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Modello di campionamento per le biomasse residuali: il caso del nocciolo nella provincia di Viterbo. Stima dei quantitativi di potature, caratterizzazione chimica, fisica ed energetica della biomassa e prospettive di utilizzo

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA DI VITERBO

DIPARTIMENTO DI SCIENZE E TECNOLOGIE PER L'AGRICOLTURA, LE FORESTE, LA NATURA E L'ENERGIA

Corso di Dottorato di Ricerca in

Ingegneria dei Sistemi Agrari e Forestali - XXVI Ciclo.

Modello di campionamento per le biomasse residuali: il caso del nocciolo nella provincia di Viterbo. Stima dei quantitativi di potature, caratterizzazione chimica, fisica ed energetica della biomassa e prospettive di utilizzo

( s.s.d. AGR/09)

Tesi di dottorato di: Dott. Simone Di Giacinto

Coordinatore del corso Tutore

Prof. Massimo Cecchini Prof. Ing. Danilo Monarca

Firma ……….. Firma ………

Co-tutore

Dott. Andrea Colantoni Firma………

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Sommario

INTRODUZIONE ... 5

Scopo del lavoro ... 9

CAPITOLO 1 ... 10

1.1 Identità della biomassa ... 10

1.2 Provenienza della biomassa ... 11

1.3 Il comparto forestale e agroforestale ... 12

1.4 Il comparto agricolo ... 13

1.4.1 I residui agricoli ... 14

1.4.2 Le colture dedicate ... 19

1.5 Il comparto zootecnico ... 26

1.6 I residui delle attività industriali ... 28

1.6.1 L’industria del legno... 28

1.6.2 L’industria della carta ... 30

1.6.3 L’industria agroalimentare ... 31

1.7 Caratteristiche tecnologiche delle biomasse... 31

1.7.1 Caratteristiche chimiche ... 31 1.7.2 Caratteristiche fisiche ... 33 1.7.3 Caratteristiche energetiche ... 35 1.8 Forme commerciali ... 39 1.8.1 Legna da ardere ... 39 1.8.2 Il cippato ... 40 1.8.3 Il pellet ... 41 1.8.4 Il bricchetto ... 43

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1.9.1 La conversione termochimica ... 45

1.9.2 La conversione biochimica ... 48

CAPITOLO 2 ... 52

2.1 Normativa di riferimento in materia di rifiuti ... 52

2.2 Residui colturali, rifiuti o sottoprodotti agricoli ... 53

2.3 Sottoprodotti agricoli ... 53

2.4 Il caso delle biomasse ... 54

2.5 Il reato di bruciatura in campo dei residui colturali ... 56

2.5.1 Un caso legale ... 58

2.6 Codice ambientale, norma di riferimento ... 59

2.7 I residui della potatura del nocciolo ... 60

CAPITOLO 3 ... 63

MATERIALI E METODI ... 63

3.1 Le cultivar indagate ... 63

3.2 Indagini in campo ... 63

3.3 Strumentazione ... 66

3.4 Classi di età e densità d’impianto ... 67

3.5 Descrizione del metodo di campionamento... 68

3.6 Caratterizzazione della biomassa ... 73

3.6.1 Determinazione dell’umidità ... 73

3.6.2 Determinazione del potere calorifico ... 74

3.6.3 Determinazione del contenuto di ceneri ... 74

3.6.4 Determinazione del contenuto di C, H, N ... 75

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RISULTATI E DISCUSSIONE ... 77

4.1 La biomassa disponibile ... 77

4.1.1 Produzione di biomassa in funzione dell’età delle piante ... 81

4.1.2 Produzione di biomassa in funzione del sesto d’impianto ... 83

4.2 Composizione delle potature ... 90

4.3 Caratterizzazione energetica delle potature ... 92

4.3.1 Il ruolo dell’umidità ... 95

4.4 Potenzialità d’impiego delle potature di nocciolo ... 96

CAPITOLO 5 ... 100

CONCLUSIONI ... 100

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INTRODUZIONE

Nel rapporto World Oil Outlook 2013, l’OPEC ha stimato una crescita della domanda di energia, per il periodo di riferimento 2010 – 2035, pari al 52%. I combustibili fossili hanno rappresentato l’82% dell’approvvigionamento energetico nel 2010 e costituiranno, secondo la previsione OPEC, l’80% del totale mondiale entro il 2035. Durante la maggior parte del periodo previsionale il petrolio manterrà la quota maggiore, tuttavia la richiesta di ciascun tipo di combustibile si attesterà su valori simili, di circa il 26 – 27% ciascuno entro il 2035 [1]. La dipendenza tanto forte dai combustibili fossili, primo fra tutti il petrolio, è legata non solo al soddisfacimento della domanda di energia, ma anche alle abitudini della vita quotidiana; il 90% di tutti i trasporti, terrestri, aerei, o marittimi, utilizzano il petrolio; il 95% dei prodotti che troviamo nei negozi richiede l’utilizzo del petrolio; il 95% dei prodotti alimentari richiede l’utilizzo del petrolio [2]. La International Energy Agency (IEA), l’organizzazione istituita dai paesi industrializzati per questioni relative al petrolio e alle altre risorse energetiche, stima che ad oggi il mondo consuma oltre 32 miliardi di barili di petrolio l’anno, circa 88 milioni di barili al giorno. In un rapporto del 2004 la IEA prevedeva un aumento del consumo giornaliero fino a 121 milioni di barili al giorno entro il 2030 [3]. Da diversi anni ormai, è in corso un’aspra diatriba tra due fazioni pensanti opposte circa le riserve di petrolio ancora disponibili. Da una parte vi sono persone convinte che nei giacimenti rimangano ancora 2000 miliardi di barili di petrolio da sfruttare e confidano nella futura e ragionevolmente prevedibile scoperta di nuove risorse; dall’altra parte ci sono invece persone che sostengono vi siano ancora solo 1000 miliardi di barili di petrolio nelle riserve. In entrambi i casi, essendo il petrolio una fonte esauribile, arriverà inevitabilmente il giorno in cui raggiungeremo la quantità massima di petrolio estraibile dopodiché, all’indomani di quel giorno, che viene spesso indicato come il picco di produzione del petrolio, comincerà un progressivo e generalizzato declino della produttività dei giacimenti [2]. D’altra parte le industrie del gas e del carbone sembrano avere vita più lunga, stando alle stime attuali. Nonostante un consumo annuo di sei miliardi di tonnellate, che coprono il

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30% di tutti i consumi energetici mondiali, l’impiego del carbone è destinato a salire fino a diventare la principale fonte di energia, scalzando il petrolio dal primo posto [4]. Si tratta infatti di una risorsa largamente disponibile e geograficamente molto diversificata. Le riserve accertate di carbone garantiscono consumi per oltre due secoli e sono distribuite in un centinaio di Paesi [5]. Le riserve mondiali provate di gas naturale ammontano ad oltre 200.000 miliardi di metri cubi (dati riferiti al 31 dicembre 2012). Tali riserve sono costituite dai giacimenti attualmente conosciuti e che possono essere sfruttati con le tecnologie disponibili traendone profitto economico. In termini di volume, l'uso del gas naturale aumenta più velocemente di qualsiasi altra forma di approvvigionamento energetico [1]; stando agli attuali ritmi di consumo di questa risorsa, si stima che le riserve di gas naturale si esauriranno tra circa 60 anni [6].

L’incremento di produzione di energia ha causato inevitabilmente un aumento delle emissioni di gas ad effetto serra generate proprio dai combustibili fossili. Infatti, la produzione di CO2 è passata da 4 milioni di tonnellate/anno a

oltre 28 milioni di tonnellate/anno negli ultimi 60 anni [7]. Secondo i risultati di uno studio recentemente pubblicato da Siemens, la domanda di energia, su scala globale, è destinata ad aumentare di quasi il 3% all'anno, entro il 2030. Complessivamente, questa crescita moderata farà sì che la domanda di energia aumenti di oltre la metà rispetto ai livelli attuali tra ora e il 2030. Se, come previsto, verranno realizzati nuovi impianti di produzione di energia, le relative emissioni di CO2 aumenterebbero di un quarto, ossia di 3.500 Mt. Il Professore

Horst Wildemann, della Technical University di Monaco di Baviera e autore dello studio, afferma che "se le centrali elettriche a carbone venissero sostituite, su larga scala, da centrali a gas, entro il 2030, le emissioni di CO2 nel settore

energetico potrebbero ridursi anche del 5% rispetto ai livelli attuali. Certo, sarebbe illusorio sostituire ora tutte le centrali a carbone con quelle a gas, ma le potenzialità individuate sono davvero impressionanti". Le emissioni globali di CO2 che ogni anno potrebbero essere eliminate interrompendo la produzione di

energia dal carbone equivarrebbero così alla quasi totalità delle emissioni di CO2

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i cambiamenti climatici tagliando la CO2, è l’ammonimento a ridurre in maniera

drastica le emissioni di gas serra contenuto nell’ultimo rapporto sul clima diffuso dall’ONU, nel quale vengono indicate le economie a bassa produzione di anidride carbonica come l’unica strada efficace per ridurre il riscaldamento globale. Le misure adottate dagli Stati al momento non sarebbero quindi sufficienti a porre rimedio al riscaldamento globale, che in accordo con quanto affermato negli ultimi anni potrebbe attestarsi ben oltre i 2°C ipotizzati nel decennio scorso. Unica soluzione secondo l’ONU un incremento rapido ed esteso dell’impiego di fonti rinnovabili [9].

E’ importante anzitutto porre l’enfasi su quello che si potrebbe definire un approccio “a tutto tondo” al problema dell’abbandono dei combustibili fossili. Sarebbe impensabile impiegare una sola tecnologia alternativa per soddisfare, totalmente o anche solo in parte, il fabbisogno energetico di una nazione. Però si possono combinare tra loro diverse fonti rinnovabili, perché fanno tutte parte di un’unica grande famiglia. Stando alle previsioni di alcuni studi recenti (alcuni dei quali pubblicati da note compagnie petrolifere) l’energia solare rivestirà un ruolo principe nel futuro scenario energetico mondiale; scenario plausibile se si pensa che ogni giorno la superficie terrestre è investita da una quantità di luce tale da garantire all’intera società umana un approvvigionamento energetico migliaia di volte superiore al necessario. Ma alla grande famiglia delle Rinnovabili appartengono anche l’energia eolica, l’energia idraulica, l’energia geotermica e le biomasse; queste ultime sono oggetto di studio e approfondimento di questo lavoro.

La biomassa è la forma più abbondante e versatile di energia rinnovabile in tutto il mondo. La biomassa comprende, con alcune eccezioni, qualsiasi materiale costituito da una matrice organica, come il legno vergine, le colture energetiche, i residui agricoli, i rifiuti alimentari, quelli industriali e co-prodotti. La produzione di energia da biomasse prodotte da colture legnose o colture appositamente dedicate per la produzione di energia è controversa dal momento che queste competono con le colture alimentari per la terra e il fabbisogno di acqua dolce [10]. La Commissione Europea ha recentemente avanzato una proposta di direttiva che limita drasticamente la produzione di

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biocarburanti “food”, cioè estratti da materie prime commestibili come mais, cereali, zucchero e piante oleose. Se la direttiva verrà approvata senza modifiche l’attuale target del 10% di copertura dei consumi di carburanti tramite biofuel dovrà essere raggiunto almeno per metà con carburanti verdi “non food”, visto che quelli di origine alimentare potranno raggiungere solo il 5%. La Commissione, nel redigere la proposta di direttiva, ha preso in considerazione la teoria dell’”Indirect Land Use Change” (ILUC). Secondo questa visione dei biocarburanti, utilizzando la terra per fare benzina o diesel si toglie ai produttori agricoli spazio per le colture alimentari. E, siccome del cibo non si può fare a meno, i contadini saranno costretti a trasformare le superfici boscate in terreni agricoli, diminuendo l’assorbimento della CO2 totale. Alla fine, fatti due conti,

questa strategia è peggiore della situazione attuale in termini di emissioni in atmosfera. E quindi non va affatto bene. Seguendo le nuove indicazioni UE i biocarburanti da togliere di mezzo sono quelli ottenuti dalla colza, soia e palma e da altre piante oleose. Mentre si dovrebbero favorire tutti gli altri [11].

Un approccio alternativo è quello di considerare i residui agricoli o rifiuti agro–industriali come risorsa per produrre energia. La quantità dei residui agricoli dipende dagli output non alimentari lasciati in campo dalle colture agricole; dopo il raccolto tali residui potrebbero potenzialmente essere raccolti per uso energetico [12]. A volte, la stima dei residui agricoli utilizzabili è ottenuta attraverso indici empirici o fa riferimento ad aree molto estese [10][13] e non offrono così risposte esaustive e pragmatiche a fenomeni riguardanti realtà locali. Una parte di questi residui è rappresentata dalla biomassa ottenuta dalla potatura di alberi da frutto come olivo, nocciolo, castagno e molti altri [14]. L'Italia ha circa 70.500 ha coltivati a nocciole [15] quasi interamente distribuiti in sole quattro regioni che rappresentano il 98% della produzione nazionale: Campania, Lazio, Piemonte, Sicilia [16]. Viterbo è la più importante area di produzione del Lazio con circa 18.400 ha coltivati a nocciole [15] che ogni anno forniscono residui attraverso la potatura, che diventano una potenziale fonte di energia. Una tendenza recente, per quanto concerne gli impianti energetici di trasformazione delle biomasse, vede preferiti quelli di piccola taglia a quelli di grandi dimensioni (centrali da 1 MW). Negli ultimi anni molti studi sono stati

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effettuati per indagare la migliore tecnologia di trattamento delle biomasse solide, ma non molti dati, circa la quantità di potatura, sono presenti nella letteratura recente.

Scopo del lavoro

Alla luce di quanto detto sopra, sembra opportuna e quanto mai inevitabile, la ricerca di nuovi modelli di approvvigionamento energetico e sostenibilità ambientale. Questo lavoro si inserisce in un contesto provinciale, quello di Viterbo, e vede come protagonista una filiera produttiva che grida già all’eccellenza, quella della nocciola Tonda Gentile Romana. La quantità di biomassa prodotta ogni anno dalla potatura delle piante di nocciolo suscita da sempre l’interesse di agricoltori, che vedrebbero incrementato il loro reddito grazie al recupero energetico dei residui prodotti, e di enti di ricerca, impegnati a trovare le soluzioni tecnologiche più confacenti alla valorizzazione di detti residui.

Questo lavoro si pone un duplice obiettivo; in primo luogo si vuole stimare la biomassa reale derivante dalla potatura del nocciolo, considerando variabili quali l'età delle piante, il numero di piante per ha ed il contenuto idrico del materiale; a tal proposito è stato sviluppato un modello per la raccolta e la quantificazione di biomassa in campo. In secondo luogo si vuole caratterizzare, dal punto di vista energetico, questa tipologia di biomassa; per tale motivo il materiale raccolto in campo è stato sottoposto a prove di laboratorio.

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CAPITOLO 1

1.1 Identità della biomassa

Nel 2011 le biomasse hanno coperto il 10% circa del fabbisogno di energia nel mondo [17]. Il termine biomassa riunisce una gran quantità di materiali di natura estremamente eterogenea. Con alcune eccezioni, si può dire che è biomassa tutto ciò che ha matrice organica. Sono da escludere le plastiche di origine petrolchimica e i combustibili fossili che, pur rientrando nella chimica del carbonio, non hanno nulla a che vedere con la caratterizzazione che qui interessa i materiali organici [18].

La vegetazione che copre il nostro pianeta è un magazzino naturale di energia solare. La materia organica di cui è composta si chiama biomassa. Le biomasse si producono attraverso il processo di fotosintesi clorofilliana, durante il quale, grazie all'energia solare, l'anidride carbonica atmosferica e l'acqua del suolo si combinano per produrre gli zuccheri necessari per vivere (materia organica). Nei legami chimici di queste sostanze è immagazzinata la stessa energia solare che ha attivato la fotosintesi. Attraverso questo processo vengono asportate dall’atmosfera ben 2 ∙ 1011 tonnellate di carbonio all’anno, con un

contenuto energetico dell’ordine di 70 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio, ossia dieci volte il fabbisogno energetico mondiale annuo. Bruciando le biomasse, l'ossigeno atmosferico si combina con il carbonio in esse contenuto, mentre si liberano anidride carbonica e acqua e si produce calore. L'anidride carbonica torna nell'atmosfera e da qui è nuovamente disponibile ad essere re-immessa nel processo fotosintetico per produrre nuove biomasse. Le biomasse dunque sono una fonte energetica considerata neutrale ai fini dell’incremento delle emissioni di gas a effetto serra [19].

Se opportunamente utilizzata, ovvero se il ritmo di impiego non supera la capacità di rigenerazione delle formazioni vegetali, la biomassa può essere considerata a tutti gli effetti una risorsa rinnovabile e inesauribile. Per questo motivo l’impiego a fini energetici di questa risorsa è una delle priorità di sviluppo delle politiche post Kyoto [20].

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In particolare, per biomasse si intende la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, gli sfalci e le potature provenienti dal verde pubblico e privato nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani [21];

1.2 Provenienza della biomassa

Per semplicità le biomasse idonee alla trasformazione energetica, sia che essa avvenga utilizzando direttamente la biomassa o previa trasformazione della stessa in un combustibile solido, liquido o gassoso, possono essere suddivise per comparto di provenienza nei seguenti settori:

● comparto forestale e agroforestale: residui delle operazioni selvicolturali o delle attività agroforestali, utilizzazione di boschi cedui, ecc;

● comparto agricolo: residui colturali provenienti dall’attività agricola e dalle colture dedicate di specie lignocellulosiche, piante oleaginose, per l’estrazione di oli e la loro trasformazione in biodiesel, piante alcoligene per la produzione di bioetanolo;

● comparto zootecnico: reflui zootecnici per la produzione di biogas;

● comparto industriale: residui provenienti dalle industrie del legno o dei prodotti in legno e dell’industria della carta, nonché residui dell’industria agroalimentare;

● rifiuti urbani: residui delle operazioni di manutenzione del verde pubblico e frazione umida di rifiuti solidi urbani.

Si comprende quindi che nel termine biomassa sono raggruppati materiali che possono essere anche molto diversi tra loro per caratteristiche chimiche e fisiche. Di conseguenza anche le loro utilizzazioni, a fini energetici, possono essere molteplici [22].

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12 1.3 Il comparto forestale e agroforestale

Il principale strumento tecnico della selvicoltura naturalistica è costituito da operazioni di taglio e di eliminazione di alcune piante (alberi, ma anche arbusti) che consentano l’utilizzazione della produzione legnosa senza inficiare il processo di perpetuazione del bosco. Le operazioni che vengono eseguite contribuiscono a “regolare” la concorrenza tra piante della stessa età o di età diversa nonché di controllare la composizione, la struttura spaziale (distribuzione orizzontale e verticale) e l’evoluzione della comunità vegetale. I residui forestali, risultanti dai diversi tipi di intervento selvicolturale, vengono comunemente indicati come biomassa forestale. Le operazioni interessanti ai fini del prelievo di biomassa forestale a fini energetici comprendono sia interventi selvicolturali in boschi governati a fustaia sia interventi in boschi governati a ceduo. Nel primo caso un esempio di operazione può essere il prelievo degli assortimenti minori, comunemente lasciati in bosco, in seguito a interventi di taglio degli assortimenti forestali maggiori (diametro dei tronchi maggiore a 18 cm) per usi commerciali.

Ulteriore fonte di approvvigionamento è costituita dal materiale legnoso derivante dai tagli intercalari ovvero dagli interventi applicati alle giovani fustaie o alle fustaie in via di ricostituzione per aumentarne la stabilità, per regolamentarne la composizione specifica e per accrescerne la produzione di valore. Anche l’utilizzazione dei boschi cedui rappresenta sicuramente una fonte importante di biomassa forestale: i cedui italiani, infatti, costituiti nella quasi totalità da piante ceduate a ceppaia, sono destinati per lo più alla produzione di biomassa combustibile e di pali per uso agricolo.

Un’ulteriore fonte di approvvigionamento di biomasse legnose è rap-presentata dai materiali di provenienza agroforestale, ossia dalle biomasse che derivano da attività di forestazione in ambito prettamente agricolo. Le fonti di biomassa a fini energetici, in questo caso, sono principalmente da ricondursi ai residui derivanti dalle utilizzazioni a fini commerciali di coltivazioni legnose, alle utilizzazioni delle formazioni lineari (come siepi e filari o piccoli boschetti) nonché alle utilizzazioni delle formazioni boschive dedicate realizzate su superfici agricole. Per quest’ultima si fa riferimento principalmente, alla pioppicoltura: i

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residui possono derivare sia dalle potature eseguite nel corso del ciclo di crescita della pianta, sia dagli scarti delle utilizzazioni a fini commerciali (comunemente viene utilizzato il tronco, mentre le ramaglie vengono lasciate in campo).

La biomassa proveniente dal bosco viene venduta sul mercato in pezzature molto diverse per forma e grado di umidità. In taluni casi viene avviata alla produzione di forme densificate. Le pezzature più comuni sono i tronchetti di legno (l’assortimento più utilizzato negli ambienti rurali o montani, dove la raccolta della legna e il suo stoccaggio in ciocchi di opportune dimensioni è un’attività che sopravvive alle attrattive offerte dalle moderne tecnologie per il riscaldamento residenziale) e il cippato.

La superficie forestale totale in Italia è pari a 10.467.533 ha e rappresenta il 34,7% della superficie territoriale. Il bosco costituisce l'83.7% della superficie forestale, mentre le altre terre boscate corrispondono al 16,3% [23]. L’ampia disponibilità della fonte a livello nazionale rende interessante lo sfruttamento energetico delle biomasse forestali. Tuttavia il principale elemento di criticità al reperimento della biomassa in bosco può essere rappresentato dalle difficoltà logistiche e in particolare dalla presenza o meno di una viabilità forestale fruibile dai comuni mezzi di raccolta e trasporto e sufficientemente sviluppata. Soprattutto in ambito montano le formazioni boschive non sono sempre facilmente raggiungibili: in condizioni di pendenze elevate il recupero del materiale legnoso richiede una densità di strade piuttosto alta per garantire un agevole accesso dei mezzi. In alternativa spesso si rende necessaria la realizzazione di infrastrutture apposite come teleferiche o risine, utili al trasporto in condizioni orografiche accidentate con un aggravio dei costi di reperimento della biomassa

1.4 Il comparto agricolo

Il comparto agricolo svolge, e svolgerà, un ruolo sempre più preponderante nella produzione di combustibili da biomassa. Questo comparto, infatti, può fornire un’ampia gamma di materiali che possono trovare utilmente impiego a fini energetici, che comprende sia prodotti residuali di altre coltivazioni sia

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materiali derivanti da coltivazioni specialistiche dedicate alla produzione di biomassa combustibile.

Una generica classificazione delle biomasse ritraibili dal comparto agricolo è riportata nello schema che segue.

Figura 1. Classificazione delle biomasse ritraibili in campo agricolo

1.4.1 I residui agricoli

I residui agricoli comprendono l’insieme dei sottoprodotti derivanti dalla coltivazione di colture, generalmente a scopo alimentare, altrimenti non utilizzabili o con impieghi alternativi marginali. Non tutti i residui provenienti da questo comparto sono utilmente destinabili alla produzione di energia sia a causa delle loro caratteristiche fisiche ed energetiche sia a causa di barriere economiche (costi di raccolta, bassa densità per unità di superficie) che ne limitano le possibilità di impiego (tabella 1).

Biomasse

Residui Colture dedicate

Animali Vegetali

Industriali Agricoli

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Tabella 1. Residui colturali comunemente impiegati per la produzione di energia e relativo periodo di produzione [24]

Coltura residuo Periodo di produzione

E

rbac

ee

Frumento tenero Paglia Giugno - Luglio

Frumento duro Paglia Giugno - Agosto

Orzo Paglia Luglio - Agosto

Avena Paglia Luglio - Agosto

Mais Stocchi Ottobre - Novembre

Riso Paglia Ottobre - Novembre

A

rb

or

ee

Vite Potature Novembre - Febbraio

Olivo Potature Gennaio - Aprile

Melo Potature Dicembre - Febbraio

Pero Potature Dicembre - Febbraio

Pesco Potature Dicembre-Febbraio

mandorlo Potature Novembre - Dicembre

agrumi Potature Febbraio - Marzo

nocciolo Potature Novembre - Marzo

Le paglie dei cereali autunno-vernini

Le paglie che restano sul campo dopo la trebbiatura rappresentano il principale sottoprodotto dei cereali autunno-vernini, coltivati per la produzione di granella. Sebbene questo materiale frequentemente venga lasciato sul campo per essere interrato oppure venga raccolto e utilizzato come lettiera o, più raramente, come alimento per gli animali, può trovare utilità anche a fini energetici: la paglia è infatti caratterizzata da un p.c.i. che varia tra 3.300-4.200 kcal/kg di sostanza secca (ss) e ha un’umidità alla raccolta del 14-20%. Tuttavia la quantità disponibile, per ettaro di superficie, è piuttosto bassa e varia tra 3 e 6 t/ha anno, in proporzione alla quantità di granella raccolta. Quando è prevista la raccolta, le paglie vengono lasciate in andane (file parallele) dalla mietitrebbiatrice e, successivamente, confezionate in balle [22].

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16 La paglia di riso

Le caratteristiche energetiche della paglia di riso sono buone: la biomassa presenta un p.c.i. di 3.700-3.800 kcal/kg di ss e un’umidità alla raccolta del 20-30%. La produttività media varia da 3 a 5 t/ha anno. La paglia di riso tuttavia è un residuo agricolo che presenta un recupero relativamente problematico. La raccolta, che deve avvenire dopo quella del prodotto principale, si effettua infatti nel periodo autunnale, caratterizzato da un’elevata piovosità, e su terreni con difficoltà di sgrondo delle acque. Attualmente la paglia di riso viene utilizzata come lettiera per animali. Il suo impiego come combustibile avviene general-mente nell’ambito dello stesso ciclo produttivo del prodotto principale e, in particolare, in fase di essiccazione dello stesso [22].

Stocchi, tutoli e brattee di mais

I sottoprodotti del mais da granella sono gli stocchi, i tutoli e le brattee di mais. I tutoli e le brattee di mais hanno un p.c.i. di 4.000-4.300 kcal/kg di ss e un’umidità alla raccolta del 30-55%. Il quantitativo complessivamente raggiungibile, raccolto direttamente dalla mietitrebbiatrice, varia tra 1,5 e 2,5 t/ha, in base alle condizioni della coltura al momento della trebbiatura e alle caratteristiche costruttive della barra di raccolta. Gli stocchi sono caratterizzati da un p.c.i. di 4.000-4.300 kcal/kg di ss e da un’umidità alla raccolta del 40-60%. La produttività è di circa 4-5 t/ha anno. Attualmente sono utilizzati per lo più come lettiera negli allevamenti ma possono trovare impiego anche a fini energetici. Possono essere recuperati successivamente alla raccolta della granel-la. Il periodo utile per la raccolta risulta essere indicativamente di 30-40 giorni, se tale operazione è effettuata prima dell’inverno, di 50-90 giorni se l’intervento è realizzato nella primavera successiva (nel caso del mais in monosuccessione). La raccolta tardo-autunnale generalmente comporta maggiori criticità dovute all’elevato tasso di piovosità media tipico di questo periodo che aumenta l’umidità del prodotto e quindi ne riduce la qualità (sviluppo con muffe, perdite di sostanza secca sia in pre che in post raccolta, imbrattamento con fango), oltre a generare difficoltà nella transitabilità del terreno. La raccolta meccanica degli stocchi non presenta particolari difficoltà tecnico-operative: i cantieri di lavoro attualmente

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adottati prevedono la trinciatura (riduzione del materiale in piccole scaglie) e l’andanatura (disposizione del materiale in campo lungo file lineari) prima del confezionamento in balle cilindriche. In taluni casi alla trinciatura segue il trasporto diretto allo stoccaggio [22].

Sottoprodotti delle colture arboree da frutto (vite, ulivo, altri fruttiferi) Sottoprodotti delle colture arboree da frutto derivano dalle operazioni di potatura dei frutteti che si eseguono in epoche e con cadenze variabili in funzione delle colture attuate, nel periodo di riposo vegetativo. Nella pratica, tale materiale viene allontanano dall’appezzamento per evitare lo sviluppo di possibili fitopatologie. La possibilità di recuperare i residui di potatura (sarmenti di vite, frasche di olivo, ramaglie di frutteti) per un loro utilizzo a fini energetici è legata alla possibilità di procedere alla raccolta del materiale ed è quindi vincolata alla densità d’impianto, alle modalità di potatura e al conseguente accrescimento delle piante (la forma di allevamento) nonché alla disposizione (grado di frammentazione e pendenza) del terreno[22].

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Tabella 2. Principali caratteristiche chimico-fisiche dei residui colturali [22] Sottoprodotto

agricolo Umidità alla raccolta (%) media (t/ha) Produzione Rapporto C/N Ceneri (% in peso) p.c.i. (kcal/kg ss) Paglia frumento tenero 14-20 3-6 120-130 7-10 4.100-4.200 Paglia frumento duro 14-20 3-5 110-130 7-10 4.100-4.200 Paglia altri cereali autunno-vernini 14-20 3-5,5 60-65 5-10 3.300-3.400 Paglia riso 20-30 3-5,5 60-65 10-15 3.700-3.800 Stocchi mais 40-60 4.5-6 40-60 5-7 4.000-4.300 Tutoli e brattee di mais 30-55 1,5-2,5 70-80 2-3 4.000-4.300 Sarmenti vite 45-55 3-4 60-70 2-5 4.300-4.400 Frasche di olivo 50-55 1-2,5 30-40 5-7 4.400-4.500 Residui fruttiferi 35-45 2-3 47-55 10-12 4.300-4.400

Sebbene i residui colturali rappresentino una fonte energetica facilmente accessibile vanno considerate alcune criticità legate allo sfruttamento degli stessi e in particolare gli impieghi alternativi del materiale, la bassa produttività per unità di superficie e la composizione chimica delle biomasse. Per quanto riguarda il primo aspetto, legato al ruolo agronomico dei residui colturali, c’è da rilevare che le pratiche agricole normalmente in uso trattano in maniera differente i diversi residui: se i residui di potatura vengono comunque raccolti e asportati dal campo, i residui colturali del mais, sono normalmente lasciati sul campo e interrati; questa operazione permette infatti l’apporto di sostanze organiche al terreno al fine di migliorarne la struttura e di mantenerne la fertilità. Sebbene

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l’interramento di tale materiale sia una pratica valida in linea generale, non lo è in senso assoluto: l’interramento della paglia, ad esempio, nonostante a volte venga comunque eseguito, può alterare l’equilibrio del terreno a causa dell’elevato rapporto tra carbonio e azoto (rapporto C/N) che rende successivamente necessario l’arricchimento del terreno con composti azotati di origine chimica. La destinazione dei residui agricoli a fini energetici deve quindi essere valutata di volta in volta, tenendo presente che essa non è consigliabile quando ciò comporti dei risvolti negativi a livello agronomico. Un’approfondita conoscenza delle caratteristiche chimico-fisiche del terreno agricolo si rivela dunque sempre necessaria al fine di definire correttamente un equilibrato livello di asportazione. Un secondo aspetto riguarda le quantità disponibili per unità di superficie. Queste in genere sono relativamente modeste e spesso non giustificano la raccolta, l’asportazione e il trasporto della biomassa alla centrale termica. Il basso peso specifico del materiale inoltre fa aumentare il costo di trasporto per unità trasportata (il trasporto è un punto chiave della logistica) e diventa importante, quindi, anche la distribuzione sul territorio di tali residui. Per quanto attiene infine alla composizione chimica dei residui agricoli va evidenziato che un alto contenuto in cenere può comportare complicazioni in fase di impiego della biomassa: in linea generale la presenza di ceneri aumenta il pericolo della formazione di scorie e depositi a danno dei bruciatori ed aumenta le emissioni di particolato.

1.4.2 Le colture dedicate

Con il termine “colture dedicate”, o “colture energetiche”, si fa riferimento a coltivazioni allestite allo scopo di produrre biomassa da destinare alla produzione di energia elettrica e/o termica.

Lo sviluppo delle filiere agro-energetiche rappresenta una concreta possibilità per il comparto agricolo, anche in virtù della spiccata eterogeneità che le caratterizza, spiegabile con la disponibilità di materie prime, che possono essere sfruttate mediante un approccio strettamente connesso alle attitudini del territorio. Il modello di sviluppo si basa sulla stretta interazione tra la

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produzione e la sua valorizzazione energetica e, proprio in tale settore, l’impresa agricola può esplicare le sue potenzialità valorizzando le caratteristiche ambientali e sociali presenti a livello locale. La possibilità di convertire i terreni destinati alle colture alimentari in colture energetiche dipende dalla vocazione de territori ed è legata a fattori economici, politici e agli incentivi legislativi che la favoriscono in considerazione dell’alto prezzo dei combustibili fossili, della forte dipendenza dai Paesi produttori e soprattutto per motivazioni di carattere ambientale [25].

Le colture dedicate possono essere raggruppate in tre categorie principali: 1) colture da biomassa lignocellulosica:

‧ erbacee annuali; ‧ erbacee poliennali; ‧ legnose poliennali; 2) colture oleaginose: ‧ erbacee annuali; 3) colture alcoligene: ‧ erbacee annuali; ‧ erbacee poliennali

In tabella 3 è riportato un elenco delle suddette colture con l’indicazione del prodotto intermedio e di quello trasformato.

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Tabella 3. Elenco delle più comuni specie dedicate suddivise in categorie [22]

Specie Ciclo di produzione Prodotto intermedio Prodotto trasformato Lig no ce llu lo sic he

Kenaf Erbacea annuale Fibra

Legno e fibre sminuzzate (chips),

Fascine di residui

Canapa Erbacea annuale Fibra

Sorgo da fibra Erbacea annuale Fibra

Miscanto Erbacea poliennale Fibra

Canna comune Erbacea poliennale Fibra

Cardo Erbacea poliennale Fibra

Panico Erbacea poliennale Fibra

Robinia Legnosa poliennale Legno

Ginestra Legnosa poliennale Legno

Eucalitto Legnosa poliennale Legno

Salice Legnosa poliennale Legno

Pioppo Legnosa poliennale Legno

O le ag in os e

Colza Erbacea annuale Semi oleosi

Olio vegetale Girasole Erbacea annuale Semi oleosi

Soia Erbacea annuale Semi oleosi

Ricino Erbacea annuale Semi oleosi

Cartamo Erbacea annuale Semi oleosi

A lc olig en e Barbabietola da

zucchero Erbacea annuale Rizoma

Zuccheri/alcoli Sorgo zuccherino Erbacea annuale Stelo

Topinambur Erbacea poliennale Tubercolo

Mais Erbacea annuale Granella

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22 Le colture lignocellulosiche

Comprendono specie erbacee o legnose caratterizzate dalla produzione di biomassa costituita da sostanze solide composte principalmente da lignina e/o cellulosa. Queste colture possono essere suddivise in tre gruppi [22].

Le colture erbacee annuali comprendono specie caratterizzate da un ciclo di vita annuale. Le più interessanti si trovano nel genere dei sorghi, oltre a mais, kenaf, canapa, ecc. Queste colture offrono il vantaggio di non occupare il terreno agricolo in modo permanente, perciò si inseriscono bene nei cicli tradizionali di rotazione colturale e possono essere coltivate anche su terreni tenuti a riposo secondo il set-aside rotazionale. Tale flessibilità di coltivazione è un fattore importante per quanto riguarda l’impatto che può avere la coltivazione di specie a destinazione energetica sugli agricoltori: il fatto che il terreno non sia vincolato in modo duraturo li rende infatti più propensi alla coltivazione di specie per loro inusuali.

Le colture erbacee poliennali comprendono un elevato numero di specie atte alla produzione di biomassa lignocellulosica. Le più importanti, anche in relazione alle condizioni pedoclimatiche locali, sono la canna comune, il miscanto e il panico. Queste specie presentano un maggior impatto sull’organizzazione del-l’azienda agricola in quanto occupano il suolo per diversi anni (10-15 anni) e presentano un elevato costo d’impianto. A loro vantaggio risulta invece il fatto che una volta entrata in produzione, la coltura fornisce una notevole quantità di biomassa per più anni e con bassi costi aggiuntivi (rispetto alle specie annuali). Inoltre, il loro impatto ambientale non è alto poiché queste specie sono generalmente poco esigenti: richiedono cioè aggiunte modeste di prodotti chimici quali fertilizzanti, antiparassitari, ecc. e leggere lavorazioni del terreno.

Le colture arboree sono costituite da specie selezionate per l’elevata resa in biomassa e per la capacità di rapida ricrescita in seguito al taglio. Le specie legnose coltivate a scopi energetici hanno generalmente turni di ceduazione brevi (2-3 anni) e presentano un’elevata densità d’impianto variabile dalle 6.000 alle 14.000 piante/ha. Si parla in questo caso di Short Rotation Forestry (SRF). Generalmente nelle SRF si utilizzano specifici cloni appositamente selezionati e la ceduazione delle piante, annuale o biennale, è completamente meccanizzata

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mediante l’utilizzo di apposite cippatrici. Tra le colture arboree coltivabili a turno breve sono ritenuti interessanti i salici, i pioppi, la robinia, gli eucalitti e la ginestra (arbustiva). I principali parametri analitici di interesse ai fini della caratterizzazione delle specie lignocellulosiche). In tabella 4 sono sintetizzate le caratteristiche fisiche ed energetiche delle principali specie vegetali.

Tabella 4. Principali parametri produttivi ed energetici della biomassa da colture dedicate Produzione di sostanza fresca (t/ha anno) Umidità alla raccolta (%) Produzione di sostanza secca (t/ha anno) p.c.i. (kcal/kg di ss) Sorgo da fibra 50-100 25-40 20-30 4.000-4.050 Kenaf 70-100 25-35 10-20 3.700-3.900 Miscanto 40-70 35-45 15-30 4.200-4.250 Canna comune 45-110 35-40 15-35 3.950-4.150 Panico 25-60 35-45 10-25 4.100-4.200 Pioppo 20-30 50 10-15 4.100-4.200

Le biomasse lignocellulosiche da colture dedicate, esattamente come le biomasse di origine forestale e i residui agricoli, possono trovare impiego come combustibili nei moderni impianti di riscaldamento, autonomi o centralizzati. Più raramente vengono utilizzate per la produzione combinata di energia termica ed elettrica in impianti di cogenerazione. Per l’alimentazione di impianti automatizzati con i prodotti delle SRF e delle coltivazione erbacee poliennali, quali canna comune e miscanto, si preferisce generalmente procedere alla cippa-tura del materiale raccolto al fine di renderlo omogeneo per dimensioni. Le rimanenti colture sono più adatte alla densificazione in bricchetti e pellet. In generale, le biomasse di origine erbacea provenienti da colture poliennali, a parità di quantità di biomassa prodotta, sono caratterizzate da costi di produzione decisamente inferiori rispetto alle biomasse provenienti da colture legnose. Il vantaggio di costi inferiori della materia prima non compensa però una serie di ostacoli che ne limitano decisamente l’utilizzo nella produzione di

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calore ed elettricità: tra i principali si riscontra la minor efficienza durante la combustione, se comparata con l’utilizzo di biomassa legnosa, ma anche il minor peso specifico, il minor potere calorifico per unità di peso e il maggiore contenuto di ceneri e di altri composti indesiderati in quanto corrosivi, quali potassio (K), fosforo (P), zolfo (S), o inquinanti quali zolfo (S), azoto (N) e cloro (Cl) [26]. Al fine di ridurre nella biomassa le concentrazioni di questi elementi, vengono utilizzate piante con ciclo fotosintetico C4 in luogo di piante con ciclo fotosintetico C3, in quanto più efficienti nell’uso della risorsa idrica (la silice, in forma di acido silicico, è infatti facilmente traslocata alla pianta mediante assorbimento del-l’acqua); inoltre è stato dimostrato che la coltivazione su terreni sabbiosi piuttosto che argillosi diminuisce il contenuti di ceneri. Infine, la raccolta effettuata nel tardo inverno, ove il ciclo colturale lo rende possibile come nel caso delle colture erbacee perennanti, favorisce la traslocazione di elementi quali il potassio e il cloro dagli apparati epigei (parte aerea della pianta) agli apparati radicali, riducendo in tal modo la concentrazione di questi inquinanti nella biomassa raccolta. In definitiva la scelta della coltura da mettere a dimora, un’appropriata tecnica colturale e l’epoca di raccolta costituiscono elementi determinanti ai fini della qualità della biomassa erbacea.

Le colture oleaginose

Insieme alle colture alcoligene si differenziano dalle precedenti poiché non forniscono direttamente il biocombustibile, bensì la materia prima da cui ricavare lo stesso attraverso trasformazioni chimiche e biochimiche. Tra le colture oleaginose vanno annoverate molte specie, diffuse su scala mondiale, sia arboree (la palma da cocco), sia erbacee (il girasole, il colza e la soia). In linea generale le colture oleaginose producono semi caratterizzati da un elevato contenuto in oli: nel girasole il contenuto in oli è in media del 48% con punte del 55% mentre nel colza è in media del 41% con picchi del 50%. I semi di soia presentano delle concentrazioni inferiori comprese, in media, tra il 18 e il 21%; per tale motivo, ai fini della destinazione energetica, questa coltura risulta spesso sfavorita rispetto alle precedenti. Gli oli grezzi ottenuti dalle colture oleaginose sono caratterizzati da un elevato potere calorifico inferiore (in media di 9.400 kcal/kg), per cui

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possono essere utilizzati come biocarburanti, in sostituzione del gasolio, per la produzione di energia termica ed elettrica e in cogenerazione. La loro conversione in biodiesel ne consente l’impiego anche per l’autotrazione. Le rese colturali in termini di disponibilità di biocarburante per ettaro sono riportate nella tabella 5.

Tabella 5. Rese delle colture oleaginose in termini di produzione di semi, di olio grezzo e di biodiesel [22]

Coltura oleaginosa

Resa in semi (t/ha)

Resa in olio grezzo estratto (t/ha) Resa in biodiesel (t/ha) Colza 2,7 1,0 0,9 Girasole 3,0 1,1 1,0 Colture alcoligene

Con il termine alcoligene ci si riferisce a quelle colture atte alla produzione di biomassa dagli elevati contenuti in carboidrati fermentescibili che possono essere destinati, mediante un processo di fermentazione, alla produzione di bioetanolo da utilizzarsi quale biocarburante in sostituzione della benzina o dei composti antidetonanti (ad esempio MTBE) (tabella 6). La materia prima da avviare alla filiera di produzione del bioetanolo può essere costituita da zuccheri semplici (in primis saccarosio e glucosio), o da zuccheri complessi (amido) ed è ottenuta, rispettivamente, dalle colture dedicate saccarifere o da quelle amilacee. Tra le colture saccarifere, quelle ritenute adatte alle condizioni del terreno e del clima in Italia, sono la barbabietola da zucchero e il sorgo zuccherino, tra le colture amilacee il frumento tenero, soprattutto nell’Italia meridionale, e il mais, in particolare nell’Italia settentrionale. Le colture saccarifere presentano un elevato contenuto in zuccheri semplici: l’estratto zuccherino fermentescibile nella barbabietola costituisce in media il 20% della biomassa secca raccolta, nel sorgo il 18%. Le colture amilacee contengono l’amido in forma di granuli e i residui di glucosio che lo compongono possono essere idrolizzati e, successivamente, fermentati a bioetanolo: il frumento tenero presenta un contenuto in amido corrispondente al 70%, il mais pari al 78%.

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Tabella 6. Rese produttive delle colture alcoligene in termini di bioetanolo Coltura Resa in bioetanolo (t/ha)

Barbabietola da zucchero 5,5

Sorgo zuccherino 4,5

Frumento tenero 2,5

Mais 3-6

L’impiego in campo energetico delle colture dedicate suscita da sempre perplessità da parte dell’opinione pubblica. La produzione di biomassa da tali colture infatti, implica necessariamente una riduzione della superficie agricola utilizzata (SAU). A questo, molte volte vengono associati gli aumenti di prezzo dei beni primari. Studi recenti, condotti da enti di ricerca e università, hanno evidenziato come la produzione di biocarburanti su larga scala, a partire da colture agrarie, determinerebbe una contrazione cospicua dei terreni destinati alla produzione di beni primari. Assume pertanto un’importanza crescente, la possibilità di valorizzare in termini energetici i residui produttivi il cui reperimento incide in misura molto più contenuta sui costi di produzione del biocarburante. A questo scopo si prestano gli scarti della produzione ortofrut-ticola, che si possono avvalere delle stesse tecnologie impiegate per le materie prime derivanti dalle colture dedicate saccarifere e amilacee. Un ruolo di notevole rilievo può essere svolto anche dai residui lignocellulosici provenienti dalle lavorazioni agricole e dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani; per tali materie prime la filiera produttiva è in corso di ottimizzazione.

1.5 Il comparto zootecnico

Con il termine deiezioni zootecniche vengono definiti i prodotti di scarto (o reflui) di un allevamento, risultato della miscela di feci, urine, acqua, lettiera, peli, residui alimentari, ecc. Si parla invece di deiezioni tal quali o propriamente dette, quando ci si riferisce solamente al sottoprodotto fisiologico degli animali (feci e urine).

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Le deiezioni zootecniche presentano una composizione estremamente variabile non solo in funzione dell’origine (bovina, suina, avicola, ecc.), ma anche in funzione delle modalità di allevamento e di gestione. In particolare l’apporto di acqua e quindi, all’opposto, il contenuto in sostanza secca, gioca un ruolo determinante nella scelta della modalità di trattamento/smaltimento più idonea.

In figura 2 viene illustrata la classificazione delle deiezioni zootecniche sulla base del contenuto in sostanza secca.

Figura 2. Classificazione delle deiezioni zootecniche in funzione del contenuto di sostanza secca [22].

Le deiezioni zootecniche, ricadenti nella definizione di liquame, sono quelle che meglio si prestano allo sfruttamento energetico mediante digestione anaerobica in quanto il loro contenuto di sostanza secca è inferiore al 10-12%. Il potenziale energetico dei liquami zootecnici è in diretto rapporto con il contenuto in sostanza organica. Infatti è proprio la sostanza organica che, attraverso il processo di fermentazione o di digestione anaerobica, dà luogo alla formazione di biogas, combustibile ad alto potere calorifico. Come si evince dai dati riportati nella tabella 7, è questo il caso dei liquami bovini e suini, caratterizzati appunto da un elevato tenore di sostanza organica (o solidi volatili).

Tabella 7. Rendimento in biogas di liquami bovini e suini

Materiale Sostanza secca (ss) (%) Sostanza organica (solidi volatili - sv) (% sulla ss) Rendimento biogas (Nm3/kg SV)

Liquame suino 3-8 70-80 0,25-0,50

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Oltre alla quantità di sostanza organica presente è altrettanto importante considerare la qualità del materiale in quanto tale aspetto può condizionare il rendimento in biogas e il contenuto in metano. I fattori di particolare rilievo sono:

• composizione del materiale: condiziona la velocità di degradazione (degradabilità) che, in senso decrescente, può essere così schematizzata: lignina → cellulosa → grassi → proteine → carboidrati. Un liquame bovino, a maggior contenuto di materiale cellulosico, presenta una velocità di degradazione superiore a un liquame suino più ricco in grassi che, tra l’altro, sono la sostanza che consente di ottenere maggiori rendimenti di biogas;

• presenza di elementi essenziali: il carbonio, l’azoto, il fosforo e lo zolfo sono elementi essenziali alla crescita dei batteri responsabili del processo di fermentazione. Il rapporto tra carbonio e azoto (C/N) non deve mai superare il valore di 35, con un ottimo di 30;

• presenza di elementi tossici: sono spesso micronutrienti quali sodio (Na+), potassio (K+), calcio (Ca2+), magnesio (Mg2+), ammonio (NH4+), zolfo (S2-)

che, se presenti in eccesso, possono indurre tossicità. Anche i metalli pesanti quali rame (Cu2+), nichel (Ni2+), cromo (Cr), zinco (Zn2+), piombo (Pb2+) possono

risultare dannosi se presenti in concentrazioni superiori a 1 mg/l. Altre sostanze capaci di bloccare la digestione sono i detergenti e i composti chimici di sintesi.

1.6 I residui delle attività industriali

1.6.1 L’industria del legno

L’industria del legno produce tre tipologie di scarti di lavorazione:

• scarti di legno vergine provenienti da segherie, carpenterie e fale-gnamerie, produzione di imballaggi in legno, produzione di manufatti in legno massiccio e di pannelli di legno compensato; sono costituiti da residui di legno naturale di varia pezzatura (segatura, trucioli, cippato, ecc.);

• scarti di legno trattato provenienti dalla produzione di pannelli a base di legno e dalla produzione di mobili e arredi in legno costituiti da residui

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con presenza di colle e/o prodotti vernicianti (compreso polverino di levigatura o sagomatura);

• scarti di legno impregnato provenienti dalla produzione di manufatti particolari, quali pali telefonici e traversine ferroviarie, e costituiti da residui legnosi impregnati con preservanti a base di sali.

Ai fini energetici, salvo nel caso di impianti dotati di tecnologia anti-inquinamento, possono essere utilizzati solo i residui e i sottoprodotti legnosi non trattati chimicamente (ad esempio residui da scortecciatura, taglio, pressatura, ecc.) o trattati con prodotti non contenenti metalli pesanti o composti alogenati organici (questi ultimi sono tipici del legno trattato con preservanti o con altre sostanze chimiche). Tali raccomandazioni sono dettate dalla necessità di evitare che in fase di combustione possano svilupparsi gas nocivi.

Le principali caratteristiche dei residui derivanti dal comparto del-l’industria del legno sono sintetizzate nella tabella 8.

Tabella 8. Caratteristiche dei principali residui dell’industria del legno

Tipologia di lavorazione Tipologia di scarto Umidità Granulometria

Segheria Cippato Elevata (50%) Grossolana

Segatura Elevata (50%) Fine

Falegnameria/Mobilifici

Trucioli Bassa (15-17%) Grossolana

Segatura Bassa (15-17%) Fine

Polverino Bassa (15-17%) Fine

Con l’entrata in vigore del D. Lgs. 3 aprile 2006 n.152, la normativa sui rifiuti viene completamente riformulata e viene abrogato il D. Lgs. 22/1977 (noto come “Decreto Ronchi”). La suddetta normativa, insieme ai decreti attuativi, nata con lo scopo di incrementare ed agevolare l’utilizzo dei “rifiuti”, ha reso più difficile l’impiego dei residui di legno da sempre considerati equivalenti alle materie prime. Nel 1997, a seguito delle disposizioni introdotte dal Decreto Ronchi n. 22/1997, nasce il Consorzio della filiera del legno che prende il nome di Rilegno. Oggi la sua attività è disciplinata dal testo Unico ambientale D.Lgs

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152/2006 e successive modifiche e più precisamente dalla parte quarta, titolo II – art.223. Rilegno deve garantire il corretto recupero e riciclo dei rifiuti di imballaggio legnosi prodotti sul territorio nazionale: a tal fine il Consorzio si adopera per avviare, implementare e consolidare una adeguata e capillare raccolta differenziata degli imballaggi, intrattenendo numerosi rapporti di collaborazione con pubbliche amministrazioni e operatori privati. La normativa vigente impone ai produttori di imballaggi, consorziati in Rilegno, l’onere dell’individuazione di appositi punti di raccolta, ove gli utilizzatori di imballaggi industriali ed i produttori di rifiuti urbani da imballaggio di legno possano conferire tali materiali di risulta senza ulteriori oneri a carico. Rilegno ha sviluppato su tutto il territorio nazionale una rete di piattaforme convenzionate a cui compete l’onere, adeguatamente remunerato dal sistema consortile, di una prima riduzione volumetrica del rifiuto legnoso ritirato, tramite pressatura, frantumazione, triturazione o cippatura. Esistono attualmente 389 piattaforme di raccolta distribuite sul territorio nazionale [27].

1.6.2 L’industria della carta

I residui di produzione dell’industria cartaria sono idonei al recupero sia di materia che di energia. Tali residui si presentano principalmente sotto forma di fanghi e sono generalmente prodotti dal processo di depurazione delle acque, sia chimico-fisico che biologico. Gli scarti di lavorazione, gli sfridi e i foglicci, sono invece riavviati direttamente in testa all’impianto e rimessi in produzione. Minore importanza hanno i rifiuti di vario genere, quali scarti di ferro, legno e plastica provenienti dalla gestione degli imballaggi, gli oli esausti e i rifiuti assimilabili agli urbani. Una menzione a parte va fatta per i residui del processo di riciclo della carta da macero. Si tratta essenzialmente di scarti di pulper (de-rivanti dalla separazione della fibra dalle impurità più grossolane) e fanghi di disinchiostrazione (ottenuti a seguito della separazione dell’inchiostro dalla fibra cellulosica). Negli ultimi anni si è registrato un incremento nella generazione di rifiuti dovuto, essenzialmente, al potenziamento delle capacità di trattamento

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degli impianti di depurazione delle acque e all’aumentato impiego del macero, caratterizzati da un più elevato contenuto di impurità e di fibra non riutilizzabile.

1.6.3 L’industria agroalimentare

Alcuni materiali di scarto provenienti dalle lavorazioni dell’industria agroalimentare si prestano al trattamento mediante digestione anaerobica per il loro elevato carico organico e il loro alto tenore di umidità. I principali scarti dell’industria agroalimentare, che possono essere sfruttati per il recupero energetico mediante biometanazione con una produzione specifica di biogas compresa tra 0,25-0,35 m3/kg s.s., vengono di seguito riportati.

1.7 Caratteristiche tecnologiche delle biomasse

1.7.1 Caratteristiche chimiche

Come detto, le biomasse hanno origine dall’energia irradiata dal sole che, attraverso la fotosintesi clorofilliana, trasforma la struttura molecolare dell’anidride carbonica e di altri elementi e produce la materia organica delle piante. La formula chimica generale con cui vengono indicate le biomasse è CxHyOz; [18]. I principali polimeri costituenti la biomassa legnosa sono la

cellulosa, l’emicellulosa e la lignina.

• la cellulosa, è il principale componente del legno, di cui costituisce circa il 50% del peso secco. In forma di micro fibrille, essa è costituita da una catena lineare d monomeri (molecole di glucosio) con un elevato grado di polimerizzazione. Presente nella parete cellulare primaria e, soprattutto, secondaria, conferisce resistenza al legno ed è particolarmente resistente agli agenti chimici [28]. Il suo potere calorifico è elevato, pari a circa 3.900 kcal/kg [22].

• l’emicellulosa è un polisaccaride a basso peso molecolare, presente nella parete cellulare delle piante negli spazi lasciati liberi dalla cellulosa; costituisce dal 10 al 30% del legno. Per idrolisi acida libera i suoi costituenti: esosi (glucosio, galattosio e mannosio) e pentosi (xilosio e arabinosio) insieme a

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acido glucoronico. L’emicellulosa, come la cellulosa, è insolubile in acqua, ma al contrario di questa è solubile in soluzione acquosa alcalina [28]; ha un modesto potere calorifico.

• la lignina, è presente nella lamella mediana della parete cellulare e conferisce rigidità alla pianta; è presente in percentuali che variano dal 20 al 30% del peso secco e ha un alto potere calorifico (circa 6.000 kcal/kg) [22]; essa è costituita da una miscela di polimeri fenolici a basso peso molecolare, la cui unità è il fenil-propano; si caratterizza per una bassa igroscopicità e per una suscettibilità agli agenti ossidanti [28].

Oltre a i tre componenti principali, nel legno sono presenti numerosi altri composti organici, localizzati nel lume e nella parete cellulare: terpeni, resine, grassi, gomme, zuccheri non strutturali, tannini, alcaloidi, cere, ecc.. Alcune di queste sostanze possono essere separate, attraverso l’impiego di mezzi chimici e fisici, e vanno sotto il nome di estrattivi. Una frazione importante del legno è costituita dai composti organici (Sali di calcio, magnesio, sodio, potassio, silicio, ecc.), che solitamente si ritrovano, in seguito alla combustione, nelle ceneri. La percentuale dei composti inorganici varia in funzione di diversi fattori; si passa dallo 0,4% della bese del tronco al 7% delle foglie e 10% della corteccia [28].

Riguardo alla sua composizione elementare, il legno è costituito quasi interamente da tre elementi: il carbonio (49-51%), l’ossigeno (41-45%) e l’idrogeno (5-7%) (tabella 9). Al contempo presenta relativamente basse quantità di azoto (0,05-0,4%), di zolfo (0,01-0,05%) e di altri elementi minerali che vanno a costituire le ceneri (0,5-1,5%) [28].

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Tabella 9. Composizione chimica elementare (%) di alcune specie forestali, allo stato secco, puro e senza ceneri [28]. Specie C H2 O2 N2 Leccio 48,9 5,2 43,1 2,1 Roverella 49,4 6,1 44,5 2,0 Faggio 48,3 6,0 45,1 0,6 Betulla 48,9 6,2 43,9 1,0 Carpino 48,1 6,1 44,9 0,9 Ontano 49,2 6,2 44,6 0,7 Frassino 49,4 6,1 44,5 - Pioppo nero 49,7 6,3 44,0 - Tiglio 49,4 6,9 43,7 0,6 Pino silvestre 49,9 6,3 42,0 0,7 Abete rosso 50,2 6,2 41,4 0,6 1.7.2 Caratteristiche fisiche

Le caratteristiche fisiche delle biomasse legnose, rilevanti ai fini energetici, sono il tenore di umidità e la densità. Questi due fattori, accanto alla composizione chimica del materiale, incidono infatti sul potere calorifico del legno.

L’umidità viene definita dal rapporto tra la quantità d’acqua contenuta nel legno e il peso dello stesso. Questa variabile assume un’importanza significativa perché, oltre ad agire sui meccanismi di combustione, ha un’influenza sulle caratteristiche chimiche del legno e sul suo peso specifico. La quantità d’acqua contenuta nel materiale varia in funzione di diversi fattori quali la specie, l’età, la parte di pianta considerata (rami, fusti, ecc.), la stagione del taglio, ecc. In generale si hanno tenori di umidità più bassi nelle latifoglie rispetto alle conifere, nelle parti basse rispetto alle parti alte della pianta, in estate rispetto all’inverno. Per definizione, l’umidità del legno viene espressa come rapporto tra la differenza del peso del legno umido e del legno secco, diviso il peso di legno secco [29].

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34 Umidità del legno (anidro) u (%)

Esprime la massa di acqua presente in rapporto alla massa di legno anidro: 𝑢𝑢 =𝑀𝑀𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢 − 𝑀𝑀𝑎𝑎𝑎𝑎𝑢𝑢𝑢𝑢𝑎𝑎𝑢𝑢

𝑀𝑀𝑎𝑎𝑎𝑎𝑢𝑢𝑢𝑢𝑎𝑎𝑢𝑢 𝑥𝑥 100 [%]

dove Mumido è il peso della biomassa tal quale (umida) e Manidro è il peso

della biomassa allo stato anidro, ovvero della sostanza secca (materiale essiccato in stufa a 103°C fino a peso costante).

Una seconda formula viene invece usata per determinare il tenore idrico della biomassa [29]:

Contenuto idrico del legno w (%)

Essa esprime la massa di acqua presente in rapporto alla massa di legno fresco:

𝑤𝑤 = 𝑀𝑀𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢 − 𝑀𝑀𝑎𝑎𝑎𝑎𝑢𝑢𝑢𝑢𝑎𝑎𝑢𝑢

𝑀𝑀𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢 𝑥𝑥 100 [%]

Di seguito si riportano le formule e le tabelle per la conversione delle misure percentuali [29]: 𝑢𝑢 = 100 ∗𝑤𝑤100−𝑤𝑤 [%] 𝑤𝑤 = 100∗ 𝑢𝑢100+𝑢𝑢 [%] w 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 u 11,1 17,6 25,0 33,3 42,9 53,8 66,7 81,8 100,0 122,2 150,0 u 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 w 9,1 13,0 16,7 20,0 23,1 25,9 28,6 31,0 33,3 35,5 37,5

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Supponendo che la massa del legno fresco sia costituita per metà di acqua e l’altra metà di pura sostanza legnosa, si ha che il contenuto idrico del legno (w %) è pari al 50% mentre l’umidità del legno è del 100% (u %). Il valore del contenuto di umidità del legno può quindi essere superiore al 100% qualora almeno metà del peso di un campione di legno sia dovuto all'acqua in esso contenuta.

La densità è la massa per unità di volume e si misura in kg/m3. Può essere

calcolata considerando il legno allo stato fresco o il legno allo stato secco. La densità rappresenta il più comune indicatore di qualità del combustibile legnoso perché il potere calorifico del legno è direttamente proporzionale ad essa. Anche la densità è variabile. Essa varia in funzione delle condizioni stazionali, della specie (generalmente risulta più elevata la densità delle latifoglie rispetto alle conifere), dell’età, della parte della pianta, della forma di governo del bosco. La densità del legno, in linea generale, varia tra 800 e 1.120 kg/m3, se riferita allo

stato fresco, e tra 360 e 810 kg/m3, se riferita allo stato secco [22].

La densità si misura come segue: 𝐷𝐷 = 𝑀𝑀𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢

𝑉𝑉𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢𝑢

dove Mumido è il peso e Vumido è il volume della biomassa umida.

1.7.3 Caratteristiche energetiche

Il potere calorifico del legno quale fonte energetica è un parametro fondamentale, che definisce la quantità di calore che si sviluppa con la combustione di un chilogrammo di sostanza secca. Del potere calorifico si distinguono due valori specifici:

• potere calorifico superiore (p.c.s.): “la quantità di calore che si sviluppa con la combustione completa, a pressione costante e uguale a quella atmosferica, di 1 kg di combustibile, considerando nel prodotto della combustione l’acqua allo stato liquido a 15°C” [30];

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• potere calorifico inferiore (p.c.i.): “la quantità di calore che si sviluppa con la combustione completa di 1 kg di combustibile, considerando l’acqua allo stato di vapore a 100°C” [30].

Tabella 10. Sintesi delle principali caratteristiche chimiche, fisiche ed energetiche delle biomasse agricole [22]

Composizione chimica

Cellulosa 50% della ss

Emicellulosa 10-30% della ss

Lignina 20-30% della ss

Caratteristiche fisiche ed energetiche

Umidità 25-60% sul t.q.

Densità di massa 800-1.120 kg/m3

p.c.i. (considerando un’umidità del 12-15%) 3.600-3.800 kcal/kg

Tipicamente, nelle combustioni normali i prodotti della combustione sono rilasciati a temperatura più alta di quella di riferimento del combustibile. Così, una parte del calore teoricamente disponibile si consuma per il riscaldamento dei fumi e, soprattutto, per la vaporizzazione dell'acqua prodotta dalla combustione. L'evaporazione dell'acqua consuma 2,44 MJ ogni kg di acqua (0,68 kWh). Generalmente il potere calorifico viene misurato in kcal/kg (kJ/kg) per solidi e liquidi, mentre per i gas si esprime in kcal/m3 (kJ/m3). Quando non precisato, per

“potere calorifico” si deve sempre intendere il potere calorifico inferiore; questo infatti è il valore a cui si fa usualmente riferimento quando si parla di potere calorifico di un combustibile e di rendimento di una macchina termica [29]. L’umidità del legno modifica, riducendolo, il potere calorifico del legno. Se riferito all'unità di peso, il potere calorifico del legno nelle diverse specie, a parità di contenuto idrico, varia molto poco. Tuttavia, è risaputo che il legno di latifoglie ha un potere calorifico allo stato anidro leggermente inferiore a quello delle conifere. In generale le biomasse hanno una modesta densità energetica se paragonata a quella dei combustibili tradizionali; infatti il potere calorifico riferito alla

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sostanza secca è in genere compreso tra 4.000 e 4.400 kcal/kg (corrispondenti a 4,65 ÷ 5,11 kWh/kg di calore) contro circa 10.000 kcal/kg del petrolio e 12.000 kcal/kg del gas naturale (tabella 12); inoltre bisogna tener conto che il tenore di umidità delle biomasse è assai elevato (dal 30 al 50% in peso), per cui, specialmente nei processi di conversione termochimica sono necessari adeguati pretrattamenti come essiccazione e densificazione per poterne sfruttare al meglio le qualità energetiche [18].

La determinazione del potere calorifico può avvenire in due modi: per via sperimentale, utilizzando la bomba calorimetrica [31] o per via analitica esprimendo, in formule, il potere calorifico inferiore come funzione dell’umidità M oltre che del contenuto di idrogeno w(H)d, ossigeno w(O)d e azoto w(N)d sulla sostanza secca [32];

𝑞𝑞𝑝𝑝,𝑎𝑎𝑛𝑛𝑛𝑛 ,𝑢𝑢 = �𝑞𝑞𝑉𝑉,𝑔𝑔𝑎𝑎,𝑢𝑢 – 212,2 ∗ 𝑤𝑤(𝐻𝐻)𝑢𝑢 – 0,8 ∗ [𝑤𝑤(𝑂𝑂)𝑢𝑢 + 𝑤𝑤(𝑁𝑁)𝑢𝑢]�

∗ (1 – 0,01𝑀𝑀)– 24,43𝑀𝑀

Dove 𝑞𝑞𝑝𝑝,𝑎𝑎𝑛𝑛𝑛𝑛 ,𝑢𝑢 è il potere calorifico inferiore a pressione costante (MJ/kg);

𝑞𝑞𝑉𝑉,𝑔𝑔𝑎𝑎,𝑢𝑢 è il potere calorifico superiore a volume costante (MJ/kg);

Tabella 11. Principali fattori di conversione del calore

kJ kWh kcal

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Figura 3. Relazione tra p.c.i. e contenuto idrico w% [29]

L'aumento del contenuto idrico (w) dell'1% comporta una diminuzione del potere calorifico di circa 0,21 MJ/kg = 0,0583 kWh/kg

Tabella 12. Variazione del potere calorifico della biomassa in funzione del suo contenuto idrico (w %) [29].

w 0 10,7 15,3 20 25,9 33,3 42,9 50 60

p.c.i. (MJ/kg) 18,5 16,3 15,3 14,3 13,7 11,5 9,53 8,03 5,94 p.c.i. (kWh/kg 5,14 4,53 4,25 3,98 3,81 3,20 2,65 2,23 1,65

Si può rilevare che il calo del contenuto idrico dal 50%, facilmente riscontrabile nei legni leggeri allo stato fresco, al 20% (valore medio per la legna ben stagionata in legnaia) fa aumentare il potere calorifico del 78%.

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Tabella 13. Valori medi del potere calorifico di latifoglie e conifere, con due differenti valori di umidità, e delle fonti energetiche convenzionali più diffuse [28]

Fonte energetica p.c.i. (kcal/kg)

Latifoglie (20% di umidità) 3.400

Latifoglie (secco in stufa) 4.540

Conifere (20% di umidità) 3.560

Conifere (secco in stufa) 4.780

Paglia di frumento (10% di umidità) 3.700

Carbone (10% di umidità) 6.500 Petrolio 10.500 Gasolio 10.150 Butano 10.900 Propano 11.900 Metano 12.000 Gas naturale 8.150 1.8 Forme commerciali

Le biomasse lignocellulosiche, prima di essere immesse sul mercato, subiscono generalmente un processo di trasformazione più o meno complesso volto a conferire loro caratteristiche fisiche ed energetiche idonee all’impiego nei più comuni impianti energetici. Le principali forme commerciali per tale categoria di biomasse sono: legna da ardere (in ciocchi o tronchetti), cippato, pellet e bricchetti.

1.8.1 Legna da ardere

La forma commerciale di biomassa più diffusa è da sempre la legna, venduta sotto forma di ciocchi o tronchetti, di pezzatura variabile tra 50 e 500 mm. La legna da ardere è destinata perlopiù ad un utilizzo domestico, forni di piccole dimensioni e caldaie. L’uso tradizionale di questa tipologia di biomassa, legato in primis a motivi di carattere culturale, ha visto negli ultimi anni una

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forte contrazione dovuta all’ingresso sul mercato di forme densificate (e più maneggevoli) di biomasse lignocellulosiche.

1.8.2 Il cippato

Il cippato è un materiale eterogeneo, ottenuto dallo sminuzzamento della biomassa di partenza. Generalmente viene ricavato dalle essenze di minor pregio, dai residui delle potature [33], da impianti arborei a ciclo breve (SRF) dedicati a tale uso e da sottoprodotti delle industrie del legno. Il materiale di partenza viene ridotto in scaglie piuttosto grossolane, dette chips, con un processo meccanico di frantumazione che avviene ad opera di macchine “cippatrici” (figura 4). Il prodotto che ne esce, variabile per forma e dimensione, trova impiego nell’industria di produzione della carta, di pannelli di legno truciolare, di compost, oppure può essere bruciato in caldaie appositamente concepite [34]. Rispetto alla legna da ardere, il cippato presenta il vantaggio di poter ottenere una maggiore produttività per ettaro; infatti la cippatura consente di trasformare in chip anche i rami più piccoli che normalmente verrebbero lasciati in bosco. Infine le caldaie alimentate a cippato sono dotate di un “serbatoio” che permette di automatizzare l’alimentazione rendendone l’uso più semplice [34].

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Figura 5. A sinistra cippato di potatura di vite (Vitis vinifera); a destra cippato di legno.

1.8.3 Il pellet

Con il termine pellet si indica un tipo di biocombustibile densificato, normalmente di forma cilindrica, di diametro compreso tra 6 e 8 mm e di lunghezza pari a 1,5 – 2 cm. Si ottiene mediante macchine specifiche, dette pellettatrici, che pressano, in forma di piccoli cilindri, segatura, polvere di legno oppure legname e scarti di legno vergini precedentemente sfibrati (figura 6). Il materiale di partenza deve avere una umidità residua del 12% circa, mentre nel prodotto finale si abbassa leggermente a causa del calore liberato dalle macchine (8 – 12%) [34]. Il grande interesse che sta suscitando il pellet risiede nel fatto che esso si comporta, nella movimentazione, similmente ai fluidi. Ciò permette un elevato grado di automazione degli apparecchi e degli impianti di combustione di piccole e medie dimensioni. Questa importante proprietà del pellet è dovuta alla particolare forma, dimensione e omogeneità dei suoi elementi, che possono venir convogliati al forno di combustione per mezzo di semplici congegni meccanici (es. coclee), con tutti i vantaggi in fatto di regolazione automatica, dosatura e alimentazione continua. Ad oggi, il mercato del pellet è a esclusivo appannaggio della biomassa legnosa, in particolare di quella proveniente dai comparti di prima e seconda lavorazione del legno; tuttavia, diversi sono gli studi rivolti a sviluppare la filiera del pellet da colture erbacee o da una miscela di queste con biomasse legnose. Tuttavia la diversa qualità della biomassa di partenza,

Figura

Figura 1. Classificazione delle biomasse ritraibili in campo agricolo
Tabella  1.  Residui colturali comunemente impiegati per la produzione di energia e relativo  periodo di produzione [24]
Tabella 3. Elenco delle più comuni specie dedicate suddivise in categorie [22]
Tabella  5.  Rese delle colture oleaginose in termini di produzione di semi, di olio grezzo e di  biodiesel [22]
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