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Academic year: 2021

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Claudio Albertini

ALLENARE IL GIOCATORE

SCEGLIENTE

L’esperienza di gioco e il ruolo dei processi inconsci

nell’attività motoria

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INDICE

PREMESSA ... 3

INTRODUZIONE ... 4

1. IL MODELLO SERIALE... 5

1.1 Il modello seriale: le implicazioni didattiche ... 7

2. I NEURONI CANONICI ... 12

2.1 I neuroni canonici: le implicazioni didattiche ... 15

3. I NEURONI SPECCHIO ... 19

3.1 I neuroni specchio: le implicazioni didattiche ... 24

4. LA CODIFICA DELLO SPAZIO ... 29

4.1 La codifica dello spazio: le implicazioni didattiche ... 31

5. IL RITARDO DELLA COSCIENZA RISPETTO ALL’AZIONE ... 35

6. PENSARE VS GIOCARE ... 43

7. L’APPRENDIMENTO MOTORIO ... 46

7.1 L’apprendimento per prove ed errori ... 48

7.2 L’apprendimento per imitazione ... 51

8. CHE FARE?... 53

CONCLUSIONI ... 58

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PREMESSA

Questo testo vuole essere un prosieguo del precedente “Calcio, neuroscienze e complessità”, cortesemente pubblicato dal Settore Tecnico FIGC, sul proprio sito, nel 2017.

Mentre nel precedente articolo mi sono soffermato principalmente sul tema della complessità, in questo elaborato ho inteso ampliare il tema delle neuroscienze, nella convinzione che lo studio del funzionamento del cervello e di come si realizza l’apprendimento motorio sia la base necessaria per sviluppare un approccio didattico più funzionale alle esigenze del giocatore di calcio. Il cervello è un organo come gli altri e come tale va allenato e, contrariamente a quanto si credeva sino a poco tempo fa, anche in età avanzata non si perde mai la capacità di formare nuove connessioni e quindi di apprendere. Pertanto, dobbiamo essere fiduciosi anche quando si ha a che fare con giocatori di calcio già in età adulta. Possiamo intervenire per aiutare a migliorarsi chiunque lo desideri. Il cervello, come ci insegnano i neuroscienziati, ha doti neuroplastiche infinite.

Quando il violoncellista Pablo Casals aveva novantun anni, venne avvicinato da uno studente che gli chiese:

«Maestro, perché continuate a esercitarvi?» Casals rispose: «Perché sto facendo progressi».

(Cit. Norman Doidge, Il cervello infinito, 2007)

Nelle pagine che seguono, ho cercato di riassumere, a scopo esclusivamente divulgativo, i contributi più significativi che le attuali conoscenze neuroscientifiche possono offrire alla teoria e metodologia dell’allenamento calcistico.

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INTRODUZIONE

“Dobbiamo formare giocatori pensanti!”; “Voglio giocatori intelligenti, che ragionino in

campo!”; “È necessario allenare la velocità di pensiero del giocatore di calcio!”; “I giocatori devono perfezionare la capacità di elaborare gli stimoli, imparando a ragionare velocemente!”

Affermazioni di questo tipo sono ormai d’uso corrente tra gli allenatori e molti di loro si sforzano di migliorare la capacità dei propri giocatori di “pensare velocemente” ricorrendo a proposte esercitative di tipo “psicocinetico”. Lo scopo è quello di metterli in condizione di risolvere le problematiche poste dal contesto di gioco nel minor tempo possibile. Con tali esercizi ci si propone di perfezionare il supposto collegamento che dovrebbe esistere tra il ragionamento e il susseguente movimento, ottimizzando la qualità e la rapidità dei processi cognitivi. L’obiettivo che si persegue è quello di perfezionare gli aspetti percettivi e cognitivi che precedono il movimento per accelerare il processo seriale di percezione-elaborazione-azione.

Ma le cose stanno proprio così? Davvero la consapevolezza del movimento, il ragionamento e il pensiero possono svolgere un ruolo centrale nell’apprendimento motorio e nel controllo della motricità? Il giocatore libero di scegliere, il giocatore scegliente, deve essere necessariamente un

giocatore pensante? Oppure l’essere umano è in grado di capire e scegliere senza pensare?

Le neuroscienze ci possono aiutare a rispondere a queste domande. In particolare, dobbiamo tenere conto delle seguenti acquisizioni:

 1 – La scoperta dei neuroni canonici  2 – La scoperta dei neuroni specchio

 3 – La scoperta di neuroni specifici che codificano lo spazio  4 – La teoria del tempo di attivazione di Benjamin Libet

Alla radice del “mito del giocatore pensante” si pone la teoria neurofisiologica classica che interpreta il funzionamento del cervello secondo un modello seriale. Sebbene i suoi costrutti teorici siano stati superati già da tempo dalle odierne conoscenze neuroscientifiche, la sua influenza sulla teoria e metodologia dell’allenamento – non solo calcistica – è ancora attuale e ne impedisce il necessario rinnovamento.

Inizieremo quindi il viaggio nel mondo delle neuroscienze esponendo in maniera sintetica la teoria classica. Presenteremo in seguito le più recenti acquisizioni riguardanti il funzionamento del cervello, illustrando come queste conoscenze possano contribuire a migliorare la nostra didattica.

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INPUT ESTERNO

OUTPUT (MOVIMENTO)

1. IL MODELLO SERIALE

Per molto tempo si è pensato che, secondo un meccanismo “seriale”, gli stimoli giungessero al cervello nelle aree sensoriali (visive, uditive, somatosensoriali ecc.), transitassero per le aree

associative (sedi delle funzioni cognitive più elevate: coscienza, memoria, capacità di ragionamento

ecc.), deputate a elaborare le informazioni provenienti dalle aree sensoriali, per arrivare infine alle

aree motorie, cui era assegnato il solo compito di trasmettere gli stimoli alla periferia motoria

(apparato effettore).

Approccio neurofisiologico “classico”

Percezione, cognizione e azione sono considerati processi distinti

Per calciare un pallone, secondo questo modello neurofisiologico, si svolgono in serie i seguenti processi: CORTECCIA MOTORIA AREE ASSOCIATIVE AREE CORTICALI SENSORIALI POSTERIORI (VISIVE)

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Secondo questo schema, le aree associative hanno compito di “mettere insieme” le informazioni provenienti dalle diverse aree sensoriali e di formare i percetti1 oggettuali e spaziali da inviare alle aree motorie per l’organizzazione dei movimenti. Il sistema motorio è il punto d’arrivo dell’informazione sensoriale elaborata dalle aree associative ed è in sé privo di ogni valenza percettiva e cognitiva: ha un ruolo periferico e meramente esecutivo.

Questo modello ha le sue origini nella Psicologia Cognitiva, branca della psicologia, teorizzata intorno al 1967 dallo psicologo statunitense Ulric Neisser, che ha come obiettivo lo studio dei processi mentali mediante i quali le informazioni sono acquisite, elaborate, archiviate e recuperate. Distinguendosi dalla corrente comportamentista, secondo la quale la mente umana è considerata una sorta di black box, una scatola nera di cui la conoscenza del funzionamento interno è sostanzialmente irrilevante,2 la psicologia cognitiva ha rivolto l’attenzione allo studio dell’attività mentale, ovverosia all’indagine approfondita di tutti quei processi interni quali la percezione, l’attenzione, la memoria, il ragionamento, l’apprendimento ecc., assimilando il funzionamento del cervello a quello di un computer che elabora i dati in entrata secondo il seguente schema seriale:

informazioni in entrata (input)  elaborazione (process)  informazioni in uscita (output) Questo modello di funzionamento, secondo il quale i processi cognitivi più elevati sono collocati “in mezzo”, tra le informazioni in entrata e le informazioni in uscita, si è dimostrato valido per spiegare l’apprendimento di tipo “intellettuale”, ma è stato erroneamente utilizzato dai cognitivisti anche per illustrare le modalità attraverso le quali si realizzerebbe l’apprendimento “motorio”.

Solo con le successive scoperte neuroscientifiche relative all’attività dei neuroni canonici e dei neuroni specchio, che saranno illustrate nei prossimi capitoli, è stato definitivamente chiarito come la strutturazione dell’attività motoria e il processo di apprendimento motorio non facciano capo alle aree associative ma dipendano da strutture neuronali differenti.

Gli studi che risalgono all’inizio degli anni ’90, per opera di un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, coordinati dal prof. Giacomo Rizzolatti, hanno individuato, all’interno della corteccia premotoria del cervello, neuroni motori che rispondono anche a stimoli visivi. In particolare fu rilevata l’esistenza di due tipi di neuroni con queste caratteristiche: i neuroni canonici e i neuroni specchio.

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L’informazione sensoriale codificata e rielaborata costituisce il “percetto”. Esso costituisce l’esito finale della sequenza cosiddetta catena psicofisica composta dallo stimolo distale (l’oggetto reale), dallo stimolo prossimale (la proiezione dell’oggetto sulla retina del soggetto) e, appunto, dal percetto (la rappresentazione cosciente dell’oggetto). Secondo James J. Gibson, tuttavia, la percezione non si verifica secondo uno schema unidirezionale, come rappresentato nella catena psicofisica, ma ha una natura ciclica che si avvale del contributo delle attività esplorative del soggetto. La percezione non avviene passivamente giacché nuovi stimoli distali e prossimali si realizzano continuamente a seguito dei movimenti esplorativi che l’individuo effettua nell’ambiente.

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Per i comportamentisti l’unica cosa importante è stabilire con precisione la relazione tra gli stimoli ambientali e le risposte comportamentali direttamente osservabili.

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Aree sensoriali Aree motorie Movimento

Input esterno Aree associative

Questi tipi di neuroni oltre ad avere proprietà visuo-motorie,3 svolgono funzioni concernenti l’elaborazione e programmazione dell’atto motorio. Grazie alla loro scoperta, sappiamo ora che il sistema motorio non ha, come si credeva un tempo, un ruolo meramente esecutivo, ma è implicato anche nelle attività percettive ed elaborative. Secondo le attuali conoscenze neuroscientifiche, le funzioni sensoriali, percettive e motorie non sono quindi prerogativa esclusiva di aree separate, come si pensava in precedenza, ma:

 i neuroni della corteccia motoria, tradizionalmente solo “motori”, scaricano anche in risposta a stimolazione sensoriale;

 le aree parietali posteriori, tradizionalmente “associative”, ricevono afferenze dalle regioni sensoriali e possiedono proprietà motorie;

 il sistema motorio non ha un ruolo meramente esecutivo ma è implicato anche nelle attività percettive ed elaborative.

Con le conoscenze attuali si è dunque superata l’idea che esista una rigida separazione tra i processi sensitivi, cognitivi e motori e si è posta definitivamente la parola FINE al modello seriale di funzionamento del cervello.

Il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende.4

1.1 Il modello seriale: le implicazioni didattiche

Avendo assunto come corretto il modello neurofisiologico seriale, per molti anni si è ritenuto che intervenendo sugli aspetti cognitivi, frapposti tra le aree sensoriali e le aree motorie, si potesse agire sull’apprendimento e il perfezionamento degli atti motori. Nonostante le conoscenze neuroscientifiche attuali abbiano sconfessato questo modello di funzionamento del cervello, è ancora molto diffusa la convinzione che la modulazione della motricità dipenda dalle strutture neuronali associative e che stimolando gli aspetti cognitivi in senso generale si possa migliorare il rendimento sport-specifico. La capacità di un atleta di “ragionare” è ancora oggi considerata imprescindibile per il miglioramento delle prestazioni sportive.

3

È stata individuata la presenza di neuroni dotati anche della proprietà uditiva di riconoscimento delle azioni. Tali neuroni audio-visivi sono attivati non solo dall’esecuzione o dall’osservazione di una data azione, ma anche dal semplice ascolto del suono prodotto dalla stessa azione.

4

G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, pag. 3.

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Dal punto di vista pratico, soprattutto in ambito formativo (attività giovanile di base), vari autori che si sono ispirati ai dettami della Psicologia Cognitiva hanno elaborato tutta una serie di giochi ed esercizi che utilizzano colori, numeri e lettere allo scopo di migliorare nell’atleta l’attenzione, la velocità di elaborazione delle informazioni provenienti dall’ambiente e la velocità di scelta dell’azione.

Esercizio psicocinetico per sviluppare la velocità di pensiero. Esercizio per allenare l’attenzione, l’inibizione, la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva ecc. Le attività degli esempi di cui sopra, a ben guardare, sembrano indirizzate più a migliorare il rendimento “scolastico” del giovane atleta, piuttosto che quello calcistico. La presenza della palla in qualche esercizio di questo genere non cambia il senso di questo genere di proposte. Il gioco del calcio è inteso principalmente come un “mezzo” per conseguire obiettivi che non riguardano solo la sfera motoria, ma anche quella emotiva, relazionale e cognitiva. Gli stimoli sono scarsamente correlati al gioco reale, di conseguenza viene a mancare quella specificità necessaria per migliorare la prestazione del giocatore di calcio.

Apriamo a tal proposito una parentesi. Attraverso queste forme didattiche, a detta dei loro fautori, agendo sugli aspetti percettivi ed elaborativi in senso generale, sarebbe garantito un eccellente transfer interdisciplinare e si porrebbero le basi per lo sviluppo ottimale del successivo lavoro specifico. Molti autori ritengono, infatti, che per consentire all’atleta di acquisire al meglio le abilità motorie specifiche sia indispensabile un preliminare intervento di carattere generale sugli aspetti cognitivi, coordinativi, condizionali ecc. A tal proposito è lecito avanzare alcune riserve. Si assiste spesso ad atleti molto abili nella loro disciplina che manifestano evidenti limiti nell’eseguire esercizi di carattere “generale”. Le cosiddette attività motorie “di base” sono sicuramente utili all’atleta, poiché accrescono la sua “esperienza motoria”, ma non possono ritenersi il fondamento dell’attività specifica. Si può, ad esempio, imparare a danzare o a giocare a calcio anche se “scoordinati” in altri compiti motori apparentemente più semplici.

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Per danzare bene non è necessario saper correre bene…

Su questo argomento si è pronunciato così il famoso coach di pallavolo Julio Velasco:

[..] si pensava che la motricità generale fosse fondamentale per migliorare la tecnica; quindi se sviluppavo l’equilibrio in generale questo mi permetteva di avere più equilibrio ad esempio nella posizione di ricezione, poiché avendo un buon equilibrio generale riuscivo poi a sviluppare l’equilibrio particolare della ricezione. Lo stesso valeva per l’orientamento nello spazio. Se io sviluppavo in un bambino, fin dall’asilo, l’orientamento nello spazio e l’analisi della sua struttura, ciò, seguendo i necessari passi, lo avrebbe aiutato in futuro ad orientarsi nel campo di pallavolo ed a decidere con più esattezza quando ad esempio una battuta va dentro o fuori. Questo poiché si aveva e si ha tuttora un’idea particolare di questa grande possibilità di transfert, senza considerare oltretutto che si va dal particolare al generale e non viceversa. La nuova teoria dell’allenamento, che non nega l’allenamento analitico, ma che mette l’accento ed il centro del problema nell’allenare nelle stesse condizioni reali di gioco, è una teoria che invece non ha nessuna fiducia nel transfert; ossia reputa che l’uomo impari le coordinazioni specifiche allenandole, provandole e imparandole così come sono. Quindi non è vero che se un bambino ha un buon orientamento spaziale in un quadrato disegnato nell’aula d’asilo ciò lo aiuterà un domani ad avere un buon orientamento in un campo di pallavolo. […] Io ad esempio faccio sempre questo ragionamento: che cosa facciamo se vogliamo dare a nostro figlio una buona cultura generale? Contattiamo forse un professore di cultura generale? Ma questo professore di cultura generale che cosa insegnerebbe a nostro figlio? A leggere? Ma quella è Letteratura. A fare i conti? Ma quella è Matematica. A capire la natura del mondo? Ma quella è Fisica. Come si può insegnare cultura generale senza insegnare una cosa particolare, specifica, ben determinata? Specifica non vuol dire specializzata, e su questo punto si fa spesso confusione, ma soltanto specifica, ovverosia l’opposto di generale. Quindi, così come nel caso della cultura, se io desidero che un bambino abbia una buona cultura generale, questi dovrà studiare Letteratura, Storia, Geografia, Fisica, etc.; per cui solo dalla somma di questi insegnamenti potrò dire che il bambino possiede una buona cultura generale. Allo stesso modo la motricità generale è il prodotto di tante coordinazioni specifiche e non il contrario. Se noi vogliamo che un giocatore sappia fare

di tutto dovremo insegnargli molte cose specifiche.5

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Se la motricità generale non è altro il prodotto di tante coordinazioni specifiche, dobbiamo definitivamente abbandonare l’idea che esista una “coordinazione generale”, fondamento dell’apprendimento delle abilità motorie. Di conseguenza viene a cadere anche il concetto di “specializzazione precoce”. Ogni abilità acquisita poggia solo su se stessa e può essere appresa in qualsiasi fase della vita senza compromettere gli apprendimenti successivi. E giocare a calcio è un’attività come tutte le altre.

Specializzazione precoce di una piccola bimba…

Riportiamo un aneddoto a proposito. Qualche tempo fa un maestro di Karate, durante una conversazione, parlando a proposito dell’attività giovanile, asserì che prima di insegnare al bambino la tecnica di “uraken-uchi”, la percossa col dorso del pugno mostrato nelle figure seguenti, sarebbe stato opportuno fargli apprendere, propedeuticamente, la tecnica del lancio di rovescio del frisbee.

Uraken-uchi, percossa col dorso del pugno.

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Secondo la sua idea, l’apprendimento della tecnica di lancio del frisbee avrebbe consentito la memorizzazione di una gestualità molto simile a quella della tecnica di Karate in questione. Di conseguenza l’apprendimento dell’uraken sarebbe stato facilitato.

“Io per insegnare uraken, come propedeutico, faccio lanciare il frisbee!”, affermò il tecnico con convinzione. Un altro maestro osservò ironicamente: “Davvero? Io invece per insegnare a lanciare il

frisbee, come propedeutico, faccio fare uraken!”

È diffusa in ambito sportivo, e non solo, l’idea che per imparare a fare una cosa si debba necessariamente fare prima qualcosa di diverso! Qualcosa di più “generale”, o almeno “meno specifico”, preparatorio a ciò che invece è “specifico”.

Così invece che imparare a giocare… giocando… durante le sedute di allenamento la maggior parte del tempo è spesa a effettuare propedeutici, a scapito del gioco! E quando si gioca lo si fa a ranghi ridotti, in spazi molto diversi da quelli reali della partita, spesso costituiti da settori invalicabili o superabili solo per un certo numero di giocatori per volta, con regole che non hanno nulla a che fare con le uniche regole che invece dovrebbero essere rispettate, quelle del regolamento di gara.

Dopo questa necessaria digressione, ritorniamo a parlare di neuroscienze… I primi a essere scoperti furono i neuroni canonici…

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2. I NEURONI CANONICI

I neuroni canonici sono una tipologia di neuroni visuo-motori che attivano quando ci rapportiamo con gli oggetti. La scoperta dei neuroni canonici ha confermato quanto affermato dallo psicologo James Jerome Gibson6 secondo cui la percezione visiva di un oggetto, grazie all’esperienza pratica acquisita dal soggetto in precedenza, comporta l’immediata7 selezione delle proprietà intrinseche che consentono di interagire con esso. Le opportunità pratiche che l’oggetto “offre” a chi lo osserva, sono state chiamate da Gibson “affordances”. I neuroni canonici codificano le affordances di un oggetto, rispondendo alla sua osservazione con l’attivazione di tutta una serie atti motori potenziali. Il riconoscimento delle possibilità di azione sull’oggetto è assolutamente diretto, non mediato da complicate operazioni cognitive. Le nostre azioni quotidiane sarebbero indubbiamente molto lente se ogni volta che vedendo un oggetto, prima di poter interagire con esso, dovessimo ragionare sulla sua forma, la sua consistenza, sul tipo di presa più idonea per afferrarlo. La natura, fortunatamente, ci ha dotato di questo sistema di comprensione che ci consente di abbreviare i tempi di risposta. La vista dell’oggetto provoca nel soggetto che ha avuto precedenti esperienze con quell’oggetto l’immediata configurazione della presa più idonea per afferrarlo, senza che vi sia bisogno di alcun ragionamento intermedio. Questo non significa che l’azione si concretizzi: si tratta solo di un atto potenziale che successivamente può essere realizzato oppure inibito.

Siamo in grado di interagire con oggetti di diverse forme e dimensioni e di differente peso senza ricorrere ad alcun tipo di ragionamento. Il cervello svolge una molteplicità di processi – distinti ma allo stesso tempo collegati tra loro – in modo del tutto inconsapevole.

Ci avviciniamo al boccale di birra prescelto spostando protendendo il corpo nel modo più opportuno, scegliamo la presa appropriata per afferrarlo, moduliamo la forza giusta per sollevarlo adeguatamente, a seconda che sia colmo di liquido oppure mezzo vuoto…

Questa pluralità di processi interconnessi si realizzano senza effettuare

nessuna operazione mentale cosciente. La visione di un oggetto, determina l’immediata predisposizione della modalità più vantaggiosa per entrarne in contatto, a seconda anche dell’uso che se ne vuol fare (si veda in seguito a pag. 23).

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J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, edizione originale del 1979, pubblicato in Italia nel 1999 (vedi bibliografia).

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Le affordances sono sia oggettive sia soggettive, cioè non sono solo proprietà intrinseche degli oggetti, ma emergono dall’interazione tra le loro caratteristiche e quelle proprie del soggetto (sono ad esempio correlate alle dimensioni degli individui).

Foglia: ottima affordance per il riposo o per camminare per una formica, non per un elefante! 8

Le opportunità pratiche che l’oggetto percepito “detta” dipendono dall’esperienza motoria pregressa del soggetto. Lo stesso oggetto “suggerisce” possibilità d’azione differenti a individui diversi, in base alle loro caratteristiche e alle loro esperienze specifiche pregresse: le affordances variano al variare dell’expertise di chi osserva.

A un calciatore principiante, la cui esperienza con l’attrezzo è minima, la visione della palla fornirà molte meno affordances che a un giocatore esperto.

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È interessante notare come Gibson con il concetto di affordance, dal punto di vista neuro-motorio, rovesci il rapporto individuo-ambiente a favore di quest’ultimo. Gibson è un sostenitore della natura ecologica del controllo motorio. Secondo le teorie ecologiche non è necessaria una mediazione di tipo computativa, eseguita a livello centrale, fra la percezione e l’azione. Il movimento è una “proprietà emergente” dalla relazione tra l’organismo e l’ambiente.9 È l’ambiente che guida l’azione. Sono i dati che provengono dall’ambiente che ci suggeriscono cosa è meglio fare in un dato momento: se tirare, scartare, passare la palla o proteggerla ecc. La percezione guida l’azione. Ci muoviamo in funzione dell’ambiente che “dirige”, in senso lato, anche le nostre intenzioni. Il movimento finalizzato è compiuto in risposta a ciò che l’ambiente e il contesto ci dettano. Il nostro comportamento a sua volta modifica l’ambiente in un rapporto dinamico circolare (principio di

causalità circolare). La psicologia ecologica si contrappone all’approccio della psicologia cognitiva

che, all’opposto, conferisce un’importanza decisiva nel controllo del movimento agli aspetti centrali (comandi motori immagazzinati nella memoria motoria). Secondo l’approccio ecologico i comportamenti stabili sono generati dalla relazione tra le componenti dell’organismo e le limitazioni e le opportunità fornite dall’ambiente, quindi fondati sulla capacità dell’organismo di cogliere le

affordances dell’ambiente. Lo sviluppo della locomozione, ad esempio, dipenderebbe

9

Anticipando le correnti ecologiche e le teorie dei sistemi dinamici, il neurofisiologo Nikolai Aleksandrovich Bernstein, già nel 1935, aveva definito il movimento come il prodotto dell’interazione circolare fra l’organismo e l’ambiente circostante. Secondo Bernstein l’apprendimento motorio non consisterebbe tanto nella formazione di programmi motori immagazzinati in una memoria a livello centrale, quanto nella formazione di meccanismi di correzione e di regolazione. Bernstein affermava che:

1. una relazione univoca tra gli impulsi e i movimenti non esiste e non può esistere;

2. la relazione tra gli impulsi e il movimento è tanto più distante dall’inequivocalità, quanto più complessa è la catena cinematica implicata nel movimento che viene considerato;

3. i movimenti sono possibili soltanto nelle condizioni della più accurata e ininterrotta concordanza – imprevedibile in anticipo – tra gli impulsi centrali e gli eventi che accadono alla periferia e sono quantitativamente meno dipendenti da questi impulsi centrali che dal campo delle forze esterne.

In altri termini, i movimenti non possono essere decisi a priori dal cervello prescindendo dalle diverse condizioni iniziali dei segmenti corporei e ignorando il campo variabile e imprevedibile delle forze esterne (ambiente).

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dall’interazione dell’organismo con l’ambiente circostante. Non esisterebbe alcun programma per il muoversi a carponi nelle reti del sistema nervoso. Tale comportamento si auto-organizzerebbe come soluzione a un problema – ad esempio attraversare una stanza per raggiungere un oggetto – per essere poi rimpiazzato successivamente da una soluzione più efficiente.10

2.1 I neuroni canonici: le implicazioni didattiche

Con gli esercizi di tecnica individuale affiniamo le “armi” dei nostri giocatori. Maggiore è il tempo dedicato al rapporto con la palla, maggiore sarà lo sviluppo delle possibilità di azione con l’attrezzo, cioè più numerose saranno le affordances codificate.

Nonostante l’evidente similitudine gestuale, effettuare esercizi con attrezzi inusuali non migliora di molto l’acquisizione delle abilità tecniche calcistiche, come comunemente si crede. Palleggiare con palline da tennis, palloni da rugby, palloni da futsal o addirittura limoni e rotoli di carta igienica, affina la capacità di interagire solo con quegli oggetti specifici, che hanno caratteristiche indiscutibilmente differenti da un normale pallone da calcio (materiale di cui sono composti, forma, volume, peso, proprietà elastiche ecc.).11

10

Cfr. M.V. Meraviglia, 2012, pagg. 71-73.

11

Il ricorso a tali esercizi è spesso giustificato sostenendo la loro utilità nello sviluppare la capacità di differenziazione dinamica. La modulazione della forza d’impatto può essere allenata meglio e in modo specifico avvalendosi di un pallone regolamentare, richiedendo al giovane calciatore di eseguire esercizi di palleggio ad altezze differenti (palleggio basso, medio, alto), di trasmettere la palla a un compagno posizionato a distanze differenti, di calciare con una traiettoria tesa, a parabola ecc.

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In altre parole, la “sensibilizzazione motoria” è sempre attrezzo-specifica.

Pertanto, il giocatore di calcio per migliorare la sua tecnica individuale deve fare molta esperienza con l’attrezzo proprio della sua disciplina, il pallone da gara. Per queste ragioni, un giocatore di calcio a cinque, per quanto abile, troverà inizialmente molte difficoltà ad adattarsi a giocare nel calcio a undici. L’oggetto utilizzato condiziona anche i gesti tecnici. Come evidenziato dal prof. Umberto Ruggiero in un recente convegno,12 l’impiego di un attrezzo di diverse dimensioni e con rimbalzo controllato, nonché le differenze negli spazi di gara, favoriscono l’impiego sovente di soluzioni tecniche che risultano efficaci nel futsal, ma che sono raramente utilizzate o poco appropriate nel gioco del calcio. Come ad esempio il controllo di suola o l’esecuzione di un tiro in porta calciando con la punta del piede.

Al pari di un musicista d’orchestra, che dedica molto tempo ad affinare il rapporto con il proprio strumento attraverso un duro lavoro individuale, il giocatore di calcio ha necessità di perfezionare la sua tecnica calcistica. Da un punto di vista neuroscientifico, maggiore sarà il tempo dedicato al rapporto con il proprio strumento, maggiori saranno le affordances codificate, tanto più numerose e varie saranno le possibilità d’azione che la visione della palla suggerirà al calciatore.

Esistono diverse strategie per migliorare la tecnica individuale. Ecco come la pensa Attilio Sorbi:

[…] anche se l’allenamento deve essere orientato prevalentemente verso esercitazioni, cioè

proposte in stretta correlazione con le situazioni di gioco, è un errore non lavorare sulle esecuzioni dei diversi gesti, vale a dire senza la presenza dell’avversario, ovvero per migliorare il rapporto uomo-palla.13

Migliorare i componenti costituenti l’insieme è fondamentale, ma allo stesso modo non si deve perdere di vista la loro interdipendenza. Questo è il parere di Arrigo Sacchi:

Credo sia importante insegnare una tecnica attraverso il gioco in modo globale e non analitico. Michels, grandissimo allenatore olandese, mi diceva: «Siete strani voi italiani, insegnate la tecnica a sé stante dal gioco. Noi insegniamo come deve essere in partita.

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Agorà dei Mister, incontro organizzato da mister Davide Brunello a Borghetto Santo Spirito (SV) il 15 aprile 2019.

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Sarebbe come insegnare a nuotare mettendo i calciatori su una tavola spiegando che devono alternare il movimento dei piedi e delle mani. Noi li buttiamo in acqua». Gullit, grande campione, nelle partite di palla tennis nessuno lo voleva in squadra, così come nelle esercitazioni tecniche individuali era mediocre. In partita, invece, era bravissimo in tutti i gesti tecnici: conduzione, tiro, passaggio, colpi di testa, dribbling, contrasto. Aveva acquisito una tecnica da gioco e non da circo. […] Gullit è la testimonianza di quanto sia errato privilegiare la tecnica individuale, se non viene insegnata attraverso il gioco, il possesso palla e il corretto movimento. E anche attraverso esercizi di gruppo. Gullit aveva qualche difficoltà negli esercizi di tecnica individuale, ma era bravissimo nella tecnica relativa al gioco e aveva

grandi capacità interpretative. Un grande giocatore.14

In sostanza, gli esercizi tecnici non devono essere fini a se stessi: la tecnica deve essere funzionale al gioco. Dobbiamo creare dei giocatori di calcio, non dei freestyler…

Tecnica non vuol dire essere capaci di palleggiare mille volte. Chiunque può farlo con l’allenamento e poi puoi lavorare al circo. Tecnica è passare la palla con un tocco, con la giusta velocità, sul piede giusto del tuo compagno.

(Johan Cruijff)

Laddove la prestazione dipende da elementi molto integrati tra loro è sempre più opportuna l’adozione di un approccio di tipo globale.15 Ai lavori meno complessi, individuali, di reparto ecc. – assolutamente necessari – devono quindi far seguito impegni di complessità crescente. Tutti i singoli elementi costitutivi, dell’individuo e della squadra, devono essere sempre ricondotti alla dimensione del Gioco, dove le singole azioni si realizzano in un contesto di interdipendenza cooperativa (con i

14

Arrigo Sacchi, Calcio totale. La mia vita raccontata a Guido Conti, Mondadori Ed., Milano, 2015.

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Questo criterio è valido anche per l’apprendimento delle abilità motorie individuali. Nell’apprendimento di compiti motori composti da elementi fortemente correlati e integrati tra loro, quali possono essere ad esempio i tuffi, il salto con l’asta, la nuotata a delfino, il colpo di testa o la rovesciata nel calcio ecc., non è mai conveniente cercare di assimilare le singole parti separatamente, attraverso esercizi di tipo parziale, per poi procedere a un riassemblamento successivo. Per contro, un certo frazionamento del compito può essere vantaggioso nell’apprendimento di abilità tecniche in cui le varie componenti sono relativamente indipendenti tra loro. Ad esempio: la bracciata nel crawl, le tecniche di parata e di attacco nel Karate ecc. In tal caso, didatticamente può essere opportuno operare dei “tagli orizzontali” dell’intero movimento eliminando temporaneamente l’azione di alcuni effettori, ad esempio esercitando separatamente i movimenti degli arti superiori e degli arti inferiori. Nel caso di una concatenazione motoria, invece, può essere facilitante eseguire dei “tagli verticali” del compito – segmentandolo cioè nelle sue fasi costituenti – per poi ricomporre in seguito l’intera sequenza nella sua globalità. Per approfondimenti in merito, si veda l’articolo di Caterina Pesce citato in bibliografia.

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compagni) e oppositiva (con gli avversari). L’allenamento deve essere quindi orientato all’acquisizione dei requisiti necessari affinché si realizzi un’espressione corale e armonica di gioco, in cui le qualità individuali possano emergere ed essere esaltate proprio in virtù del rapporto dialettico con il collettivo, come avviene con l’assolo di un solista in un’orchestra.

Gli interventi didattici propedeutico-correttivi saranno tanto più redditizi quanto più saranno ricondotti al più presto all’interno della complessità del gioco reale.

In sintesi, si tratta quindi di superare sia il pensiero riduzionistico, che scompone il sistema nei suoi elementi semplici, separando ciò che è legato sia il pensiero olistico, che rinuncia all’analisi delle parti dissolvendole in una totalità monistica indifferenziata, per ricondurre e legare i due criteri d’indagine e d’intervento in un’unità che li comprenda entrambi in un rapporto dialettico complementare, nella quale tuttavia, data la natura complessa, e non complicata, del gioco del calcio, l’approccio sistematico-analitico deve essere sempre subordinato a quello sistemico-sintetico.16

16

Per approfondimenti sulle caratteristiche dei sistemi complessi e sulle differenze che sussistono tra sistemi complessi e sistemi complicati si veda C. Albertini, 2017, pagg. 9-22.

(19)

19

3. I NEURONI SPECCHIO

I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per biologia.

Vilayanur S. Ramachandran17

La principale differenza tra i neuroni canonici e i neuroni specchio risiede nel fatto che mentre i primi si attivano durante l’osservazione di oggetti, i secondi si attivano quando si ha a che fare con gli individui. I neuroni specchio sono una tipologia di neuroni che codifica non i semplici movimenti, ma i movimenti finalizzati, cioè organizzati per raggiungere uno scopo. Una peculiarità di questi neuroni è che essi scaricano sia quando il soggetto compie un’azione, sia quando vede compiere la stessa azione da un altro individuo. La funzione principale dei neuroni specchio non è, come comunemente si crede, l’imitazione, ma è la comprensione dello scopo dell’azione, cioè dell’intenzione. Questi neuroni stabiliscono una sorta di ponte tra l’osservatore e l’osservato: l’attivazione degli stessi neuroni che utilizzeremmo per compiere l’azione osservata ci permette di capire le intenzioni dell’altra persona nel momento stesso in cui la esegue. I neuroni specchio ci consentono quindi di riconoscere “che cosa” fa un’altra persona, ma soprattutto ci permettono di capire “perché“ lo fa, cioè lo scopo per il quale esegue un dato movimento. L’osservazione dell’azione altrui non comporta ovviamente la sua replica. Si tratta solo di un atto potenziale che, come nel caso dei neuroni canonici, può essere in seguito realizzato o inibito. Numerosi esperimenti18 hanno dimostrato come il sistema dei neuroni specchio svolga un ruolo fondamentale nell’imitazione di atti motori osservati appartenenti allo stesso patrimonio motorio dell’osservatore, ma s’ipotizza un intervento del sistema specchio anche nell’apprendimento per imitazione di movimenti non appartenenti al patrimonio motorio dell’osservatore.19 Tuttavia, come si è detto, la principale funzione dei neuroni specchio non è da considerarsi l’imitazione, ma la comprensione immediata dello scopo dell’azione, cioè dell’intenzione altrui. Questa si realizza condividendo le attivazioni neuronali che presiedono alle medesime azioni finalizzate che osserviamo, realizzando una sorta di “simulazione interna”, senza che vi sia l’intervento delle aree associative, ma attraverso un meccanismo di “risonanza motoria” diretto, privo di qualsiasi mediazione concettuale o verbale. In altre parole: per riconoscere le intenzioni degli altri non sono necessari elementi interpretativi, sono determinanti solo le esperienze motorie pregresse.

17 Vilayanur Subramanian Ramachandran è un neuroscienziato indiano di fama mondiale. 18 G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, op. cit., pagg. 135-140.

19 In questo caso pare che il sistema specchio si attivi per “segmentare” l’azione sconosciuta in una serie di atti motori conosciuti che poi

sono successivamente riorganizzati in nuova sequenza dall’area 46 del lobo frontale. Per approfondimenti si veda G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, op. cit., pagg. 140-147.

(20)

20

Questa forma di comprensione consiste in una sorta di “rappresentazione motoria interna”20 dell’atto osservato, di natura pragmatica e non riflessiva. Mentre si assiste al comportamento intenzionale degli altri, si verifica il fenomeno della cosiddetta “consonanza intenzionale”. La funzione che ci permette di riconoscere le intenzioni dei nostri simili dipende quindi principalmente dal sistema senso-motorio e non dal sistema associativo (percezione, ragionamento, riflessione, coscienza), come si pensava un tempo. Ovviamente, in quanto esseri dotati di capacità cognitive superiori, possiamo comprendere le intenzioni degli altri anche in modo razionale, attraverso ragionamenti, sforzandoci volontariamente, coscientemente, di metterci nei panni dell’altro, di assumerne il punto di vista e di immaginarne il vissuto.21 Ma la comprensione che si realizza attraverso i neuroni specchio precede quella razionale ed è immediata, simultanea a ciò che osserviamo e assolutamente non riflessiva. Come affermano Rizzolatti e Sinigaglia:

Sostenere che le risposte mirror abbiano un ruolo specifico nella comprensione dell’azione non significa in alcun modo sostenere che esse siano necessarie per la comprensione di ogni tipo d’azione. Stando alla nostra tesi, infatti, le risposte mirror sono sufficienti, a parità di condizioni, perché si abbia qualcosa come una comprensione basilare dell’azione osservata e possono esercitare un effetto contenuto-specifico su quello che chi osserva pensa dell’azione osservata, così da consentirgli di giudicarla in maniera più accurata. Tutto ciò, naturalmente, non esclude la possibilità, per chi osserva, di comprendere l’azione osservata facendo affidamento su processi o rappresentazioni di tipo diverso: per esempio, su processi

inferenziali basati su rappresentazioni sensoriali.22

Il sistema dei neuroni specchio ci permette dunque la comprensione del senso delle azioni altrui, senza far ricorso ad alcun tipo di ragionamento, basandoci esclusivamente sulle nostre competenze motorie. Ciò non comporta, ovviamente, l’esclusione di altre forme di comprensione. Tuttavia…

Che cosa cambia, però, quando chi osserva può avvalersi delle rappresentazioni e dei processi che recluterebbe se fosse lei o lui a compiere l’azione o ad avere la reazione emotiva osservata? […] tale possibilità comporta un cambiamento estremamente significativo nella

prontezza e, soprattutto, nell’accuratezza con cui le azioni e le emozioni sono comprese.

Detto in altri termini: chi osserva spesso comprende molto prima e molto meglio quanto osservato – e la differenza risulta tanto più significativa quanto più cresce il livello di complessità del compito richiesto. Occorre evitare, come talvolta accade, di sottostimare l’importanza di tutto ciò. Si pensi cosa significhi poter comprendere immediatamente una reazione di paura, di disgusto o di ilarità. Lo stesso vale per quelle che abbiamo chiamato

forme vitali:23 si pensi all’importanza di poter comprendere immediatamente con quanto

20 Questa forma di rappresentazione interna non va considerata come una rappresentazione “astratta”, ma va intesa come un meccanismo

di trasformazione delle informazioni visive in atti motori potenziali.

21

Si vedano a questo proposito le considerazioni di G. Rizzolatti e C. Sinigaglia, 2006, pagg. 101-104 e pagg. 126-127.

22

G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2019, pagg. 233-234. È infatti possibile che chi osserva possa comprendere un’azione osservata, o almeno parte di essa, anche se non rientra nel proprio patrimonio motorio. Ad esempio, l’abbaiare di un cane, il volare di un uccello o l’esecuzione di una tecnica sportiva di cui l’individuo non ha mai fatto esperienza.

23

Per “forme vitali” non si intende il contenuto di un’azione o di un’emozione ma la sua qualità. Le forme vitali riguardano il come, la maniera, lo stile con cui sono eseguite le azioni o espresse le emozioni. Ad esempio una stretta di mano può essere “energica” oppure “delicata”, un moto di rabbia “contenuto” oppure “esplosivo” ecc. Secondo Daniel Stern la capacità di condivisione delle forme vitali rappresenterebbe la più antica, diretta e immediata forma di “sintonizzazione affettiva” con gli altri, talmente radicata e naturale da pervadere ogni relazione sociale (vedi G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2019, pagg. 127-129).

(21)

21

calore o freddezza viene accolta una vostra visita o una vostra idea, quanto gentile o scostante sia un sorriso, quanto tenera o riservata sia una carezza, e così via. E, per finire, si pensi all’importanza di poter comprendere immediatamente lo scopo o gli scopi cui l’azione che state osservando è diretta – di poterlo fare in un tempo e con un’accuratezza che vi

consentano, eventualmente, di agire a vostra volta nel modo più appropriato.24

Per quanto riguarda gli aspetti emotivi, anche per essi, come nel caso delle intenzioni, si può parlare di una comprensione istantanea che non presuppone processi cognitivi di tipo inferenziale o associativo. La comprensione delle emozioni tramite il sistema specchio costituisce la base dell’empatia: si realizza con l’altro una forma di “risonanza emotiva” immediata che anche in questo caso anticipa ogni forma di consapevolezza esplicita o riflessiva.25

Il tipo di comprensione sostenuta dal sistema specchio è stata definita dagli autori comprensione dall’interno. Essa consentirebbe a chi osserva di “entrare” nelle azioni, nelle reazioni emotive e nelle forme vitali altrui, attivando processi e rappresentazioni simili come se agisse o provasse emozioni in prima persona. Tale comprensione risulta essere tanto più rapida e accurata quanto maggiore è l’expertise motoria (riguardante le azioni) o visceromotoria (riguardante le emozioni) specifica del soggetto che osserva.26

Un esempio di comprensione istantanea…

Foto da: La Settimana Enigmistica, n. 4721, 30 gennaio 2014.

24

G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2019, pagg. 243-244.

25

S’ipotizza che un deficit di funzionamento del sistema specchio potrebbe essere una delle cause dell’autismo. Sappiamo, infatti, che i soggetti autistici hanno difficoltà nel riconoscere le emozioni altrui, che riescono a identificare solo per via razionale. Per queste persone è problematico capire le intenzioni dei movimenti umani che sono in grado di comprendere solo per inferenze, ricorrendo a ragionamenti.

26 Bisogna a questo punto spezzare una lancia a favore degli allenatori che sono stati anche giocatori di calcio. Essi, grazie alla loro

expertise motoria, possono basare la loro comprensione del gioco su processi e rappresentazioni che sono estranee a chi non ha avuto precedenti esperienze come calciatore. Questo perché chi ha giocato a calcio può avvalersi di un’informazione precisa circa le “componenti intrinseche” dell’azione osservata – a cominciare dagli scopi cui essa sarebbe diretta – sfruttando le stesse risorse neuronali e rappresentazionali che userebbe se dovesse compiere quelle azioni in prima persona, a differenza di chi, dall’esterno, ha potuto sviluppare solo una expertise di tipo visivo, appoggiandosi su rappresentazioni e processi puramente sensoriali. La comprensione del gioco in un ex-giocatore è pertanto facilitata e risulta essere tanto più rapida e accurata quanto più elevata è la sua expertise motoria calcistica. A proposito del contributo di Marc Jeannerod su questi temi si veda G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2019, pagg. 249-250.

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22

Si è detto prima che il sistema specchio struttura gli atti motori, cioè i movimenti coordinati in funzione di un obiettivo specifico. L’attivazione del sistema specchio è quindi “scopo-specifica”, cioè si realizza non in funzione di movimenti, né tantomeno di singole contrazioni muscolari, ma in funzione di movimenti finalizzati (come l’afferrare, il tenere, il calciare ecc.).

Per esempio, i neuroni attivati durante la flessione del dito indice durante l’atto motorio di “afferrare”, non sono gli stessi che si attivano quando, pur eseguendo lo stesso movimento, il soggetto compie l’azione di “grattare”. Negli esperimenti con le scimmie, è stato osservato come quando l’animale compie un atto motorio, come ad esempio l’azione di afferrare, si attivino gli stessi neuroni indipendentemente dal fatto che l’azione sia eseguita con la mano destra, sinistra o addirittura con la bocca. I neuroni che codificano una determinata azione finalizzata si attivano indipendentemente dai movimenti utilizzati per realizzare lo scopo. Movimenti identici ma eseguiti con uno scopo differente non attivano gli stessi neuroni, nonostante i muscoli impiegati siano gli stessi; viceversa sono attivati gli stessi neuroni se si eseguono movimenti diversi per ottenere il medesimo obiettivo.

Indicare, colpire con un dito, minacciare, premere l’interruttore per accendere la luce, premere l’interruttore per spegnere a luce, pur essendo gestualità simili nella forma, comportano attivazioni neuronali completamente differenti.

È importante rilevare come il sistema specchio codifichi anche catene motorie più complesse in cui i singoli atti motori sono inscritti (come l’afferrare per portare alla bocca, l’afferrare per spostare ecc.). In tal caso è lo scopo terminale, e non quello intermedio, a definire la specificità neuromotoria dell’azione (portare alla bocca, spostare).

Le azioni vengono quindi codificate in termini di scopi, e non sulla base dei movimenti che compiamo per svolgerle. La stessa azione può essere portata a compimento con movimenti diversi, e gli esseri umani sono sufficientemente flessibili da riuscire a farlo. Se dobbiamo salire con l’ascensore e abbiamo le mani occupate, possiamo premere il pulsante di chiamata con il gomito. Quello che conta è che il nostro scopo, quello di chiamare l’ascensore, sia raggiunto.27

Due comportamenti si considerano specifici se entrambi sono compiuti, sebbene con modalità diverse, per perseguire il medesimo scopo.

Riassumendo, è stato riscontrato che nell’uomo si attivano le stesse popolazioni di neuroni specchio:

27

Anna M. Borghi e Roberto Nicoletti, articolo “Movimento e azione”, pubblicato all’interno del libro Psicologia dei processi cognitivi, a cura di Roberto Cubelli e Remo Job, Carocci editore, Roma, 2012.

(23)

23  quando un atto motorio finalizzato viene eseguito;

 quando lo stesso atto motorio lo si vede eseguire da un altro individuo;  quando viene mimato;

 quando è immaginato.28

È da rimarcare come tutto ciò si realizzi in modo totalmente differente rispetto a quanto era prospettato dal modello seriale che prevedeva l’attivazione in successione delle aree sensoriali, associative e motorie, ben distinte tra loro.

Un altro punto fondamentale è il seguente: il sistema specchio è in grado di codificare il significato che ogni atto osservato assume a seconda del contesto.

In uno studio condotto tramite risonanza magnetica funzionale (Iacoboni et al., 2005, vedi riquadro seguente), mostrando ai soggetti del test la medesima azione, sono state riscontrate attivazioni neuronali differenti a seconda degli scenari in cui era presentata l’azione:

1. afferrare una tazza su una tavola apparecchiata con teiera, tazza, piattino, biscotti ecc. come appare prima di una colazione;

2. afferrare una tazza con la tavola come appare al termine di una colazione.

I due scenari suggerivano rispettivamente l’intenzione di “prendere la tazza per bere” e l’intenzione di “prendere la tazza per mettere a posto”. L’attivazione neuronale si è dimostrata diversa a seconda dell’intenzione indicata dal contesto.29 Come possiamo osservare dalle immagini, anche il modo di afferrare l’oggetto è diverso secondo l’uso che se ne vuol fare.

Foto da: G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2006, pag. 122.

28 L’immaginazione che coinvolge il sistema specchio è un’immaginazione motoria, da non confondersi con l’immaginazione cognitiva. È

possibile immaginare di volare senza saperlo fare davvero: questa è un’immaginazione di tipo cognitivo. L’immaginazione motoria comporta l’attivazione di processi e rappresentazioni di tipo motorio simili a quelli che sarebbero attivati se la persona stesse eseguendo realmente l’azione che sta immaginando. Tale forma di immaginazione dipende pertanto dal grado di expertise motoria del soggetto.

29

La descrizione completa dell’esperimento è riportata su G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Ed., Milano, 2006, pag. 122.

(24)

24

Il sistema specchio costituisce quindi una sorta di meccanismo anticipatore che consente di avere un immediato riconoscimento delle intenzioni altrui su base probabilistica. Il contesto in cui si svolge l’azione suggerisce quale delle azioni possibili è più probabile che si verifichi: “so quel che fai”, ma anche “so quel che farai”, cioè quello che tu stai per fare. L’osservatore può prevedere l’esito degli atti motori che sta osservando. Senza questa funzione sarebbe molto difficile orientarci nel mondo: dovremmo sempre aspettare l’inizio dell’azione altrui per capire cosa può succedere. Questo, per fortuna, non accade. I risultati dell’esperimento citato sopra devono far riflettere i tecnici sportivi. Per ultimo, è da sottolineare la recente scoperta da parte di Bonini e dei suoi collaboratori dell’Università di Parma, in uno studio del 2014, di un nuovo tipo di neuroni dotati sia delle proprietà dei neuroni specchio sia di quelle dei neuroni canonici.

I neuroni di questo tipo, infatti, oltre a rispondere durante l’esecuzione di una determinata azione rivolta a un oggetto avente una determinata forma e una determinata taglia, rispondono anche sia all’osservazione di quell’azione quando compiuta da altri sia alla

semplice vista di quell’oggetto, con quella forma e quella taglia.30

L’esistenza di questi neuroni mirror-canonici di fatto fornisce

[…] il tassello mancante tra le rappresentazioni motorie di possibili scopi d’azione evocate dalle azioni osservate e quelle evocate dalla presentazioni degli oggetti cui quelle azioni

appaiono dirette.31

3.1 I neuroni specchio: le implicazioni didattiche

Quando nell’allenamento si parla di “specificità”, ci si riferisce solitamente alla forma del gesto, cioè unicamente agli aspetti biomeccanici del movimento. Se non si tiene conto di ciò che sta a monte del gesto tecnico, di quello che avviene nel cervello “prima” che si realizzi l’atto motorio vero e proprio, la specificità delle proposte esercitative risulterà sempre incompleta, monca, attribuita ai soli aspetti muscolari. Il concetto di specificità, in ambito sportivo, invece, non può riferirsi solo alla forma del movimento ma anche, e soprattutto, alla finalità con cui un gesto è eseguito: finalità che dipende dal contesto, cioè dal significato che assume l’ambiente per l’individuo, nel momento in cui agisce. Sono i vincoli ambientali e il contesto (la posizione dei compagni e quella degli avversari, la zona di campo in cui ci si trova, la situazione-punteggio della partita ecc.) a orientare le intenzioni, le scelte del giocatore. Spesso non si “ritrovano” in partita le cose spiegate e provate in allenamento. Il motivo è che molte esercitazioni sono troppo artefatte, poco complesse o svolte in spazi diversi da quelli di gara. In questo modo si allena il cervello dei giocatori a operare in modo aspecifico, in situazioni troppo semplificate o differenti rispetto a quelle in cui si svolge il reale confronto

30

G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2019, pag. 78.

31

(25)

25

agonistico. I tecnici sportivi dovrebbero considerare gli aspetti neuromotori sempre nella loro globalità, tenendo in debito conto anche la specificità delle attivazioni neuronali.

Per il tecnico diventa quindi imprescindibile saper creare, durante l’allenamento, situazioni nelle quali i giocatori possano vivere esperienze il più possibile simili a quelle che si possono presentare in gara. La partita libera pertanto rappresenta il mezzo elettivo di apprendimento: tramite essa, nell’ambiente specifico di gara, i giocatori per mezzo del sistema specchio imparano a:

 “leggere” le intenzioni dei compagni, migliorando la collaborazione reciproca;  riconoscere le intenzioni degli avversari, diventando capaci di anticiparne le azioni;  nascondere le proprie intenzioni agli avversari, sviluppando “l’arte dell’inganno” (la finta). Tramite i neuroni specchio l’individuo è in grado di comprendere le intenzioni altrui. È importante quindi che, durante le sedute di allenamento, si predisponga un ambiente che risulti appropriato per sviluppare questa capacità.

L’esercizio illustrato nella figura seguente – giocatore che esegue esercizi di conduzione palla tra i coni – non permette al calciatore di ricavare dall’ambiente nessuna informazione utile per stimolare il sistema specchio.

Diversamente, nell’immagine successiva – in cui è mostrata un’esercitazione situazionale – si evince come la proposta di lavoro sia idonea a stimolare il cervello dei giocatori a “leggere” le intenzioni dei propri compagni e degli avversari.

(26)

26

Per quanto riguarda l’apprendimento delle tecniche sportive, sappiamo che i neuroni specchio rispondono a un’intera azione, non a parti della stessa, attivandosi in funzione dello scopo.

Il cervello riconosce in primis la finalità dei movimenti, non i movimenti in se stessi, né tantomeno le singole contrazioni muscolari. Per favorire l’apprendimento di una tecnica sportiva per via imitativa è quindi meglio mostrarla inizialmente per intero senza frammentarla in sottomovimenti. Questo accorgimento aiuta l’allievo a capire il senso dell’azione e a comprendere l’intenzione, quindi lo scopo, di chi mostra l’azione. I dettagli devono essere curati solo in un secondo momento.

Per facilitare l’apprendimento per imitazione pertanto è necessario:32

1. Far vedere da subito la tecnica per intero senza frammentarla in sottomovimenti.

2. Farla vedere alla "giusta" velocità, né troppo velocemente, né troppo lentamente, per facilitarne la memorizzazione senza alterarne la struttura.

3. Far vedere la tecnica dalla "giusta" angolazione, cioè dalla prospettiva dalla quale poi l'allievo la dovrà ripetere.

4. Chiarire che quella tecnica andrà imitata, non solo osservata, evidenziando l'obiettivo da raggiungere, per attivare maggiormente l’attenzione dell’allievo.

5. Dare spiegazioni verbali chiare, che non siano troppe, così che l’allievo focalizzi la sua attenzione solo sui punti salienti.

6. Richiedere all’allievo un’esecuzione consapevole così da evitare che ripeta meccanicamente il movimento senza autocorreggersi.

Tutte le azioni che compie il giocatore durante la partita sono finalizzate. Far eseguire in allenamento esercizi/esercitazioni in forma analitica/parziale senza che il giocatore ne abbia compreso lo scopo o per scopi differenti da quelli specifici di gara (per es. possessi palla non direzionati, partite con regole particolari ecc.) comporta l’attivazione di circuiti neuronali differenti da quelli che sono impiegati durante il gioco reale. Il giocatore deve comprendere il senso, lo scopo per cui si fanno certe cose. Quando uno sprinter esegue degli skip, riconosce il senso di quell’esercizio analitico, la sua correlazione con la dinamica di corsa. Il suo modo di allenarsi gli permette così di migliorare realmente la qualità della corsa. Il calciatore invece normalmente effettua gli skip in modo meccanico, pensando siano solo esercizi di riscaldamento. La resa così è nulla. Le azioni sono codificate a livello cerebrale in termini di “scopi” e non sulla base dei movimenti che le compongono o del tipo di effettore con cui sono svolte. Se il cervello non viene attivato in funzione di uno scopo, dello stesso scopo che il giocatore persegue in partita, a nulla varranno tutti i nostri propedeutici e correttivi. Più artefatte sono le proposte allenanti, minore è l’apprendimento dei giocatori.

32

(27)

27

Gli esercizi e le esercitazioni devono essere quindi funzionali, cioè orientati a conseguire uno scopo concreto attinente alla disciplina praticata.

L’allenatore ha il compito di “cucire insieme” i vari passi del percorso correttivo o propedeutico, richiedendo ai giocatori di esprimere negli esercizi e nelle esercitazioni la medesima intenzionalità che manifesterebbero nel gioco reale. Se le attività sono realizzate passivamente, difficilmente si realizzerà un apprendimento. Ogni proposta deve essere vissuta come legata a uno scopo superiore di cui il giocatore deve essere consapevole. Il giocatore deve essere reso partecipe, sentire che ogni passo dell’allenamento ha un suo senso ultimo, una finalità congrua con gli scopi della partita.

Poiché i Neuroni Specchio si attivano solo per compiere «azioni finalizzate a uno scopo», ogni azione individuale o di gruppo, svolta in allenamento è da «CONSIDERARE SPECIFICA» se con

essa si «persegue» LO STESSO SCOPO che si desidera «perseguire» IN PARTITA.33

(R. Capanna) Eseguire esercitazioni in cui la finalità non è congrua con gli scopi della partita, ad esempio un possesso palla non orientato – la finalità di un possesso palla senza direzione di gioco è solo quella di “tenere palla” – coinvolge neuroni specchio “non specifici”.34

In questo senso si colloca l’attività “come se”. Si tratta di esercizi in cui il giocatore coinvolge il sistema dei neuroni specchio mimando un’azione di gioco (smarcamento, pressione sul portatore di palla, esecuzione di un gesto tecnico con la palla ecc.), immaginando di dover perseguire uno scopo. La capacità di immaginare di agire – e quindi di attivare correttamente i processi neuronali correlati all’azione vera e propria – dipende dal patrimonio motorio del soggetto.35

«L’ATTIVITÀ MIMATA» interessa in particolare IL PREPARATORE FISICO in quanto durante gli esercizi senza palla può proporre movimenti eseguiti «COME SE» i giocatori stessero

partecipando ad azioni di gioco con la palla.36

(R. Capanna) Obiettivi di questi esercizi sono la cura di alcune abilità tecniche quali: il corretto uso degli appoggi dei piedi, il posizionamento del corpo, i cambi di direzione, lo stacco a uno o due piedi ecc. Ovviamente queste proposte hanno dei limiti evidenti, non comportando da parte dei giocatori alcuna “lettura” di una situazione reale. Tuttavia rappresentano un mezzo per trasmettere conoscenze a riguardo dei gesti tecnici e sono senz’altro da preferirsi ai consueti esercizi di carattere esclusivamente atletico, eseguiti senza alcuna finalità reale o immaginaria, che non hanno correlazione con l’attività neuronale specifica del giocatore di calcio.

33

R. Capanna, presentazione a “La settimana delle Neuroscienze applicate al calcio”, Desio (MB), 8 aprile 2019.

34 Il possesso palla fine a se stesso è un’esercitazione utile per allenare i gesti tecnici in regime di opposizione e alcuni aspetti tattici come

lo smarcamento del possessore di palla nella triangolazione, la creazione di linee di passaggio libere ecc., ma complessivamente è da considerarsi un’attività poco correlata con gli scopi che si perseguono nella partita.

35

Si veda R. Capanna, 2016, pagg. 48-50 e 105-106.

36

(28)

28

L’attività “come se” può essere realizzata anche con la palla. L’idea è quella di “immaginare” uno o più avversari (rappresentati da coni, paletti o sagome) da superare attraverso diverse possibilità esecutive, come propone Francesco D’Arrigo nei suoi “esercizi che immaginano una realtà”.37

È da evidenziare come per Rizzolatti e Sinigaglia “immaginare di fare” e “fare per davvero” siano, seppure in parte, attività dal punto fenomenologico sorprendentemente simili. Al di là delle ovvie differenze, la “comprensione dall’interno” di un’azione o di un’emozione altrui metterebbe in moto processi simili a quelli che si attivano quando si agisce o si prova un’emozione in prima persona. Gli autori ritengono pertanto che le attività di osservazione e immaginazione sostenute dal sistema specchio possano contribuire ad accrescere l’esperienza del soggetto (“plasmare l’esperienza”). Tale esperienza, pur essendo chiaramente diversa dall’esperienza dell’agire o provare un’emozione in prima persona, condividerebbe con quest’ultima molti aspetti fondamentali.38

37 F. D’Arrigo, 2018, pagg. 37-39. 38

Come sostiene M. Jeannerod (2004, pag. 379): Si potrebbe essere tentati di sostenere che un’azione internamente rappresentata include qualunque cosa sia coinvolta in un’azione eseguita, fatta eccezione per le contrazioni dei muscoli e le rotazioni delle articolazioni. Per quanto sia inesatto, dal momento che sappiamo che gli eventi muscolo-articolari associati all’esecuzione di un movimento generano un flusso di segnali riafferenti che non sono presenti quando l’azione è internamente rappresentata, tutto ciò nondimeno cattura molti aspetti del funzionamento della rappresentazione. Si veda anche G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2019, pagg. 243-256.

(29)

29

4. LA CODIFICA DELLO SPAZIO

Il cervello “mappa” lo spazio che ci circonda utilizzando popolazioni di neuroni differenti per codificare lo spazio vicino e quello lontano.39 Alcuni neuroni definiscono lo spazio peripersonale o vicino, cioè la regione spaziale nella quale sono collocati tutti gli oggetti raggiungibili col nostro corpo o con gli strumenti che in quel momento stiamo utilizzando, senza bisogno di ricorrere ad alcuna forma di locomozione.40 Altri neuroni si attivano invece in funzione dello spazio extrapersonale o lontano, dove sono collocati tutti gli oggetti distanti, fuori portata, non raggiungibili né con il proprio corpo, né con gli strumenti che possiamo utilizzare come “prolungamento” del nostro corpo. Il nostro cervello codifica lo spazio che ci circonda non solo localizzando gli oggetti secondo coordinate spaziali relative alla posizione del nostro corpo, ma soprattutto in virtù della nostra possibilità di raggiungerli, cioè localizzandoli nei termini di una possibilità d’azione. Inoltre l’impiego di uno strumento lo “lega” al nostro corpo, come se si trattasse dell’estensione di uno dei suoi organi, cosicché lo spazio in precedenza etichettato come lontano può essere, in seguito all’utilizzo di uno strumento, ricodificato nella rappresentazione corticale dello spazio corporeo, come spazio vicino, peripersonale. Si può quindi affermare che l’attivazione neuronale è strettamente dipendente dallo spazio in cui il soggetto agisce e dagli oggetti che ne fanno parte. È importante sottolineare come la codifica delle relazioni spaziali si realizzi in modo totalmente inconsapevole. Le distanze che separano il soggetto dagli oggetti collocati nello spazio non sono misurate ricorrendo a calcoli o ragionamenti… né tantomeno facendo la conta dei metri o dei passi!

Ulteriori contributi ci giungono dalla scoperta dei cosiddetti “neuroni Gps”. Nel 2014 è stato assegnato il premio Nobel per la medicina e la fisiologia a John O’Keefe, May-Britt Moser ed Edward Moser per la scoperta delle place cells, cellule di posizione situate nell’ippocampo che si attivano quando si occupa un punto di uno spazio precedentemente esplorato, e delle grid cells, cellule situate nella regione entorinale, un’area confinante con l’ippocampo, che si attivano quando si attraversano punti dello spazio già noti: l’ambiente è “mappato” a livello neuronale costruendo una griglia esagonale che aiuta l’animale a orientarsi.

Alla mappatura cognitiva dello spazio contribuirebbero, insieme alle place cells e grid cells, anche le

head direction cells, relative ai movimenti del capo, e le border cells, cellule di confine, che

divengono attive quando si è prossimi al confine di un ambiente. Gli studi successivi di Ulanovsky e di Fujisawa hanno mostrato che il cervello è in grado di individuare anche la posizione degli altri nello spazio attraverso una popolazione neuronale definita social place cells.

39

Per approfondimenti, si veda il capitolo 3 del libro di G. Rizzolatti e C. Sinigaglia citato in bibliografia.

40

Figura

Foto da: La Settimana Enigmistica, n. 4721, 30 gennaio 2014.
Foto da: G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2006, pag. 122.

Riferimenti

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