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Il microcredito come strumento di lotta alla >povertà: uno studio della realtà della Tanzania.

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Academic year: 2021

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1. INTRODUZIONE

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Spesso, pensando all’”Africa nera”, vengono in mente immagini di guerre, povertà, campi profughi dove i bambini coperti dalle mosche guardano con occhi enormi gli obiettivi degli stranieri bianchi.

Ma si pensa anche agli immensi paesaggi incontaminati, al deserto, alla purezza di quella natura vergine dove i grandi animali pascolano liberi.

Questa, è l’immagine da “cartolina” dell’Africa.

Questa conoscenza superficiale non è in grado di dare giustizia alla complessità di questo continente. Dei 53 Stati sorti dopo le lotte di indipendenza, 47 appartengono alla cosiddetta Africa nera. Si tratta di un mondo vivo, dove tragedie e splendore si intrecciano in un circolo senza fine, è l’Africa dei villaggi di fango e terra ma anche dei grandi grattacieli e degli affari. E’ l’Africa dell’arte e della musica, delle città affollate, della lotta per la sopravvivenza e del turismo. È un mondo che sta vivendo delle trasformazioni enormi, sotto il profilo economico e sociale, le quali vanno analizzate attentamente e con cognizione di causa, per riuscire a comprendere i grandi mutamenti che attraversano il continente più antico del mondo.

Ho scelto di analizzare questa particolare regione dell’Africa a seguito del mio tirocinio svoltosi a Dar es Salaam, Tanzania, dal luglio all’agosto del 2013. Questa zona dell’Africa è la parte più povera del continente, quella che più spesso è stata attraversata da conflitti con effetti devastanti visibili ancora oggi. Se si esclude il Sudafrica, l’Africa subsahariana è sicuramente la regione del continente, se non del mondo intero, che necessita più urgentemente di aiuti, di piani di sviluppo adeguati e di studi attenti e oculati, al fine di comprenderne le mille realtà ed essere in grado di elaborare delle risposte efficaci e durature.

1www.worldhistory.net

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2. L’AFRICA SUBSAHARIANA

Popolazione totale: 910.4 milioni

PIL (in USD, metodo Atlas2): 1.288 trilioni RNL (in USD, metodo Atlas): 1,345

Popolazione urbana: 37% 3

Figura 1: Africa subsahariana, mappa politica (Fonte: www.worldmap.com)

2 Il metodo Atlas è un metodo utilizzato dalla Banca Mondiale per stimare la grandezza di

un’economia in termini di reddito nazionale lordo (in dollari statunitensi)

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Come possiamo osservare dalla figura n°1, L’Africa subsahariana è, geograficamente, quella regione africana che si trova sotto il deserto del Sahara. Politicamente, consiste in tutti quelle Nazioni che sono allocate interamente o

parzialmente sotto il deserto, escluso il Sudan4. A livello culturale è in contrasto

con l’Africa del Nord, la quale è considerata mondo arabo.

Essa si divide in Africa orientale (Tanzania, Kenya, Uganda, Ruanda, Burundi, Djibouti, Eritrea, Etiopia, Somalia, Mozambico, Madagascar, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Comoros, Mauritius, Seychelles, Réunion, Mayotte e sud Sudan), Africa occidentale ( i Paesi del Maghreb, Capo Verde, Mali, Burkina Faso, Benin, Cote d'Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Senegal, Sierra Leone, Togo, Nigeria e Niger), Africa centrale (Angola, Cameroon, Repubblica centrale Africana, Chad, Repubblica del Congo, Repubblica democratica del Congo, Guinea equatoriale, Gabon, São Tomé e Príncipe) e Africa del sud (Botswana, Lesotho, Namibia, Sudafrica e Swaziland).

La comunità scientifica mondiale concorda nell’attribuire a questa zona del continente africano la paternità dell’umanità.

Secondo i dati presenti sul sito5 della Banca Mondiale, nella regione dell’Africa

subsahariana, vive oltre il 12% della popolazione mondiale, il che significa all’incirca 900 milioni di persone, come possiamo vedere dal primo grafico. Nel periodo dal 2000 al 2007 c’è stata una crescita demografica impressionante: il tasso medio annuo si aggira intorno al 2.5 %, il quale rappresenta circa il doppio

della media mondiale6. Le Nazioni Unite calcolano che nel 2010 la popolazione

era di circa 863 milioni e che all’incirca nel 2025 raggiungerà quasi 1,2 miliardi di persone. A causa di questa enorme crescita demografica, la maggioranza della popolazione è costituita da giovanissimi: sempre nel rapporto del 2007, i giovani tra gli 0 e i 14 anni costituivano il 43% della popolazione, contro una media mondiale del 28%. La speranza di vita alla nascita, però, è ancora tra le più basse del mondo (circa 50 anni) e la mortalità infantile è molto elevata.

Nonostante l’ampiezza della regione, l’Africa subsahariana ha una densità media abbastanza bassa: si calcolano all’incirca 34 abitanti per Km2. Tuttavia ci sono notevoli differenza tra i vari Stati. Troviamo Nazioni piccolissime, sia per popolazione che per superficie (Swaziland, Lesotho), Nazioni enormi ma con

4 Classificato come Africa del nord dalle Nazioni Unite, 2010. 5

Vedi nota n° 3

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scarsa popolazione (Mozambico), e Stati sia molto estesi che molto popolati (Nigeria). Ci sono, infine, Nazioni talmente grandi che sia il controllo del territorio sia quello della popolazione diventa quasi impossibile (Repubblica democratica del Congo). Di fronte alla scarsa densità di popolazione nelle aree rurali, dovuta spesso al fatto che alcune zone sono difficilmente accessibili o quasi inabitabili, l’urbanizzazione cresce a livelli incredibili. Milioni di persone si spostano per abitare nelle immense baraccopoli delle grandi città, mentre altri flussi spingono l’emigrazione fuori dal continente, soprattutto verso l’Europa. Il futuro di queste popolazioni dell’Africa nera è cruciale per colmare l’enorme

dislivello che le divide dagli standard di benessere del mondo occidentale7.

I dati reperibili nella sezione “Regional Economic Reports” sul sito del Fondo

Monetario Internazionale (www.imf.org), aggiornati all’ottobre 2013, mostrano

come negli ultimi anni l’economia dell’Africa subsahariana si sia dimostrata abbastanza forte nonostante la crisi.

Sempre l’ FMI , nell’ultimo Regional Economic Outlook8 (maggio 2013), ha

affermato che l’economia della zona è cresciuta del 5%9 nel 2012 e ci si aspetta

un ulteriore crescita, anche se moderata, per l’annata 2013-2014.

Tuttavia l’FMI individuava due rischi che possono attentare alla crescita economica, provenienti sia dall’interno che dall’esterno.

I rischi esterni consistono principalmente nella possibilità di un ulteriore stagnazione economica mondiale, soprattutto nella zona dell’euro. Questo avrebbe effetti modesti ma persistenti, specialmente nelle Nazioni africane più integrate nel mercato mondiale. I rischi interni, invece, sarebbero quelli di cambiamenti climatici o conflitti locali.

Nonostante questi dati incoraggianti, la Banca Mondiale stima ancora che circa il 48,5% della popolazione nella zona vive con 1,25$ al giorno, mentre il 69,9%

vive con 2$10.

Come possiamo facilmente dedurre, il divario con i Paesi sviluppati è ancora ampio.

7 Ricordiamo che, a tutt’oggi, oltre un miliardo di persone vive sotto la soglia di povertà assoluta. 8

Per approfondimenti, consultare: http://www.imf.org/external/pubs/ft/reo/2013/afr/eng/sreo0513.pdf

9 Uniche eccezioni Nigeria e Sudafrica: le economie di questi Paesi, più forti e sviluppate, hanno

avuto un tasso di crescita dello 0.5.

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Per darci un’immagine del dislivello, possiamo comparare il reddito medio pro capite europeo con quello africano: il dislivello è in continua crescita se consideriamo che nel 1820 il rapporto era 3:1, mentre adesso si aggira intorno a 20:1.

Benché l’economia dell’area sia in crescita, le strutture statali, economiche e organizzative sono ancora troppo fragili e troppo problematiche per garantire uno sviluppo sicuro e continuo. Il continente dispone di ingenti risorse naturali, i cui ricavati, però, non vanno se non in minima parte alla popolazione locale.

L’economia dell’Africa subsahariana è ancora troppo dipendente dai Paesi esteri, soprattutto europei, per non risentire della situazione mondiale.

A seguito di queste considerazioni, diventa evidente che questa regione è una delle zone prioritarie di intervento per l’immenso meccanismo degli aiuti allo sviluppo internazionale. Istituzioni multilaterali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la FAO, l’agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, insieme anche a singoli Stati, organizzazioni non governative e fondazioni, si adoperano per la cancellazione di debiti e per crediti agevolati o donazioni.

Questi interventi internazionali, ovviamente, interagiscono con le politiche nazionali degli Stati riceventi, imponendo condizioni contrattate e diventando quindi spesso oggetto di controversie.

Gli aiuti ricevuti rappresentano una fonte molto importante di finanziamento per gli investimenti e per gli investimenti diretti esteri, concentrati soprattutto nel settore estrattivo.

Al giorno d’oggi, in termini sia di aiuti che di investimenti diretti esteri, in questa zona dell’Africa cresce la presenza di Cina, India e Brasile.

Ricordiamo però, che sull’efficacia degli aiuti a sostegno delle politiche per la riduzione della povertà, come sugli effetti che i flussi finanziari di tali aiuti hanno sugli equilibri politici o sulla stabilità macroeconomica degli Stati africani, è in corso un ampio dibattito, con voci contrastanti.

La Banca Mondiale stima il reddito dell’intera Africa subsahariana in circa 744

miliardi di dollari11. Si usa spesso fare il paragone con la Cina, visto il veloce

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Un paragone chi si usa spesso è quello con i Paesi Bassi: hanno un reddito medio di circa 750 miliardi ma una popolazione 50 volte più piccola. (World Bank, 2009)

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sviluppo degli ultimi anni: il reddito africano equivale a circa il 28% di quello cinese12.

Nei confronti diffusi dalla Banca mondiale, a parità di potere d’acquisto nel 2009 l’Africa subsahariana, pur ospitando, come già ripetuto, circa il 12% della popolazione mondiale, disponeva di poco più del 2% del reddito mondiale.

Nella classificazione a scala mondiale per fasce di reddito, sempre nel 2009 nessuno dei Paesi dell’Africa subsahariana era compreso nel gruppo a reddito alto. Solo 6 Paesi (Botswana, Gabon, Mauritius, Mayotte, Seychelles, Sudafrica) erano nel gruppo a medio reddito di fascia alta, e altri 8 (Angola, Camerun, Capo Verde, Repubblica del Congo, Lesotho, Namibia, Sudan, Swaziland) nel gruppo a reddito medio di fascia bassa. Il gruppo a reddito basso includeva ben 33 dei 47 Paesi

dell’Africa subsahariana (Benin, Burkina Faso, Burundi, Repubblica

Centrafricana, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Kenya, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Mozambico, Niger, Nigeria, Ruanda, São Tomé e Príncipe, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Tanzania, Togo, Uganda, Zambia, Zimbabwe).

In sintesi, sono davvero pochi gli Stati di questa regione che hanno un reddito pro capite che consenta, in condizioni di distribuzione del reddito non troppo squilibrate, di sollevare la popolazione da condizioni di povertà grave e diffusa. L’Africa di oggi è chiamata ad affrontare la grande sfida della crescita. Investimenti in capitale fisico e capitale umano, insieme a consistenti aumenti di produttività per sostenere più ampi flussi di produzione, sono le condizioni indispensabili per migliorare in modo diffuso i consumi e per far fronte all’aumento della popolazione.

Il problema non è solo la questione economica. In quest’area si riscontrano anche livelli bassissimi di sviluppo umano, che misura la qualità della vita considerando il PIL pro capite, il livello di istruzione e la speranza di vita alla nascita.

Secondo un rapporto della Banca Mondiale13, nel 2013 la speranza di vita alla

nascita è di circa 56 anni14. L’Africa è l’unico luogo al mondo nel quale la

speranza di vita alla nascita è in costante calo, dagli anni ’90 ad oggi15.

12 Per approfondimenti: “50 Factoids about Sub-Saharan African”, World Bank. 13

http://povertydata.worldbank.org/poverty/region/SSA

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Nell’ultimo rapporto (2013) sull’Indice di sviluppo umano pubblicato

dall’UNDP16, nessun Paese dell’Africa subsahariana (fatta eccezione per le isole

Seychelles, in penultima posizione) è presente nella classifica dei Paesi con un alto indice di sviluppo umano, mentre occupano quasi interamente la colonna dei Paesi con l’indice più basso.

15 Una delle ragioni principali è, ovviamente, l’epidemia di AIDS. Seguono poi la malaria, la febbre

gialla, la dissenteria e la tubercolosi.

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3. IL PERIODO DELL’IMPERIALISMO EUROPEO

Figura 2: Mappa politica degli imperi europei (Fonte: www.wikipedia.it)

Tra il XIX e il XX secolo, l’Africa subsahariana divenne il teatro della competizione tra le maggiori potenze imperialiste europee del tempo. Nel periodo della cosiddetta “corsa all’Africa” quasi tutti i Paesi di quest’area divennero, secondo vari gradi, parte dell’impero coloniale europeo. Nella figura n°2 possiamo vedere la spartizione del continente a opera dei Paesi europei.

Il Portogallo instaurò il suo primo insediamento fin dal XV secolo, nel sud del Mozambico e nell’oceano Indiano. I suoi possedimenti si ingrandirono fino a includere una zona che andava dal nord del Mozambico a Mombasa, nell’attuale Kenya. Sul lago Malawi, i portoghesi incontrarono l’appena nato possedimento

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britannico dello Nyasaland (oggi Malawi), circondato dall’omonimo lago del quale occuparono la costa orientale.

L’impero britannico mise piede nella regione più sfruttabile e promettente, occupando la zona che oggi corrisponde all’Uganda e al Kenya. Questi due Paesi si trovavano, e si trovano ancora, in un’area molto fertile, adatta sia per la coltivazione del caffè e del tè che per l’allevamento di animali domestici. Questa zona sembrava inoltre adeguata anche per l’insediamento residenziale dei numerosi britannici presenti nella regione. Grazie a queste caratteristiche, l’area venne trasformata in una colonia abitativa, fioritura di stile europeo.

I francesi si insediarono nella grande isola del Madagascar (la più grande dell’Oceano Indiano e la quarta nella classifica mondiale), occupando anche le isole limitrofe delle Comore e di Réunion. Il Madagascar divenne parte dell’impero francese dopo due campagne militari contro il suo Regno e dopo un accordo con gli inglesi: in cambio del Madagascar, i britannici ottennero Zanzibar e la costa del Tanganika, snodi di importanza focale per il commercio delle spezie. Gli inglesi ottennero inoltre l’arcipelago delle Seychelles e la fertile Mauritius, precedentemente sotto sovranità francese.

L’impero tedesco ottenne il controllo di una larga area denominata “Est Africa tedesca”, la quale comprendeva l’attuale Ruanda, Burundi e l’entroterra della Tanzania chiamato allora Tanganika. Nel 1922, gli Inglesi acquisirono il controllo del Tanganika, da amministrare fino alla sua indipendenza che sarebbe avvenuta nel 1961. Come conseguenza della rivoluzione a Zanzibar nel 1965, l’indipendente Stato del Tanganika formò la Repubblica unita della Tanzania, unendo l’entroterra a Zanzibar. Zanzibar è attualmente uno Stato semi autonomo federato all’entroterra e ai quali ci si riferisce comunemente con il nome di Tanzania.

L’Africa orientale tedesca, di notevole dimensioni, non era però così strategicamente importante come i possedimenti britannici del nord: l’insediamento in queste terre si rivelò difficile e limitato, soprattutto a causa delle condizioni climatiche e della conformazione geologica.

L’Italia acquisì una parte dei territori somali negli anni ’80 dell’800, dando a vita a quella che venne chiamata la Somalia Italiana. Allo stesso tempo, nel 1884, la

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fascia costiera somala cadde sotto il controllo britannico. Questo protettorato si trovava davanti la colonia inglese di Aden nella penisola Araba, consentendo così agli inglesi di controllare il passaggio marino che portava agli altri possedimenti britannici in India.

Nel 1890, con la scusa dell’acquisto di una piccola città portuale, Asseb, dal sultano locale, gli italiani colonizzarono tutta l’Eritrea. Cinque anni dopo, partendo dalle basi in Somalia ed Eritrea, l’Italia si imbarcò nella prima guerra Italo- Etiope contro l’impero ortodosso di Etiopia. Nel 1896, divenne evidente che la guerra si era rivelata un disastro totale per gli italiani, tanto che gli etiopi reclamarono la loro indipendenza. Riuscirono a rimanere indipendenti fino al 1936 quando, con la seconda guerra Italo- Abissina, l’Etiopia divenne parte dell’Africa orientale italiana. L’occupazione italiana durò fino al 1946 quando terminò grazie alla campagna africana orientale, durante la seconda guerra mondiale.

Anche la Francia riuscì a conquistare un avamposto nell’Africa orientale, per controllare la rotta verso l’Indocina francese. Partendo dal piccolo protettorato del Djibouti negli anni ’50 dell’’800, questo divenne nel 1897 il Somaliland francese.

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4. LA DECOLONIZZAZIONE E GLI EFFETTI DEL

COLONIALISMO

Gli anni della seconda guerra mondiale (1939- 1945) portarono a dei profondi mutamenti politici, sia nelle Nazioni colonizzatrici che in quelle colonizzate. Questi cambiamenti toccarono sensibilmente anche l’Africa, con radicali sconvolgimenti a livello sociale che portarono a una maggiore coscientizzazione. Innanzitutto, molti africani avevano partecipato alla guerra, come membri degli eserciti delle rispettive potenze coloniali, aiutandole nella lotta contro il nazifascismo in Europa e Asia. I morti che avevano subito e la tragedia in cui erano stati trascinati, li portò a chiedere qualcosa in cambio, come “riparazione” dei danni subiti.

In Europa avevano anche visto trionfare i modelli di democrazia e libertà, contro l’aggressore “straniero”, e questa nuova visione non poteva non influenzare e soprattutto fomentare il malcontento africano, che si trovava incastrato in una situazione ormai anacronistica.

La guerra, infine, aveva profondamente indebolito le potenze coloniali, stressate a livello economico e sociale da sei anni di duri combattimenti e troppo occupate a ricostruire se stesse per occuparsi di altri Paesi.

È importante sottolineare inoltre che nel 1941, W. Churchill e F. D. Roosevelt avevano formulato la Carta Atlantica, la quale enunciava il diritto di ogni popolo all’autodeterminazione, all’indipendenza rispetto alla dominazione straniera e alla possibilità di scegliere autonomamente il proprio regime politico.

La decade degli anni ’50 del ‘900 cominciò dunque con la spinta autonomistica delle popolazioni coloniali africane: i popoli indigeni reclamavano il diritto di essere indipendenti dalla madrepatria e di decidere del proprio destino, con insurrezioni e movimenti di protesta in cui si intrecciavano rivendicazioni politiche, economiche e sociali.

Le loro insurrezioni erano guidate dalle élite locali ma ad essi si affiancavano altri ceti sociali.

Innanzitutto c’era il ceto medio, formato da professionisti, imprenditori e agricoltori, i quali avevano accesso al mercato delle esportazioni. Essi provenivano dai ceti popolari neri, che avevano avuto una certa scolarizzazione ed

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erano riusciti ad affermarsi nella società delle colonie e rivendicavano la libertà politica ed economica.

C’erano poi i ceti popolari africani, i quali si ribellavano allo sfruttamento come manodopera a cui erano sottoposti dai colonizzatori europei e che li lasciava nella povertà.

In molti Paesi africani la ribellione fu guidata dai partiti politici che si inspiravano ai principi di un “socialismo africano”, il quale però si distingueva abbastanza nettamente dal socialismo di stampo occidentale.

In genere, i leader politici africani rappresentarono il socialismo soprattutto come rifiuto del sistema economico capitalistico portato dai colonizzatori, a favore del recupero di valori tradizionali africani come il senso della comunità o della famiglia o la dignità del lavoro agricolo.

Come ho già detto, le madrepatrie europee erano stremate dalla guerra. Davanti a questo ribollire di lotte, insurrezioni e perfino guerre, le ormai ex potenze colonizzatrici furono costrette, in tempi diversi, a concedere l’indipendenza a tutti i Paesi.

Tendenzialmente il processo di decolonizzazione si svolse seguendo due percorsi:

 Uno relativamente pacifico, tramite il passaggio di tutta la struttura amministrativa e militare dalle mani degli europei a quelle dei funzionari delle

élite africane europeizzate17.

 L’altro dopo lunghe lotte18, i quali videro grandi spargimenti di sangue

nell’opposizione tra le armate coloniali europee e i guerriglieri africani che erano passati all’aperta ribellione contro il colonialismo, i quali spesso operarono scelte di tipo marxista-leninista ed erano attivamente sostenuti dai Paesi socialisti.

Le colonie divennero quindi Stati indipendenti, con strutture politiche ed economiche governate da un ceto dirigente indigeno europeizzato. Era così avvenuta la decolonizzazione, cioè la fine degli imperi coloniali, poiché la madrepatria riconosceva l’indipendenza alle colonie.

17 Generalmente, fu la strada intrapresa dal governo britannico. 18

Uno degli esempi più eclatanti è sicuramente la guerra d’Algeria contro la Francia, dal 1954 al 1962.

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Ottenuta l'indipendenza, però, i problemi non finirono. I Paesi presentavano profondi problemi interni, nella quasi totalità ereditati dall’epoca dello sfruttamento coloniale.

C’erano soprattutto forti disuguaglianze sociali: accanto alla minoranza costituita dall’élite europeizzata, esisteva una enorme massa povera e analfabeta di contadini nelle zone rurali poco sviluppate. Essi conoscevano solo le strutture tradizionali , come la famiglia patriarcale, la tribù e il gruppo religioso, e avevano poche, se non nulle, possibilità di ascesa sociale. Con lo sviluppo urbano, poi, i contadini emigrati in città diventarono solo manodopera operaia malpagata alle dipendenze delle grandi imprese. Nacquero le immense slum africane, dove le persone sopravvivevano in condizioni disastrose. Le masse povere africane sopravvivono tuttora in una misera condizione di povertà, fame, malattie e sovraffollamento, subendo gli effetti della mancanza di adeguate strutture sanitarie e scolastiche.

Un altro dei grandi problemi lasciato dalle madrepatrie era l’arretratezza

economica. Il livello di scolarizzazione della popolazione era, ed è, mediamente

bassissimo. Ciò porta all'arretratezza tecnica ed industriale, con un grande dispendio di lavoro ma una bassa produttività, e alla difficoltà ad organizzare una economia moderna. Quindi l'economia è rimasta debole e basata perlopiù sullo sfruttamento delle risorse agricole e minerarie, destinate all’esportazione (come ai tempi del colonialismo). Inoltre gli utili di piantagioni, miniere e imprese industriali vanno a una limitata élite di privilegiati che tesaurizza la ricchezza e alle grandi imprese straniere (perlopiù quelle delle ex potenze colonizzatrici, che possiedono le risorse africane dal tempo del colonialismo). Ciò ovviamente ostacola il pieno sviluppo dell’economia africana in ogni settore e il raggiungimento di un dignitoso tenore di vita per la popolazione.

C’erano poi le tensioni interne a carattere etnico. I nuovi stati africani avevano ereditato dal colonialismo anche i propri confini, disegnati casualmente da diplomatici europei che avevano tracciato linee di confine tra le loro colonie, senza avere nessun’idea dell’effettiva situazione socio- culturale dei loro possedimenti. Ciò portava una mancanza di unità etnica e politica nei nuovi stati: spesso entro i confini di un paese erano compresi molte etnie diverse tra loro, divise da antichi odi tribali. Spesso parlavano lingue diverse e avevano culture e

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religioni diverse. Per questi motivi esplosero quasi ovunque feroci lotte tra fazioni, tribù e regioni e numerose crisi interne e internazionali.

I nuovi stati, quindi, avevano una grande vulnerabilità politica ed economica al quale si univano continui problemi interni.

Il bisogno, reale o immaginario, di prevenire la disintegrazione dei nuovi stati rafforzando l’autorità centrale spinse la classe dirigente indigena a organizzare forme di governo fortemente autoritarie: apparvero governi a partito unico o addirittura regimi militari, dominati da figure tiranniche. Questi governi, tuttavia, si dimostrarono completamente inefficienti: caratterizzati dalla cattiva applicazione delle leggi, dalla corruzione e dalla violenza usata per eliminare gli oppositori, non riuscirono a produrre nessun miglioramento a livello sociale o economico.

Questi governi dittatoriali si mantenevano al potere grazie all’importante appoggio delle imprese straniere appartenenti alle ex potenze colonizzatrici dell’Africa o anche alle due superpotenze , Usa e Urss, emerse dopo la Seconda Guerra Mondiale. In cambio dei loro “aiuti” i governi africani concedevano alle potenze straniere il permesso di continuare a sfruttare le risorse africane a proprio vantaggio.

I nuovi stati indipendenti africani diventarono quindi legati alle grandi potenze europee , spesso le stesse che le avevano colonizzate, dalla sudditanza politica ed economica, in un mondo in cui attualmente i rapporti economici e politici si facevano sempre più complessi e articolati.

Si tratta, in un certo senso, di una diversa forma di colonizzazione: è una dipendenza economica, culturale, sociale e politica dei Paesi africani dalle potenze economiche, che ha dato luogo al cosiddetto neocolonialismo.

Esaminando l’eredità coloniale nella formazione dello Stato nazionale in Africa, un’ampia letteratura ha posto l’enfasi sulla fragilità degli Stati nati dopo l’indipendenza, e sui comportamenti ‘predatori’ diffusi tra le dirigenze politiche

che vi si sono affermate19.

Questi Stati, senza forti radici storiche, eredi delle strutture istituzionali corrispondenti alle arbitrarie divisioni territoriali di matrice coloniale, si sono consolidati con difficoltà e tra stridenti contraddizioni. In alcuni di essi vi è un

19 Carbone, 2005.

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problema aperto di legittimità e autorevolezza del potere pubblico, e della sua effettiva capacità di controllo sul territorio.

Dal punto di vista politico, quindi, l’Africa subsahariana non è un’unità politica. Non si tratta né di una federazione di Stati né di un’unione politica sovranazionale. L’area è stata attraversata, e lo è ancora, da idee panafricanistiche che hanno fomentato movimenti politici nazionali o addirittura in tutto il continente. L’idea di guardare a questa zona come a un tutt’uno, quindi, non rispecchia tanto la realtà quanto una speranza di una futura cooperazione e integrazione, che porti a livello internazionale un’identità e una voce comune. La zona non è comunque priva di accordi di cambio, accordi doganali e anche

organismi di promozione allo sviluppo su base regionale.20

A fronte di questi abbozzi di accordi, va però detto che l’integrazione delle economie è ancora limitata. Barriere burocratiche e doganali poste lungo i confini rendono difficile la creazione di un vero e proprio mercato regionale anche se, tendenzialmente, non impediscono il movimento di persone, sia come migrazioni interne sia come traffici internazionali illegali.

L’obiettivo dell’integrazione resta comunque di primario rilievo per superare la frammentazione politica e promuovere la stabilità e la crescita economica nella regione.

Recentemente, in alcuni stati africani, stanno iniziando lenti e difficili processi di sviluppo economico e democratizzazione della vita politica, tramite diverse strade:

 Molte organizzazioni umanitarie internazionali (talora spalleggiate dai governi africani) stanno aiutando le masse popolari locali a porre le basi per un miglioramento del tenore di vita. Esse procedono a realizzare infrastrutture sanitarie e scolastiche e ad aiutare le popolazioni ad avviare piccole imprese economiche per il proprio sostentamento.

 Le classi dirigenti dei paesi africani stanno iniziando a organizzare governi democratici, spesso, però, non pienamente realizzati.

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 Inoltre esse stanno tentando di stipulare accordi con le imprese straniere che possano limitare uno sfruttamento indiscriminato delle risorse africane a vantaggio delle potenze economiche e possano garantire un miglioramento delle condizioni economiche per le popolazioni africane.

 Le popolazioni africane, dal canto loro, stanno cercando di divenire capaci di governarsi autonomamente e di migliorare le proprie condizioni economiche. Esse stanno anche cercando di trasformare i propri rapporti con le potenze economiche, cercando di rapportarsi con loro alla pari e non in condizioni di sudditanza.

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5. I

PROBLEMI

ODIERNI

DELL’AFRICA

SUBSAHARIANA

Come abbiamo potuto constatare dalle pagine precedenti, quindi, l’Africa Subsahariana presenta una serie di problemi strutturali che la rendono una delle aree più povere del mondo.

Ma a cosa sono dovuti i problemi africani?

Senza dubbio, come ho già ripetuto, i problemi principali derivano dagli effetti della decolonizzazione. Questi hanno lasciato una pesante eredità sui Paesi africani e in particolare:

 Conflitti: questi derivarono inizialmente dall’eredità dei confini coloniali. Ignari diplomatici europei tracciarono i confini delle proprie colonie secondo accordi politici, senza badare alle differenze etniche, tribali, religiose e linguistiche. Una volta che la madrepatria abbandonò il Paese, questi confini vennero mantenuti, scatenando spesso feroci guerre intra etniche per l’identità e i territori. Le guerre non solo hanno spazzato via intere generazioni ma hanno avuto l’effetto di bloccare l’economia, affondando sempre di più i Paesi nella povertà. I conflitti vennero causati anche dalla lotta per il potere di una tribù o di una classe politica,

spesso europeizzata, contro i poteri locali21. Le migrazioni che seguirono le

guerre, trascinarono le loro conseguenze anche in Paesi che non ne era stati direttamente colpiti. Le economie dei Paesi ospitanti risentirono pesantemente degli effetti migratori, in quanto i mercati non erano in grado di assorbire quel “surplus” di persone.

 Problemi infrastrutturali: la maggior parte delle infrastrutture venne realizzata durante il periodo coloniale, con obiettivi spesso indipendenti dalle reali necessità

21 Leggermente diversa è la causa che scatenò il conflitto tra Ruanda e Burundi (1990-1993). Il

predominio dell’etnia Tutsi, voluta dalla colonizzazione belga, scatenò il malcontento e la rabbia della maggioranza Hutu.

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del Paese e del suo sviluppo. Le lacune si presentano in molti settori: ferroviario,

stradale, telecomunicazioni, sistema idrico e elettrico22.

 Conformazione geografica: Le barriere geografiche ( il più grande e caldo deserto e la seconda più grande foresta tropicale del mondo sono in Africa) spesso impediscono il libero movimento di beni e servizi. Anche i fiumi, tranne poche eccezioni come il Nilo, non permettono una buona penetrazione verso l’interno. La mancanza di strade asfaltate di grande percorrenza e la presenza di piste inaffidabili durante la stagione delle piogge, sono altri fattori che frenano la crescita. Inoltre, molte nazioni sono lontane dai porti marini, con conseguenti alti costi di trasporto dei beni producibili localmente.

Problemi sanitari: Uno dei drammi che colpiscono i Paesi africani è la

vastità dell’infezione HIV/AIDS, la difficoltà di superare il problema posto da malaria e tubercolosi, la poca disponibilità di personale medico ed infermieristico preparato al di fuori delle grandi zone urbane. La malaria continua ad essere la singola causa più alta di morte nelle zone subsahariane, specialmente per i

bambini sotto i 5 anni di età.Pochi paesi africani possono permettersi di fornire

gratuitamente medicine antiretrovirali per combattere l’HIV/AIDS, e quelli che lo fanno devono dedicare quasi tutto il bilancio sanitario a questo programma, con gravi conseguenze per gli altri settori. La produzione di medicine generiche è ancora lontana dal sopperire al mercato interno, mentre molte medicine necessarie a contenere le malattie più gravi devono essere importate o prodotte sotto licenza, con conseguenti alti costi per la popolazione locale.

Ovviamente le conseguenze di questa realtà sono molto profonde. Come già ripetuto, il livello di qualità della vita è bassissimo. A parte alcune eccezioni, come il Sud Africa, alcune isole turistiche e alcune zone del Maghreb, i Paesi africani si trovano generalmente alle ultime posizioni rispetti ai parametri di mortalità infantile, aspettativa di vita, alfabetizzazione e istruzione.

22

Come esempio, basti pensare che fino a pochi anni fa le telefonate tra Ghana e Costa d’Avorio, confinanti, dovevano passare attraverso server inglesi o francesi.

(20)

20

A causa dell’eredità del colonialismo e della diffusa corruzione politica, si osserva spesso una mancanza di correlazione tra la ricchezza di un Paese e la qualità di vita dei suoi abitanti, nonché un enorme divario tra la ricchissima minoranza

dell’élite e la povertà delle masse23. La debolezza del sistema economico, inoltre,

fa si che si assista a fenomeni di iperinflazione24, come è successo per esempio in

Zimbabwe25.

I bassi livelli di alfabetizzazione e di istruzione scolastica, perpetuano in Africa il problema della mancanza di professionisti qualificati in settori chiave (tecnologia, economia, sanità etc..) e aumentano la dipendenza culturale dell’Africa dall’Europa. I pochi africani che si possono permettere di studiare, generalmente scelgono di trasferirsi in Europa o Stati Uniti per gli studi universitari e per lavorare, lasciando così il vuoto nelle strutture professionali.

Il tasso di disoccupazione è molto elevato, anche se per molti Paesi mancano stime precise. Un chiaro segnale, comunque, è dato dalle immense baraccopoli che circondano le grandi città africane, abitate prevalentemente da disoccupati o sotto occupati.

23 Pensiamo all’Angola: nonostante sia ricchissima di diamanti, la sua popolazione, per la

stragrande maggioranza, non ne beneficia né in maniera diretta né indiretta.

24

L'iperinflazione è un fenomeno monetario, per il quale l'inflazione di un paese eccede significativamente i livelli medi mondiali. Generalmente si parla di iperinflazione quando l'inflazione mensile eccede il 50%, ossia più dell'1% al giorno.

25

L'iperinflazione nello Zimbabwe persevera dai primi anni 2000, poco dopo la confisca dei terreni agricoli posseduti dai bianchi e il ripudio dei debiti nei confronti del Fondo Monetario Internazionale. Per cercare di stabilizzare l'economia, nell'aprile 2009 il governo ha smesso di stampare dollari zimbabwiani adottando come valute di riferimento il rand sudafricano e il dollaro statunitense. La situazione, a giugno 2011, è rimasta invariata.

(21)

21

6. SETTORI ECONOMICI

Per quanto riguarda l’economia, tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., l’Africa subsahariana è cresciuta poco o comunque non abbastanza da risolvere realmente i problemi, rimanendo indietro rispetto ad altre regioni in via di sviluppo.

Il suo potenziale di crescita non è stato praticamente sfruttato, e la sua posizione relativa è rimasta stagnante o è peggiorata.

Nei vent’anni tra il 1975 e il 1995, l’andamento del PIL è stato irregolare, con fasi di crescita e di declino. Il PIL pro capite è invece diminuito costantemente, e in modo significativo: nella prima metà degli anni ‘80 e nella prima metà degli anni ‘90 a un tasso medio annuo dell’1,6%, mentre nella seconda metà degli anni ‘80

scendeva a un ritmo più contenuto26.

La tendenza si è invertita nella seconda metà degli anni ’90: tra il 2000 e il 2003 il PIL complessivo della regione è cresciuto a un tasso medio annuo del 4% circa, e nel biennio 2004-2006 a uno del 6%, mentre il PIL pro capite saliva a un tasso del 4%. Secondo le stime della Banca mondiale, nell’intero periodo 2000-2007 il PIL della regione sarebbe aumentato in media del 5% all’anno, un tasso inferiore a quelli dell’Asia sud-orientale e di poco superiore a quello, modesto, del Sud America.

L’africa, nonostante tutto e quindi quasi paradossalmente, è un continente ricco in risorse naturali. I settori economici principali sono:

Agricolo – si stima che circa il 60% dei lavoratori africani sia impiegata in questo

settore. I tre quinti si occupano di coltivazioni famigliari: hanno quindi produzioni limitate che arrivano a soddisfare a malapena il fabbisogno del nucleo famigliare. Generalmente usano tecniche desuete per il mondo occidentale, e poco efficaci, le quali non permettono accumulo di capitale da poter reinvestire. Le fattorie più grandi investono in prodotti per l’esportazione, come caffè, cotone, cacao, tè e gomma, ma raramente si occupano di sfamare il fabbisogno interno. Più volte si è assistito, infatti, al paradosso di Paesi in preda alla fame ma che esportavano prodotti agricoli all’estero. Queste fattorie, inoltre, sono spesso in mano ad aziende o compagnie straniere, soprattutto europee e cinesi. L’agricoltura di medie dimensioni è quasi completamente assente.

26 Arbache, Page, 2008.

(22)

22

Settore minerario – il continente esporta grandi quantità di minerali e petrolio, le

due produzioni con il più alto coefficiente di ritorno finanziario. In Africa australe e occidentale, sono presenti grandi giacimenti di oro, diamanti e rame. Essendo un continente molto antico, in Africa si trovano grandi pozzi di petrolio. Questo è presente nella fascia saheliana, in Nigeria, lungo le coste occidentali, in Egitto, Libia del nord e sud Sudan. Si può inoltre trovare nel nord e sulle coste del Kenya e lungo la Rift Valley al confine tra Uganda e Repubblica Democratica del Congo. Attualmente, stanno cercando di capire se altri giacimenti sono presenti lungo le coste somale. Il Congo è anche ricco di coltan, un minerale fondamentale per la produzione di chip tecnologici, e dal potenziale economico molto alto. Infine, sono molti i depositi di ferro, bauxite, rame, carbone, titanio, uranio e altri minerali non ancora sfruttati.

Settore manifatturiero – l’Africa è il continente meno industrializzato del

mondo. Se si eliminano il Sudafrica, l’Egitto e i paesi del Maghreb (che generalmente presentano una struttura industriale adatta ai mercati), l’industria è praticamente assente in tutto il continente. Solo il Kenya e la Nigeria presentano una produzione e livello regionale. Tutti gli altri paesi hanno impianti industriali generalmente vecchi e adatti per lo più alla produzione locale, solitamente sotto contratto di licenza da aziende straniere. Sono molti i processi industriali inquinanti (la preparazione dell’alluminio in Mozambico, del titanio in Kenya o il caso del delta del Niger) che vengono fatti in Africa, con esportazione e lavorazione del prodotto finito in altri continenti. Il settore occupa circa il 15% della forza lavoro a livello continentale.

Settore finanziario - In tutti i paesi subsahariani il settore finanziario è dominato

da istituti multinazionali. Banche e istituti finanziari locali sono considerati poco attendibili, instabili e in genere insolvibili in caso di crisi economica. Le industrie e le compagnie investitrici si appoggiano solitamente su banche internazionali, e con conti in valuta estera. L’euro sta prendendo il posto del dollaro statunitense in molte transazioni ma il dollaro rimane la divisa di riferimento per le agenzie dell’ONU. I capitali africani vengono investiti per il 60% nel continente e per il

40% all’estero. Tra le divise locali, il Franco Centro Africano27 è legato all’euro,

(23)

23

il rand sudafricano è riconosciuto internazionalmente mentre le altre monete hanno valore solo locale.

In questo panorama, sono due le “grandi economie” del continente: il Sudafrica e la Nigeria.

Nel 2007, questi due Paesi contribuivano insieme al 54% del reddito della

regione28 mentre i loro cittadini rappresentavano quasi un quarto della

popolazione.

Come già detto, la Nigeria rappresenta un Paese molto esteso e popolato: la sua ricchezza deriva principalmente dalle rendite petrolifere ma il reddito pro capite è di soli 930 $, quasi nella media della regione.

Il Sudafrica, invece, è considerato da molti il Paese leader, non solo di quest’area, ma in grado forse anche di trainare l’intero continente. Il suo settore finanziario, decisamente avanzato rispetto alla media dell’area, svolge una funzione di servizio per gli altri Paesi africani, con un importante ruolo di intermediazione nel convogliare gli investimenti esteri diretti nel continente. Il suo reddito pro capite è di 5760$, comparabile a quello del Brasile e non distante da quello della Romania. Il settore agricolo e quello turistico sono molto sviluppati.

Questa “infarinatura” generale della situazione economica dell’Africa subsahariana mostra un quadro non chiaro.

Paesi tra i più poveri del mondo, incastrati in un circolo di povertà e conflitti, convivono fianco a fianco con Paesi che stanno facendo sforzi enormi per sollevarsi, riuscendoci, anche se lentamente.

Molti economisti hanno definito la decade degli anni ’90 “la tragedia della crescita africana”, soprattutto se paragonata all’incredibile e quasi repentino sviluppo dei Paesi del sud-est asiatico. Ci si chiede se la crescita di alcuni Paesi, come il Sudafrica, saranno in grado di risollevare anche i vicini.

Come già detto, sono state invocate molto cause per il sottosviluppo: le malattie, la posizione geografica ‘chiusa’ di molti Stati, la varietà di culture e lingue, che porta alla frammentazione etnica, addirittura il clima, i problemi storici.

Sono state avanzate diverse proposte per cercare una soluzione alla povertà africana. Si è pensato allo sviluppo dell’agricoltura commerciale, al turismo, alla

(24)

24

specializzazione manifatturiera per le esportazioni e all’opzione estrattiva. Nonostante un generale anche se lento miglioramento dei livelli di istruzione, le economie dei Paesi africani soffrono di persistenti svantaggi, se comparate alle economie degli altri Paesi emergenti, dovuti alla carenza di infrastrutture e delle reti di trasporto e un ancora basso livello di formazione della forza lavoro.

Mancano gli imprenditori e soprattutto l’esperienza imprenditoriale, manca l’affidabilità nell’erogazione di energia, e questo comporta un vincolo per lo sviluppo dell’attività manifatturiera.

Nonostante la potenziale ricchezza che rappresentano, le esportazioni petrolifere non sono in crescita e non portano un’effettiva ricchezza alle popolazioni.

La bilancia commerciale, globalmente migliorata tra il 1995 e il 2005 grazie alle

esportazioni di petrolio e gas, è però peggiorata al netto di questi prodotti29.

La quota dell’Africa subsahariana sul commercio mondiale è in declino, nonostante la ripresa della crescita. Al di là di poche realtà circoscritte (come il settore tessile in Kenya, Sudafrica o Lesotho), la specializzazione manifatturiera non esiste.

Oltre le difficoltà incontrate dai Paesi senza accesso al mare30, molti altri Stati

della regione sono svantaggiati nell’accesso ai mercati internazionali. Le cause sono soprattutto economiche e politiche, oltre che geografiche.

Questi Paesi hanno generalmente bassa densità di attività economica, un ambiente non favorevole alle iniziative imprenditoriali, hanno costi elevati a causa delle infrastrutture inadeguate e fragili, ed elevati costi addizionali, dovuti ai lunghi

tempi burocratici necessari per effettuare i passaggi delle merci alle frontiere31.

Per queste ragioni, i Paesi africani sono svantaggiati rispetto ai potenziali concorrenti: oltre l’eventuale distanza geografica, presentano anche maggiori costi di trasporto, divisioni territoriali, procedure burocratiche o costi di corruzione nelle operazioni doganali o anche vere e proprie barriere doganali.

Ancora una volta, resta un’eccezione: il Sudafrica. Sono un po’ meno sfavoriti anche i Paesi della fascia costiera tra l’Oceano Atlantico e il Golfo di Guinea, oltre che al Kenya e alla Namibia.

29 Kaplinsky, Morris 2008. 30

Tolte alcune eccezioni, come per esempio l’Austria e la Svizzera, solitamente i Paesi senza sbocco sul mare sono Paesi sottosviluppati.

31 Secondo uno studio della Banca Mondiale del 2009, è stato calcolato che per tali passaggi sono

necessari circa 10 giorni nella media dell’area OECD, ma 78 in Ciad, 64 in Angola, 53 in Zambia, 47 in Ruanda e in Burundi.

(25)

25

Se comparati con i Paesi asiatici, le Nazioni dell’Africa subsahariana sono ostacolate, per le ragioni viste, nello sviluppo dell’agricoltura commerciale e della

lavorazione manifatturiera32.

Una possibile via di uscita da questa situazione, potrebbe essere rappresentata dallo sfruttamento delle risorse minerarie. Questo richiede investimenti concentrati, contrattati con le imprese multinazionali, ma è potenzialmente molto redditizio e apparentemente di più facile realizzazione rispetto all’agricoltura commerciale e all’industria manifatturiera (la quale richiederebbe la maturazione di un’imprenditoria locale, tecnologie adatte, mano d’opera qualificata).

I Paesi che posseggono petrolio o risorse minerarie potrebbero arricchirsi notevolmente se riuscissero a sfruttarle appieno ma le varie strade che hanno

percorso dopo l’indipendenza hanno avuto a volte esiti tragici33.

Molto spesso, questi Paesi hanno subito devastanti guerre civili. I movimenti di ribellione hanno cercato di impossessarsi in modo violento delle risorse disponibili, al fine di finanziare l’insurrezione armata. Lo Stato centrale è spesso caduto nelle mani di dirigenti che consolidavano il potere e le proprie ricchezze grazie alle rendite dei prodotti minerali, senza preoccuparsi minimamente delle popolazioni e del loro sviluppo.

Alcune economie della regione, tuttavia, sono riuscite a crescere grazie ai profitti generati dalle risorse minerarie e agli investimenti che hanno permesso.

Il Botswana, per esempio, uno Stato piccolo e con poca popolazione, è riuscito a svilupparsi grazie alle rendite delle risorse diamantifere.

L’Angola, anch’essa ricca di diamanti, è infine uscita dalla devastante guerra civile mentre la Sierra Leone sta avviando un processo di consolidamento democratico.

In queste economie fondate sulle risorse minerarie, tuttavia, rimane un forte dualismo tra il settore estrattivo e l’economia delle terre circostanti, spesso basata ancora sulla piccola agricoltura e le tecnologie tradizionali.

Le popolazioni locali spesso insorgono, sentendosi derubate del proprio territorio, e spesso purtroppo il conflitto diventa nazionale o anche internazionale.

32

Collier, Venables 2007.

33

Paesi comel’Angola, la Repubblica Democratica del Congo e la Sierra Leone, ricchi di diamanti e petrolio, sono stati devastati da conflitti per il controllo delle risorse.

(26)

26

Anche se a volte i giacimenti sono di facile accesso, non è sempre semplice controllarne l’accesso. Spesso questi sono controllati da organizzazioni criminali, anche transnazionali, in competizione con lo Stato e le imprese straniere.

Nel caso di giacimenti petroliferi, questi sono quasi sempre gestiti da imprese multinazionali. I capitali sono esteri, così come le tecnologie e i tecnici, i quali vivono in delle enclave protette.

Il reddito di quest’industria, in ogni caso, non va alle popolazioni locali, le quali però subiscono tutti i danni e l’inquinamento. Inoltre, l’industria petrolifera genera valore aggiunto in dipendenza dal prezzo internazionale del petrolio, ed è soggetta a fluttuazioni delle rendite dalle quali dipende il reddito nazionale.

Alla luce di queste considerazioni, tuttavia, va ribadito che la specializzazione nelle risorse energetiche rimane una della possibilità fondamentali per lo sviluppo dei Paesi dell’Africa subsahariana.

Grazie all’imponente sviluppo dei mercati asiatici, del loro bisogno di materie prime e delle politiche espansive della Cina nel continente africano, i governi locali cercano di andare in questa direzione nel tentativo di creare nuovo reddito. La Cina sta infatti pesantemente investendo in questi Paesi, nel tentativo di assicurarsi flussi di rifornimenti energetici e minerari, contraccambiando con la creazioni di reti viarie o oltre opere. Il problema principale, qui, sarebbe che le massicce esportazioni manifatturiere cinesi a basso costo potrebbero finire per

soffocare la produzione locale africana34.

I Paesi di questa regione non riescono a specializzarsi nei settori manifatturieri per l’esportazione, che sono stati il volano della crescita per altri Paesi emergenti, proprio perché gli spazi di mercato sono già occupati dalle economie più dinamiche dell’Asia o dell’America Latina. Esiste anche la paura che la Cina, nella speranza di assicurarsi definitivamente le risorse, sostenga regimi dittatoriali e devastanti per i Paesi africani, finendo per affossare sempre di più le economie locali35.

Bisogna inoltre ripetere che grava sul futuro dell’intera economia africana la svolta negativa impressa alla crescita dalla crisi finanziaria internazionale. Le economie africane, e non soltanto quelle più fragili, sono esposte alla perdita di valore delle loro esportazioni petrolifere e minerarie, alla contrazione degli

34

Kaplinsky, Morris 2008

(27)

27

investimenti diretti esteri per la crisi internazionale di liquidità, alla flessione del mercato turistico o della domanda di prodotti primari. Soffrono, a breve termine, anche il rischio della riduzione nei flussi d’aiuto, per le risorse finanziarie inevitabilmente più ridotte nei Paesi donatori.

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28

7. IL MICROCREDITO IN AFRICA

Secondo i dati reperibili sul sito della Grameen Bank36, a livello mondiale, dal

2002 al 2012 il numero di individui ai quali sono stati erogati prestiti è salito da circa 2 milioni a più di 6.

Osservando anche gli altri dati, è facile notare come ci sia stata un’espansione dei servizi di microcredito in tutto il mondo.

Ovviamente, questi dati non bastano da soli anche per spiegare la situazione e l’evoluzione della microfinanza nel continente africano.

Il report del 2010 del MIX Microfinance world37, sull’Africa subsahariana, si

dimostra ottimista rispetto sia a una generale crescita economica, sia rispetto ai servizi di microcredito.

Per le annate 2007-2009, il MIX sostiene che l’Africa subsahariana ha avuto la crescita più stabile di tutte le regioni a livello mondiale per il numero di prestiti erogati. Questo, sostiene il documento, è spiegabile in parte con il relativo isolamento di molti Paesi del continente dai mercati internazionali, il quale li avrebbe protetti dalle fluttuazioni economiche mondiali.

Nel periodo considerato, il numero di individui che hanno avuto accesso al credito è aumentato di 20.000 unità, soprattutto nell’Africa orientale.

La crescita maggiore si è concentrata in cinque mercati (Sudafrica, Camerun, Nigeria, Uganda e Kenya), dove il tasso si crescita ha superato il 20% annuo raggiungendo il massimo con il 36% del Kenya.

Le banche sono state i maggiori testimoni di questa crescita mentre per gli istituti finanziari (non banche) la crescita maggiore è avvenuta soprattutto in Etiopia e Kenya dove , nel solo 2009, hanno raggiunto altri 375.000 individui.

Tuttavia la crescita di poche istituzioni, banche e non, non riesce a far fronte alla maggioranza dei molti enti che stanno ancora vivendo uno sviluppo abbastanza lento.

Il 40% delle cooperative finanziarie e delle cooperative di credito, hanno subito una contrazione nel numero di prestiti. Anche la metà delle ONG sembra subire la stessa sorte38.

36

Per approfondimenti: http://www.grameen-info.org/index

(29)

29

Questo potrebbe essere spiegato con il fatto che le piccole istituzioni non hanno i mezzi per far fronte alla crisi finanziaria e ai cambiamenti economici oppure che il loro target di clienti è stato quello più colpito dalla crisi economica.

Lo studio del MIX si basa sui report ricevuti da 34 istituzioni di microfinanza di 21 Paesi dell’Africa subsahariana, le quali coprono 2,3 milioni di individui. L’aspetto positivo sembra essere la sempre maggiore attenzione che viene posta verso gli aspetti sociali, e non solo finanziari, dei propri clienti. Anche se ancora non sembra esserci una definizione precisa di questi indicatori sociali, le politiche attente a questi aspetti stanno aumentando.

In ogni caso, possiamo dire che gli ultimi vent’anni hanno visto notevoli sviluppi per quanto riguarda la conoscenza e l’avanzamento dei servizi finanziari per lo sviluppo e lo sradicamento della povertà.

Questi servizi finanziari includono il risparmio, l’accesso al credito, l’avvio di piccoli business, con la possibilità di allargare i benefici alla comunità anche grazie al supporto delle politiche locali.

Tuttavia, nonostante i dati incoraggianti, le piccole imprese e la maggioranza della popolazione, povera, dell’Africa subsahariana, ha un accesso molto limitato al credito, ai depositi, ed altri servizi finanziari generalmente forniti dagli istituti finanziari39 .

Questa mancanza di accesso al credito porta alla stagnazione di una situazione drammatica, considerando che la maggioranza della popolazione di questa regione è povera e che il settore informale è una parte molto importante dell’economia.

Il micro credito non è una panacea per la povertà e per i cambiamenti sociali a essa collegata ma piuttosto un importante strumento per la lotta contro la povertà. La povertà è un problema multi dimensionale, incorporato in un complesso e intrecciato sistema politico, economico, culturale ed ecologico.

Data questa complessità, non esiste un singolo approccio in grado di garantire il suo sradicamento: dentro questo sistema, le soluzioni sono numerose tanto quanto le cause. Per questo, cause e soluzioni, non possono essere considerate come fenomeni a se stanti ma vanno viste come un sistema interconnesso, dove attori ed azioni hanno reciproche conseguenze.

38 Escluse alcune eccezioni in Nigeria, Tanzania e Uganda.

39

Come esempio: in Ghana e in Tanzania solamente il 5-6 % della popolazione può accedere al credito.

(30)

30

Considerando ciò, lo sradicamento della povertà è una missione complessa che richiede impegno, cooperazione e coesione a tutti i livelli dello sviluppo i quali includono: individuale, famigliare, comunitario, nazionale e globale.

Anche se la micro finanza da sola non porta strade, abitazioni, rete idrica, educazione e servizi sanitari, può comunque giocare un ruolo molto importante nel rendere questi servizi possibili.

È stato detto che uno dei contributi maggiori della micro finanza potrebbe essere quello di “legittimazione” delle persone, nel senso di dare loro autostima, fiducia in se stessi e la possibilità di attuare i loro obiettivi, portando il miglioramento degli standard di vita da un livello micro, quindi individuale, a un livello macro, comunitario.

Il micro credito, potenzialmente, potrebbe offrire numerosi benefici alle popolazioni africane.

Innanzitutto, potrebbe veramente alleviare la povertà materiale, la deprivazione fisica di beni e servizi, riuscendo a creare reddito. Se guidate propriamente, i benefici del micro credito possono essere estesi dalle famiglie alle intere comunità locali.

A livello personale, potrebbe attenuare anche i problemi derivati dalla povertà non materiale, che riguarda la frustrazione delle persone davanti l’impossibilità di realizzare le proprie potenzialità.

La crescita economica dell’Africa subsahariana, nei tre decenni passati, è stata spesso affiancata alla necessità di risparmio e investimento.

Effettivamente, diversi studi dimostrano come la lentezza della crescita africana sia dovuta principalmente all’impossibilità di accumulare capitale.

Per misurare l’importanza di questa affermazione, possiamo valutare tre aspetti:

 L’Africa rimane indietro rispetto ad altre regioni con una struttura e dimensione simile. Negli anni ’80, per esempio, il tasso di risparmio personale si aggirava intorno all’8% mentre, nello stesso periodo, nel sud est asiatico e soprattutto in Corea del sud, Taiwan e Singapore, il tasso andava dal 23 al 35%.

 Sempre negli ultimi trent’anni, il tasso di risparmio africano è calato drasticamente.

(31)

31

 C’è una disparità tra le prestazioni auspicate e quelle attuali. Per esempio, per il 2000 ci si aspettava un tasso di risparmio del 20% e una crescita

economica del 5%, ma i dati40 dimostrano che si è ancora ben lontani da

questa realtà.

Al contrario di quanto è avvenuto per l’Asia, inoltre, ci si è resi conto che non è

possibile promuovere il risparmio privato in Africa41. In primo luogo, il risparmio

privato asiatico è avvenuto grazie a un imponente crescita del capitalismo, situazione ancora non presente in Africa. In secondo luogo, infine, il credito africano è quasi tutto estero e diventa quindi difficile privatizzarlo.

In realtà, cercare di dare una definizione generale del micro credito in Africa è abbastanza difficile. Le soluzioni sono diversificate, esattamente come lo è il continente stesso. Sono stati tentati svariati approcci, che vanno dal prestito di gruppo, al prestito delle banche vere e proprie, fino all’utilizzo delle ONG come intermediari.

Conseguentemente, uno studio sulla micro finanza africana offre una varietà di esempi che funzionano o meno.

In ogni caso, l’OSCAL42, ha dato una scala di riferimento per sviluppare un

modello di micro credito, pensato soprattutto per la realtà africana:

 Pooling together people’s resources

 Relying and building upon what people know (tradition)

 Reinforcing microfinance to empower the African private sector

 Striving for efficiency, which include maintenance of tools and better working habits43.

Il modello, tuttavia, va ancora testato. Il dipartimento di economia dell’ University of Western Cape (Sudafrica), dove il modello è stato presentato, vorrebbe

incorporarlo nei propri programmi al fine di testarlo sul campo44.

40

Calgagovski et al., 1991

41 Al contrario, appunto, dei Paesi asiatici dove il risparmio è praticamente tutto privato.

42 OSCAL: Office of the Special Coordinator for Africa and the Least Developed Countries (United

Nations).

(32)

32

In ogni caso, si sta cercando di adattare questo modello alla realtà africana., in particolare alla necessità di sradicare la povertà endemica. Il modello è basato principalmente sul progetto GLO/99/315/A/11/31 il cui nome era “Women, Microcredit, and Poverty Eradication”, diretta conseguenza di due summit mondiali: la “Second Tokyo International Conference on African Development” e la “Asia/Africa Forum on the Economic Empowerment of Women”.

Il modello si basa inoltre sulla politica delle Nazioni Unite riguardante l’ eradicazione della povertà, un fattore chiave espresso nella “United Nations New Agenda for the Development of Africa” degli anni ’90.

La progettazione e l’esecuzione di questo modello è stato supervisionato dall’

“Office of the Special Coordinator for Africa and the Least Developed Countries”

delle Nazioni Unite, in stretta collaborazione con il “United Nations Development Progamme, Gender and Development Programme”. Il processo per lo sviluppo del modello è consistito in tre fasi:

1. Scheda informativa sulla micro finanza: è un documento basato su 85 progetti di micro credito in Africa e non, completati sia con successi che con fallimenti. Lo scopo di questo documento preventivo era quello di trovare una strategia adatta alla realtà africana.

2. Donne, micro credito ed eradicazione della povertà (Etiopia, Camerun

e Nigeria): una missione di monitoraggio di tre settimane nell’annata

’99-2000, in tre differenti sub regioni africane, ognuna differente per cultura, lingua, popolazione e sviluppo. Questa parte è stata diretta conseguenza dell’”Asia/Africa forum on the economic emporwerment of woman” tenutasi a Bangkok nel luglio 1997.

3. Gruppo di incontro sulla micro finanza e l’eradicazione della povertà

in Africa: un gruppo di esperti ha incontrato i soggetti interessati ad

avviare progetti di micro credito in Africa, al fine di condividere le esperienze e consigliarli.

44

Dal novembre del 2001, l’UNDP-Africa offre agli studenti di questa università la possibilità di lavorare per sei mesi come tirocinio su questo modello.

(33)

33

Questo modello base ha lo scopo di dare alcuni principi chiave alle istituzioni di micro finanza al fine di renderle più ideologicamente e istituzionalmente sostenibili, permettendo così di rendere un servizio migliore alla popolazione povera.

Come già ripetuto, non c’è una soluzione unica. Ogni progetto si deve adattare alle specificità delle realtà locali nel quale opera a livello culturale, politico ed economico.

In ogni caso, dopo lo studio di diversi progetti già attuati, le istituzioni internazionali sono giunte alla conclusione che alcuni principi base del micro credito sono adattabili e compatibili con la realtà africana.

Questi sono principalmente:

I gruppi – il credito di gruppo è uno dei capisaldi del micro credito. Il gruppo

può consolidarsi sia a livello locale (nella comunità di appartenenza) che a livello regionale o nazionale (tramite un rete di gruppi). L’organizzazione collettiva porta notevoli vantaggi nei progetti di micro credito, in primo luogo dovuti alla possibilità di unire le risorse umane e materiali. In Africa, l’organizzazione di gruppo è particolarmente efficace. Basandosi già su una cultura tradizionale dove la comunità è al centro di tutto, lavorare per gruppi diventa una possibilità facile ed efficace per la realtà africana. I gruppi risultano particolarmente efficaci nelle zone rurali, dove l’80% della popolazione risiede: il relativo isolamento, le piccole dimensioni e le risorse comuni del villaggio, generano una mentalità dove si pensa prima alla comunità e poi all’individuo.

La micro finanza può supportare questi gruppi tramite incontri regolari per rafforzarne la solidarietà, la disciplina e i pagamenti. I gruppi risultano particolarmente efficaci per l’educazione dei partecipanti e il loro training, aumentando la rete di informazione e la conoscenza.

Un metodo per ridurre i costi amministrativi può essere inoltre quello di dare certe responsabilità ai membri stessi del gruppo, come il monitoraggio dei prestiti.

Solitamente si preferiscono i gruppi di piccole dimensioni, al fine di una migliore conoscenza e fiducia reciproca, che agevola anche la possibilità di restituzione del credito. Il supporto e la forza del gruppo, inoltre, creano una

(34)

34

struttura in grado di fronteggiare eventuali problemi comuni o personali, mettendo insieme le proprie risorse e conoscenze. I membri del gruppo si supportano l’un l’altro non solo finanziariamente, ma anche emotivamente. Questa consapevolezza è particolarmente importante, soprattutto durante le crisi individuali o collettive.

Dare priorità alle conoscenza locali e alla partecipazione attiva – i progetti

di micro credito che si costruiscono intorno alle conoscenze locali e tradizionali sono più “culturalmente” compatibili e sostenibili con le comunità. Le persone si sentono più sicure, più “a casa”, con un concetto che proviene dalle loro tradizioni, portando così l’istituzione di micro credito ad ottenere non solo più fiducia ma anche migliori risultati. Radicandosi nel territorio, le persone tendono a riconoscersi e ad accettare l’istituzione, migliorando così le loro prestazioni. Come risultato di ciò, i gruppi destinatari si sentono più motivati e più collaborativi con i progetti avviati. Lavoreranno secondo le loro conoscenze e i loro metodi, con i loro tempi anche, e quello che dovrebbe fare l’istituzione o il progetto sarebbe la legittimazione di questo stile di lavoro.

Ovviamente, spesso i metodi tradizionali non si adattano ai contesti moderni ma tendenzialmente, quando non sono dannosi per il progetto stesso, l’istituzione non dovrebbe ostacolarli.

Rinforzare il micro credito per avvantaggiare il settore privato africano –

La micro finanza e le micro imprese sono collegate: lo sviluppo delle micro imprese è un’estensione cruciale nello schema della micro finanza. Se il micro credito vuole veramente ottenere lo sradicamento della povertà, diventa necessario creare delle imprese private in grado di inserirsi nell’economia formale. In pratica, il micro credito dovrebbe formalizzare il settore informale. La micro finanza può dare un supporto diretto alle piccole e medie imprese, iniziando per esempio con l’avvio non di produzioni su larga scala ma magari con produzioni di nicchia, in modo da far affacciare lentamente queste imprese sul mercato. Può rivolgersi sia a imprese già esistenti, che magari cercano più spazio nell’economia locale, oppure può dare l’avvio a nuove imprese.

Figura

Figura 1: Africa subsahariana, mappa politica (Fonte: www.worldmap.com)

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