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Giovanni Testori e la «parola-materia». Il tragico nella Trilogia degli Scarrozzanti

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Academic year: 2021

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Università degli studi di Pisa

Dipartimento di filologia, letteratura e linguistica.

Laurea magistrale in Lingua e letteratura italiana.

Giovanni Testori e la «parola-materia».

Il tragico nella Trilogia degli Scarrozzanti.

CANDIDATO RELATORE

Lorenzo Ascione Prof.ssa Angela Guidotti

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Indice

Introduzione p. 4

Capitolo I: La poetica teatrale di Giovanni Testori. p. 7

1.1 La drammaturgia testoriana dagli esordi al Ventre del teatro. p. 7

1.1.1 Le riflessioni teoriche sull'arte drammatica. p. 7

1.1.2 Le tematiche del teatro testoriano. p. 12

1.2 Il Ventre del teatro. p. 16

1.2.1 La critica al “pensiero laico” borghese. p. 16

1.2.2 Il teatro e il suo “ventre”. p. 21

1.2.3 Il personaggio, i modelli, l'attore e la lingua nel Ventre del teatro. p. 29

1.3 I manifesti di Testori e Pasolini a confronto. p. 35

Capitolo II: La Trilogia degli Scarrozzanti. p. 45

1) Ambleto p. 45

1.1 L'evoluzione del tagico testoriano dopo il Ventre del teatro. Dal dolore personale alla sofferenza

universale: la poesia e la critica d'arte come preludio all'Ambleto. p. 45

1.2 Il nuovo teatro inaugurato da Testori. La Trilogia degli Scarrozzanti: Ambleto. p. 52 1.2.1 L'Amleto testoriano: il personaggio della domanda esistenziale senza risposta. p. 52 1.2.2 Il sodalizio con Franco Parenti e Andreé Ruth Shammah: la nascita del Pier

Lombardo. p. 58

1.2.3 Nel “ventre” dell'Ambleto: la tragedia della nascita nella “piramida del potere”.

Analisi dei personaggi e dei temi. p. 64

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2) Macbetto p. 91

2.1 L'interrogativo sul male dell'esistenza e la fine del sentimento religioso: Sennacherib e l'angelo

e La Cattedrale come anticipazione del Macbetto. p. 91

2.2 La seconda tragedia degli Scarrozzanti: Macbetto. p. 99

2.2.1 Il Macbeth testoriano: l'uomo sottomesso al Potere e alla morte. p.99

2.2.2 Nel “ventre” del Macbetto: la tragedia universale dell'umanità tra illusione del Potere

e la morte. Analisi dei personaggi e dei temi. p. 106

2.2.3 La lingua “fetale” del Macbetto: “il tentativo di verbalizzare l'esistenza”. p. 141

3) Edipus p. 149

3.1 L'esistenza come “Via Crucis”: da Passio Laetitiae et Felicitatis fino all'Edipus. p. 149

3.2 Il finale della Trilogia: Edipus. p. 159

3.2.1 L'Edipo testoriano: Dioniso nelle vesti dello Scarrozzante. p. 159

3.2.2 Nel “ventre” dell'Edipus: la tragedia della lotta contro il Potere. Analisi dei

personaggi e dei temi. p. 166

3.2.3 La lingua dell'Edipus: il monologo dove il “verbo” si incarna. p. 192

Conclusione p. 200

Bibliografia p. 203

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Introduzione

Nel presente lavoro sarà preso in esame il significato che assume la tragedia in Giovanni Testori,

con una particolare attenzione al suo intervento teorico, Il ventre del teatro1, e alla Trilogia degli

Scarrozzanti2: Ambleto, Macbetto ed Edipus. Il periodo interessato sarà quello che va dalla fine

degli anni Sessanta a quella degli anni Settanta; in particolare l'attenzione è centrata sulla concezione del 'tragico' testoriano, formulata dall'autore nel saggio del 1968, e sull'applicazione dei suoi principi nelle tre opere che rappresentano il culmine della sua esperienza drammaturgica. Le mie riflessioni hanno preso spunto da alcune indicazioni contenute in una monografia di Angela Guidotti sul tragico nel nostro Novecento in cui si alludeva alla possibilità di ulteriori verifiche, tra cui quella del teatro di Testori, oltre quelle effettuate nel libro:

Lungo un percorso così concepito si pongono molti altri testi che fanno della multivalenza di genere uno dei loro tratti più originali e soprattutto svincolati da una dichiarazione 'ufficiale' del riferimento al modello della tragedia greca. Si pensi alla produzione di Mario Luzi, da Ipazia ad Hystrio, o a quella di Giovanni Testori, che fa sopravvivere temi della tragicità precipitando nel grottesco i suoi personaggi.[...]

Per questo le mie conclusioni possono considerarsi provvisorie se su guarda alla possibilità di fornire anche altri esempi.3

Il motivo per cui ho voluto concentrarmi sul drammaturgo di Novate Milanese è perché è stato uno dei protagonisti sul dibattito, svoltosi alla fine degli anni Sessanta, in merito alla crisi dell'autore nel teatro contemporaneo e al suo ruolo, fornendo una soluzione che si concretizza, appunto, nel Ventre

del teatro e nella Trilogia degli Scarrozzanti. Infatti Testori, insieme a Moravia e a Pasolini, in

quegli anni propone un teatro che abbia nuovamente al centro la “parola” (quindi il testo scritto rispetto alla componente scenica e visiva privilegiata dal teatro di regia e dalle avanguardie) e che abbia come suo scopo il ripristino del genere tragico.

Nella prima parte del lavoro mi concentrerò sul Ventre del teatro, focalizzando l'attenzione sulla poetica dell'autore, sui suoi temi (a partire dagli esordi fino al '68) e su quegli elementi tragici che subentreranno nella Trilogia degli Scarrozzanti e che sono determinanti per la riproposizione della tragedia.

1 G. Testori, Il ventre del teatro, in «Paragone. Letteratura», n°220/40, giugno 1968, p. 93-107.

2 G. Testori, Trilogia degli Scarrozzanti, in Opere: 1965-1977, a cura di Fulvio Panzeri, Bompiani editore, Milano 1997, pp. 1139-1374.

3 A. Guidotti, Forme del tragico nel teatro italiano del Novecento: modelli della tradizione e riscritture originali, Edizioni Ets, Pisa 2016, pp. 189-190.

(5)

Successivamente il saggio teorico verrà confrontato con il Manifesto per un nuovo teatro4 di Pier

Paolo Pasolini, pubblicato lo stesso anno, per la proposta alternativa che essi portano avanti rispetto al teatro del tempo e mi soffermerò in particolare sulle differenze delle due poetiche teatrali, soprattutto per quanto concerne il concetto di “parola” e quindi la tragedia da questi riproposta. Altro punto focale del mio lavoro sarà individuare l'essenza della drammaturgia testoriana, lo scopo vero e proprio del suo teatro tragico, ossia il tentativo di “verbalizzazione dell'esistenza”:

Ecco il vero teatro (la tragedia) non potrà mai essere 'rappresentazione criticata', ma sempre e solo 'verbalizzazione tentata'.5

La seconda parte del lavoro riguarderà l'analisi delle tre opere della Trilogia, dal momento che in esse è possibile individuare, concretamente, i principi della poetica dell'autore e riconoscere le novità riportate da Testori per realizzare il suo progetto: un sorta di “verbalizzazione dell'interiorità umana”, come avrò modo di dimostrare. Ciò che più colpisce all'interno dell'opera non è solo la ripresa e la riscrittura delle tragedie della tradizione elisabettiana e sofoclea (Amleto, Macbeth e l'Edipo Re), ma l'invenzione di una nuova lingua teatrale che sarà adottata a partire dall'Ambleto fino ai Tre Lai, pubblicati postumi. Infatti, a partire da La morte, suo primo testo teatrale, fino all'Erodiade, composta nel '68, l'autore aveva scritto i suoi testi in italiano avvicinandosi progressivamente al linguaggio colloquiale, tanto che, solo a partire dai Segreti di Milano, iniziava ad introdurre termini ed espressioni dialettali lombardi. Con la nuova lingua Testori riesce ad avvicinarsi alla realizzazione di quel tentativo di “verbalizzazione dell'esistenza” che si era prefissato nel Ventre del teatro.

Ad essere trattata, nel seguente lavoro, sarà anche l'inaugurazione del nuovo teatro testoriano, che ha avuto al suo centro l'incontro con l'attore Franco Parenti, grazie al quale Testori ha formulato questa nuova lingua per la sua tragedia, e con l'allora giovanissima Andrée Ruth Shammah, che con la sua regia è riuscita a realizzare non solo l'ambientazione caratterizzata dalla povertà, sia scenografica che sociale dei testi, ma anche ad unire l'intenzione dell'autore con l'esecuzione attoriale. Il sodalizio dei tre durò per tutti gli anni Settanta e, con il debutto dell'Ambleto nel 1973, essi fondarono, insieme a Dante Isella, il Salone Pier Lombardo, che da ex-cinema di periferia divenne un salone teatrale. Grazie a questo incontro è nata la Trilogia degli Scarrozzanti, che prese il titolo dai colloqui avuti con Franco Parenti, il quale aveva riportato a Testori diverse notizie su queste compagnie di guitti girovaghi che allestivano spettacoli per tutta la Lombardia.

4 P. P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi argomenti», nuova serie, n°9, gennaio-marzo 1968, in

Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori editore, Milano 1999, tomo II, pp.

2481-2500.

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La figura dello “scarrozzante” è un'altra novità del teatro testoriano e costituisce un unicum, insieme alla lingua inventata dall'autore, nella storia del nostro teatro. Testori, infatti, non rappresenta nelle sue tragedie eroi storici o mitici, bensì personaggi di bassa estrazione sociale, che, nelle loro difficoltà economiche e sociali, vivono in prima persona le sofferenze dell'esistenza.

Ciò è tipico della letteratura testoriana che si è sempre concentrata su uomini e donne reietti ed emarginati della periferia milanese, non tanto in senso neorealista, quanto guardando alle radici del tragico dell'esistenza, che sono il filo rosso di tutta la sua produzione letteraria ed artistica.

Nella Trilogia, come già anticipato, sono state riprese tre opere della tradizione tragica, due shakespeariane e una sofoclea. Esse non vengono semplicemente “riprodotte”, dal momento che vengono riadattate all'epoca contemporanea e secondo la poetica teatrale dell'autore. L'analisi proseguirà con la lettura delle tre opere, nel corso della quale verranno toccati molti temi caratterizzanti per questo autore, come l'omosessualità, il contrasto tra uomo e Dio, la religiosità, il contesto politico del tempo ed altri ancora.

Un punto importante della poetica teatrale di Testori è costituito dalla tecnica metateatrale, adottata nelle pièces della Trilogia (personaggi che si rivolgono al pubblico o che mostrano agli spettatori gli espedienti tecnici che stanno dietro la rappresentazione), che è funzionale alla riflessione e al confronto con il teatro stesso, tanto che le tre opere, in particolare l'Edipus, trattano della condizione del genere teatrale di quel preciso momento storico.

Infine vedremo come l'alternativa teatrale testoriana sia stata fondamentale per la riproposizione del genere tragico, che Testori ha rinnovato nella lingua, nei personaggi, nei contenuti e nell'ambientazione, con il recupero della componente dionisiaca.

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Capitolo I: La poetica teatrale di Giovanni Testori

1.1 La drammaturgia testoriana dagli esordi al Ventre del teatro. 1.1.1 Le riflessioni teoriche sull'arte drammatica.

La riflessione espressa nel saggio Il ventre del teatro deriva da diversi anni di discussione sul genere teatrale che ha coinvolto vari intellettuali italiani. Gli anni Sessanta costituiscono un periodo particolare per il teatro, non solo per la nascita delle avanguardie e delle cantine, ma soprattutto per gli interventi di alcuni autori sull'arte drammatica e sulla sua essenza. Fin dal primo ventennio del secolo scorso si sentì la necessità di porre in discussione il dramma borghese nato nell'Ottocento, cercando di superare il naturalismo di cui esso era imbevuto. Questi sono gli anni in cui Pirandello riscosse il suo successo teatrale ed inaugurò il genere del teatro filosofico, come lui stesso afferma nell'introduzione ai Sei personaggi in cerca d'autore, con la cui opera riuscì a superare il dramma naturalista e i suoi stereotipi tematici. Dopo questo periodo di grande fermento teatrale e in seguito ai contrasti in merito alla supremazia, ai fini dell'esecuzione scenica, tra autore, regista e attore, si sentì la necessità di convocare un convegno che avesse come tema principale il teatro stesso, il convegno Volta del 1934. Qui viene stabilito che il teatro dovesse avere al proprio centro il testo e l'intenzione del drammaturgo, non la componente spettacolare, considerata come secondaria. Ciò determinò la nascita e il consolidamento del teatro di parola, genere che pone al centro il testo e in secondo luogo l'esecuzione scenica. Gli anni Quaranta, invece, soprattutto in seguito al secondo conflitto mondiale, avevano conosciuto un grande sviluppo del cosiddetto 'teatro di regia'. Ciò determinò la rottura di quell'equilibrio precario che si era venuto a creare tra autore e capocomico dopo il convegno Volta, portando all'emersione del metteur en scène, il quale prese il posto del drammaturgo nella creazione dell'opera e nella gestione degli attori. La parola dell'autore perciò perse sempre più d'autorità, essendo dato più spazio alla componente spettacolare, tanto che i registi iniziarono a rappresentare opere della narrativa oppure di riscrittura del testo teatrale riadattandole, conferendo loro originalità nella rappresentazione. Nel '48 nasce a Milano il primo teatro stabile, il Piccolo Teatro, cui seguirà la fondazione di altri in diversi capoluoghi italiani. Questi teatri avevano come obiettivo quello di dare un servizio pubblico ai cittadini (quindi non erano più indirizzati solo agli intellettuali) e di fornire uno spazio scenico a coloro che volessero allestire delle rappresentazioni teatrali. Questa istituzionalizzazione del teatro aveva portato anche alla nascita di una sorta di canone scenico, che prevedeva una ripresa della tradizione teatrale piuttosto che una concentrazione sul repertorio contemporaneo.

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Ciò aveva determinato la nascita di avanguardie teatrali, le quali si ponevano l'obiettivo di svolgere un teatro che fosse alternativo alle messinscene proposte dagli Stabili e che privilegiasse di più l'impatto scenico. Durante questo periodo, nel corso degli anni Sessanta, si sente l'esigenza di discutere della questione teatrale, in particolare del rapporto tra letteratura e teatro che era andato via via scemando. Al centro di queste discussioni vi è anche Testori, il quale, essendo divenuto noto dopo lo scandalo dell'Arialda, aveva voce in capitolo su quanto stava accadendo nel mondo del teatro.

Prima dell'inchiesta di Marisa Rusconi, Gli scrittori e il teatro, come vedremo, l'autore era stato invitato ad una tavola rotonda, dove insieme ad altri critici e scrittori, era chiamato ad analizzare i problemi relativi al teatro di prosa in Italia ed in particolare a Milano. Qui si discutevano principalmente due questioni: la prima riguardava il distacco creatosi tra letterati e teatro, che stava diventando sempre più una prerogativa di registi e tecnici, che stavano spingendo progressivamente sull'importanza dello spettacolo; la seconda concerneva l'interesse maggiore del pubblico verso nuove forme di trasmissione della cultura rispetto alla drammaturgia. Testori, in quanto drammaturgo e scrittore, affermava che il problema principale del rapporto tra letterati e teatro non fosse dettato tanto dal reperire, da parte dell'autore, chi avrebbe potuto rappresentare la scena, quanto dalla mancata volontà, da parte degli intellettuali del tempo, di scrivere per il teatro. Il novatese sostiene che gli uomini di cultura non debbano solamente partecipare alla vita teatrale per risolvere la crisi dell'arte drammatica, ma che dovrebbero comporre per il teatro stesso, non come teorici o critici, ma come drammaturghi:

Secondo me non devono avvicinarsi, devono affrontare il nucleo del teatro, devono inventarlo loro. Un vero scrittore di teatro non può più pensare di legare la battuta di un personaggio e una battuta di un altro personaggio, con una descrizione, deve chiudere tutto. E' al ventre che si giudica se una cosa è teatro o no. E' il nucleo che deve essere di forma, di struttura, di sangue teatrale. E quando uno è caduto nel gorgo di questa formazione teatrale è perduto come narratore. Il teatro richiede, perché uno scrittore abbia il diritto di dire «Voi non mi rappresentate», che lo scrittore si venda completamente al teatro, cioè entri lui stesso nel teatro: poi può ignorare i teatranti che non lo rappresentano. Però il suo testo è un fatto di enorme importanza, anche se nessuno lo dà. Sino a che uno scrittore non avverte queste cose, non sarà mai uno scrittore di teatro.6

Testori si rende conto che il vero teatro non è quello eseguito, ma quello scritto, che non è solo costituito dalla trama inventata dall'autore, bensì dalle viscere del teatro stesso; quindi la sua non è una drammaturgia che guardi unicamente allo spettacolo o che punti esclusivamente al testo, oppure alla potenzialità della parola dialogante, ma ad altro. Ciò che lo scrittore pone al centro è il nucleo del teatro stesso, non il contenuto, concentrandosi su un qualcosa che vada oltre l'esprimibile o il rappresentabile: il mistero dell'esistenza.

6 G. Testori, L'autista di Parigi e lo spettatore italiano, in «Settimo giorno», 26 febbraio 1965, in G. Santini,

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Per questo motivo afferma che è necessario che il letterato si venda al teatro, cioè che si voti completamente ad esso per penetrarlo e giungere a quello che lui stesso definisce ventre. Con questa termine, ricorrente nell'opera testoriana, l'autore rimanda sia all'organo sessuale (all'utero), laddove si origina la vita, in cui ciò che è deforme prende forma, che all'atto sessuale nella sua potenza

vivifica e violenta. Per questo motivo Testori afferma che lo scrittore deve cadere nel gorgo della

formazione per tirarne fuori il nucleo ed esprimerlo. Il novatese considera il drammaturgo un vero e proprio iniziato al rito drammatico, non un narratore di una vicenda o di un fatto; infatti, solo attraverso la penetrazione nel ventre, l'autore può definirsi scrittore di teatro, poiché riuscirà a cogliere il senso stesso che risiede al suo interno e sarà capace di poterlo rappresentare coi mezzi che gli sono forniti dalla tecnica scenografica e dagli attori. Il teatro è un'arte che consente al drammaturgo, al pubblico e a coloro che vi operano di poter penetrare nell'esistenza, non solo descrivendo le sofferenze che riguardano l'uomo e il suo essere nel mondo, ma permettendo a tutti di vivere tutto ciò.

Alla fine della tavola rotonda Testori afferma che il teatro ha maggiori capacità espressive rispetto al cinema, reputato come mezzo privilegiato da parte degli scrittori del tempo per esprimere il proprio io e le questioni umane. Qui l'autore lombardo si schiera contro questa sostituzione dell'arte drammatica con il cinematografo, affermando che il cinema non potrà mai raggiungere la stessa capacità estetica del teatro, in quanto, per la sua facoltà di cogliere i fatti nell'immediatezza ed essendo sempre vincolato dalla realtà quotidiana e storica, non riesce a penetrare nel mistero della vita. Infatti esso, come il giornalismo, esprime una verità che si trova nell'hic et nunc ed è perciò destinata a de-naturalizzarsi col passare del tempo, al contrario della letteratura o dell'arte che, invece, veicolando un linguaggio di tipo poetico, col passare degli anni, non smettono di riportare una verità che rimane eterna e suscita in qualsiasi momento emozioni sconvolgenti. Anche se nel

Ventre del teatro Testori non riprenderà l'argomento inerente alla differenza tra cinematografo ed

arte drammatica, è importante conoscere l'idea che egli aveva del cinema, poiché lo riteneva frutto dell'ideologia borghese naturalista, la quale tendeva, più che a “verbalizzare” l'esistenza (sarà questa la teoria principale della sua idea di teatro), a “rappresentare criticamente” la realtà. Questo aspetto è importante poiché verrà preso in esame all'interno del suo saggio.

L'altro documento fondamentale che pone le premesse per la stesura del Ventre del teatro è la sopracitata inchiesta di Marisa Rusconi. Essa è indirizzata particolarmente agli autori del tempo ed aveva come obiettivo quello di rimettere in discussione il rapporto tra testo e spettacolo teatrale.

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Su «Sipario» vengono interrogati, attraverso un questionario, vari scrittori e viene chiesto loro di esporre la propria opinione sul teatro del tempo, sulla crisi dell'autore e sul rapporto tra testo e spettacolo7.

Nelle risposte Testori, non solo dichiarerà le sue ragioni per cui il teatro dovesse necessariamente essere fondato sulla parola, ma introdurrà alcuni di quei principi che saranno presenti nel Ventre del

teatro. Qui l'autore esprime le proprie idee sul teatro, dichiarando quali fossero i suoi modelli e

manifestando la propria ostilità nei confronti di Brecht e del metodo brechtiano preso come modello nella drammaturgia contemporanea. Testori afferma che la frattura tra teatro e scrittori è data non solo da un disinteresse degli intellettuali nei confronti della scena, o dall'alienazione dell'io a cui l'ideologia dominante ha condotto l'umanità, ma dall'idea per cui una pièce valga maggiormente per la presenza di più spettatori possibile e che quindi non abbia come proprio fine l'opera rappresentata, quanto la componente spettacolare. Contro questa idea l'autore propone l'esempio di Alfieri:

Da parte mia, non credo che le cose stiano così. Del resto l'Alfieri che, col Manzoni e l'amatissimo Della Valle, è per me l'uomo di teatro più grande che ha avuto l'Italia, scriveva per pochissimi spettatori; scriveva insomma per liberare un proprio ingorgo che era di natura tragica.8

Questa affermazione sarà determinante per la drammaturgia testoriana. Testori sostiene che compito, o meglio, esigenza dello scrittore è esprimere il proprio dissidio interiore, così come fece il drammaturgo astigiano, il quale non badava al numero degli spettatori e neanche alla componente spettacolare della scena. Ciò che sta al centro della poetica alfieriana, come quella testoriana, è appunto liberare questo ingorgo che risiede nell'autore e che di riflesso è presente in ogni essere vivente, in quanto, essendo proprio di natura tragica, riguarda l'esistenza in generale. Da qui si deduce che l'unica forma di teatro contemplata da Testori sia la tragedia, tanto che, oltre ad Alfieri, cita anche altri due grandi drammaturghi italiani che seguirà come modello: Manzoni e Della

Valle9. Nel Ventre del teatro infatti riprenderà questi nomi affiancando ad essi anche la tragedia

greca ed elisabettiana.

Sempre riferendosi alla poetica alfierana, Testori introduce un altro aspetto che riguarderà la sua drammaturgia a partire dalla stesura del suo saggio, ossia la questione della lingua.

7 M. Rusconi, Gli scrittori e il teatro, in «Sipario», n.229, maggio 1965: «1)Nei maggiori paesi stranieri esiste un rapporto diretto tra le esperienze letterarie più avanzate e il teatro. Da che cosa dipende secondo lei la frattura che esiste invece in Italia tra gli intellettuali e la scena? 2) Personalmente qual è stata e qual è la sua posizione di autore nei riguardi del teatro? 3) Va mai a teatro? Ha interesse per qualche autore o qualche personalità del teatro italiano?», p.2 .

8 G. Testori, Gli scrittori e il teatro, a cura di Marisa Rusconi, «Sipario», n.229, maggio 1965, p.14.

9 Il motivo per cui persegue questi modelli è dato non solo dalla provenienza geografica di questi drammaturghi, ma anche dalla loro poetica. Del Della Valle e di Manzoni un discorso più specifico verrà esposto in seguito, nel paragrafo 1.2.3.

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Questi afferma che il teatro italiano contemporaneo si è ormai focalizzato sul pirandellismo, cioè

sulla ripresa delle sue opere e su quella che l'autore dichiara essere “l'inanità”10 del linguaggio

pirandelliano, che, essendosi stereotipato, ha perso la sua efficacia di penetrazione ed espressione dei drammi interiori umani, portando unicamente a una sorta di codificazione della lingua teatrale. Qui l'autore dichiara che il teatro necessita di una nuova forma di espressione che sia penetrante e forte come quella alfieriana, la quale, nella sua forza, riusciva ad esprimere non solo il dissidio interiore dello scrittore, ma a trasmettere e a far emergere l'emotività di cui essa era portatrice. Da questa riflessione sul linguaggio teatrale nascerà l'intricatissima lingua testoriana, che si pone come obiettivo quello di comunicare quella “verbalizzazione tentata” del “ventre” non solo del teatro, ma di ogni uomo. Ciò, come sostiene l'autore, sicuramente non determinerà una grande affluenza nei teatri, ma sarà comunque una via per poter rompere quella frattura che divide gli scrittori dall'arte drammatica:

Senonché tutte le volte in cui il teatro italiano ripropone l'Alfieri e quindi anche nell'ultima e per più punti eccezionale ripresa dell'Agamennone fatta da Giovampietro, gli spettatori (forse è questa quella che voi chiamate società) si rifiutano di assistere. La sera in cui ci sono andato, in sala ho contato solo trentadue persone. A questo punto devo dire chiaramente come la cultura che mi interessa e che interessa un'eventuale possibilità del teatro, sia fatta da queste trentadue persone, oltre che, è logico, dagli attori e dal regista che io vorrei qui elogiare (se il mio elogio vale qualcosa) e ringraziare.11

Il novatese, quindi, stabilisce definitivamente che per lui non conta la componente spettacolare o la presenza numerosa del pubblico o l'abilità del regista e degli uomini di scena, ma la partecipazione piena a quello che è veramente il teatro da parte di tutti coloro che collaborano per la realizzazione dell'opera (dall'autore agli spettatori), anche a costo di riservare la pièce a pochissimi intimi.

Alla fine del questionario Testori, compiendo una critica delle tematiche affrontate dal teatro italiano dell'epoca, dà una definizione di quello che per lui è veramente il teatro, dichiarando esplicitamente la sua avversione nei confronti di Brecht e delle sue teorie che hanno influenzato la drammaturgia italiana:

Mi pare che il teatro italiano sia particolarmente disposto, o addirittura, soltanto disposto, a raccogliere e propagandare problemi finti o risolvibili assai meglio in altre sedi. Basterebbe guardare quello che è successo alla rivista: anche lì dall'ingorgo siamo arrivati allo spettacolo di piena decenza e civiltà, il che vuol dire aver distrutto quel tanto di inconsciamente esaltante e brutale e liberativo che la rivista conteneva. Riconosciuto che non è lecito fare supposizioni astratte, ma pensando a cosa può essere il teatro (dato che è questo pensiero che le vostre domande vogliono indurre), io sento assai oscuratamente, ma anche assai violentemente, che il teatro deve contenere un totale scatenamento dell'irrazionale. L'opposto esatto, per essere chiaro, di quello che Brecht pensava fosse il teatro; Brecht, catechista di terz'ordine e per me uno degli uomini più nefasti della cultura moderna. La rivoluzione in ogni modo sta da un'altra parte.12

10 G. Testori, Gli scrittori e il teatro, a cura di Marisa Rusconi, in «Sipario»: «Sarebbe ora di dichiarare che l'inanità del linguaggio teatrale pirandelliano è grottesca, penosa e alla fine catastrofica nei confronti dei residui di difficoltà che non voglio negare esistano dentro al fierissimo e arrampicante linguaggio alfieriano.», p. 14.

11 Ibidem. 12 Ibidem.

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Da qui si deduce come l'autore desideri rinnovare il teatro italiano compiendo quella che potrebbe apparire come una controrivoluzione, ossia compiere un ritorno alle origini. Ponendo come esempio la trasformazione che ha subito la «rivista», perdendo la sua potenza originaria divenendo, come afferma l'autore, uno “spettacolo di piena decenza e civiltà”, Testori afferma che la società borghese, o meglio, l'ideologia “laicista” (come questi la definirà) ha condotto ad una forte razionalizzazione del teatro, appiattendolo e normalizzandolo, privando così l'arte drammatica del suo potenziale più profondo, ossia lo scatenamento dell'irrazionale. Questo sarà il punto fermo che riguarderà il tema del Ventre del teatro.

1.1.2 Le tematiche del teatro testoriano.

E' stato necessario citare questi due interventi per poter introdurre il manifesto del teatro di Testori, dove questi compirà la sua ufficiale dichiarazione di poetica. Tuttavia, prima di giungere all'analisi dell'articolo, è necessario compiere un'ulteriore premessa che interessa i temi inerenti a ciò che concerne “lo scatenamento dell'irrazionale”, ossia il vero “ventre del teatro” secondo l'autore. Per irrazionale non si intende tanto la componente istintuale o emotiva dell'essere umano, cioè quella che si pone al di fuori della razionalità, bensì ciò che è incomprensibile all'uomo e che perciò si inserisce su un piano che si potrebbe definire metafisico, inteso nel senso etimologico di “oltre natura”, ossia al di fuori della realtà intellegibile e cognitiva. Tutta la letteratura e l'arte testoriana hanno come obiettivo l'espressione del mistero dell'esistenza, che è qualcosa di trascendente ed immanente al tempo stesso, di cui l'uomo è cosciente, ma che non riesce a spiegare.

Agli esordi, con il dramma La morte, l'autore pone le basi di quello che sarà l'argomento principale e il personaggio onnipresente della sua produzione: la morte stessa. Tutta la sua opera non è altro che un dialogo continuo con questo aspetto dell'esistenza che considera, fino al decesso della madre, il baratro in cui l'uomo sprofonda senza vedere alcuna luce e che perciò determina l'inanità della vita: in sintesi il limite e il non senso dell'essere. Perciò la morte viene vista come il momento culmine dell'esistenza, come una forza a cui non si può sfuggire e a cui ogni essere vivente inevitabilmente tende. Nel Ventre del teatro essa viene vista come lo scacco che si pone nella lotta dell'uomo contro il proprio destino, rendendo evidente la disparità esistenziale che si pone tra la finitudine dell'umanità e l'infinità e indefinitezza del Fato. Nelle sue opere viene rappresentato anche lo scontro tra il genere umano e la morte, esplicitato nella massima potenza nel dramma

Tentazione in convento dove, in una battaglia sanguinaria tra una novizia e una bestia demoniaca

(un cane nella realtà scenica, un demone interiore nella coscienza della protagonista), viene rappresentato proprio questo conflitto.

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La lotta tra l'uomo e il suo limite è il tema principale che viene affrontato fin dall'antica Grecia proprio nella forma della tragedia, che Testori identificherà nel saggio del '68 come il genere teatrale per eccellenza per rappresentare questo scontro, che non è altro che il nucleo del teatro tragico. In questo testo e in altri, scritti tra gli anni quaranta e cinquanta (Cristo e la donna,

Caterina di Dio e Le Lombarde), è introdotto nella drammaturgia testoriana quell'aspetto religioso

di cui tutta la sua produzione è intrisa e che consiste nella relazione tra uomo e Dio, identificato sia col dio cristiano (figura di Cristo) e giudaico (la divinità ineffabile degli Ebrei), ma che può essere paragonato anche alla Τΰχη greca, implacabile e imperscrutabile. Il legame tra cielo e terra, quindi tra umanità e divinità (intesa come qualcosa che trascende l'uomo), è la dimensione in cui si trova la drammaturgia testoriana, cioè una religiosità inquieta che non è per niente consolatoria, bensì, ponendo al centro l'uomo nella sua mortalità, mira sempre all'aspetto sofferente e doloroso dell'esistenza, fissando lo sguardo sul baratro in cui tutta la vita è risucchiata. Il teatro testoriano ripropone, perciò, quelle che sono le ragioni prime ed ultime, che risiedono nella carne e nei profondi strati della coscienza e che solo la rappresentazione scenica riesce a far emergere. Attraverso il tentativo di verbalizzazione che la drammaturgia testoriana si pone, viene pronunciata quella preghiera o bestemmia inespressa nel cuore dell'uomo nei confronti di quel deus absconditus, che si rivelerà all'autore solo dopo la morte della madre e che apparirà nella Misericordia cristiana nelle opere seguenti alla Trilogia. L'elemento religioso e rituale sarà al centro del Ventre del teatro, il quale sarà posto in contrasto alla mentalità laicista borghese, che ha portato alla perdita della religiosità nel genere teatrale, oltre che nell'uomo stesso.

Altro elemento fondamentale della poetica teatrale di Testori è il contesto in cui sono ambientate le sue pièces. Sebbene nel saggio non indichi una regola sul luogo e sullo status sociale dei personaggi da rappresentare, in tutta la sua produzione letteraria pone al centro vicende di uomini e donne, solitamente di bassa estrazione sociale, che sono degli “esclusi” a causa di una loro diversità che li condanna ad un'emarginazione sociale e globale, tanto che il dramma che essi subiscono è vissuto nella solitudine. Ciò lo si vede già in Tentazione nel convento, dove la protagonista viene abbandonata dalle consorelle a causa della bestia che la perseguita ed essa stessa, alla fine del dramma, decide di affrontarla da sola per compiere il proprio destino di morte. Nell'Arialda, invece, i protagonisti vivono la solitudine per una forma di “diversità” a causa della quale vengono stigmatizzati a vita e che, perciò, desta scandalo. E' questo il caso di Eros, fratello di Arialda, che prova nei confronti del giovane Lino una forma di amore omoerotico, che non è espressa sessualmente, ma affettivamente. Ciò risultava scandaloso all'epoca e di questa stigmatizzazione sarà vittima anche l'Arialda stessa, che non riuscirà a trovare un nuovo marito proprio perché isolata da tutti a causa del comportamento “moralmente disdicevole” del fratello.

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I protagonisti dei drammi testoriani sono emarginati ed esclusi, ed è nella loro solitudine, attraverso la forma del monologo (la tecnica privilegiata da Testori, come dichiara nel saggio del '68), che riescono ad esprimere quel nodo dell'esistenza che è presente nella parte più profonda dell'anima. Lo scandalo è l'altra componente costitutiva ed essenziale del teatro testoriano, l'obiettivo a cui vuole giungere, come viene affermato nel Ventre del teatro. Dagli esordi il drammaturgo lombardo ha ricercato questa pietra di inciampo su cui far cadere la moralità della società e dell'ideologia borghese, la quale, troppo intenta a trovare una modalità di comportamento e una sorta di palliativo alla sofferenza dell'esistenza, non ha più guardato alla realtà vera dell'uomo, ossia alla sua piccolezza e finitudine, cioè alla sua carnalità. Il teatro di Testori ricerca proprio lo scandalo, creandolo a sua volta, così come è accaduto di fatto con la censura per materia scandalosa dell'Arialda e di In exitu:

L. Doninelli: Di' la verità: a te lo scandalo è sempre piaciuto. Non mi sembra che lo scandalo ti sia toccato come un destino ineluttabile. Te lo sei andato a cercare

G. Testori: Beh, non posso dir di no.

LD: Come ti sentisti ai tempi dell'Arialda? O dopo la memorabile prima di In exitu alla Pergola di Firenze? GT: Felice. E' quello che si augura sempre. Ti confesso che provo un po' di nostalgia per gli scandali. Mi piacerebbe farne scoppiare un altro.13

Lo scandalo quindi non risulta unicamente rappresentato, ma provocato, scatenato dalla potenza del teatro del 'verbo' verso il pubblico (inteso sia come quello che assiste all'opera, che al lettore del testo, che alla società).

Primario elemento fondamentale della drammaturgia testoriana è la componente autobiografica. Infatti l'autore, nelle sue opere, esprime quello che è il suo dramma personale, ciò che lo conduce alla disperazione e alla sofferenza, ossia la sua omosessualità. Tratta di essa per la prima volta nell'Arialda, mostrando lo scandalo che essa scatenava nella mentalità del tempo, che condannava la relazione omosessuale come rapporto contro natura. In Testori l'autentico dramma si svolge tra la propria fede (anche se la conversione ufficiale avvenne nel 1977, egli era comunque di tradizione familiare credente) e la sua diversità, ma anche dal suo desiderio di paternità e l'impossibilità fisiologica di avere figli. L'amore inteso come celebrazione della vita e come maledizione è uno dei temi principali e fili conduttori delle sue opere. Esso viene visto sia come procreativo e creatore, quindi come datore di vita, ma anche come forza attrattiva che conduce alla morte, alla disperazione e alla solitudine. Testori nella sua opera concretizzerà questa percezione che ha dell'amore, celebrandolo nella sua potenza creatrice nella poesia e rappresentando la sua dualità vivifica e distruttiva nel teatro. Ciò sarà possibile vederlo soprattutto nella Trilogia degli Scarrozzanti dove i protagonisti lodano e maledicono allo stesso tempo l'amore inteso sia come principio cosmico (sul modello dell'Eros freudiano), che come sentimento umano.

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Questa componente autobiografica è fondamentale nella drammaturgia testoriana, innanzitutto perché tutte le opere ne sono intrise, ma soprattutto perché obiettivo del drammaturgo, come esplicitato nella risposta che questi dà alla Rusconi, è quello di liberare un proprio ingorgo interiore di natura tragica, che nel caso specifico risulta essere l'omosessualità.

Infine l'ultimo argomento che concerne la poetica teatrale di Testori è la rappresentazione del conflitto tra l'uomo e la Storia, che si traduce nell'illusione umana di costruire un potere che trascenda il corso degli eventi, ma dal quale il genere umano stesso è schiacciato, determinato e da cui tenta conseguentemente e inutilmente di liberarsi ('la piramida del potere' nell'Ambleto, 'il poteràz' del Macbetto, il potere di Dio incarnato dal padre e dalla madre nell'Edipus). Testori rappresenta uomini che sono vittime degli eventi storici e dell'ideologia dominante, da cui fa emergere quell'urlo di disperazione e di rabbia contro il sistema vigente e contro la Storia che li ha condotti allo stato di sofferenza attuale e al proprio autoannichilimento.

La tragedia consiste proprio in questo autoannientamento a cui l'uomo è condannato a finire a causa del mondo che lui stesso ha creato. Ciò che l'autore tenta di verbalizzare è, quindi, quel grido dell'umanità contro l'uomo stesso e il suo operato, che ha condotto alla fine del vecchio mondo

contadino, portandolo all'attuale caos scatenato dalla nuova ideologia neocapitalista14.

Questi sono i temi che vengono affrontati nella produzione drammatica testoriana, che confluiranno anche nella Trilogia e che sono frutto di quel ventre del teatro e dell'umanità che l'autore tenta di verbalizzare attraverso il genere tragico con una lingua, uno stile e una tecnica che possa esprimerlo nella maniera più efficace. Suo obiettivo principale è quello di rendere comunicabile l'esistenza umana, così come viene affermato dalla protagonista nella Monaca di Monza:

MARIANNA DE LEYVA: Il verbo s'è fatto carne- Tu lo sai, Dio di materia e di sangue, che ci guardi in questa notte disortilegi e paure. Ma adesso è la carne che si alza dallo strame dei cimiteri per farsi verbo, chiamar in giudizio te, i tuoi sogni, la tua stessa natura.15

Questa è l'ultima opera scritta prima del Ventre del teatro, dove Testori, inserendo tutti i temi finora descritti, tenta di giungere a quello scopo che descriverà nel suo manifesto, tentando di verbalizzare la sofferenza di tutti i personaggi della pièce, i quali racconteranno al pubblico la loro vicenda narrativa e interiore.

Prima di procedere ulteriormente, analizzando il saggio del '68 che riguarda l'argomento della seconda parte di questo capitolo, è necessario affermare che Testori, come altri scrittori del tempo, non partecipò al Convegno d'Ivrea, che si tenne l'anno prima della stesura del Ventre del teatro.

14 G. Testori, La cultura marxista non ha il suo latino, in «Corriere della sera», 4 settembre 1977, in La maestà della

vita, a cura di Rizzoli editore, Milano 1982: «Se così pensando, sono tacciato di stare con l'antico, bene, sto con

l'antico. Sulla modernità che ha tramutato la rivoluzione in capitale e in consumo, sputo», p. 15. 15 G. Testori, La Monaca di Monza, in Opere: 1965-1977, p. 455.

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Questi non dichiara le ragioni per cui non andò a tale evento, ma probabilmente non desiderò farvi parte in quanto non si riconosceva nel programma stilato dagli organizzatori e soprattutto perché non considerava il proprio un teatro d'avanguardia, in quanto afferma di rifarsi ai “letterati drammaturghi”, in particolare a Della Valle, Alfieri e Manzoni. Il Ventre del teatro, perciò, oltre ad illustrare i principi della sua poetica teatrale, sarà anche una dichiarazione di poetica in cui Testori specificherà la sua posizione contro sia il teatro ufficiale che quello d'avanguardia.

1.2 Il Ventre del teatro.

1.2.1 La critica al “pensiero laico” borghese.

'Il faut de tenter de vivre': il teatro è un tentativo da fare giusto per le stesse incalcolabili ragioni. Che la risposta non venga, non autorizza a non tentare la domanda e a non provocare la sordità e la bocca chiusa dell'essere; del destino. Può darsi che, almeno nel punto dell'agonia, quella bocca si apra; ed esali da sé, non un concetto, ma un suono: il 'verbo'.16

Testori conclude Il Ventre del teatro con la citazione di un verso tratto dal Cimitero Marino di Paul

Valèry17, con cui paragona il teatro allo stesso bisogno di osare a vivere nonostante la morte, come

dichiarato nella poesia, affermando che l'arte drammatica per l'uomo non è altro che un tentativo necessario per formulare i propri interrogativi esistenziali, anche se non hanno una risposta. Tutti i personaggi delle opere testoriane hanno cercato di dare una soluzione a questo grande quesito e solo nel momento dell'agonia (intesa non tanto come sofferenza, ma come autentica lotta – dal greco αγωνία – contro la morte e contro il proprio destino) hanno provato ad esprimere un qualcosa, che non è, come specifica l'autore, un concetto, ma un suono, il cosiddetto 'verbo'. Perciò la parola del teatro di Testori non è una nozione, intendendo il termine «parola» come traduzione di λόγος (che in greco antico significa sia ragione, che parola) e quindi non è neanche un tentativo di dare una risposta logica ai dubbi che affliggono l'uomo. L'autore sostituisce essa con un suo sinonimo, cioè

«verbo»18. Questo differisce dalla parola poiché rappresenta il suono di quella voce che viene dal

più profondo strato della coscienza, che è grido disperato di dolore nel momento della morte o della sofferenza, ma anche l'urlo del bambino appena nato.

16 G. Testori, Il ventre del teatro, in «Paragone. Letteratura», p. 107.

17 P. Valery, Il Cimitero Marino, a cura di M.T. Giaveri, Il Saggiatore editore, Milano 1984, «Le vent se lève...Il faut tenter de vivre!» p. 66.

18 Attenzione qui non si intende il “Verbo” come traduzione del Λόγοϛ giovanneo, infatti, al contrario di quanto affermano alcuni critici, Testori non fa riferimento al verbo divino che si è fatto carne, in quanto, come già spiegato nel paragrafo precedente, è la carne a farsi parola nel teatro testoriano. Qui l'autore intende “verbo” unicamente come sostantivo che significa suono pronunciato, quindi non in senso teologico di verbo che si fa uomo per salvare l'umanità dalla morte.

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Esso è vagito e rantolo allo stesso tempo ed indica l'inizio e la fine dell'esistenza, che sono intimamente collegate e da cui non scaturisce il senso del tutto e la risposta agli interrogativi dell'uomo, ma quel rumore vocale con cui l'individuo esprime il proprio essere nel mondo. Partendo da questa differenza che si instaura tra parola e verbo, è possibile comprendere maggiormente il saggio di Testori il quale, all'inizio dell'articolo, partendo da un esempio contemporaneo, pone le differenze tra quello che è il vero teatro e quello del suo tempo. Egli afferma che, nella condizione presente, l'arte drammatica italiana si sia concentrata soprattutto sulla ripresa dei modelli pirandelliani, non guardando alla potenza filosofica della poetica di Pirandello, ma piuttosto ai destinatari di questo messaggio che ha determinato la manipolazione delle trame da parte dei registi. Per poter cogliere e raggiungere le “viscere” che stanno nel corpo dell'arte drammatica, Testori compie una critica al pensiero laico e alla sua dialettica, che impoverisce e desacralizza il teatro:

La recente reviviscenza del teatro pirandelliano, postulata anche da una certa parte della letteratura che pure, e giustamente, era stata con lui diffidente e restia, e postulata per ragioni non tutte illustri e chiare, legate, almeno mi par di capire, alle dimissioni che essa letteratura va effettuando, con masochistica felicità, ma altresì con flagrante senso dei propri comodi, nei confronti delle altre discipline dello scibile (ivi compresa la supposta coscienza o animazione 'filosofica' di Pirandello) ha mostrato in modo anche troppo evidente a chi appartiene alle ragioni della 'scrittura' (e, quindi, al 'teatro') che quella drammaturgia s'è esaurita in una serie di canovacci, impressionanti certo ai loro tempi, encomiabili anche oggi per prestigiosità di gioco e disponibilità di intrigo, ma che non ha mai affrontato il termine primo (ed ultimo), il termine non rinunciabile e non sconfessabile del teatro (non sconfessabile, salvo da parte della mediocre presunzione dell'isteria cinica propria al pensiero laico che da qualche anno possiede e ricatta il mondo della nostra cultura); quel termine per cui sulle scene e, prima in sé medesimo, tenta di 'verbalizzare' il grumo dell'esistenza; di far sì che la carne (o, se proprio si vuole, il suo determinarsi in storia) si rifaccia 'verbo' per verificare le sue inesplicabili ragioni di violenza, di passione e di bestemmia; e ricadere poi, di nuovo, nel suo fango tenebroso e cieco, data l'evidente, tragica impossibilità che questo si verifichi altrimenti che come 'tentativo'.19

Il pensiero laico è il vero colpevole di tale distrazione ed allontanamento dal vero nucleo del teatro, cioè di quell'interrogativo umano di cui l'arte drammatica si è fatta sempre portatrice. L'isteria cinica del razionalismo, oltre a distruggere l'umanità alienandola da se stessa e dalle sue ragioni di vita, ha determinato anche la perdita dell'essenza del teatro, portandolo a privarsi del suo vero scopo, ossia il tentativo di verbalizzazione dell'esistenza. Il pensiero laico, con il suo metodo dialettico, ha reso l'arte drammatica una disciplina al pari delle materie scientifiche, in cui ogni elemento può essere analizzato, reso criticabile e perciò risolvibile. Ciò ha comportato, quindi, l'appiattimento della materia teatrale e la conseguente perdita dell'elemento religioso e misterico di cui essa era sempre stata portatrice.

Testori attribuisce al pensiero laico le stesse caratteristiche che Nietzsche aveva assegnato al socratismo che, penetrato nella tragedia euripidea nel V secolo a.C., aveva determinato la fine del genere tragico greco attraverso l'intrusione della ragione e della dialettica:

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Dopo aver riconosciuto che Euripide in sostanza non riuscì a fondare il dramma esclusivamente sull'apollineo, e che piuttosto disperse la sua tendenza antidionisiaca in una tendenza naturalistica e non artistica, possiamo ora osservare più da vicino il socratismo estetico, la cui legge sovrana suona a un dipresso così: «Per essere bello, tutto dev'essere intelligibile»; che è il principio parallelo all'aforisma socratico: «Solo chi sa è virtuoso». Con questo canone alla mano, Euripide proporzionò tutti i singoli elementi uniformandoli al principio fondamentale: il linguaggio, i caratteri, la struttura drammaturgica, la musica corale. Ciò che noi così' frequentemente, nel confronto con la tragedia sofoclea, sogliamo addebitare ad Euripide come deficienza e regresso poetici, è in massima parte il prodotto di quello stringente processo critico, di quel temerario intellettualismo.20

Secondo il ragionamento del filosofo, il razionalismo ha determinato la fine della tragedia causando non solo la perdita dell'elemento dionisiaco, ma provocando un cambiamento totale del genere tragico. Al pari della dialettica socratica, il pensiero laico descritto da Testori nel saggio è un elemento che, nel corso della storia, si è introdotto nella mentalità umana con la pretesa di rendere tutto razionalizzabile e comprensibile. Ciò ha limitato e distrutto la potenzialità del teatro facendolo divenire, come lo definisce Testori, “rappresentazione criticata”.

Con questa definizione l'autore intende indicare i drammi del suo tempo che sono divenuti semplici spettacoli (con il termine «rappresentazione» infatti designa tutto ciò che compete alla sfera visiva) soggetti al ragionamento, ossia alla ragione critica, dove l'elemento irrazionale non esiste affatto o, se presente, asservito ai fini dell'esecuzione scenica: non venendo così scatenato. A determinare tutto ciò è una forza simile al socratismo estetico nietzschano, cioè il naturalismo borghese, che si era posto come proprio obiettivo la rappresentazione del reale, pretendendo con essa di giungere alla verità. A causa di questo il teatro era divenuto il luogo in cui dovesse essere inscenata la realtà borghese, sia nella vita quotidiana, che nella raffigurazione dei problemi che affliggono la società contemporanea, con lo scopo di trovarne una risposta. Tutto ciò ha condotto l'arte drammatica a divenire uno strumento, oltre che di intrattenimento, anche di conoscenza pratica, comportando delle modifiche strutturali all'interno di essa, come accadde nella tragedia euripidea. Infatti il linguaggio si era normalizzato, i personaggi rappresentati avevano determinate caratteristiche psicologiche, la struttura drammaturgica aveva anch'essa assunto un canone scenico ben preciso ed infine l'elemento irrazionale era maggiormente controllato, se non addirittura soppresso:

Senonché l'occhio laico, contro la passione (contro il mistero, la non-ragione, insomma, di un'altra ragione), postula la critica; e si trova così in mano i giochi ammiccanti, spesso malfidi ed idioti, dei canovacci e dei consumi spettacolisti che si merita; consumi determinati ed operati da un'intelligenza che s'è staccata per comodità di lavoro e di vita meramente sociale, anzi mondana dalla materia e dal fango (ma anche dall'eventuale luce) del viscere: e quindi, dalla pasta immensa e buia dell'umana vicenda; dell'umano destino.21

Il pensiero laico ha quindi costruito degli spettacoli completamente avulsi da quello che è l'autentico dramma e mistero dell'esistenza: la lotta tra la vita e la morte.

20 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Laterza editore a cura di Paolo Chiarini, Bari 1995, p. 90. 21 G. Testori, Il ventre del teatro, in «Paragone. Letteratura», p. 95.

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Infatti l'uomo con il naturalismo ha creato un teatro che guardasse solamente all'apparenza e all'imitazione della realtà per il timore di essere travolto dall'“ebrezza dionisiaca” (come la chiama Nietzsche), ossia dall'irrazionale sentimento antitetico di gioia e sofferenza verso la vita, e dalla consapevolezza della morte e della sua incapacità ontologica di superarla.

Testori, dopo aver descritto gli effetti che il teatro borghese ha provocato sull'arte drammatica, individua le sue caratteristiche, ponendole in discussione. Esse sono principalmente: la necessità di scorgere una soluzione ed una funzionalità ad ogni cosa, il bisogno di rendere razionale l'incomprensibile e di trovare sempre una finalità dimostrativa, volta al miglioramento sociale e morale. La prima caratteristica deriva dalla catarsi aristotelica, che si poneva come obiettivo quello di purificare l'animo degli spettatori, i quali percepivano di riflesso le passioni dei personaggi della

tragedia, che erano viste da Aristotele come negative e dannose per la vita della polis 22.

D'altra parte il teatro naturalista borghese era alla ricerca continua di soluzioni, non tanto da un punto di vista letteralmente catartico, ma soprattutto per individuare una risposta alle questioni presentate sulla scena, dando origine a quella che viene definita la funzione sociale o morale del teatro, che Testori attacca e denigra23. Egli, infatti, afferma che il teatro non pone una risoluzione ai

problemi, in quanto esso non riveste alcun tipo di funzionalità e utilità, poiché semplicemente esprime l'impossibilità di trovare una risposta alle ragioni dell'esistenza.

Per quanto concerne, invece, la necessità razionalista di spiegare tutto, essa consiste nel rendere traducibile ogni termine incomprensibile. L'autore, a tal proposito, cita l'esempio delle sacre rappresentazioni medioevali, con cui si tentava di dare una spiegazione ai misteri della Chiesa e della vita dei santi, rendendoli accessibili e più comprensibili ai fedeli:

Sostituire al significato religioso della parola tragica la sua decifrazione laica, significa tentare una vana e risibile opera di esorcismo. Scrivo vana e risibile in quanto implica l'uso d'un mezzo e d'una formula irreligiose nei confronti di un grumo che è invece totalmente ed esclusivamente religioso. In quel tentativo il dispositivo dei laici paga flagrantemente il suo tributo con la diminuzione a falsetto anche dei propri stimoli più drammatici. Bisognerebbe che gli amanti dell'eventuale significato laico della tragedia facessero, come primo gesto, lo sforzo

d'immaginare la 'leggibilità' laica, anziché totalmente viscerale (e demenziale) che poteva essere contenuta in una rappresentazione della tragedia greca o della tragedia elisabettiana, come presumibilmente accadeva ai tempi. È la corrosione (o diminuzione) borghese che ha insistito sul valore di 'spiegazione', direi di 'teorema', del teatro, contro il suo valore di vitalizzazione per direzioni atrocemente inconsce e negative. Forse il male è più vecchio. Qualcuno potrà scandalizzarsi, ma uno dei primi momenti di dissacrazione del teatro si è avuto con la lunga teoria delle 'rappresentazioni medioevali' (che pure si fregiavano del titolo di 'rappresentazioni sacre'), appunto perché fu uno dei primi momenti in cui il teatro venne domato e diretto da un bisogno di dimostrazione; anche se questa dimostrazione, invece che dalla lucentezza laica, era sostenuta dalla passione fideistica.24

22 Aristotele, La poetica, curata e tradotta da Guido Paduano, Laterza editore, Bari 1998: «La tragedia è imitazione di un'azione seria e compiuta, avente una sua grandezza, in un linguaggio condito da ornamenti, separatamente per ciascun elemento delle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, che attraverso la pietà e la paura produce la purificazione di questi sentimenti.», p. 13.

23 G. Testori, Il ventre del teatro, in «Paragone. Letteratura»: « […] in modo che, alla fine, s'abbia la dilagante prova dell'impossibilità d'una risposta che sia veramente tale (come, invece, normalmente, per la risibile teoria della redimibilità o catarsi o funzione morale e sociale del teatro, anziché della sua spettrazione religiosa, si propende a credere e a fare).» p. 99.

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Lo sforzo del pensiero laico di rendere tutto più fruibile e comprensibile allo spettatore ha allontanato il teatro, in particolare la tragedia e la sua lingua, dalla sua sostanza originaria, dal momento che in ogni parola espressa dal personaggio vi è un mondo, un mistero che abita dentro il suo animo e che questi tenta (si tratta, appunto, di una “verbalizzazione tentata”) di esprimere con un linguaggio che non può essere normalizzato o tradotto, in quanto proveniente dalle viscere, ove risiede il nodo inestricabile che non può essere assolutamente sciolto o spiegato.

Infine per quanto riguarda l'ultimo aspetto del razionalismo borghese, ossia il criterio della dimostrazione volto a un miglioramento sociale e morale, esso è una sorta di fusione delle due caratteristiche precedentemente descritte. Come rappresentante principale di questa teoria, Testori designa Bertolt Brecht, che con il Verfremdungseffekt (l'effetto di straniamento) aveva postulato un teatro che non avesse più come unico scopo l'espressione dell'interiorità umana ed il coinvolgimento emotivo, bensì un'arte drammatica che riportasse dei fatti concreti e reali. Sulla scena gli attori non erano più immedesimati nei personaggi e quindi non erano portatori diretti di sentimenti e passioni, ma ne erano distaccati, permettendo così agli spettatori di non esserne influenzati e potendo, in tal modo, analizzare criticamente e nella maniera più oggettiva possibile la scena, invece che viverla:

Nessun aspetto della rappresentazione doveva più consentire allo spettatore di abbandonarsi, attraverso la semplice immedesimazione, ad emozioni incontrollate (e praticamente inconcludenti). La recita sottoponeva dati e vicende a un processo di straniamento: quello straniamento che è appunto necessario perché si capisca. A forza di dire: Si capisce che è così, si rinunzia semplicemente a capire.[...]

Lo spettatore del teatro epico dice: «A questo non ci avrei pensato – Questo non si deve fare così – E' sorprendente, quasi inconcepibile – Non può andare avanti così – La sofferenza di quest'uomo mi commuove, perché avrebbe pure una via di uscita – Questa è grande arte: qui non c'è nulla di ovvio – Io rido di quello che piange, piango di quello che ride».25

Testori dichiara l'opposto di quanto afferma il drammaturgo tedesco, cioè che il teatro è, e deve essere, espressione dell'irrazionale. Ciò poiché l'arte drammatica non è un luogo dove si discute dei problemi sociali o politici o morali dell'uomo, ma è il contesto in cui si dà libertà all'espressione di ciò che Brecht vuole sopprimere, cioè lo scatenamento delle emozioni e del dissidio interiore.

Il teatro non può essere un comizio dove vengono discussi i problemi sociali (o meglio la tragedia non può esserlo), ma è il luogo deputato al grido dell'uomo contro la propria finitezza, il posto dove questi può esprimere la sua preghiera e la sua bestemmia rivolti al destino o all'esistenza.

25 Bertolt Brecht, Teatro di divertimento o teatro d'insegnamento, in Scritti teatrali, tradotto da E. Castellani, R. Fertonani e R. Mertens, Einaudi editore, Torino 1962, pp. 46-47.

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1.2.2 Il teatro e il suo “ventre”.

Nella definizione del ventre del teatro, rispetto a come era stato nella descrizione del pensiero laico, Testori risulta essere maggiormente disorganico, dal momento che esso abbraccia quell'aspetto che sfugge alla ragione, ossia la sfera dell'irrazionale. Come si è potuto constatare dagli interventi precedenti, la vera essenza dell'arte drammatica consiste nell'emersione del gorgo interiore dello scrittore, che non è solo di natura autobiografica (che è comunque di primaria importanza), ma anche tragica e quindi riguardante tutta la condizione umana. Questo rovello verrà identificato nella formulazione di una domanda a cui niente e nessuno può dare risposta.

Prima di giungere alla definizione del ventre del teatro, Testori, all'inizio del saggio, afferma che l'arte drammatica contemporanea, frutto dell'ideologia borghese, non ha mai affrontato la sua vera essenza. L'autore, come spiegato precedentemente, accusa il pensiero laico di non voler affrontare il nucleo del teatro, poiché incomprensibile e non risolvibile; perciò pone tutta una serie di tecniche e canovacci letterari al fine di raggirare il problema senza affrontarlo e neanche toccarlo. Il motivo principale è dato dal timore da parte del naturalismo di cadere nella profondità delle viscere

:

La constatazione più desolante che può farsi sul teatro così come, al presente, risulta postulato e, quando capiti, in vari modi realizzato, è questa: che esso arriva ad ammettere lo scacco delle proprie proposizioni, delle proprie tesi e dei propri concetti (e magari a farsi, di quello scacco, la propria esibita virtù, la propria sgargiante insoddisfazione) ma non perviene mai ad ammettere lo scacco del proprio viscere; insomma, della propria natura.26

Ciò che afferma Testori è molto importante: per quanto il teatro contemporaneo ponga come propria base la critica dell'esistente, esso sarà sempre fermo sulla propria ragione d'essere e sui propri concetti, per questo motivo non potrà competere con la potenza autentica che risiede nel cuore del teatro, il quale porrebbe fine al naturalismo stesso, facendolo collassare su di sé. La non ammissione del dramma borghese “con lo scacco del proprio viscere” è il punto di partenza della poetica testoriana, la quale, invece, parte proprio da qui. Per poter raggiungere ciò, non è più possibile affidarsi solo ed unicamente al 'concetto', che è il perno principale del pensiero laico, ma al 'verbo'. Per quanto i due termini possano sembrare simili dal punto di vista semantico, essi contengono una differenza sostanziale.

(22)

Mentre il concetto, già osservato, deriva dal doppio significato di λόγος, il termine verbo differisce da esso per due motivi: innanzitutto perché esso non è una parola meditata, bensì compete maggiormente all'emissione vocale (come è stato già possibile constatare), ed in secondo luogo perché non contiene in esso il significato di ragione e quindi di principio ordinatore, ma indica,

nella morfologia, la parte del discorso che designa l'azione27. Perciò, mentre il concetto è a sé stante

e riflettuto, il verbo è dinamico ed espresso. Per Testori quest'ultimo proviene dalle viscere ed il teatro non è altro che il tentativo di pronunciare questo suono indefinito in cui non risiede la risposta agli interrogativi dell'uomo, ma che è urlo e bestemmia e, allo stesso tempo, preghiera e supplica rivolte all'esistenza. Il teatro, o meglio la tragedia, rappresenta quel quid che si trova nel fondo delle apparenze, che oltrepassa ciò che è ordinato e bello secondo logica, scontrandosi con l'indefinito e il caotico, determinando quella che Nietzsche definisce conoscenza tragica, ossia la coscienza, da parte dell'uomo, della propria sofferenza ontologica, che l'arte drammatica estrae e manifesta:

Così, spronata dalla sua potente illusione la scienza corre inarrestabile verso i propri confini, dove il suo ottimismo, nascosto nell'essenza della logica, fa naufragio. Giacché la periferia del cerchio della scienza consta di infiniti punti; e nel momento stesso in cui non è dato vedere come il cerchio possa mai essere interamente misurato pure l'uomo di nobile animo e ingegno, prima ancora di essere giunto a mezzo della sua esistenza, incontra inevitabilmente siffatti punti terminali della periferia, dove si arresta nello sgomento dell'inesplicabile. Nel momento stesso in cui con suo sbigottimento, egli vede che la logica, si ravvolge su se stessa e infine si morde la coda, ecco manifestarsi la forma nuova della conoscenza, la conoscenza tragica, la quale, per venire semplicemente sopportata, abbisogna dell'arte come difesa e rimedio.28

Perciò il teatro, tentando la verbalizzazione di tale dolore, mette a nudo l'umanità nella sua finitezza, cercando di esprimere quella sofferenza che razionalmente l'uomo non saprebbe comunicare. L'urlo erompe dalle viscere, non proviene dalla coscienza ed è per questo motivo che è una parola quasi fisica (“parola-materia” la chiama Testori) che non compete alla sfera dell'intellegibile, ma del sensibile. Essa è originata e partorita dal ventre e perciò è cruenta, piena di sangue, sperma e sterco, che conduce l'uomo a gridare il suo essere nel momento della nascita, del dolore e della morte. Testori, opponendo il verbo alla parola logica e alla chiacchiera del teatro borghese, lo definisce come biologicamente vivo:

La parola del teatro è, prima di tutto, orrendamente (insopportabilmente) fisiologica.29

Essa è, innanzitutto, fisiologica, poiché fa parte della natura stessa dell'uomo, ma anche dell'insieme delle sue funzioni organiche e vitali, perciò non è una parola solo pronunciata e morta, ma viva e necessaria per la vita umana. Perciò quest'ultima non compete solo alla dimensione grafica e orale, ma è un vero e proprio processo biologico che scatena delle conseguenze tangibili e percettibili.

27 Enciclopedia Treccani: «Nella grammatica tradizionale, parte variabile del discorso che indica azione, stato, o divenire (in contrapp. al nome, che – inteso nel sign. più ampio che ha nomen in latino, comprendente sia il sostantivo sia l’aggettivo – indica sostanza o qualità)», vedi www.treccani.it/vocabolario/verbo/.

28 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p.110.

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Inoltre “la parola è orrendamente ed insopportabilmente fisiologica”, quindi è una forza che spaventa e desta scalpore, provocando scandalo e ribrezzo, determinando, allo stesso tempo, una sofferenza tale da essere incomprensibile, poiché non solo colpisce la ragione, ma la profondità delle viscere. Nell'articolo Il Ventre del teatro pubblicato su «Dramma», Testori spiega questa sua definizione:

In un appunto, pubblicato altrove, in chiusa dicevo: «La parola del teatro è, prima di tutto, orrendamente (insopportabilmente) fisiologica». Malgrado il senso, che a qualcuno può esser parso «naturalistico», mentre voleva e vuol essere plenariamente «naturale» e «materico», credo che nulla come l’aggettivo «fisiologico» riesca ad esprimere il «tipico» della parola teatrale; e ad esprimerlo anche dopo che se n’è tentata l’analisi. Quanto ai due avverbi: l’«orrendamente» si riferiva al risultato di quel « fisiologico» una volta che ci si limita allo stato di «lettura ; l’≫ «insopportabile» si riferiva al risultato di quel «fisiologico» una volta che si perviene allo stato di «rappresentazione» (e per questo l’avevo collocato tra parentesi: come fase ulteriore; possibile, ma non indispensabile). Ora la parola del teatro non è «fisiologica» solo per il suo peso, la sua particolare pregnanza e struttura plastica, insomma per il suo «ingombro» (cose tutte che la rendono, fra quante parole si scrivono, la più prossima ai termini di stipamento esistenziale e spaziale della cultura), ma per la traiettoria che le è concatenata e di cui vive; una traiettoria verificabile quasi «cellularmente», che la fa passare d’obbligo per la gola d’un vivente; la fa, insomma, esser detta e pronunciata, anche quando resta solamente scritta.30

L'autore afferma che la consistenza fisica e fisiologica della parola si verifica, primariamente, nel testo ed in secondo luogo nella rappresentazione. Per tale motivo l'insopportabilità di essa viene posta tra parentesi nel saggio, poiché egli considera più importante il contenuto letterario, andando contro all'arte drammatica delle avanguardie ed al canone scenico degli Stabili che privilegiavano lo spettacolo, quindi la sfera visiva, allo scritto. Testori sostiene che la parola risulti orribile, e quindi scandalosa, per chi la legge (ciò lo si vedrà nella Trilogia dove essa vive nell'impasto linguistico e grafico tirando fuori una crudezza tale da colpire le viscere) ed insopportabile per chi la vede rappresentata.

La centralità della parola nel teatro testoriano ha determinato una concentrazione sull'aspetto

verbale anziché su quello scenico31, provocando un cambiamento di prospettiva ed ambientazione.

In tal modo non saranno più efficaci il criterio d'imitazione della realtà del teatro naturalista, né quello spettacolare delle avanguardie, ma vi sarà maggiore concentrazione su ciò che compete all'aspetto rituale del teatro ed alla sua capacità penetrativa nel ventre dell'uomo, che oltre ad essere la parte più intima di sé, è inteso anche come il luogo in cui risiedono le emozioni e l'istinto, ossia l'irrazionale. Per ribadire questa importanza e pregnanza della parola, Testori compie una critica al teatro degli Stabili e a quello d'avanguardia. Trattando delle avanguardie, sostiene che esse abbiano come proprio obiettivo quello di superare il naturalismo con il naturalismo stesso, dal momento che tutte le tecniche ed espedienti che adottano sono pertinenti ad esso, non riuscendo così a superarlo:

30 G. Testori, Il ventre del teatro, in «Il Dramma», n. 1, anno 44, ottobre 1968, p. 59.

31 G. Testori, Il ventre del teatro, in«Paragone. Letteratura»: «Ora questo luogo non è scenico, ma verbale. E risiede in una specifica, buia e fulgida qualità carnale e motoria della parola; carnale e motoria non necessariamente nel senso dell'azione storica, ma in quella dell'azione incarnante (o nel suo tentativo).», p. 96.

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La più parte del teatro moderno risulta ossessionata dal bisogno di liberarsi del naturalismo, ma lo fa stabilendo a furia d'ipotesi un piano di giochi, movimenti ed ingranaggi che poi, come un trapezio, mostra di reggere proprio e solo perché fondato sulle assi sceniche del naturalismo così a lungo deprecato. Tranne poche eccezioni, ritenute come non pertinenti, irrecitabili o letterarie, esso mostra di non capire che l'unico modo per arrivare a quella liberazione è di compiere il cammino inverso, anziché ricostruire canovacci e ipotesi drammaturgiche pretestuosamente anti-nuaturalistiche, ma inchiavardate poi, e tenacemente, proprio al senso e al mondo del naturalismo, procombervi fino ad arrivare, strato per strato, cecità per cecità, al ganglio del suo viscere, passare, cioè, dal naturalismo alla natura, dall'atteggiamento storico della materia alla materia, dalla sua supposta intelligenza (e intelligibilità) alla sua cecità certa (il che è forse esprimibile per ingorghi di parole non mai, questo è certo, per ingranaggi di concetti o per loro ipotesi).32

Qui Testori propone l'alternativa per liberare il teatro dal naturalismo borghese, che consiste nel compiere il cammino inverso, cioè ritornare alle origini dell'arte drammatica, privando ogni elemento della sua componente logica e razionalista. Il processo di liberazione condurrà il teatro a divenire un rito liturgico, ossia una cerimonia religiosa che abbia, considerando il termine «liturgico» in senso letterale ed etimologico, una funzione pubblica e che quindi determini un'azione a cui gli spettatori partecipano attivamente. In tal modo l'autore compie lo stesso procedimento teorizzato da Antonin Artaud, secondo cui il teatro contemporaneo occidentale (come questi lo denomina) dovesse abbandonare la teoria dei caratteri e l'introspezione psicologica, per poter ritornare alla sua originaria ritualità magica e quindi misterica, al fine di individuare le fila che muovono l'umanità e la Storia.

Nell'introduzione del Primo manifesto del teatro della crudeltà Artaud afferma:

Non si può continuare a prostituire l'idea di teatro, poiché il suo valore risiede esclusivamente in un rapporto magico e atroce con la realtà e con il pericolo.33

Per poter raggiungere il proprio scopo, il teatro artaudiano poneva al centro la rappresentazione della crudeltà, ossia l'annullamento totale di ogni filtro di cui la civiltà si è fatta portatrice, cercando di giungere all'universale e all'assoluto, inscenando ciò che vi è di più ancestrale nell'uomo. Obiettivo dell'arte drammatica di Artaud era distruggere i criteri contemporanei e coinvolgere, di conseguenza, lo spettatore in questo annientamento, riproponendo la dialettica cosmica tra le forze che sovrastano il mondo, facendolo uscire dai fatti umani e consentendogli così di entrare in una

dimensione che il regista stesso definirà “religiosa” e “mistica”34.

32 Ivi, p. 97.

33 A. Artaud, Il teatro della crudeltà, primo manifesto in Il teatro e il suo doppio, Giulio Einaudi editore, traduzione di Ettore Capriolo, Torino 1968, p.204.

34 Ibidem: «Questo modo poetico e attivo di considerare l'espressione sulla scena ci porta sotto tutti i riguardi ad abbandonare l'accezione umana, attuale e psicologica del teatro, per ritrovare l'accezione religiosa e mistica di cui il nostro teatro ha smarrito completamente il senso».

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