenti informatici, abbiamo ottenuto un elenco di mutazioni paziente- e tumore-specifiche. Alcune mutazioni geniche

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riscontrate sono state quindi prescelte per verificare se potessero essere misurate nel liquido pleurico e nel plasma dello stesso paziente. Questa “prova di principio” ha permesso di capire se le biopsie liquide possano essere uno strumento utile nelle pratiche cliniche relative al MPM.

Il primo problema da affrontare è la possibile bassa frequenza di DNA mutante all’interno della biopsia tumorale. Infatti, sia perché spesso il prelievo è accompagnato da cellule normali, che dal fatto che il DNA tumorale ha molteplici sotto-cloni che potrebbero non condividere la stessa mutazione, non è raro il caso in cui la mutazione prescelta sia presente in meno del 15% del DNA estratto. Il secondo problema da affrontare risiedeva nella veridicità della lettura delle reads in un contesto dove la proporzione di DNA mutante è bassa. Inoltre, è noto che in queste condizioni gli allineamenti di sequenze mutanti possono avvenire in maniera non corretta ad opera dei tools informatici.

Pertanto, invece di analizzare i campioni direttamente con un metodo sensibile e preciso, ma più costoso, come la digital droplet PCR (ddPCR) abbiamo ritenuto più opportuno cercare una conferma del DNA mutante utilizzando una tecnica più veloce e meno costosa quale la Allele Specific Oligonucleotide quantitative Real Time PCR (ASO qPCR). Essa presenta tuttavia un limite di sensibilità e non permette sempre un’accurata misurazione della quantità di sequenze mutanti rispetto al wild-type. Si basa sull’utilizzo di una coppia di

primers, di cui uno allele-specifico (ASO) per identificare la presenza di una sequenza

mutante all’interno di una ampia quantità di sequenze non mutanti. Il rilevamento avviene analizzando il profilo della curva di PCR misurato in “real-time”. La DNA polimerasi infatti inizierà l’amplificazione solo se il primer ASO troverà una perfetta complementarietà con tutte le basi del templato e in particolar modo con la base al 3’ che ne permette o impedisce (in caso di non appaiamento) la polimerizzazione. Se non vi fosse una perfetta

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complementarietà del primer ASO con il target, l’amplificazione sarebbe assente o il valore-soglia della fluorescenza verrebbe raggiunto con un numero di cicli superiore a 30. Nell’analisi viene pure inclusa una provetta con DNA non recante la mutazione come termine di confronto. La ASO Real Time PCR è una tecnica sufficientemente sensibile e viene utilizzata per la genotipizzazione di mutazioni a singolo nucleotide, come nel caso della b-talassemia, la cui patologia è causata spesso da mutazioni puntiformi che impediscono o riducono l’attività del gene b-globinico nel cromosoma 11 [15].

Dopo aver convalidato la presenza della mutazione con la ASO RT-PCR abbiamo effettuato l’analisi vera e propria mediante ddPCR. Questa tecnica analitica permette la quantificazione degli acidi nucleici basandosi sulla PCR. Nella ddPCR i passaggi da eseguire sono i seguenti: (I) creare, con un meccanismo di emulsione olio-acqua, molteplici gocce (micro-reattori), nelle quali si trovino ripartiti i reagenti per la PCR ed il campione di DNA (opportunamente diluito, vedere in seguito), (II) avviare la PCR ponendo la piastra nel termociclatore, (III) lettura dell’output. Questo consiste nel conteggio delle gocce che contengono un prodotto di PCR tramite un sistema che sfrutta la fluorescenza. Le gocce positive si distingueranno da quelle negative perché le prime presenteranno una emissione di fluorescenza che viene rilevata dalla macchina, le seconde, che non presentano alcuna amplificazione del target, non emetteranno fluorescenza. Da questo conteggio, mediante opportuna elaborazione matematica, si potrà stimare la proporzione del DNA target (mutante) rispetto al DNA wild-type. Il software di analisi della ddPCR applica al dato ottenuto un calcolo statistico basato sulla distribuzione di Poisson, esprimendo così il numero di copie di DNA target per microlitro di reazione (copie/µL). La distribuzione di Poisson adoperata per l’analisi è un modello probabilistico per rappresentare il numero di occorrenze di un certo evento, ovvero rappresenta il numero di eventi “con successo” (nel

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caso in analisi le gocce fluorescenti, e quindi positive) rispetto ad un certo numero di eventi totali. La ddPCR si presenta quindi come la tecnica migliore per una quantificazione assoluta (non richiede standard), precisa, riproducibile, sensibile e accurata, che consente la corretta analisi e validazione delle mutazioni da noi prescelte [15]. Gli utilizzi della ddPCR non si limitano alle applicazioni delle BL, in quanto permette di misurare anche le CNV (Copy

Number Variations), come ad esempio effettuato da Williams M. et al. (2019) nell’analisi

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17 3. MATERIALI E METODI

3.1. Dal sequenziamento al filtraggio delle mutazioni

Per procedere con la validazione dei geni sono stati precedentemente effettuati diversi altri passaggi, importanti e cruciali.

Una volta ottenuti i tessuti tumorali dei pazienti provenienti dagli ospedali di Genova, Pisa e Turchia si è infatti effettuato un sequenziamento, sfruttando l’innovativa tecnica di

Next Generation Sequencing, adottando il metodo della Illumina, ovvero quello della fluorescent sequencing. Il sequenziamento è stato eseguito alla Fondazione Pisana per la

Scienza ONLUS.

Le varie metodiche di NGS consentono il sequenziamento contemporaneo di milioni di copie di DNA e prevedono alcuni passaggi comuni che comprendono: la preparazione della libreria, l’amplificazione clonale tramite PCR e il sequenziamento ciclico del cluster generato dall’amplificazione clonale.

Il sistema della Illumina è una piattaforma utilizzata per il sequenziamento in parallelo di segmenti di DNA legati alla superficie di un vetrino, la flowcell, e consente una amplificazione clonale attraverso la Bridge amplification. Adoperando un fluoroforo diverso per ciascun nucleotide, ciascuna base ha una unica emissione di fluorescenza e la macchina registra ciascuna base aggiunta.

Per la preparazione della libreria, in primo luogo, viene eseguita la frammentazione (chimica, fisica o con metodi enzimatici) del DNA di interesse in piccoli segmenti, più semplici da sequenziare. A questi piccoli frammenti generati vengono aggiunti degli adattatori, che prendono il nome di P5 e P7. Quest’ultimi servono a legare il frammento alla

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cella dove successivamente avverrà l’amplificazione ed il sequenziamento. Gli adattatori fungono inoltre da primer per la reazione di amplificazione e di sequenziamento.

I frammenti così generati, insieme agli adattatori, vengono legati al vetrino cosparso anch’esso di oligo P5 e P7 complementari agli adattatori. Preparati i filamenti di DNA, avviene il passaggio successivo, la bridge PCR: l’estremità libera del frammento di DNA adeso al vetrino si ibrida ad uno dei tanti primer complementari disposto sul supporto, viene amplificato il filamento complementare, formando un doppio filamento di DNA, che successivamente viene denaturato, liberando così sul supporto due singoli filamenti. Il ciclo viene ripetuto, generando molte copie della stessa molecola di DNA, dei veri e propri cloni.

Terminata la fase di amplificazione, inizia la fase di sequenziamento, che avviene con il metodo di sequencing by synthesis. In quest’ultima fase, vengono lavati via i filamenti

reverse, lasciando soltanto quelli forward. I primer per il sequenziamento si legano al

filamento forward e la DNA polimerasi aggiunge i nucleotidi marcati fluorescentemente al filamento di DNA. Sulla base della fluorescenza che emanerà ciascun nucleotide è possibile riconoscere le quattro basi. I cicli si ripetono e ad ogni nucleotide aggiunto in ciascuna porzione del vetrino verrà acquisita una immagine che il software muta in sequenze, in reads; ogni punto fluorescente sul vetrino corrisponde quindi ad una certa base della sequenza di DNA.

Il software infine fornirà la corretta sequenza nucleotidica.

Terminato il processo di sequenziamento si ricavano molte migliaia di reads della sequenza di DNA. Tali reads però sono sequenze “grezze”, che dovranno subire ulteriori modifiche e filtraggi, per poter ottenere dati attendibili ed utilizzabili per le successive analisi. La fase successiva al sequenziamento è quella di analisi bioinformatica.

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L’analisi bioinformatica consta principalmente di una fase zero, detta base calling in cui la macchina di sequenziamento fornisce le reads e poi ulteriori tre fasi: la fase di alignment, la fase di variant calling ed infine la fase di filtering annotation.

Nella fase di base calling gli algoritmi del software consentono di convertire l’informazione derivante dagli spot fluorescenti in informazione di sequenze; in questa fase inoltre vengono anche corretti eventuali artefatti dovuti al funzionamento della macchina come il “crosstalk”, cioè sovrapposizioni di emissioni di fluorescenza derivanti da nucleotidi diversi ed il “phasing”, dovuto alla dispersione e alla diffusione del segnale. I dati di output, quindi le reads, sono in formato FASTQ, che include sia la sequenza, sia la qualità del sequenziamento di ciascuna base identificata. Ad ogni base è assegnato un valore che si riferisce alla sua qualità, il “Qphred quality score” (Q). Il software FASTQC consente di visualizzare le problematiche introdotte dal sequenziamento e spiega le possibili cause della scarsa affidabilità dei dati.

Il programma valuta più aspetti della qualità dei frammenti ed in particolare analizza la qualità della lettura delle singole basi, tramite algoritmi ad hoc, la verosimiglianza dell’assegnazione di quella base e le duplicazioni delle sequenze facendo anche delle considerazioni sulla loro lunghezza. Per ciascuna voce poi il programma assegna un simbolo che ne indica il livello di qualità, ovvero un simbolo verde, arancione o rosso, che rispettivamente indicano una ottima, scarsa o insufficiente qualità del dataset.

Al termine di ciò, FASTQC mostra un diagramma per visualizzare l’intervallo dei valori di qualità per tutte le basi in ogni posizione del file. Per ogni posizione della read riporta un box plot che presenta tre elementi: una linea centrale rossa che indica la mediana, dei box gialli che indicano il range interquartile e una linea blu che indica la media. Sull’asse delle ordinate è presente il quality score, ovvero la qualità della base, e quindi più alto è il valore

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migliore sarà la qualità; infine sullo sfondo del diagramma si distinguono tre diversi colori che corrispondono ad una buona, media o scarsa chiamata, rispettivamente in verde, arancione o rosso.

A questo punto, avendo a disposizione tale grafico è possibile effettuare un primo filtraggio per rimuovere reads eventualmente mal sequenziate e decidere quindi di scartare le estremità della sequenza di bassa qualità o scartare le sequenze con una qualità media. Nel nostro caso, la macchina ha rimosso le basi terminali che avevano una scarsa qualità.

La fase successiva è la fase di allineamento. Questa fase viene eseguita allineando le

reads ad una sequenza di riferimento del genoma umano, in modo da individuare la precisa

posizione di ciascuna esse e riscostruire la sequenza completa. A tale scopo vengono utilizzati programmi di allineamento che sfruttano algoritmi appropriati. Dall’allineamento deriva un output di allineamento che si ritrova in formato SAM, sequence alignment/ map

format. Tali formati SAM sono molto grandi per cui vengono compressi per ridurne le

dimensioni. In questi formati si ha inoltre l’identificazione di mismatch tra le reads generate e il DNA reference.

Durante questo passaggio viene utilizzato un parametro importante, che viene adoperato anche nella fase successiva di filtraggio e di scelta del gene da voler validare, si parla del

coverage, della “copertura”, che rappresenta il numero di volte in cui quella data sequenza

è allineata in corrispondenza del riferimento. Spesso si utilizza il Depth of Coverage, DP, letteralmente la profondità di copertura, si intende quindi il numero di volte in cui un nucleotide viene letto durante il sequenziamento; per cui maggiore è il DP più possiamo essere sicuri che quella base è stata letta correttamente. Il coverage medio, maggiormente utilizzato, è dato dal rapporto tra il prodotto del numero di reads (N) con la lunghezza media di una read (L) e la lunghezza media del genoma originale (G), quindi (N * L) / (G). In

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diagnostica si accetta un livello minimo di 50X, anche se la resa è variabile in funzione della metodica adottata e dal kit utilizzato. Nel caso del MPM, in cui si cercano mutazioni somatiche nel DNA delle cellule tumorali, si può arrivare anche ad un coverage medio di 500X fino a 1000X. La nostra analisi dell’esoma è stata effettuata a 100X.

Terminata la fase di alignment inizia quella di variant calling, in cui si determinano le varianti, ovvero si determina in quali posizioni sono presenti polimorfismi oppure una base differisce da un’altra. Queste varianti saranno molteplici, alcune di rilevanza clinica mentre altre no, poiché si tratta per lo più di polimorfismi. In questa fase, il file di output generato in seguito all’utilizzo di un software di variant calling, VarScan / VarScan2 (un programma open source compatibile con diverse piattaforme di sequenziamento) prende il nome di

Variant Call Format, VCF.

A questo punto inizia l’ultima fase, quella di filtering & annotation, con cui vengono annotate le varianti rilasciate dal software e vengono filtrate, selezionando i polimorfismi clinicamente neutri da quelli che non lo sono. Vengono pertanto rimossi varianti con una qualità scarsa, polimorfismi comuni, viene data la priorità alle varianti con un alto impatto funzionale, vengono comparate le varianti con quelle di geni associati a patologie, si considera la modalità di ereditarietà di tal gene (ad es. autosomica recessiva, autosomica dominante, X-linked…) … A questo punto le varianti su cui porre l’attenzione sono state ridotte di numero, pertanto si prosegue con la ricerca di diversi parametri che possono essere utili per le successive indagini circa la mutazione, quindi ad esempio vengono fatte predizioni in silico effettuate con software che danno un certo score circa la patogenicità o benignità della mutazione, si studia se ci sono eventuali effetti sul fenotipo, si fa una ricerca in letteratura, così da poter caratterizzare meglio la mutazione in esame.

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Le tecniche di NGS ci consentono quindi di sequenziare parallelamente milioni e milioni di sequenze, senza dover ricorrere a clonaggio, consentono inoltre di rilevare un allele minore (il secondo allele più comune nella popolazione) grazie a degli specifici algoritmi e di rilevare eventuali mutazioni.

Con l’NGS si può incorrere però in falsi positivi e falsi negativi. I falsi positivi possono essere frutto di uno scorretto allineamento con la sequenza di riferimento, errori di sequenziamento che possono determinare uno scarto di una probabile variante interessante dal punto di vista clinico, oppure errori riconducibili alla macchina stessa. I falsi negativi invece possono derivare dalla presenza di un basso coverage, o di una bassa copertura di arricchimento nelle regioni di interesse oppure ad un allineamento in regioni ripetute.

Proprio per queste problematiche si ricorre a metodiche che possono consentire una validazione della mutazione e ciò viene fatto successivamente al sequenziamento, usando le tecniche di ASO RT-PCR e la ddPCR.

Prima di procedere con le tecniche di validazione delle mutazioni individuate dall’esperimento di NGS è opportuno apportare filtraggi e scelte sulle mutazioni su cui focalizzarsi e su cui fare i successivi test di validazione dal momento che le mutazioni valutate dalla NGS sono molto numerose. Si sfrutta pertanto un certo criterio, un filo conduttore logico che possa consentire la successiva analisi. Tramite l’uso di opportuni metodi di filtraggio abbiamo posto la maggiore attenzione alle SNV (piuttosto che sulle

indels) e in particolare sulle mutazioni missenso, invece che su quelle sinonime (mutazioni

che determinano la formazione di un codone diverso che codifica però per lo stesso amminoacido, fenomeno dovuto alla ridondanza del codice genetico), varianti già note che è possibile consultare su database pubblici, si stratificano le mutazioni sulla base della loro patogenicità, esaminando quindi solo le mutazioni non senso e missenso, mutazioni

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frameshift e varianti che alterano siti canonici di splicing. Per quest’ultimo filtraggio si sono

tenuti in considerazione i valori forniti dai programmi SIFT e PolyPhen2. SIFT è un programma che utilizza degli algoritmi per l’analisi di mutazioni missenso che ha lo scopo di predire la possibile patogenicità di una variante sulla base del livello di conservazione evolutiva del residuo amminoacidico colpito dalla mutazione, PolyPhen2 invece è utilizzato anche per l’analisi di varianti missenso ma effettua delle predizioni sul possibile impatto di una mutazione. Ulteriori filtraggi adottati per questa fase sono stati: rimuovere geni che presentano ripetizioni e focalizzare l’interesse su quelli che invece possono avere una correlazione con il tumore per la loro funzione, o geni associati al MPM riportati su COSMIC e TCGA, e quindi geni come BAP1, TP53, NF1…

Quest’ultima metodica di filtraggio ha fornito un numero di geni ristretto, seppur ancora numeroso, selezionati, per poter proseguire con le successive validazioni [15].

3.1.1. Filtraggio dei pazienti della Turchia (gruppo T)

L’Ospedale della Turchia ha fornito al nostro laboratorio cinque campioni di biopsie pleuriche, con annesso liquido pleurico e sangue intero di pazienti con MPM.

Su questi campioni è stato eseguito il sequenziamento; questo tipo di analisi è stata utile perché ha fornito un elevato numero di probabili mutazioni nel genoma. Ai risultati ottenuti da questo sequenziamento sono stati applicati dei criteri di filtraggio, denominato T-F1. Con il filtraggio T-F1 abbiamo incluso le SNV che presentavano una frequenza dell’allele minore (MAF: minor allele frequency) inferiore all’1%, (filtro T-F1a). In seguito, abbiamo escluso le SNV che avessero una depth coverage inferiore a 20, ovvero si è richiesto che il nucleotide mutante fosse stato letto un numero di volte superiore a 20 per poterne decretare la veridicità di lettura della macchina di sequenziamento (filtro T-F1a). Infine, abbiamo escluso le SNV che fossero state rilevate da almeno una singola read nel sangue (filtro T-F1b). I dati sulla

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frequenza sono stati ottenuti dai database “dbSNP”

(https://www.ncbi.nlm.nih.gov/projects/SNP/snp_summary.cgi) e da “gnomAd” (Genome Aggregation Database https://gnomad.broadinstitute.org) considerando l’intero set di campioni del database, definito “global” [41][49]. In questi pazienti è stata inoltre cercata una seconda mutazione su cui fare ulteriori test di validazione. Il gruppo T presenta pertanto due mutazioni validate per ciascun paziente.

3.1.2. Filtraggio pazienti di Genova (gruppo G)

L’Ospedale San Martino di Genova ha invece fornito al laboratorio diciotto campioni di biopsie pleuriche con annesso plasma e liquido pleurico di pazienti con MPM; il sangue intero non è stato fornito e la sua mancanza ha reso più ostica la ricerca delle mutazioni somatiche. Per questo motivo il filtraggio dei dati dei pazienti di Genova (gruppo G), G-F, è stato effettuato in maniera differente rispetto agli altri due gruppi. In prima analisi, sono state selezionate le SNV e, tra queste, le SNV somatiche putative ricavate in seguito a calcoli probabilistici, utilizzando MuTec2, uno dei programmi di GATK.

Tra le SNV somatiche sono state prima scelte le coding e abbiamo selezionato quelle che avessero una alternative depth coverage (AD) superiore a 20, ovvero si è richiesto che il nucleotide mutante fosse stato letto un numero di volte superiore a 20 al fine di avere una maggiore sicurezza della lettura del sequenziamento. Inoltre, sono state selezionate le mutazioni che fossero assenti in gnomAD o in dbSNP oppure che avessero una MAF (globale) < 0.01%. Come criterio aggiuntivo, al fine di massimizzare la probabilità che la mutazione fosse somatica, il filtraggio ha previsto anche un criterio di sbilanciamento tra le

reads dell’allele variante rispetto a quelle dell’allele comune. Pertanto, abbiamo selezionato

SNV che presentassero AD < 25% rispetto al TD. L’applicazione di questi criteri piuttosto selettivi ha permesso di identificare un piccolo numero di varianti per ciascun soggetto.

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Tuttavia, nella scelta finale delle SNV da analizzare con ddPCR ha pesato prevalentemente l’eventuale presenza del gene mutante all’interno dei database di COSMIC e TCGA per il MPM. Quindi abbiamo iniziato a valutare i geni selezionati sulla base del filtraggio descritto qualora essi fossero stati presenti in quei database. Tuttavia, qualora le SNV filtrate fossero state su geni non presenti nei database, abbiamo proceduto col selezionare le SNV dei geni esclusi dal filtraggio purché avessero comunque un AD < 40%.

Le mutazioni così prescelte sono poi state sottoposte a valutazione mediante ASO-qPCR. Alcune mutazioni si sono rivelate realmente somatiche, mentre altre erano germline e quindi escluse dalla successiva analisi di ddPCR. Per quei pazienti con mutazioni germline sono state effettuate, quando possibile, analisi di altre SNV della lista. Anche in questo caso le frequenze nella popolazione delle mutazioni sono state estrapolate dai database “dbSNP” e

gnomAD.

3.1.3. Filtraggio pazienti di Pisa (gruppo P)

L’Ospedale Cisanello di Pisa ha fornito al nostro laboratorio nove biopsie pleuriche con corrispettivo sangue intero dei pazienti con MPM.

Mediante il sequenziamento e la successiva analisi bioinformatica è stato possibile ottenere le mutazioni del tumore dei vari pazienti. Tali mutazioni, presenti in un numero estremamente elevato sono state filtrate secondo quanto riportato di seguito e, tra esse, sono state poi considerate esclusivamente le variazioni a singolo nucleotide (SNV).

Le SNV totali sono state in primo luogo filtrate grazie alle varianti rilevate nel sangue periferico permettendo quindi di identificare con una elevata confidenza solo quelle di tipo somatico. Le SNV somatiche sono state poi decurtate della quota che non ricadeva all’interno delle sequenze codificanti, permettendo di ottenere una lista di SNV che specificavano per

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variazioni silenti, missenso, e non-senso. Dopo questa prima selezione, la lista di SNV relativa a ciascun individuo è stata raffinata mediante filtraggio P-F1.

Con P-F1 abbiamo incluso le SNV che presentavano una frequenza dell’allele minore (MAF) inferiore all’1%, (filtro P-F1a). Anche in questo caso le frequenze nella popolazione delle mutazioni sono state estrapolate dai database “dbSNP” e gnomAD. Con questo filtro abbiamo escluso anche le SNV che avessero una TD nel tumore inferiore a 20, ovvero si è richiesto che il la posizione nucleotidica fosse stata letta un numero di volte superiore a 20 per avere una certa sicurezza della lettura. Infine (filtro P-F1b) abbiamo escluso le SNV che fossero state rilevate da almeno una singola read nel sangue. Tuttavia, questo tipo di selezione potrebbe risultare troppo restrittivo, considerando che nel ctDNA potrebbero trovarsi copie di DNA tumorale mutante e avrebbe potuto inficiare proprio la ricerca da noi preposta. Abbiamo cominciato la selezione delle mutazioni per le analisi sperimentali dando la priorità alle SNV di geni presenti nei database COSMIC e TCGA. Tuttavia, abbiamo osservato che molte delle SNV filtrate non erano in geni presenti in quei database.

Per questo motivo abbiamo anche applicato un filtraggio alternativo meno stringente (P-F2). La principale differenza con P-F1 consisteva nell’includere SNV aventi una percentuale massima di reads rilevata nel sangue periferico del 20% (P-F2a). Inoltre, la variante poteva essere presente nella popolazione con una frequenza (global) fino a 0.25 (P-F2b). La soglia con un TD di 20X (P-F2b) è rimasta invariata come per P-F1b. La scelta finale (FS) delle mutazioni da analizzare con i metodi molecolari è poi proseguita per le SNV in geni presenti nei database COSMIC e TCGA e in un ordine di priorità che prevedeva il massimo sbilanciamento tra la AD misurata nel tumore rispetto a quella misurata nel sangue periferico. Sono state quindi selezionate per ogni paziente 1-2 SNV da valutare per la loro eventuale presenza nel plasma, mancando per questi pazienti il liquido pleurico.

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3.2. Estrazione DNA a partire da sangue, liquido pleurico e pleura

Prima di procedere con le tecniche di validazione avviene la fase di estrazione del DNA a partire da biopsie, sia liquide, sia solide (campione tumorale). Tale fase viene portata a termine utilizzando la stessa tecnica, sia nel caso di estrazione di DNA dal plasma, sia dal liquido pleurico. L’estrazione viene eseguita con il kit QIAamp DNA Mini Kit della QIAGEN.

L’estrazione del DNA a partire dalla biopsia solida, e quindi a partire dalla pleura, viene eseguita similmente alle precedenti estrazioni, con la differenza che il campione deve rimanere over night immerso in una soluzione con proteinasi K, in modo che questa possa rompere le cellule e liberare il DNA.

Successivamente all’estrazione il DNA estratto viene quantificato tramite il Qubit della

Invitrogen, utilizzando il programma di quantificazione ad alta sensibilità del dsDNA

(double strand DNA). Terminata questa fase è possibile iniziare le successive fasi di validazione, iniziando dalla ASO RT-PCR.

3.3. La Allelic Specific Oligonucleotide Real Time qPCR

La Allelic Specific Oligonucleotide Real Time Polymerase Chain Reaction, ASO

RT-qPCR, rientra tra le metodiche di genotipizzazione ed è pertanto utilizzabile per la

rilevazione di mutazioni. Questa tecnica è stata adottata nel nostro laboratorio per la ricerca di SNV in geni presumibilmente mutati nel MPM, in quanto si è voluta fare una valutazione preliminare per provare la presenza di una eventuale mutazione nel gene in analisi. Il metodo non è costoso e non è quantitativo ma è sufficientemente sensibile da rivelare un segnale in modo da permettere di effettuare l’analisi più sensibile e quantitativa ma anche più costosa (mediante ddPCR) una volta che abbiamo una ragionevole sicurezza che la mutazione sia presente.

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Questa tecnica sfrutta la presenza di primer che sono stati disegnati in modo che la base all’estremità 3’ sia complementare al nucleotide dove si trova la SNV. Scelto il gene, attraverso l’utilizzo di diversi tools, quali Ensemble, BLASTn, UCSC In-Silico PCR, NEB

Tm Calculator, NETPrimer si procede con il disegno dei primer e in considerazione della

regione in cui si trova la probabile SNV e di come sono stati disegnati i primer si avrà un

primer forward o reverse che sarà presente sia nella forma wild type sia nella forma

alternativa.

Per ciascun campione si effettuano due reazioni di PCR per cui un primer è in comune ad entrambe, mentre l’altro è presente in due versioni diverse, che differiscono per un solo nucleotide, all’estremità 3’ in corrispondenza delle SNV. Entrambi i primer si appaiano alle loro sequenze, ciò che cambia tra le due versioni dei primer è il legame all’estremità 3’ che determina o meno l’amplificazione, ove l’appaiamento al 3’ non ci dovesse essere infatti non si ha alcuna amplificazione.

La ASO RT-PCR viene preparata seguendo diversi passaggi. Per tale tecnica si necessita: il DNA estratto dal sangue del paziente e il DNA estratto dalla biopsia tumorale del paziente; il DNA, all’inizio degli esperimenti, si è deciso di usarlo ad una concentrazione di 5 ng/µL. Oltre ai citati campioni si utilizza anche un controllo negativo e a tal scopo viene utilizzato il DNA wild type di un individuo sano, concentrato anch’esso 5 ng/µL. Infine servono i

primer (forward e reverse), l’Eva Green e acqua distillata.

Vengono preparate due mix per ciascun campione.

Preparazione della soluzione con i reagenti per ogni pozzetto

- 1 µL di primer forward la cui concentrazione è diluita 1 a 10 rispetto alla concentrazione di partenza

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- 1 µL di primer reverse la cui concentrazione è diluita 1 a 10 rispetto alla concentrazione di partenza

- 5 µL di Eva Green

- 18 µL di acqua distillata e DNA.

Preparazione della soluzione con i reagenti con il primer alternativo per ogni pozzetto - 1 µL di primer forward comune (o alternativo) la cui concentrazione è diluita 1 a 10

rispetto alla concentrazione di partenza

- 1 µL di primer revers comune (o alternativo) la cui concentrazione è diluita 1 a 10 rispetto alla concentrazione di partenza

- 5 µL di Eva Green

- 18 µL di acqua distillata e DNA.

Successivamente alla preparazione delle mix si procede con l’allestimento della piastra da 96 pozzetti. Il volume totale per ogni pozzetto deve essere di 25 µL tra mix e DNA, per cui abbiamo preparato, così come segue, la piastra.

- In ciascun pozzetto abbiamo inserito una quantità di 22 µL di mix. - Inserita la mix abbiamo inserito per ciascun pozzetto 3 µL di DNA.

Preparata la piastra si procede inserendo il DNA estratto dal sangue, il DNA estratto dal tumore ed il DNA dell’individuo wild type che funge da controllo negativo ed infine l’acqua, cioè il bianco (mix con aggiunta di acqua invece del DNA), per individuare eventuali contaminanti della reazione, presenti in laboratorio o aggiunti accidentalmente dall’operatore. Ogni reazione è eseguita in triplicato tecnico.

Ultimata la piastra, si appone la pellicola adesiva e si centrifuga per un minuto a 1000

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Terminata la centrifugazione la piastra viene posta nel termociclatore che eseguirà le seguenti fasi di ciclo

- Fase di attivazione: per 15 minuti ad una temperatura di 95°C - Fase di denaturazione: per 15 secondi a 95°C

- Fase di ibridazione dei primer ed estensione: la temperatura di questa fase viene modificata di volta in volta che viene eseguita la ASO - qPCR, poiché la temperatura di annealing ottimale dei primer varia. Questa fase avviene in 30 secondi.

- Le tre fasi di cui sopra vengono ripetute per 40 volte.

- Fase di melting curve, in cui la temperatura a partire dai 65°C inizia ad aumentare gradualmente fino ad arrivare a 95°C.

Non appena viene avviata la macchina per la qPCR sulla base della maggiore affinità al DNA target si andrà a legare ad uno dei due primer e sarà possibile capire se il gene in analisi presenta la mutazione o meno. Se il gene presenta la mutazione in studio, infatti, vi sarà maggiore affinità della sequenza per il primer alternativo e si avrà una amplificazione del target a livello del pozzetto contenente quest’ultimo, la curva mostrerà quindi una amplificazione sin dai primi cicli di PCR, mentre nel pozzetto con il primer wild type si avrà una amplificazione durante gli ultimi cicli della reazione di qPCR oppure non si avrà affatto amplificazione. In qualche caso vi è una differenza significativa, ma non ampissima di cicli di amplificazione tra l’alternativo ed il wild type dell’ordine di 4-5 cicli a seconda della concentrazione del target.

Per confermare la presenza della mutazione nel gene indagato, pertanto, si necessita che il DNA estratto dal plasma presenti la mutazione, così come il DNA estratto dal tumore, e quindi che ci sia una amplificazione nei pozzetti contenenti il primer alternativo; viceversa il DNA estratto dall’individuo wild type si sarà amplificato per complementarietà del

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nucleotide al 3’ del primer wild type, mentre i pozzetti con solamente l’acqua non presentano alcuna amplificazione.

Terminata la PCR, ne deriverà un certo grafico da cui è possibile evincere la presenza di una certa mutazione nel gene.

La tecnica finora discussa si è rivelata molto vantaggiosa per fare un primo screening delle mutazioni precedentemente filtrati nei pazienti con MPM. Estremamente utile si è rivelata la succitata tecnica per quanto riguarda i geni filtrati nella coorte di Genova, dei quali il nostro laboratorio non ha ricevuto il sangue intero, essenziale per il filtraggio di mutazioni somatiche. Per questi campioni questa prima analisi ha consentito infatti, prima ancora di ricorrere alla ddPCR di escludere una eventuale mutazione rilevatasi germline. In seguito a questa prima analisi tramite l’Allelic Specific Oligonucleotide Real – Time PCR i geni risultati positivi alla mutazione ricercata sono soggetti della prossima analisi quantitativa.

Terminate le Real Time infatti si è proseguita la validazione utilizzando la tecnica della

digital droplet PCR che ci ha permesso di quantificare la presenza della mutazione genica

nelle biopsie liquide.

3.4. La digital droplet PCR

La digital droplet Polymerase Chain Reaction, ddPCR, è la seconda tecnica che è stata utilizzata per l’ulteriore analisi e validazione delle mutazioni geniche che sono state selezionate dai filtraggi post – sequenziamento NGS.

Questa tecnica ci ha consentito, in maniera più precisa e sensibile, di individuare le mutazioni geniche e soprattutto di quantificarne il carico nei DNA dei campioni. In seguito alla scoperta delle biopsie liquide infatti, sono state sviluppate tecniche che potessero avere una sensibilità tale da poter individuare il ctDNA, assicurando una diagnosi tempestiva e

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riducendo così la mortalità correlata al cancro. Si stima che la ddPCR possa rilevare fino ad uno 0,001% di DNA mutato [48].

Prima di effettuare l’analisi tramite la ddPCR sono state progettate le sonde complementari alla regione del gene dove si trova la mutazione. Il disegno delle sonde è stato effettuato grazie ad un tool sul sito della Bio-Rad, dal quale vengono poi ordinate le stesse sonde.

L’analisi tramite la ddPCR prevede una prima fase nella quale si preparano i campioni di DNA da analizzare per poi effettuare la vera e propria PCR, una seconda fase in cui avviene la lettura delle droplets ed infine una terza ed ultima fase di analisi dei risultati.

Nella prima fase si ha la preparazione dei campioni per la PCR. In questa fase si combinano: il campione di DNA estratto dal sangue, dal liquido pleurico o dalla pleura, le sonde marcate con i fluorofori reporter FAM ed HEX (o VIC) e la supermix specifica per le

ddPCR di questo tipo contenente tutte le componenti richieste. La ddPCR viene eseguita

con i reagenti della Bio-Rad.

La miscela di reazione che viene preparata in questa prima fase della ddPCR consiste in - 10 µL di supermix per sonde (senza dUTP)

- 1 µL di sonda con reporter FAM - 9 µL di acqua distillata e DNA.

Preparata la miscela e vorticata, si dispensano 18 µL di soluzione nei pozzetti della piastra da 96 pozzetti, ed infine si inseriscono 2 µL di DNA target ad una concentrazione compresa tra 3 ng/µL e 10 ng/µL. Il volume totale della miscela per pozzetto è di 20µL pertanto sulla base di quanti µL di DNA dispensiamo in ciascun pozzetto si calcola la quantità d’acqua da utilizzare per ogni reazione.

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