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Modifiche dimensionali volumetriche dopo procedura di ridge preservation con due materiali eterologhi: studio multicentrico clinico randomizzato.

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Sommario

RAZIONALE ... 3 Il processo alveolare ... 3 Il tessuto osseo ... 6 Macrostruttura ... 6 Microstruttura ... 6 Crescita e metabolismo ... 8

Classificazione del riassorbimento osseo ... 10

Classificazione della qualità ossea ... 10

Fisiopatologia del rimodellamento dell’osso alveolare ... 13

Modifiche alveolari in seguito ad estrazione dentaria ... 13

Guarigione dell’alveolo post-estrattivo ... 16

Esito clinico del rimodellamento alveolare post-estrattivo ... 21

INTRODUZIONE ... 25

Tecniche di preservazione della cresta alveolare ... 25

Premesse ... 25

Materiali usati nelle tecniche di Ridge Preservation ... 26

Innesti ossei sostitutivi: classificazione ... 27

Innesti ossei sostitutivi: proprietà ... 28

Innesti ossei sostitutivi: focus sull’innesto eterologo ... 30

Innesti ossei sostitutivi: chiavi per il successo ... 33

Tecniche chirurgiche ... 34

Gestione dei tessuti molli ... 35

Fattori di modificazione ... 36

Outcome istologico ... 37

Considerazioni conclusive ... 38

Analisi volumetrica ... 40

Storia, possibilità e limiti delle tecniche di analisi volumetrica... 40

MATERIALI E METODI ... 44

Disegno generale dello studio ... 44

Popolazione ... 44

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Primo tempo chirurgico: estrazione e RPT ... 50

Secondo tempo chirurgico: osteotomia e posizionamento implantare ... 51

Variabili ... 52 Analisi statistica ... 56 RISULTATI ... 57 DISCUSSIONE ... 70 CONCLUSIONI ... 79 BIBLIOGRAFIA ... 80

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RAZIONALE

Il processo alveolare

La connessione tra dente e osso è mantenuta dal sistema parodontale che sottostà ai cambiamenti cui va incontro il dente sia in senso fisiologico che patologico.

L'osso trabecolare e la lamina dura dell’alveolo reagiscono ai cambiamenti di funzione del dente che abbracciano. Quando il dente deve sopportare una parafunzione, o comunque una masticazione gravosa, l'osso trabecolare, nel processo alveolare e al di sotto dell'alveolo, risulta composto da tante trabecole voluminose. Se il dente perde la sua funzione (si pensi alla perdita dell'occlusione per mancanza dell'antagonista) , le trabecole di supporto diminuiscono in numero e in dimensione. Se il dente in questione riacquista la sua funzionalità (sostituzione dell'antagonista), l'osso trabecolare si adatta nuovamente al cambiamento di circostanze. Questo vincolo biologico è tanto più evidente al momento della perdita dell’elemento dentario in seguito ad estrazione. Il segmento di osso alveolare coinvolto in un'estrazione dentaria si rimodella secondo uno schema che prevede la riduzione dimensionale tanto dei tessuti duri quanto di quelli molli, sia in orizzontale che in verticale, in particolare si osserva la totale atrofia di legamento parodontale e bundle bone (Araújo MG, Sukekava F, Wennström

JL, Lindhe J. 2005).

Con lo sviluppo del dente si ha, parallelamente, lo sviluppo del processo alveolare che tiene il passo dell'allungamento radicolare. All'inizio, il processo alveolare consiste dei piani vestibolari e linguali, quindi tra questi si crea una depressione in corrispondenza dell'emergenza degli organi dentali. Mentre le pareti che delimitano questa depressione aumentano in altezza, si formano dei setti ossei tra i denti per completare la divisione in "cripte"; l'osso che si forma tra le radici dei denti pluriradicolati si definisce osso interradicolare. Quando il dente erompe, il processo alveolare e il legamento parodontale interposto maturano: nella forma matura, l'osso alveolare è costituito da osso alveolare

proprio e osso di sostegno.

L'osso alveolare nasce inizialmente come un protezione per il delicato dente in sviluppo e, più tardi, una volta formatasi la radice, assume il ruolo di supporto per il dente in occlusione funzionale. Infine, quando il dente è perduto, l'osso alveolare si riassorbe. I denti pertanto sono responsabili tanto dello sviluppo quanto del mantenimento del processo alveolare.

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Il bordo coronale del processo alveolare prende il nome di cresta alveolare e si localizza in genere a 1.2 - 1.5 mm al di sotto della giunzione amelo-cementizia. La cresta appare arrotondata nella regione anteriore e quasi piatta nell'area molare. Quando i denti sono vestiboloversi o linguoversi, la cresta alveolare può assottigliarsi al punto da sparire. L'area di perdita ossea in corrispondenza della porzione apicale di una radice prende il nome di fenestrazione; la perdita ossea in corrispondenza della porzione coronale della radice prende il nome di deiscenza.

Dente e mandibola in visione sagittale.

Immagine tratta dal volume Ten Cate’s Oral Histology di Antonio Nanci, VI edizione, Mosby 2003

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Osso alveolare proprio

L'osso denso che delimita l'alveolo dentario non è omogeneo in ogni punto: è possibile riconoscerne due forme a livello microscopico.

Può contenere le fibre perforanti del legamento parodontale oppure può presentarsi simile all'osso compatto che si potrebbe trovare in un altro distretto corporeo.

Le fibre perforanti o di Sharpey sono rappresentate da fasci di fibre collagene incorporate all'osso alveolare proprio secondo un orientamento funzionale e con un raggruppamento

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costante. Queste fibre possono essere perpendicolari o oblique rispetto alla superficie dell'alveolo e a quella radicolare. L’osso del processo alveolare che è regolarmente perforato dai fasci di fibre collagene si definisce "osso fascicolato" o “bundle bone”. All'esame radiografico l'osso fascicolato appare più denso dell'osso di supporto adiacente e ciò è probabilmente dovuto al contenuto minerale o all'orientamento dei cristalli ossei che circondano i fasci fibrosi. La tensione indotta sulle fibre perforanti dalla masticazione sembra stimolare l'osso fascicolato ed è considerata altresì importante per il suo mantenimento. Comunque non tutto l'osso alveolare proprio è costituito da osso fascicolato: l'osso di nuova formazione non è perforato dalle fibre di Sharpey. I denti si muovono costantemente nel contesto alveolare: se da una parte si ha la perdita di alcune fibre, dall’altra si formano nuovi fasci fibrosi che inizialmente si attaccheranno alla superficie ossea e poi vi si incorporeranno diventando fibre perforanti.

Osso di sostegno

L'osso di sostegno è costituito da due tipologie ossee: compatto e spongioso.

L’osso compatto del processo alveolare si estende lungo le superfici linguali e palatali delle ossa mascellari nonché sul loro versante buccale. Vi si riconoscono gli osteoni inclusi tra le lamelle concentriche . I canali di Havers e di Volkman formano un sistema continuo di diffusione dei nutrienti che si irradia attraverso tutto l'osso: i canali haversiani sono scavati lungo l'asse maggiore dell'osso mentre quelli di Volkman li incrociano in modo perpendicolare. Gli osteociti intrappolati nelle lacune provvedono al mantenimento della vitalità dell'osso.

L'osso spongioso, a sostegno dell'osso alveolare proprio, è composto da voluminose trabecole che circondano il midollo osseo. Quest’ultimo contiene gli elementi emopoietici nonché cellule osteogenetiche e tessuto adiposo. In particolare, l'osso spongioso della mascella è ricco di midollo osseo, soprattutto nella regione molare posteriore al seno mascellare.

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Il tessuto osseo

Macrostruttura

Sebbene le ossa appaiano come organi solidi, non lo sono del tutto. Il tessuto osseo si può descrivere come compatto o trabecolare (spongioso). La parete esterna di un osso è data da tessuto compatto ma ogni osso ha anche una cavità centrale, contenente il midollo osseo, in cui protrudono le trabecole ossee, ovvero le costituenti dell'osso spongioso. Il numero e la grandezza delle trabecole nella cavità midollare sono determinati in gran misura dall'attività funzionale dell'organo: maggiore l'attività, maggiore il numero di trabecole; un’altra determinante del numero di trabecole è quella genetica.

La presenza di questi due tipi tissutali garantisce una serie di vantaggi. In primo luogo, un osso voluminoso con un centro trabecolare pesa molto meno di un ipotetico osso costituito da solo osso corticale. In secondo luogo, il midollo osseo rende i nutrienti veicolati dal circolo disponibili al tessuto osseo. La superficie esterna di tutte le ossa è ricoperta da una sottile membrana di tessuto connettivo che prende il nome di periostio. Le superfici interne delle ossa sono invece rivestite da una membrana connettivale molto più delicata detta endostio. Periostio e endostio partecipano sia all’apposizione che al riassorbimento del tessuto osseo. Il legamento parodontale, che circonda le radici del dente e separa quest'ultimo dall'osso alveolare, è una sorta di periostio specializzato: da una parte partecipa alla formazione e al riassorbimento dell'osso alveolare, dall'altra al metabolismo del cemento radicolare.

Microstruttura

L'osso è un tessuto connettivo specializzato il cui attributo distintivo è dovuto alla matrice organica mineralizzata in cui si riconoscono due parti: la sostanza intercellulare fibrosa e la sostanza amorfa gelificata. Dal momento che la sostanza intercellulare si mineralizza, l'osso è un tessuto duro.

L'osso è approssimativamente costituito al 50% da sostanza minerale e al 50% da materiale organico e acqua; ha più o meno la stessa durezza del cemento. Così come per la dentina e il cemento, la sostanza intercellulare fibrosa è rappresentata dal collagene; la sostanza amorfa è invece costituita da un complesso di mucopolisaccaridi. La parte inorganica (cristallina) è simile a quella di smalto, dentina e cemento: cristalli di idrossiapatite e un contenuto minore di sali minerali amorfi, specialmente nel tessuto osseo di nuova formazione.

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Gli osteociti, le cellule del tessuto osseo, si distribuiscono attraverso tutta la sostanza mineralizzata intercellulare occupando degli spazi che prendono il nome di lacune. Un sistema di canalicoli collega i vari osteociti e si apre in altri canali: i fluidi tissutali passano dai capillari ai canalicoli e quindi da una lacuna all'altra. Il tessuto osseo maturo si organizza in sottili lamelle che presentano due distinti pattern distributivi e, in base al pattern specifico, distinguiamo l'osso haversiano da quello lamellare.

Nell'osso di tipo haversiano le lamelle si dispongono in circoli concentrici attorno a un piccolo canale centrale (canale di Havers). Il canale contiene vasi sanguigni circondati da un tessuto lasso, il connettivo perivascolare. Una serie di lamelle concentriche con il loro canale haversiano costituiscono un "sistema haversiano" ( può contenere da 4 a 20 lamelle concentriche e misura circa 0.1 mm in diametro ).

Nell'osso lamellare, che va a costituire la superficie esterna di gran parte delle ossa, le lamelle non formano piccoli circoli concentrici ma accompagnano la superficie, o meglio, la circonferenza dell'osso: possiamo anche parlare di osso circonferenziale o subperiostale. L'osso lamellare inoltre spesso costituisce la superficie delle trabecole dell'osso spongioso e a questo livello prende il nome di osso subendostale.

Indipendentemente dalla distribuzione delle lamelle ossee, il tessuto osseo contiene osteociti comunicanti tra loro grazie ai canali interlacunari veicolanti le sostanze nutritizie. L'osso è un tessuto vascolare e, quindi, contiene molti vasi sanguigni provenienti sia dall'esterno che dal midollo osseo che vanno a costituire il sistema dei canali di Volkman. Piccole branche di questi vasi trapassano nei più piccoli canali haversiani. Sembra straordinario che i vasi entrino e si distribuiscano a tutto l'osso; in realtà, durante l'embriogenesi, i vasi maggiori si formano prima dell'inizio della formazione dell'osso: l’osso maturo semplicemente circonda e rinchiude i vasi di una determinata zona. Quindi c'è una grossa variabilità nei punti di entrata e di uscita dei vasi dall'osso.

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Sezione dell’osso lamellare. L’osteone rappresenta l’unità strutturale di base. Consiste di lamelle concentriche che formano un cilindro osseo con un canale vascolare centrale, il canale di Havers.

Immagine tratta dal volume Ten Cate’s Oral Histology di Antonio Nanci, VI edizione, Mosby 2003

Crescita e metabolismo

Durante lo sviluppo embrionario di alcune ossa, la formazione di tessuto osseo è preceduta da un modello cartilagineo che ricalca la forma dell'osso che sta per nascere. Questo predecessore cartilagineo si mineralizza e viene pian piano riassorbito. Mentre la cartilagine mineralizzata si riassorbe, si forma tessuto osseo a rimpiazzarla: le ossa che si formano in questo modo si dice che abbiano una ossificazione encondrale. Esempi di ossa con questa origine sono le ossa lunghe degli arti. Nell'embriogenesi di altre ossa, il tessuto osseo si forma senza un modello cartilagineo a precederlo: in questo caso si parla di ossificazione

intramembranosa. Esempi sono la mandibola e l'osso mascellare.

Il processo di conversione del tessuto connettivo non specializzato in osso e la formazione della microstruttura ossea sono indipendenti dal tipo di ossificazione che è occorsa.

La formazione ossea consta di più meccanismi: la conversione del tessuto connettivale, relativamente poco specializzato, in matrice ossea e la conseguente mineralizzazione della matrice.

In un osso che cresce, il tessuto connettivo che forma l'osso nuovo può essere periostale o endostale, in base a dove viene apposto il tessuto (all'interno o all'esterno dell'organo). La sostanza intercellulare del periostio (o dell'endostio) si modifica chimicamente nella matrice ossea. Alcune delle cellule del periostio (o dell'endostio), che sono prossime alla superficie ossea, si specializzano in osteoblasti. Alcuni osteoblasti vengono circondati dalla matrice

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ossea in formazione rimanendo intrappolati e prendono ora il nome di osteociti. Così come gli osteoblasti del periostio (o dell'endostio) non sono cellule del tutto isolate ma connesse con altri osteoblasti da numerose piccole proiezioni, anche gli osteociti sono in connessione tra loro grazie a sottili proiezioni citoplasmatiche a formare un sincizio. Il corpo dell'osteocita occupa la lacuna mentre le sue proiezioni corrono lungo i canalicoli.

Sebbene a prima vista l'osso sembri un tessuto permanente, è in realtà un organo in rimaneggiamento costante. La formazione di tessuto osseo continua praticamente per tutta la vita dell'osso ma questo non significa che diventa indefinitamente pesante o voluminoso. La densità e la dimensione dell'osso sono mantenute da un equilibrio tra apposizione e riassorbimento. Questi processi sono associati temporalmente e sono caratterizzati dalla presenza delle cosiddette unità ossee multicellulari (BMUs). Una BMU è composta da un fronte osteoclastico sulla superficie ossea in corso di riassorbimento (fronte di riassorbimento), da un compartimento contenente vasi sanguigni e periciti (cellule connettivali totipotenti che circondano parzialmente le cellule endoteliali dei capillari e delle venule) e uno strato di osteoblasti in corrispondenza della matrice organica di nuova formazione (fronte di apposizione). Stimoli locali e rilascio di ormoni come paratormone (PTH), ormone della crescita (GH), leptina e calcitonina sono coinvolti nel controllo del rimodellamento osseo. Studi recenti hanno dimostrato che i GFs possono migliorare la capacità dell’osso alveolare di rigenerarsi, aumentando chemiotassi, differenziazione e proliferazione cellulare. I GFs sono mediatori biologici naturali che, legandosi a specifici recettori di superficie cellulari, regolano importanti processi implicati nella riparazione dei tessuti (Giannobile 1996). L’effetto di ciascun fattore di crescita, tuttavia, è regolato attraverso un complesso sistema di feedback, che coinvolge altri GFs, enzimi e proteine di legame. I fattori di crescita, in grado di innescare reazioni endocellulari che inducono la differenziazione cellulare in senso osteogenetico, comprendono:

a. Fattore di crescita derivato dalle piastri ne (PDGF) b. Fattore di crescita dei fibroblasti (FGF)

c. Fattore di trasformazione della crescita (TGF) d. Fattore di crescita simil -insulinico (IGF) e. Plasma ricco di piastrine (PRP)

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10 Classificazione del riassorbimento osseo

Al fine di migliorare la comunicazione tra chirurghi orali, nel corso degli anni è cresciuta sempre di più la necessità di classificare entro schemi generali i vari stadi di rimodellamento osseo che seguono all’estrazione dentaria. In questo senso, tra le varie classificazioni proposte, la più utilizzata è sicuramente la classificazione di Cawood e Howell del 1988. Gli autori hanno analizzato un campione di 300 crani secchi e sono giunti alla conclusione che, nel soggetto edentulo, la morfologia dell’osso basale rimane pressoché inalterata mentre è la componente alveolare a subire una marcata involuzione sia in altezza che in spessore e, inoltre, il riassorbimento segue modelli abbastanza ripetibili. Alla luce di questo studio, gli autori suddividono il riassorbimento in 6 stadi progressivi di gravità, sia per il mascellare che per la mandibola, specificando per ognuno le differenze tra porzione anteriore e porzione posteriore:

Stadio I Alveolo con presenza dell’elemento dentario

Stadio II Cresta post-estrattiva

Stadio III Cresta arrotondata con adeguata altezza e

spessore osseo

Stadio IV Cresta a “lama di coltello” adeguata in altezza ma

non in spessore

Stadio V Cresta piatta inadeguata sia in altezza che in

spessore

Stadio VI Cresta alveolare concava con perdita evidente di

osso basale

Classificazione della qualità ossea

In base al volume di osso mineralizzato residuo, i siti edentuli possono essere classificati, secondo Lekholm e Zarb (1985) in 5 gruppi. Nei gruppi A e B una quantità cospicua di processo alveolare è ancora presente; nei gruppi C,D e E persistono minimi residui. È stata classificata anche la qualità dell'osso del sito edentulo: le classi 1 e 2 contraddistinguono

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situazioni in cui le pareti corticali sono spesse, con un piccolo volume di midollo osseo. I siti che appartengono alle classi 3 e 4 sono invece delimitati da pareti relativamente strette di osso corticale con abbondante quantità di osso spongioso contenente trabecole di tessuto osseo lamellare e midollo osseo.

Classe I L’osso è compatto, formato quasi

esclusivamente da osso corticale ( sinfisi mentoniera)

Classe II L’osso è formato da una corticale spessa, in presenza di una spongiosa densa (corpo mandibolare e premaxilla)

Classe III L’osso è costituito da una corticale un po’ meno spessa, con una spongiosa meno densa, ma sempre ben vascolarizzata (corpo

mandibolare e premaxilla)

Classe IV L’osso è formato da una corticale sottile e da una spongiosa di bassa densità (settori posteriori del mascellare superiore)

Questa classificazione è stata rivista e ampliata da Misch. L’autore divide le tipologie di densità ossea come in tabella:

Tipo D1

osso corticale denso e scarsa spongiosa

Tipo D2

osso con corticale spessa e spongiosa a maglie strette

Tipo D3

osso con corticale sottile e spongiosa a maglie strette

Tipo D4

osso con corticale sottile e spongiosa a maglie larghe

Tipo D5

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L’osso di tipo D1 è tipico della regione basale sinfisaria. È un osso poco indicato per il posizionamento degli impianti e per la fissazione di un innesto poiché ha una scarsa irrorazione ematica che rallenta in maniera significativa la riformazione di osso; sono difficoltose le tecniche di preparazione del sito, poiché la densità del tessuto impone un torque eccessivo agli strumenti rotanti con rischio di necrosi ossea da surriscaldamento. L’osso di tipo D2 rappresenta la qualità ottimale ed è presente nel corpo mandibolare e nella zona frontale del mascellare. La corticale è sufficientemente spessa per garantire una stabilità primaria ai mezzi di fissazione e agli impianti. La buona vascolarizzazione della spongiosa garantisce adeguato sostegno ai fenomeni riparativi ossei. Anche l’osso di tipo D3 ha caratteristiche ideali che possiamo ritrovare nella zona fronto-laterale del mascellare e nel mandibolare laterale. Le sue caratteristiche sono paragonabili a quello di classe D2 anche se con una vascolarizzazione della spongiosa inferiore. L’osso di tipo D4 è un osso poco denso che non si presta a qualsiasi tecnica chirurgica. La sua corticale è molto sottile e non permette una adeguata stabilità primaria degli impianti inseriti.

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Fisiopatologia del rimodellamento dell’osso alveolare

Modifiche alveolari in seguito ad estrazione dentaria

La consonanza esistente tra processo alveolare e elemento dentario è una caratteristica notevole tanto nella fase eruttiva che nella fase stabilizzata della vita del dente: la morfologia del processo alveolare si correla a quella dell'elemento dentario nonché alla sua inclinazione e agli eventi cui è incorso nella fase eruttiva. Non è un caso che denti allungati e affusolati sembrano accolti in un processo alveolare più delicato e, in particolare, sembrano presentare una lamina ossea vestibolare più sottile se non fenestrata. D’altra parte denti più tozzi sembrano accolti in un processo alveolare più robusto.

Ogni paziente, se non ogni alveolo, costituisce un sistema unico in cui interagiscono più fattori di modificazione sia sistemici che locali. Pertanto sarà possibile rilevare variazioni nella perdita ossea che dipendono dall’abitudine al fumo, dall’età al tempo della perdita del dente nonché dal mascellare di riferimento: ci sono importanti differenze tra osso mascellare e mandibola.

Al di là della variabilità interindividuale, è possibile riconoscere una convergenza costante negli esiti delle estrazioni dentarie: essendo dente e tessuto di supporto componenti di un'unità funzionale, la perdita del dente porta a una modificazione adattativa della cresta nel sito corrispondente. La cresta si ridurrà tanto in spessore quanto in altezza e questa complessiva riduzione volumetrica si rende più chiara in caso di estrazioni dentali multiple (Atwood DA

2001).

Nel 1969, Johnson e collaboratori dimostrano per primi che i cambiamenti dimensionali post-estrattivi possono essere quantificati: verificarono una riduzione tra 2.5 e 7 mm in altezza e fino a 30 mm in ampiezza. Un’altra importante considerazione riguardava la modalità di occorrenza di siffatte alterazioni: i maggiori cambiamenti intervenivano nel primo mese e un rimaneggiamento meno intenso si osservava nelle successive 10 – 20 settimane.

L'entità del cambiamento relativo a una singola estrazione è stata studiata da Pietrokovsky e

Massler (1967). Gli autori hanno esaminato 149 modelli d'impronte dentali in cui un dente era

stato perduto (senza essere sostituito) a un lato del mascellare o della mandibola. Il contorno delle parti buccale e linguo/palatale della cresta, nella sede del dente e in quella contro-laterale edentula, è stato misurato usando lo stilo di un profilometro con una tecnica di imaging. La conclusione a cui sono giunti gli autori è che l'entità del riassorbimento di tessuto

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(duro e molle), dopo la perdita di un singolo dente, risultava considerevole, con una maggiore riduzione della cresta a livello della superficie buccale rispetto a quella linguo/palatale, in ogni campione esaminato, sebbene vi fosse una variabilità consistente e si registrassero differenze tra un gruppo di denti e il successivo. Come conseguenza, il centro del sito edentulo si spostava verso la faccia linguo/palatale della cresta.

Questo pattern è stato riconfermato da Shropp (2003) che ha studiato le variazioni di tessuto molle e duro in un periodo di 12 mesi successivo all'estrazione di singoli denti molari e premolari. Misurazioni cliniche e su modelli di studio erano state eseguite subito dopo l'estrazione e, in seguito, a 3,6 e 12 mesi di guarigione. È stato visto che la dimensione buccale-linguale/palatale si era ridotta durante i primi 3 mesi di circa il 30% e, dopo 12 mesi, il sito edentulo aveva perso almeno il 50% della sua larghezza iniziale. Inoltre risultava diminuita l'altezza della lamina ossea a livello della faccia buccale e, dopo 12 mesi di guarigione, la prominenza della faccia buccale era localizzata 1,2 mm più apicalmente rispetto a quella della controparte linguale/palatale. Inoltre, nei 12 mesi successivi all'estrazione, si verificano lievi cambiamenti (<1 mm) in altezza dei tessuti molli.

I dati dello studio di Covani e collaboratori del 2012 , eseguito sulle fotografie standardizzate di modelli in gesso, riportano i seguenti valori di riassorbimento medio in seguito a singola estrazione dentaria:

5.4 ± 2.8 mm sul versante mesiale 6.6 ± 3.8 mm sul versante distale 10.6 ± 3.4 mm al centro della cresta.

Complessivamente si osservava la deriva della cresta in direzione linguo/palatale, di 2/3 rispetto all’estremità vetibolare iniziale. Tuttavia questo spostamento non è uniforme ma disomogeneo in senso mesio-distale, con un rimodellamento più accentuato nella parte centrale della cresta. Queste considerazioni sono cruciali ai fini del posizionamento implantare.

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Il grafico illustra il rimodellamento percentuale medio della parete buccale. Vale la pena sottolineare come il riassorbimento nel punto medio della cresta è doppio rispetto agli aspetti mesiale e distale.

Grafico tratto da Covani et al, Clinical oral implants research 22.8 (2011)

.

Gli alveoli post-estrattivi possono essere classificati secondo il criterio proposto da

Joudzbalys et al.( 2008 e 2010), particolarmente utile in quanto ciascuna classe considera

l’aspetto tanto dei tessuti duri quanto dei tessuti molli:

Classificazione alveolo

Tipo I I tessuti molli vestibolari e la lamina ossea alveolare vestibolare

sono a livelli normali rispetto alla giunzione amelo-cementizia dell’elemento dentario prima dell’estrazione e rimangono intatti dopo l’estrazione.

Tipo II I tessuti molli vestibolari sono presenti ma la lamina ossea

vestibolare è parzialmente mancante dopo l’estrazione.

Tipo III I tessuti molli vestibolari e la lamina ossea vestibolare sono

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16 Guarigione dell’alveolo post-estrattivo

Processi Intralveolari

La guarigione istologica dell'alveolo post-estrattivo è stata oggetto di studi sia nell’animale che nell’uomo. Il processo di guarigione nel modello animale tende a essere più veloce e concentrato nel tempo quindi non è del tutto generalizzabile alla sequenza temporale degli eventi post-estrattivi nell’uomo.

Uno dei lavori più rappresentativi è quello di Cardaropoli del 2003, eseguito sul modello animale.

L'alveolo vuoto è riempito dapprima da sangue a formare un coagulo. La fase iniziale di formazione del coagulo ( avvio del processo di coagulazione e conversione del fibrinogeno in fibrina ) è importante in quanto quest’ultimo funge da tappo meccanico e da vettore di fattori di crescita. Cellule infiammatorie migrano nel coagulo e cominciano a fagocitare il tessuto necrotico: inizia così la fase di pulizia della ferita. Le prime cellule a sopraggiungere sono i granulociti neutrofili che hanno il compito primario di ripulire la ferita. I polimorfonucleati neutrofili tuttavia sono cellule totalmente differenziate che, una volta espletata la loro azione di killing extracellulare, vanno incontro a morte programmata. Arrivano dunque i macrofagi che rimuovono i residui apoptotici e rilasciano ulteriori fattori di crescita per la differenziazione delle cellule mesenchimali.

Entro 2-3 giorni gli abbozzi di vasi sanguigni neoformatisi e le cellule mesenchimali (originate dal legamento parodontale reciso) penetrano nel coagulo formando il tessuto di granulazione.

Il tessuto di granulazione è poi rimpiazzato da tessuto connettivo provvisorio grazie ai fenomeni di fibroplasia e angiogenesi; successivamente si assiste alla deposizione di osso

immaturo a fibre intrecciate o “wooven bone”. La transizione da tessuto connettivo

provvisorio a tessuto osseo avviene lungo le strutture vascolari: le cellule osteoprogenitrici si dispongono in prossimità dei vasi e si differenziano in osteoblasti che producono l'osteoide (matrice di fibre collagene con pattern intrecciato). Quindi si comincia a osservare il processo di mineralizzazione. L’osso a fibre intrecciate o wooven bone si depone rapidamente, in forma di proiezioni digitiformi, lungo il decorso dei vasi; la sua matrice collagene risulta scarsamente organizzata e presenta un gran numero di osteoblasti intrappolati. Questa conformazione gli conferisce una bassa capacità di carico.

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In questa fase il tessuto osseo delle pareti dell'alveolo (bundle bone) è rimosso e sostituito da osso a fibre intrecciate.

La crescita iniziale di osso intralveolare è un fenomeno a rapida evoluzione. Entro poche settimane, l'intera cavità si riempie di osso a fibre intrecciate o tessuto osseo spugnoso primitivo: questo tessuto fornisce un'impalcatura stabile, una fonte di cellule osteoprogenitrici e un notevole apporto di sangue per le funzioni cellulari e la mineralizzazione della matrice. L'osso di tipo wooven con i suoi osteoni è quindi gradualmente sostituito da osso lamellare e midollo osseo: il rimodellamento richiederà parecchi mesi. Una parte importante del processo di guarigione è rappresentata dalla formazione di un cappuccio di tessuto duro che chiude l'accesso marginale all'alveolo: anche questo sarà prima costituito da wooven bone e poi da osso lamellare; questa transizione prende il nome di corticalizzazione. Tuttavia la perdita del dente determina una drastica riduzione della richiesta funzionale a carico della cresta che quindi si adatta portando a rimodellamento della porzione apicale del cappuccio di tessuto duro che viene a essere rimpiazzato da midollo osseo.

Gli studi relativi alla guarigione degli alveoli estrattivi condotti sull’uomo si sono focalizzati sui cambiamenti tissutali microscopici piuttosto che sull’analisi quantitativa dei diversi tipi tissutali. In seguito all’estrazione, il legamento parodontale si perde, essendo venuta meno la sua funzione. Tuttavia le cellule residue del legamento possono differenziarsi in molteplici tipi cellulari: fibroblasti, osteoblasti, osteoclasti. Alcuni studi suggeriscono che i fibroblasti del legamento abbiano proprietà osteoblastiche.

Lin e colleghi hanno dimostrato la migrazione attiva dei fibroblasti provenienti dal legamento

parodontale verso il coagulo nell’alveolo estrattivo; a questo livello formano un tessuto connettivale denso e si differenziano in osteoblasti. Questa osservazione implicherebbe che lo stato del legamento parodontale e l’integrità delle pareti alveolari residue siano i principali fattori a influenzare la rigenerazione ossea.

Ahn nel 2008 introduce, attraverso un significativo studio sull’uomo, la differenza nella

guarigione tra alveoli sani e alveoli che hanno perso il loro dente a seguito di malattia parodontale grave. L’analisi istologica ha consentito agli sperimentatori di descrivere le varie componenti tissutali e la loro interazione in corso di guarigione in alveoli affetti:

- In 2-4 settimane si può constatare la proliferazione veloce del tessuto epiteliale. Gran parte dell’alveolo è riempito da un misto di tessuto di granulazione e tessuto connettivo fibroso.

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- A 5-10 settimane, dalla base e dalle pareti dell’alveolo cominciano a staccarsi delle trabecole di osso immaturo che si portano verso il centro della cavità. Si possono talvolta osservare dei frammenti ossei vitali o meno frammisti all’osso a fibre intrecciate.

- Entro 20 settimane dall’estrazione può cominciare il fenomeno di corticalizzazione coronale, vale a dire si costituisce un ponte di tessuto duro in prossimità dell’aspetto coronale dell’alveolo.

- In 42 settimane l’alveolo si riempie completamente con osso neoformato ma non si osservano strutture lamellari.

Lo studio istomorfometrico ha portato ad alcune conclusioni: in un soggetto sano e in assenza di malattia localizzata all’alveolo in questione, tutti gli alveoli sembrano andare incontro allo stesso tipo di guarigione. Di contro, il pattern di guarigione degli alveoli malati è meno prevedibile, di fatto, più complesso. Inizialmente si pensò che il deficit di legamento parodontale potesse compromettere la neoformazione ossea: in realtà questa avviene, solo, più lentamente. Gli eventuali frammenti ossei presenti nelle fasi iniziali possono fungere da nuclei di ossificazione: l’indicazione clinica che ne segue è quella di evitare un’eccessiva strumentazione dell’alveolo dopo l’atto exodontico. Infine la presenza di corticalizzazione coronale è un forte indicatore di avvenuto completamento della formazione ossea, quindi è un parametro utile per il timing della terapia implantare.

Un apporto notevole alla nostra conoscenza del fenomeno di guarigione alveolare è dato dalle metodiche immunoistochimiche applicate a campioni bioptici umani (Trombelli 2008,

Heberer 2011, Nahles 2013). Questo tipo di indagine consente l’identificazione dei fattori di

trascrizione in grado di portare alla maturazione degli osteoblasti tanto negli alveoli innestati quanto in quelli lasciati guarire in modo naturale. I dati più recenti (Nahles 2013) confermano che più della metà delle cellule incluse nella matrice provvisoria dell’alveolo in guarigione hanno potenziale osteogenetico indipendentemente dalla loro collocazione nell’alveolo (apicale/coronale). Gli anticorpi monoclonali considerati dagli autori comprendevano: Cbfa1/Runx2 , osteocalcina, CD31. Valori molto elevati o molto bassi del rapporto Cbfa1/Runx2 (indicatore del potenziale osteogenetico delle cellule) sono limitati a pochi alveoli e questa variabilità è probabilmente soggetto-correlata. Dopo 4 settimane dall’estrazione si ha il picco di attività osteoclastica evidenziato dalla positività all’anticorpo monoclonale contro la osteocalcina. Passate 12 settimane si ha un’inversione di tendenza con riduzione dell’attività osteoblastica. Gli osteoblasti ora inattivi si definiscono bone-lining cells e possono essere riattivati da un opportuno stimolo osteoinduttivo. La positività al CD31 dopo

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4 settimane è espressione della rilevanza delle cellule endoteliali nella guarigione dell’alveolo estrattivo. Una riflessione inevitabile è dunque quella relativa all’età del paziente: il potenziale endoteliale è infatti inversamente proporzionale all’età.

Un’interferenza nella sequenza di guarigione può condurre a dolore e mancato riempimento osseo dell’alveolo. Le sequele possono andare dall’emorragia, all’alveolite sicca nonché all’osteite suppurativa o necrotizzante fino alla guarigione fibrosa con deficit di recupero osseo in base alla fase in cui è stato interrotto il delicato processo di guarigione. Per esempio un quadro infiammatorio importante può portare non solo a una mancato riempimento con osso di nuova formazione ma anche al sequestro osseo. In ogni caso, un’alterazione nella fenomenologia della guarigione alveolare può prevenire il posizionamento implantare (Amler

1999).

Processi Extralveolari

L'alterazione del profilo crestale conseguente all'estrazione è stata descritta da Araújo e

Lindhe. A 8 settimane dall'estrazione si nota che è in corso il riassorbimento del tessuto duro

all'esterno e all'apice delle pareti ossee buccale e linguale. La cresta della parete buccale è in sede più apicale rispetto alla controparte linguale. Il riassorbimento delle pareti alveolari si articola in due fasi sovrapposte. Nel corso della “fase 1”, l'osso fascicolato o bundle bone o osso-dente dipendente si riassorbe e viene sostituito da osso intrecciato o woven bone. Dal momento che la cresta della parete buccale è costituita solo da osso fascicolato, questa modalità di rimodellamento porta a una riduzione sostanziale della sua altezza. La “fase 2” vede il riassorbimento sulle superfici esterne di entrambi i piani ossei alveolari.

Ci sono almeno due ragioni per cui in questo modello animale si nota questa differenzialità nel pattern di rimodellamento. Innanzitutto, prima dell'estrazione, il margine di 1-2 mm della cresta vestibolare è occupato da bundle bone e solo una frazione minore della cresta linguale lo contiene. L'osso fibroso è un tessuto funzionalmente correlato alla presenza del dente e scompare gradualmente dopo l'estrazione: quindi la perdita ossea sarà per forza di cose più pronunciata sul versante vestibolare. In secondo luogo, la parete ossea linguale dell'alveolo è marcatamente più ampia di quella buccale. A causa del riassorbimento parziale o totale della parete buccale dell'alveolo estrattivo, si verifica il collasso dei tessuti molli vestibolari portando a marcate alterazioni in senso vestibolo-orale. Si potrebbe generalizzare questa modalità di guarigione e applicarla anche all'alveolo umano, sebbene le biopsie eseguite da

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Trombelli nel 2008 dimostrano che esiste una grossa variabilità nella formazione di tessuto

osseo nell'alveolo post-estrattivo dell'uomo: è un fenomeno poco predicibile.

Una revisione sistematica della letteratura (Van der Weijden F 2009) ha introdotto nuovi

spunti di riflessione: le conclusioni cui sono giunti Araújo e Lindhe con il loro modello animale circa il riassorbimento differenziale tra parete linguale e buccale non sembrano supportate o meglio, saranno anche valide nel cane ma non possono essere applicate senza riguardo all'uomo. I dati clinici e radiografici nell'uomo sembrano più che altro suggerire un'eguale predisposizione al riassorbimento nella lamina buccale e in quella linguo/palatale. Un pattern che invece è confermato e pertanto risulta predicibile è quello relativo alla maggiore perdita in senso orizzontale ( in media 3.87 mm ) che in senso verticale.

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Esito clinico del rimodellamento alveolare post-estrattivo

L’outcome della terapia implantare non è più definito esclusivamente dalla sopravvivenza della fixture ma anche dal successo estetico e funzionale nel tempo. In quest’ottica, il posizionamento tridimensionale dell’impianto dovrebbe essere finalizzato alla successiva fase protesica e quindi dovrebbe consentire stabilità e supporto ottimali ai tessuti duri e molli. Il profilo dei tessuti molli dipende dalla sottostante anatomia ossea e ciò è particolarmente evidente nel caso dei tessuti molli peri-implantari: un buon adattamento tra tessuti molli e duri è imprescindibile per ottenere un risultato estetico accettabile. Particolarmente importanti saranno l’altezza e lo spessore della parete ossea buccale nonché l’altezza dell’osso alveolare negli aspetti interprossimali.

Se l’impianto viene posizionato troppo vestibolarmente, ci sarà un rischio significativo di recessione del margine mucosale; se, d’altra parte, viene posizionato troppo palatalmente, il profilo di emergenza ne risulterà insoddisfacente. Ancora, un posizionamento scorretto in senso mesio-distale può compromettere la dimensione e la forma della papilla interdentale portando a un aspetto scadente dell’ “embrasure” e a un profilo di emergenza inadeguato. Infine, il mal posizionamento corono-apicale determina complicazioni biologiche, se troppo profondo (si pensi alla vicinanza con strutture nobili quali il nervo alveolare inferiore), e complicazioni estetiche, se la fixture è stata posizionata troppo coronalmente (il margine metallico dell’impianto sarebbe visibile).

Al di là di un adeguato posizionamento 3D dell’impianto, l’outcome estetico può essere influenzato dalla quantità di osso disponibile nel sito implantare.

È un fatto ormai ben documentato che la cresta alveolare vada incontro a cambiamenti volumetrici in seguito all’estrazione dentaria. Queste alterazioni portano alla riduzione dimensionale del sito estrattivo. Gli studi sul modello animale di Araujo e Lindhe del 2005 hanno evidenziato importanti cambiamenti nella cresta alveolare nei primi 2-3 mesi dall'estrazione e questi cambiamenti sono più accentuati sul versante vestibolare rispetto a quello linguale/palatale (56% contro 30% dai dati di Botticelli 2004). Quindi se volessimo aspettarci una sequela più o meno invariabile della nostra manovra exodontica, questa, sarebbe una cresta più stretta e bassa nonché dislocata in una posizione più linguale.

Le tecniche di bone augmentation per la gestione di impianti in siti post-estrattivi hanno raggiunto una buona predicibilità, ammesso che residuino almeno due pareti ossee intatte (Nemcovsky 2000). Tuttavia, all’aumentare dell’intervallo di tempo che intercorre tra

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estrazione e posizionamento dell’impianto, il progressivo riassorbimento crestale può esitare in una perdita di volume tale da rendere imprevedibile la GBR ( guided bone regeneration ).

Alcuni autori considerano l’importanza del trauma chirurgico in corso di estrazione che comporta la separazione del periostio dalla superficie sottostante: il danno vascolare e la risposta infiammatoria acuta che ne conseguono si risolverebbero in un riassorbimento osseo più accentuato (Staffileno H, 1966; Brägger U, 1988).

L'impianto è un sistema biomeccanico che sostituisce la radice dentale nei siti edentuli; nello specifico, un paziente, senza controindicazioni sistemiche, che presenti un'edentulia intercalata è un valido candidato alla terapia sostitutiva implantare. Alcuni autori (Denissen H

2001) hanno suggerito che il posizionamento implantare in alveoli post-estrattivi potrebbe

addirittura preservare la dimensione del profilo crestale. La validità di tale ipotesi è stata comunque smentita da studi longitudinali condotti su un grosso numero di soggetti e di siti a dimostrare come la terapia implantare immediata per se non potesse in alcun modo eludere la sostanziale atrofia cui vanno incontro tutti gli alveoli a seguito di estrazione (Botticelli D

2004; Paolantonio M 2001). Questa manchevolezza è tanto più evidente nel settore estetico in

cui il parodonto ha un contorno naturalmente gracile e la sua assenza non può che avere un effetto devastante per il paziente.

.

Ad oggi, la tecnica di preservazione della cresta alveolare, contestualmente all'atto estrattivo, rappresenta una procedura predicibile e utile per il clinico al fine di ottenere un sito pre-implantare adeguato in altezza e spessore nonché funzionalmente ed esteticamente soddisfacente. L'affidabilità di questa tecnica è stata confermata da recenti review sistematiche che raccolgono studi clinici e istomorfometrici che mettono a confronto l'opzione terapeutica di RPT con l'opzione controllo di sola estrazione (Barone A 2008; Festa VM

2013; Horowitz R 2012). Questo approccio mira a intercettare quello che è un pattern di

riassorbimento progressivo, irreversibile e ineluttabile in un paziente altrimenti sano: in questo senso la RPT consente di ridurre un futuro bisogno di tecniche di ricostruzione più invasive (Irinakis T 2007).

Contestualmente all'estrazione dentaria quindi è possibile scegliere di attuare una tecnica di preservazione della cresta con uno dei diversi sostituti ossei disponibili.

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Optare per un materiale piuttosto che per un altro è un atto ragionato che dovrebbe essere sostenuto dalla singolarità del caso clinico, dalla biocompatibilità del materiale nonché dalla conoscenza delle proprietà osteoconduttive, osteogenetiche, osteoinduttive dell'innesto.

L'operatore, consapevole delle interazioni che sussistono tra l'ospite e l'innesto, deve avviare un'analisi costo/beneficio al fine di rendere possibili la rigenerazione e la preservazione del volume osseo.

Guardando solo alla capacità del sostituto osseo di fungere da scaffold, diventa essenziale prendere coscienza di una variabile importante: vogliamo che il nostro innesto si riassorba in fretta per essere quanto prima sostituito da osso neoformato o preferiamo piuttosto un materiale a lento riassorbimento con un pattern di guarigione più predicibile?

Se il materiale da innesto si riassorbe e viene sostituito da osso vitale troppo velocemente, il sito estrattivo può esibire un massiccio collasso sia verticale che orizzontale. Se d'altra parte il materiale è a lento riassorbimento, il sito potrebbe non andare incontro a formazione di osso vitale.

Le attuali review sull'argomento (Horowitz R 2012) non mettono in evidenza la superiorità di un materiale rispetto agli altri né esiste la certezza di un chiaro beneficio nell'utilizzo di una membrana barriera o dei fattori di crescita.

Sebbene l'osso autologo sia considerato il gold standard per le procedure ricostruttive nel cavo orale, il suo uso è limitato dalla morbilità del sito donatore e dalla necessità di un secondo intervento. Per questo motivo, è ormai invalso l'uso di sostituti quali alloinnesti, innesti eterologhi, materiali a base di calcio naturali o sintetici e una combinazione dei precedenti. Ciascuna soluzione porta con sé un diverso profilo fisico-chimico di interazione con l'ospite, ovvero variabili proprietà osteoconduttive, osteoinduttive, osteogenetiche.

Tanto la terapia protesica tradizionale quanto quella su impianti dovrebbero garantire il soddisfacimento di parametri biologici, funzionali, fonetici ed estetici. La misura quantitativa di siffatte variabili si avvale di metodologie analitiche di tipo clinico, laboratoristico e radiologico. Indipendentemente dal tipo di analisi condotta, questa deve fondarsi su misurazioni standardizzate ed eseguite in più momenti nel corso del piano di trattamento. L'analisi dell’andamento e dell’entità del rimodellamento osseo post-estrattivo può essere condotta con tecniche cliniche, istologiche e radiografiche.

L’esame clinico non riesce a soddisfare i criteri di accuratezza e di riproducibilità tanto utili nelle indagini sperimentali.

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Le sezioni istologiche possono mascherare la reale microstruttura ossea, in particolare non riescono a trasmettere la variabilità della morfologia trabecolare; inoltre le tecniche istologiche e istomorfometriche comportano un lavoro intensivo e spesso distruttivo.

Le indagini radiografiche tradizionalmente si basano su tecniche bidimensionali: queste tuttavia consentono un'investigazione esclusivamente lineare dei tessuti e vanno spesso incontro a fenomeni di magnificazione e distorsione (Roeder F2011). Le misure lineari sono

descrittive del comportamento di singole porzioni alveolari, in questo senso hanno scarsa valenza da un punto di vista clinico. La tecnologia attuale ci consente di eseguire analisi di tipo volumetrico grazie all’utilizzo di dispositivi che eseguono un’acquisizione tridimensionale dell’anatomia. La TC tradizionale e la TC cone beam sono entrambi validi candidati. Il dato tridimensionale fornito dalla TC d'altra parte non ha una risoluzione isotropica e soprattutto si ottiene a prezzo di un'elevata dose di radiazioni (Mischkowski RA

2008). Per questa ragione la tecnica cone-beam è stata usata con successo negli studi in vivo.

Le immagini fornite dalla CBCT hanno un'elevata risoluzione e un'elevata accuratezza geometrica e si ottengono con una esposizione notevolmente ridotta (Shiratori LN 2012) . Nonostante ciò, l'analisi del rimodellamento osseo richiede uno studio di tipo longitudinale con più esami ripetuti nel tempo: in questo senso non si può giustificare la ripetuta esposizione ai raggi X, per quanto la dose possa essere ridotta dall'avanzamento tecnologico. L'artificio risolutivo può dunque consistere nell'utilizzo di scanner ottici 3-D per rilevare il contorno dei modelli in gesso e poi visualizzarli con tecnica CAD/CAM al fine di mettere in risalto la quantificazione del rimodellamento tissutale nonché le differenze specifiche nel comportamento di diversi materiali da innesto (Thalmair T 2013).

Il disegno del presente lavoro di tesi si basa su un'analisi volumetrica, supportata dalla rilevazione, con software dedicato, di modelli in gesso (pre-operatorii, e a 1 e 3 mesi dall'intervento), del comportamento di due sostituti ossei.

Gli alveoli post-estrattivi distribuiti al gruppo test hanno ricevuto un innesto di osso collagenato corticomidollare di osso suino (MP3, Osteobiol, Coazze, Italy) con particelle della dimensione di 600-1000 µm e una membrana in collagene (Evolution, Osteobiol, Coazze, Italy) è servita a stabilizzare il biomateriale nell'alveolo. Il gruppo controllo ha ricevuto un innesto di osso corticale suino (Apatos, Tecnoss, Coazze (TO), Italy) associato a una . membrana in collagene (Evolution, Osteobiol, Coazze, Italy).

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INTRODUZIONE

Tecniche di preservazione della cresta alveolare

Premesse

La perdita tanto dei tessuti duri quanto dei tessuti molli preclude il futuro posizionamento implantare (Barone R 1998) nonché il restauro protesico convenzionale. Può succedere che l'impianto sia totalmente inserito nell'osso nativo, ma che il profilo buccale dei tessuti duri e molli non basti a conseguire un risultato terapeutico ottimale. Potrebbe essere questo il caso di situazioni con esigenze estetiche particolarmente elevate.

Per migliorare il risultato estetico si può decidere di adottare una procedura di incremento al fine di ottenere i profili tissutali desiderati. Sono stati descritti vari metodi per mantenere le dimensioni crestali dopo l'estrazione, con particolare riguardo ai tessuti duri (Lekovic 1997,

1998; Artzi & Nemcovsky 1998; Artzi 2000; Iasella 2003; Zubillaga 2003).

La preservazione della cresta basata sulla Guided Bone Regeneration (GBR) ha mostrato la capacità di migliorare l'altezza e lo spessore della cresta se comparata alla sola estrazione senza gestione alcuna dell'alveolo (Lekovic 1998; Iasella 2003). Questi studi clinici hanno riportato che l'inserimento di impianti è stato portato a termine con successo in creste aumentate con GBR in genere senza il supporto da parte di un innesto osseo addizionale. In ogni caso non si aveva mai una restitutio ad integrum, ovvero il contorno originale della cresta non si conservava mai del tutto e si incorreva in una perdita media orizzontale in senso vestibolo-orale di 1.17-1.73 mm.

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Materiali usati nelle tecniche di Ridge Preservation

Nonostante l’osso sia un tessuto connettivo a elevato metabolismo cambiale, e quindi con un grosso potenziale rigenerativo, è difficile assistere alla guarigione spontanea di un difetto osseo. Al fine di facilitare e/o promuovere la guarigione, quindi, possiamo inserire del materiale da innesto nel difetto. Il razionale biologico che sta alla base dell’idea di riempire uno spazio vuoto, circondato da un numero variabili di pareti ossee residue, con un sostituto osseo, è dato dalla considerazione di quelle che sono le proprietà intrinseche di ogni materiale da innesto: le capacità osteogenetiche, osteoinduttive o, più semplicemente, osteoconduttive. Secondo gli atti del VI Simposio annuale internazionale sui Biomateriali, si definisce biomateriale “una sostanza sistematicamente e farmacologicamente inerte, designata per l’impianto all’interno di tessuti viventi o per l’incorporazione con essi” (Park 1979). Il suffisso “bio” fa riferimento alla destinazione di utilizzo, ovvero l’incorporazione nel sito ospite. Quando il materiale utilizzato è prelevato da vivente, sarebbe più corretto utilizzare il termine “trapianto”.

Nel corso degli ultimi decenni sono stati eseguiti diversi tentativi di conservazione del profilo crestale, inserendo materiali riassorbibili o meno nell'alveolo post-estrattivo.

Stando alla review di Darby et al del 2009, i materiali usati sono gli stessi che servono nelle tecniche di Rigenerazione ossea guidata (GBR) e di Rigenerazione tissutale guidata (GTR). I più utilizzati sono l’osso omologo demineralizzato liofilizzato (DFDBA) e l’ osso minerale bovino de-proteinizzato (DBBM), mentre una frequenza di utilizzo minore è stata riscontrata per materiali come l’osso autologo, l’idrossiapatite e il solfato di calcio (CMC/CaS). Più recentemente, la matrice dentinale demineralizzata (DDM) è stata suggerita come possibile materiale da innesto; essa è costituita da una matrice extracellulare ricca in collagene di tipo I e priva di vasi che serve da reservoir per i fattori di crescita (BMP-2, BMP-4, IGF-I, IGF-II, TBF-b) che saranno quindi disponibili per le cellule locali. Le caratteristiche della DDM la qualificano come materiale osteoinduttivo e osteoconduttivo.

Per quanto riguarda il posizionamento di membrane a livello del sito chirurgico, il politetrafluoroetilene espanso (e-PFTE) e il collagene sono i materiali di elezione, per quanto siano state analizzate anche possibilità alternative come membrane di acido poliglicolico/polilattico (Lekovic 1998), membrane ottenute a partire dal titanio e innesti di matrice dermica acellulare (ADMG). Le membrane in collagene sono state ampiamente utilizzate per la guided bone regeneration per via delle loro specifiche proprietà fisico-chimiche come la funzione emostatica che consente la stabilizzazione del coagulo, l’effetto

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chemiotattico nei confronti dei fibroblasti gengivali e la permeabilità che consente il trasferimento di sostanze nutritizie.

Spugne di acido polilattico/poliglicolico o di collagene, infine, sono state collocate da alcuni autori all’interno dell’alveolo post-estrattivo, al fine di preservare la cresta alveolare. Sembrerebbe che il collagene agisca da carrier sia per la proteina 2 morfogenetica ossea umana ricombinante (rhBMP-2)(Fiorellini 2005) sia per il peptide sintetico P-15(Neiva 2008).

Innesti ossei sostitutivi: classificazione

Gli innesti utili per l’incremento della quantità ossea disponibile sono classificabili in base alla loro origine in:

 Innesti autologhi: provenienti dallo stesso individuo

 Innesti singenici: provenienti da un individuo geneticamente identico (gemello omozigote)

 Innesti allogenici: provenienti da individui diversi ma della stessa specie

 Innesti eterologhi: provenienti da organismi di specie diversa (bovini, suini, equini…)  Innesti alloplastici : sono esclusivamente sintetici e biocompatibili.

Le caratteristiche ideali da ricercare in un materiale da innesto sono: 1. Biocompatibilità

2. Osteoconduzione 3. Osteoinduzione 4. Osteogenesi

5. Consentire l’osteosintesi

6. Ottenere una rivascolarizzazione nel minor tempo possibile

7. Essere eliminato dall’organismo ricevente e sostituito da osso neoformato di ottime qualità strutturali

8. Facile reperibilità

9. Buon rapporto costi/benefici

Non è possibile sperare di vedere concentrate queste caratteristiche ideali in un singolo materiale da innesto. In genere, quindi, si sceglie un compromesso che soddisfi almeno le esigenze specifiche del singolo caso clinico.

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I maggiori limiti che possono riguardare un materiale da innesto includono gli effetti sulla rivascolarizzazione, la persistenza dell’innesto piuttosto che la sua sostituzione con osso neoformato, una performance incostante, l’incapacità di ristabilire l’altezza della cresta alveolare, il prolungamento del tempo di guarigione e un piccolo, ma importante, rischio di trasmissione di malattie ( come la trasmissione virale in caso di innesto eterologo ).

Innesti ossei sostitutivi: proprietà

Le proprietà intrinseche che una tipologia di innesto può o meno manifestare nell’interazione con il tessuto ospite sono le seguenti:

Osteogenesi

Si può guardare all’osso innestato principalmente come a un tessuto parzialmente necrotico che nel tempo andrà incontro a un riassorbimento irregolare e che pertanto potrà fare da scaffold per la deposizione di nuovo osso. D’altra parte, una manipolazione accurata dell’innesto può consentire la sopravvivenza delle cellule e la rivitalizzazione del tessuto innestato in situ. Questa capacità, propria esclusivamente dell’osso autologo, si dice osteogenesi. L’osso si forma da osteoblasti dell’endostio e da cellule indifferenziate midollari che sono state trasferite con l’innesto.

Le cellule dell’innesto libero, sopravvissute in quantità variabile a seconda del trauma subito, saranno mantenute vitali dalla diffusione passiva di nutrienti dai tessuti circostanti. Per questo scopo rivestono un ruolo importante, a parità di condizioni del sito ricevente, la microarchitettura dell’innesto e la quantità di cellule vitali presenti.

Gli innesti autologhi possono essere corticali, midollari o cortico-midollari. L’osso corticale ha buone proprietà osteoconduttive ma, mancando di riserve vascolari sulle superfici endosteali e periostali, non garantisce la disponibilità cellulare. Infatti, la sopravvivenza degli osteociti di un innesto dipende dalla presenza di un apporto vascolare minimo entro la distanza di 0.1 mm. L’osso spongioso, di contro, ha buone possibilità di essere perfuso dai nutrienti del letto ricevente, possiede una concentrazione cellulare maggiore e va incontro ad una più rapida rivascolarizzazione.

Anche l’origine embriologica può modificare la performance dell’innesto autologo con gli innesto di origine membranosa che sono da preferire a quelli di origine encondrale in quanto mantengono una maggiore volumetria nel tempo.

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Perché l’osso autologo produca osteoide deve rimanere vitale, pertanto richiede una manipolazione accurata. Questa difficoltà tecnica e la sua inevitabile associazione a morbilità del sito donatore – con necessità di un secondo intervento – lo rendono un candidato meno ideale dell’innesto eterologo.

Osteoinduzione

È la capacità dell’innesto di stimolare la differenziazione delle cellule mesenchimali totipotenti, provenienti dal sito ricevente o dal letto vascolare, in osteoblasti. Questa attitudine è data dalla presenza e liberazione, da parte dell’innesto, di messaggeri biochimici inducenti la differenziazione ossea, in particolare le proteine morfogenetiche (BMB).

Le bone morphogenetic protein costituiscono un sottogruppo di una superfamiglia di proteine regolatrici dell’omeostasi e della riparazione tissutale dell’uomo adulto; oltre alle BMP vi riconosciamo la presenza di proteine osteogenetiche, proteine morfogenetiche di derivazione cartilaginea e fattori di differenziazione.

I materiali osteoinduttivi di più frequente utilizzo sono l’osso autogeno e l’osso allogenico - proveniente da soggetto appartenente alla stessa specie ma con corredo genetico diverso - . Il vantaggio principale di quest’ultimo tipo di innesto è la sua disponibilità, a fini pratici, illimitata. L’osso allogenico è prelevato da cadavere e trattato e conservato sotto varie forme. Ne esistono essenzialmente tre tipi: congelato, congelato-disidratato, demineralizzato congelato-disidratato. I più comuni innesti allogenici usati in implantologia sono i DFDB e i FDB. È stato dimostrato che gli innesti demineralizzati stimolano maggiormente l’induzione ossea rispetto a quelli parzialmente demineralizzati per via della pronta disponibilità delle BMP (Narang 1982), tuttavia sono meno osteoconduttivi non avendo la componente minerale. Fattori che influenzano l’applicabilità e il successo di innesti allogenici sono ancora: sicurezza (assenza di microrganismi patogeni e di residui antigenici), formulazione e dimensione delle particelle (dimensioni < 150 μm sono meno efficaci di particelle ≥ 250 μm; fibre di osso corticale sono più efficaci delle particelle).

Osteoconduzione

È la capacità dell’osso innestato di fornire un’impalcatura strutturale per la formazione di nuovo osso. L’innesto viene invaso da gettoni vascolari che apportano cellule ossee progenitrici dalla periferia verso l’interno, favorendo una progressiva sostituzione dell’innesto con osso neoformato (“creeping substitution” o propagazione sostitutiva).

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I materiali ad esclusiva proprietà osteoconduttiva sono quelli alloplastici e gli innesti eterologhi. I materiali alloplastici possono essere suddivisi in riassorbibili o non riassorbibili, densi o porosi, cristallini o amorfi.

Quelli più frequentemente utilizzati sono i materiali ceramici bioattivi come il fosfato tricalcico e le idrossiapatiti (HA).

L’idrossiapatite densa è un materiale non riassorbibile inorganico che non è in grado di integrarsi con la superficie implantare; la sua principale indicazione è pertanto il riempimento di uno spazio o il mantenimento di un volume.

Le forme più porose o amorfe delle ceramiche di fosfato di calcio sono materiali riassorbibili che vengono sostituiti con un fenomeno simile alla infiltrazione sostitutiva riscontrata nel rimodellamento dell’osso naturale. La percentuale di riassorbimento dei fosfati di calcio dovuta ad attività cellulare viene influenzata dalla dimensione delle particelle, dal volume delle porosità del materiale e dalla composizione. Particelle più grandi, a parità di altre condizioni, richiedono un tempo maggiore per riassorbirsi.

Gli innesti eterologhi sono prodotti da porzioni inorganiche di osso appartenente a diversa specie: l’osso eterologo è un ottimo sostituto ammesso che sia completamente de-proteinizzato e posto in un letto di osso trabecolare sanguinante.

Le attuali review sull'argomento (Horowitz R 2012) non mettono in evidenza la superiorità di un materiale rispetto agli altri né esiste la certezza di un chiaro beneficio nell'utilizzo di una membrana barriera o dei fattori di crescita.

Innesti ossei sostitutivi: focus sull’innesto eterologo

Gli innesti eterologhi sono considerati un’alternativa promettente all’innesto autologo. Sono stati introdotti negli anni ’60 soprattutto in forma di innesto osseo di origine bovina, quindi hanno perso il favore acquisito a causa dei rischi di immunogenicità correlati. La loro reintroduzione nella pratica clinica è venuta dopo lo sviluppo di modelli più sicuri nelle procedure di deproteinizzazione delle particelle ossee, vale a dire trattamenti termici (Murungan 2003).

Artzi et al. hanno usato il DBBM (de-proteinized bovine bone material) immediatamente

dopo l'estrazione in 15 pazienti e hanno eseguito un esame istologico dei siti innestati dopo 9 mesi. Gli studiosi hanno concluso che le particelle di DBBM sono un derivato biocompatibile dell'osso e rappresentano una valida alternativa quale opzione di trattamento per la

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preservazione della cresta. Di contro, altri studi (Becker W 1998; Carmagnola D 2003)

riportano risultati istologici meno promettenti: le particelle di DBBM venivano ad essere circondate solo da tessuto connettivo.

Sebbene l’innesto eterologo abbia buone proprietà osteoconduttive e venga incorporato nel tessuto osseo, sembra non essere suscettibile, come il sostituto autologo, all’attività osteoclastica e quindi ai processi di rimodellamento, potendo rimanere, pertanto, nel tessuto ospite, anche a vita. Il riassorbimento del DBB da parte degli osteoclasti è una materia di controversia soprattutto se andiamo a confrontare i risultati di studi sperimentali nell’animale con quelli di studi clinici nell’uomo.

Alcuni studi clinici hanno riportato il riscontro del riassorbimento delle particelle di DBB:

Wallace nel 2002 non denuncia la presenza di particelle di DBB dopo 20 mesi di guarigione;

tuttavia non è chiaro se questo dato rifletta un errore nella tecnica bioptica o un reale riassorbimento. Schlegel & Donath non riscontrano alcun segno di riassorbimento delle particelle di DBBM dopo 6 anni. Infine Skovlund et al suggeriscono che le particelle innestate siano soggette a un processo di degradazione molto lento. In generale, comunque, la maggior parte degli studi ha fallito nel dimostrare il riassorbimento del DBB; la variabilità riscontrata è più probabilmente da attribuire alla differenti tecniche chirurgiche e bioptiche portate avanti da ogni sperimentatore.

Da un punto di visto biologico, il riassorbimento è un fenomeno innescato dalla presenza di molecole di adesione per gli osteoclasti alle proteine del plasma e alla matrice extracellulare (fibronectina, fibrinogeno, collagene I, osteopontina, sialoproteina ossea). Dal momento che l’osso de-proteinizzato è per definizione privo di proteine, il suo riassorbimento sembra essere improbabile o, comunque, biologicamente non supportato. In realtà Schwartz et al. hanno riscontrato la presenza di TGF-ß e BMP-2 nelle particelle di DBB e questo potrebbe spiegare le lacune che occasionalmente si osservano nei preparati istologici in corrispondenza dell’innesto. Hallman et al suggeriscono che la presenza di queste lacune nei preparati istologici in realtà sia ingannevole: le lacune sarebbero già presenti nel materiale da innesto. La controversia sul riassorbimento degli innesti eterologhi nell’uomo ha portato alla produzione di materiali addizionati con collagene: l’aggiunta di terminali di riconoscimento per gli osteoclasti dovrebbe indurre il rimaneggiamento del sostituto favorendo la neoapposizione ossea. Gli studi pre-clinici ne hanno già comprovato l’integrazione eccellente all’osso del sito ricevente e l’elevato tasso di rimodellamento dovuto alla stimolazione osteoclastica.

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Sebbene la modalità di attivazione degli osteoclasti non sia ancora del tutto chiara, è possibile che queste cellule abbiano delle integrine di superficie che riconoscono alcune proteine come l’osteopontina, cruciali per l’adesione e il successivo riassorbimento.

Gli studi clinici e istologici di Barone (2012) e Nannmark (2008) dimostrano il riassorbimento delle particelle di osso eterologo di origine suina precollagenato. Questa formulazione innesca le BMU tramite l’attivazione della fagocitosi e quindi favorisce la deposizione di una matrice neoformata che va poi incontro a mineralizzazione.

La sezione istologica è colorata con ematossilina e eosina e consente di individuare un fronte di riassorbimento netto: con OC si indicano gli osteoclasti, con PCPB l’innesto suino pre-idratato e collagenato.

Da Nannmark, Clinical implant dentistry and related research 10.4 (2008)

L’introduzione di innesti eterologhi di origine suina è accompagnata dalla volontà degli sperimentatori di ottenere un maggior riassorbimento del sostituto osseo. Alcuni studi in letteratura, come modelli sperimentali in animale, avallano l’ipotesi che il materiale suino sia più riassorbibile di quello bovino. Si vedano a tal proposito i dati istomorfometrici ottenuti nel 2011 da Ramírez‐Fernández: l’analisi istomorfometrica non ha mostrato differenze significative nella formazione di nuovo osso tra i due tipi di materiale, tuttavia gli innesti suini collagenati sono più riassorbibili di quelli bovini. In particolare, per l’innesto suino la media di osso neoformato era del 22,8±1,8%, la media di materiale residuo 23,6±3% e la media di tessuto connettivo non mineralizzato 53,5±2,5%. Per l’innesto bovino invece i valori erano corrispondentemente: 23,1±1,8%, 39,4±3%, 37,5±2,5%.

PCPB

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