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La condizione giuridica dell'apolide nell'ordinamento italiano

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Scienze per la Pace:

Trasformazione dei Conflitti e Cooperazione allo Sviluppo

TESI DI LAUREA

LA CONDIZIONE GIURIDICA DEGLI APOLIDI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

Relatore

Prof.ssa Francesca Biondi Dal Monte

Candidato

Raffaella Cervellino

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LA CONDIZIONE GIURIDICA DEGLI APOLIDI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

INDICE

Introduzione ……….. 4

CAPITOLO I: ANALISI DEL FENOMENO DELL’APOLIDIA ………..… 5

1.1 Il diritto alla cittadinanza ……….... 5

1.2 Le cause dell’apolidia ………...………… 10

1.2.1 L’apolidia originaria ………...…… 10

1.2.2 L’apolidia successiva ……….. 12

1.3 Gli apolidi nel mondo ………...……… 14

1.3.1 Gli immigrati di origine haitiana nella Repubblica Dominicana ………..… 15

1.3.2 La popolazione di origine tibetana in India ……… 17

1.3.3 La popolazione di etnia rohingya in Myanmar ………...…….. 20

CAPITOLO II: LA NORMATIVA INTERNAZIONALE ED EUROPEA E IL RUOLO DELL’UNHCR ………...….. 23

2.1 Il quadro giuridico internazionale ………...…… 23

2.1.1 La Convenzione delle Nazioni Unite sullo status degli apolidi (1954) ………….... 23

2.1.1.1 La struttura e gli articoli della Convenzione ……….…… 26

2.1.2 La Convenzione delle Nazioni Unite sulla riduzione dei casi di apolidia (1961) ….. 36

2.2 Il quadro giuridico europeo ………... 43

2.2.1 La Convenzione europea sulla nazionalità (1997) ……….………...…… 43

2.2.2. La Convenzione sulla prevenzione dei casi di apolidia in relazione alla successione degli Stati (2006) ……….……… 50

2.2.3 La cittadinanza dell’Unione europea e la giurisprudenza della Corte di Giustizia ……… 57

2.3 Il ruolo dell’UNHCR ………...……… 65

2.3.1 I risultati del Piano d’Azione Globale per porre fine all’apolidia: 2014 – 2024 …… 72

CAPITOLO III: LA TUTELA DEGLI APOLIDI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO……….……. 76

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3.2 La normativa italiana ………..….. 80

3.2.1 La legge n. 91/1992: Nuove norme sulla cittadinanza ………..…. 81

3.2.1.1 Prevenzione dell’apolidia ………..……… 82

3.2.1.2 L'acquisto della cittadinanza italiana da parte dell'apolide ……….….. 83

3.3 Le difficoltà di provare la condizione di apolidia ………...………. 86

3.4 I procedimenti per il riconoscimento dello status di apolide in Italia ………..… 92

3.4.1 Il procedimento amministrativo ………..….. 93

3.4.2 Il procedimento giudiziario ………..…. 95

3.4.3 Le differenze tra i due procedimenti ……….…… 97

3.4.4 La condizione del richiedente lo status di apolide nelle more del procedimento ….. 98

3.5 I diritti dell’apolide riconosciuto ………..…….. 100

Conclusioni ………... 103

Bibliografia ……….….. 105

Documenti ………...………. 109

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Introduzione

L’apolide è una persona che non ha la cittadinanza di alcuno Stato, ovvero, come recita la Convenzione sullo status degli apolidi del 1954, “che nessuno Stato considera come

suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione”.

Secondo l’UNHCR, gli apolidi nel mondo sarebbero circa 10 milioni, di cui 600 000 nella sola Europa e 15 000 in Italia. Si tratta di stime, poiché proprio l’assenza di cittadinanza e la conseguente invisibilità giuridica rendono difficile il loro conteggio. A ciò si aggiunge il fatto che solamente 78 paesi nel mondo si sono resi disponibili a comunicare i dati relativi alle persone apolidi sul proprio territorio.

La prima parte della tesi sarà dunque dedicata all’analisi del fenomeno dell’apolidia. Essa può essere originaria, quando si è apolidi sin dalla nascita, o derivata, quando si perde la cittadinanza che si aveva in precedenza senza avere o acquisire la cittadinanza di un altro Stato. In questo secondo caso, i motivi posso essere molteplici tra cui l’applicazione di pratiche discriminatorie basate sull’etnia o la religione, che possono rendere apolidi gruppi minoritari in tutto il mondo.

La seconda parte del lavoro si concentrerà sulla normativa internazionale ed europea in materia di apolidia. In particolare, verranno analizzate due Convenzioni delle Nazioni Unite: una del 1954 relativa allo statuto delle persone apolidi e un’altra del 1961 sulla riduzione dei casi di apolidia.

Seguiranno, questa volta in ambito europeo, altre due Convenzioni anch’esse contenenti norme tese alla riduzione del fenomeno dell’apolidia. Trattasi della Convenzione europea sulla nazionalità del 1997 e della Convenzione sulla prevenzione

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dei casi di apolidia in relazione alla successione degli Stati del 2006, entrambe concluse tra gli Stati Membri del Consiglio d’Europa.

A conclusione del quadro internazionale ed europeo, si illustreranno alcune importanti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea e il lavoro svolto dall’UNHCR, che nel 2014 ha delineato un piano di azione globale per porre fine all’apolidia entro il 2024.

Infine, la terza ed ultima parte della tesi si occuperà della tutela degli apolidi nell’ordinamento italiano. Essa avviene tramite una normativa volta da un lato a prevenire l’apolidia originaria, dall’altro a favorire l’acquisizione della cittadinanza. Tuttavia tali disposizioni, per essere applicate, richiedono il previo riconoscimento dello status di apolide che in Italia può avvenire attraverso due procedimenti, uno amministrativo e uno giudiziario. Essi verranno quindi analizzati attentamente al fine di comprendere se siano effettivamente accessibili.

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CAPITOLO I

ANALISI DEL FENOMENO DELL’APOLIDIA

1.1 Il diritto alla cittadinanza

La cittadinanza è la condizione giuridica, o status, di chi appartiene ad una comunità politica nazionale. Essa rappresenta la connessione tra l’individuo e lo Stato di appartenenza, a cui consegue la titolarità di una serie di specifici diritti e doveri.

A livello internazionale, si è venuto a consolidare il principio secondo cui il tema della cittadinanza rientra nel dominio riservato di ciascuno Stato, vale a dire che si colloca tra le materie di sua esclusiva giurisdizione, le quali rappresentano la massima espressione della sovranità statale1.

Per tale motivo, ogni Stato è libero di definire le condizioni e le modalità di acquisto o di perdita della cittadinanza. Ciò ha portato ad individuare diversi metodi di attribuzione della stessa: per ius sanguinis, ovvero per discendenza naturale da un cittadino; per ius

soli, ossia per il fatto di essere nati sul territorio dello Stato; per ius communicationis, vale

a dire per matrimonio; e per naturalizzazione, cioè a seguito di un atto della pubblica autorità, su richiesta dell’interessato e in presenza di determinati requisiti, tra i quali ad esempio la residenza per un dato periodo di tempo sul territorio nazionale o l'assenza di precedenti penali2.

1 La competenza assoluta degli Stati nella determinazione delle regole per l’acquisto e la perdita della cittadinanza è un principio proprio del diritto internazionale consuetudinario. Tale principio è entrato a far parte anche del diritto internazionale pattizio con la Convenzione dell’Aja del 1930, ossia la prima convenzione multilaterale approvata in materia di cittadinanza, che all’articolo 1 stabilisce che spetta a ciascuno Stato determinare con proprie leggi quali siano i suoi cittadini (“It is for each State to determine

under its own law who are its nationals”). Pinto M., L’identification des sources du droit international de la nationalité, in Droit international et nationalité, Paris, Pedone, 2012, p. 42.

2 Moscatelli S., Il diritto alla cittadinanza nel diritto internazionale dei diritti umani, in Immigrazione, asilo e cittadinanza universale, Marcelli F. (a cura di), Editoriale Scientifica, 2013, p.315.

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In alcuni casi, la scelta di un criterio piuttosto che un altro, è stata dettata dalla storia che ha caratterizzato i paesi. In particolare, quelli tradizionalmente a forte immigrazione, come gli Stati Uniti, hanno preferito privilegiare lo ius soli nel tentativo di favorire l’integrazione. Essa veniva realizzata a pieno con la seconda generazione di immigrati che diventava automaticamente cittadina dello Stato nel quale i genitori si erano stabiliti. Al contrario, paesi storicamente di emigrazione, come per esempio quelli europei, preferivano lo ius sanguinis per mantenere un legame con i propri emigrati all’estero.

Tuttavia, nel corso del tempo, l’intensificarsi dei flussi migratori internazionali ha fatto sì che si iniziasse a considerare la cittadinanza come essa stessa un diritto umano. Tale impostazione si è sviluppata principalmente a seguito della seconda metà del secolo passato, in reazione alla sistematica violazione dei diritti umani perpetrata dai regimi autoritari e culminata nella seconda guerra mondiale.

Da allora si è assistito ad una evoluzione del diritto internazionale dei diritti umani che ha posto l'accento sulla tutela dei diritti dell'individuo a prescindere dal suo legame con un determinato Stato3.

Norme contenute in Convenzioni internazionali o regionali a cui si è aderito, così come norme derivanti da atti di organizzazioni internazionali in materia di diritti umani, hanno iniziato a porre dei limiti alla competenza esclusiva dello Stato in tema di cittadinanza4. Nell’ambito delle Nazioni Unite, si deve innanzitutto menzionare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 che all'art. 13, par. 2, enuncia il diritto di ogni individuo a lasciare il proprio paese, incluso il proprio, e di tornare nel proprio paese. Ad esso si aggiunge l’articolo 28 che delinea un sistema internazionale dei diritti umani per

3 Milani G., Il diritto alla cittadinanza nella giurisprudenza della Corte EDU e della Corte IDU: le ragioni di un dialogo mancante, Rivista AIC (Associazione Italiana Costituzionalisti) n. 4/2017.

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il quale tutti gli individui possono godere, nella comunità territoriale dove sono stanziati, dei diritti da essa garantiti5.

Seguono la Convenzione sulla nazionalità delle donne sposate del 1957 e la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne del 1979, che obbligano gli Stati ad accordare alle donne diritti uguali a quegli degli uomini in merito all’acquisizione, al mutamento e alla conservazione della nazionalità. Esse inoltre stabiliscono che la cittadinanza del marito non deve automaticamente cambiare quella della moglie, renderla apolide, né obbligarla ad acquisire la nazionalità del marito.

Si hanno poi la Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951, la Convenzione relativa allo statuto delle persone apolidi del 1954 e la Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961. Esse, oltre ad adottare una disciplina organica relativa agli status di rifugiato e apolide, garantiscono loro una serie di diritti che, in relazione alla loro tipologia, li equiparano agli stessi cittadini dello Stato ospitante o agli stranieri legalmente residenti nel territorio dello Stato.

Altre disposizioni che possono limitare la competenza esclusiva dello Stato nel riconoscimento di diritti legati al rapporto di cittadinanza sono contenute nella Convenzione internazionale del 1990 sulla protezione dei lavoratori migranti e le loro famiglie6. Essa è interessante poiché riconosce alcuni diritti a tutti i lavoratori e ai loro familiari, anche se illegalmente presenti sul territorio statale, cui si aggiungono altri diritti

5 Cfr. art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, il quale prevede che: “Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati”.

6 La Convenzione è entrata in vigore il primo luglio 2003 e al 2020 ne fanno parte 55 Stati. L’Italia non figura tra questi.

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di cui possono godere solo i lavoratori regolari. Tuttavia la Convenzione non è stata ratificata dai principali paesi di immigrazione, veri destinatari delle disposizioni.

Una deroga al tradizionale concetto di cittadinanza come presupposto per il godimento di alcuni diritti individuali è anche confermato dall’evoluzione dell’istituto della protezione diplomatica. Uno Stato può infatti esercitare la protezione diplomatica in favore di non cittadini, come nel caso di rifugiati e apolidi, a condizione che risiedano legalmente e abitualmente nel suo territorio7.

Se da un lato l’evoluzione del diritto internazionale in tema di diritti umani ha portato ad una maggiore tutela dell’individuo in quanto tale, a prescindere dal legame di cittadinanza con lo Stato, d’altra parte si è assistito all’emergere di un nuovo diritto umano, ovvero il diritto alla cittadinanza, presupposto indispensabile per il riconoscimento di altri diritti8.

Esso è contemplato in diversi strumenti giuridici internazionali quali la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che all’articolo 15 enuncia il diritto di ogni individuo ad avere una cittadinanza e a poterla cambiare, e il Patto sui diritti civili e politici del 1966 che all’articolo 24, par. 3, afferma il diritto del minore ad avere una cittadinanza.

Quest’ultima disposizione è presente anche nella Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 che all’art. 7 impegna gli Stati ad adottare misure affinché questo diritto sia attuato in conformità alla loro legislazione nazionale e agli obblighi imposti dagli

7 Ciò è confermato dal Progetto di articoli sulla protezione diplomatica adottato nel 2006 dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite. Si veda a tal proposito l’articolo 8, il quale prevede che: “1. A State may exercise diplomatic protection in respect of a stateless person who, at the date

of injury and at the date of the official presentation of the claim, is lawfully and habitually resident in that State. 2. A State may exercise diplomatic protection in respect of a person who is recognized as a refugee by that State, in accordance with internationally accepted standards, when that person, at the date of injury and at the date of the official presentation of the claim, is lawfully and habitually resident in that State”. Il

Progetto è visionabile al sito https://www.refworld.org/docid/525417fc4.html.

8 Panella L., La cittadinanza e le cittadinanze nel diritto internazionale, Editoriale Scientifica, 2009, p. 49 e ss.

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strumenti internazionali, poiché nel caso in cui ciò non fosse possibile, il fanciullo diventerebbe apolide.

Infine all’articolo 1 del Progetto di articoli sulla cittadinanza delle persone fisiche in relazione alla secessione tra Stati, adottato dalla Commissione di diritto internazionale nel 2009, viene riconosciuto il diritto alla cittadinanza come diritto individuale di natura consuetudinaria sebbene nel contesto specifico della successione fra Stati.

Il diritto alla cittadinanza si fonderebbe sulla norma consuetudinaria che vieta le discriminazioni basate sulla nazionalità e dovrebbe essere concesso dallo Stato in cui l’individuo ha scelto di stabilirsi.

Ciò sta già in parte avvenendo, come si può riscontrare dall’istituto della concessione della cittadinanza per residenza, previsto dalla quasi totalità degli Stati e presente anche nella Convenzione europea sulla cittadinanza del 1997. Quest’ultima, oltre ad obbligare gli Stati che l’hanno ratificata a prevedere la possibilità di naturalizzazione9, prevede che

il periodo di residenza legale ed abituale non debba superare i 10 anni, termine al quale molti Stati si sono dovuti conformare.

Tuttavia spesso vengono posti criteri aggiuntivi come la conoscenza della lingua madre dello Stato, della sua storia nazionale e delle sue istituzioni politiche, che di fatto vanno a limitare l’accesso alla cittadinanza.

Inoltre, è stato rilevato che gli accordi a cui gli Stati hanno preso parte, sia livello internazionale che regionale, pur enunciando l’obbligo di concedere la cittadinanza a chi altrimenti non ne avrebbe una, non prevedono le modalità per conferirla, le quali

9 Cfr. articolo 6, par. 3: “Each State Party shall provide in its internal law for the possibility of naturalisation of persons lawfully and habitually resident on its territory. In establishing the conditions for naturalisation, it shall not provide for a period of residence exceeding ten years before the lodging of an application”.

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rimangono prerogativa degli Stati. Ed è proprio tale discrezionalità a costituire una delle cause dell’apolidia, che sarà oggetto del prossimo paragrafo.

L’evoluzione che ha portato la cittadinanza ad essere considerata un diritto umano non sembra dunque aver scalfito l’impostazione secondo la quale soltanto lo Stato può determinare le regole per l’acquisto e la perdita della cittadinanza. Lo Stato rimane quindi il presupposto fondamentale per il passaggio dalla proclamazione astratta dei diritti alla loro realizzazione concreta.

1.2 Le cause dell’apolidia

1.2.1 L’apolidia originaria

L'apolidia può essere originaria o successiva. Si ha apolidia originaria quando la persona è apolide fin dalla nascita, mentre si ha apolidia successiva o derivata quando la persona perde la cittadinanza che aveva in precedenza senza avere o acquisire la cittadinanza di un altro Stato10.

L’apolidia originaria si può verificare in tre casi: quando la persona è figlia di persone apolidi; quando non viene registrata alla nascita; e quando vi è un conflitto di leggi tra Stati.

Nel primo caso, un individuo nasce apolide se i genitori sono entrambi apolidi e residenti in un paese dove vige lo ius sanguinis, principio in base al quale il figlio acquisisce la cittadinanza dei genitori. Essendo però questi ultimi apolidi, il bambino erediterà l’apolidia per discendenza.

10 Si veda a tal proposito La tutela degli apolidi in Italia. Scheda pratica, a cura di Giulia Perin (2017), disponibile al seguente link: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/07/2017_scheda-apolidia.pdf.

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Nel secondo caso, la mancanza di registrazione alla nascita può porre le persone a rischio di apolidia dal momento che il certificato di nascita fornisce la prova del luogo in cui una persona è nata e della sua parentela, informazioni fondamentali per stabilire la nazionalità.

In alcuni Paesi i bambini potrebbero non essere registrati a causa della complessità delle procedure di registrazione o perché le stesse richiedono dei documenti o altre condizioni difficili da soddisfare. Alcuni gruppi specifici possono trovarsi ad affrontare problemi particolari, soprattutto i figli nati al di fuori del matrimonio, le popolazioni nomadi e i figli di coloro che non sono cittadini del Paese nel quale gli stessi figli sono nati, tra i quali i rifugiati11 e i migranti.

Infine, nel terzo caso, l’apolidia originaria può essere il risultato di un conflitto tra le legislazioni di due paesi, i quali basano le norme sull'attribuzione della cittadinanza alla nascita, su due principi diversi e contrapposti: ius sanguinis e ius soli. Come si è visto, lo

ius sanguinis si fonda sull’elemento della discendenza o della filiazione, invece lo ius soli

fa riferimento alla nascita sul suolo, ossia sul territorio dello Stato12. Si ha perciò un conflitto di leggi che ha come conseguenza l’apolidia della persona interessata, quando, per esempio, un bambino con genitori stranieri nasce in uno Stato che conferisce la propria cittadinanza solo ai figli dei propri cittadini, mentre secondo le leggi dello Stato di cui sono cittadini i genitori, acquisiscono la cittadinanza soltanto coloro che nascono sul territorio dello Stato.

11 Molti rifugiati per colpa della guerra hanno perso i documenti di identità che sono necessari al fine di registrare nel paese di asilo le nascite dei loro bambini rifugiati.

12 Quindi per i paesi che applicano lo ius soli è cittadino originario chi nasce sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori. Cfr. Farci P., Apolidia, Giuffrè Editore, Milano, 2012, p.6.

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12 1.2.2 L’apolidia successiva

L’apolidia successiva può avere diverse cause, le principali delle quali legate all’esercizio di pratiche discriminatorie, al matrimonio con una persona straniera, alla rinuncia alla cittadinanza, alla successione fra Stati e ai conflitti.

Le discriminazioni per motivi di razza, etnia, religione, genere o disabilità, colpiscono centinaia di migliaia di membri di gruppi minoritari in tutto il mondo, costituendo una delle cause principali di apolidia a livello globale.

In particolare, le leggi sulla cittadinanza di almeno 20 paesi nel mondo contengono disposizioni discriminatorie che comportano la negazione o la privazione arbitraria della cittadinanza sulla base di etnia, razza, lingua o religione13, mentre almeno 25 paesi mantengono leggi sulla cittadinanza che non consentono alle donne di trasmettere la propria cittadinanza ai figli alla stregua di quanto è permesso agli uomini14.

In quest’ultimo caso, se i figli non possono acquisire la nazionalità del padre, rischiano di diventare apolidi. Ciò può accadere laddove il padre sia apolide, sconosciuto o non possa o non voglia completare le procedure amministrative necessarie per trasmettere la propria nazionalità o per ottenere la documentazione attestante la nazionalità del figlio.

Un’atra causa dell’apolidia è il matrimonio o la dissoluzione del matrimonio, qualora la perdita della cittadinanza ne costituisca una conseguenza automatica. Le legislazioni

13 https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2019/11/UNHCR_Impatto_apolidia_ITPTES_def_web.pdf. Per alcuni esempi, si veda il par. 1.3 del presente elaborato.

14 I 25 paesi sono: Arabia Saudita, Bahamas, Bahrain, Barbados, Brunei, Burundi, Emirati Arabi Uniti, eSwatini, Giordania, Iran, Iraq, Kiribati, Kuwait, Libano, Liberia, Libia, Malesia, Mauritania, Nepal, Oman, Qatar, Siria, Somalia, Sudan, Togo. La maggior parte di questi Stati si trova in Medio Oriente e Nord Africa (12 paesi) e nell'Africa subsahariana (6 paesi). UNHCR, Background Note on Gender Equality, Nationality Laws and Statelessness 2018, 8 marzo 2019, disponibile al link: https://www.refworld.org/docid/5c8120847.html (si v.tabella a pagina 6). Si noti che leggi di questo tipo non rispettano l’articolo 9 della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne del 1979, ratificato da 189 paesi. https://treaties.un.org/Pages/ViewDetails.aspx?src=IND&mtdsg_no=IV-8&chapter=4&clang=_en#7.

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di alcuni paesi, infatti, prevedono che la donna, sposando uno straniero, perda la propria nazionalità e acquisti quella del marito.

L’apolidia può quindi derivare dal matrimonio se esso viene riconosciuto valido solo da uno Stato, mentre l’altro lo considera nullo. Allo stesso modo, nel caso in cui il marito cambia la nazionalità dopo il matrimonio, non solo i figli possono diventare apolidi, ma la stessa moglie può, per effetto delle diversità tra le legislazioni, perdere la sua nazionalità senza acquistare quella del marito, diventando così apolide.

Infine, la sposa può diventare apolide quando in seguito allo scioglimento del matrimonio, perde la nazionalità del marito e non riesce a riacquisire la sua cittadinanza originaria.

Causa di apolidia è anche la rinuncia individuale alla cittadinanza senza la previa acquisizione o garanzia di acquisizione di un'altra. Infatti anche se uno Stato non permette la perdita della propria cittadinanza prima della nuova acquisizione, si può verificare il caso in cui un altro Stato non conceda la sua cittadinanza fino a quando non avviene la rinuncia a quella precedente. Avvenuta tale rinuncia, e iniziato un periodo di apolidia che dovrebbe essere limitato, può accadere che il soggetto non riesca alla fine ad ottenere la cittadinanza di tale Stato, rimanendo così apolide.

Un altro motivo che ha portato in molte occasioni a casi di apolidia di massa, è la successione fra Stati. Essa ha luogo quando avviene il passaggio di una parte del territorio di uno Stato a un altro Stato, oppure quando vi è la separazione di una parte del territorio di uno Stato e la formazione di una o più nuove entità nazionali, o ancora quando si verifica la dissoluzione di uno Stato e la nascita di due o più Stati.

Nonostante al momento dell’adozione di una legge sulla nazionalità la maggior parte delle persone diventi automaticamente cittadina dei nuovi Stati indipendenti, molti

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possono restare apolidi. Ciò a causa del verificarsi di movimenti migratori antecedenti e contemporanei all’indipendenza così come la messa in pratica di atti discriminatori nei confronti di gruppi etnici e sociali marginalizzati15.

Casi molto numerosi di apolidia si verificano anche tra i profughi nell’ambito di conflitti bellici ed occupazioni militari. Come i palestinesi che vivono nei territori occupati da Israele nel 1967 e che non sono cittadini israeliani e che non sono neppure più cittadini giordani dopo la rinuncia giordana alla sovranità sulla Cisgiordania avvenuta nel 1988, né cittadini egiziani dopo la rinuncia dell'Egitto ad amministrare Gaza. Oppure nei conflitti interetnici nell'ex Jugoslavia e in Ruanda, i quali hanno comportato talvolta la deliberata distruzione degli atti dello stato civile per alterare la composizione etnica dei luoghi e costringere i fuggitivi a non avere più documenti utili a consentirne il rientro16.

1.3 Gli apolidi nel mondo

Gli apolidi sono in tutto il mondo: in Asia, Africa, Medio Oriente, Europa e nelle Americhe. Intere comunità, neonati, bambini, coppie e anziani soffrono di questa comune maledizione ovvero la mancanza di una qualsiasi cittadinanza che li priva di quei diritti che la maggioranza della popolazione mondiale può dare per scontato.

Come si è visto nel paragrafo precedente, le discriminazioni giocano un ruolo fondamentale nell’alimentare il fenomeno dell’apolidia, che può colpire anche intere

15 Come è accaduto in particolare nel contesto europeo in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e della Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia. Si noti che gli Stati di nuova indipendenza hanno la giurisdizione per definire chi ha diritto alla cittadinanza. Alcuni individui potrebbero non soddisfare i requisiti o essere esclusi intenzionalmente dalla possibilità di acquisire la cittadinanza, e diventare così apolidi. Ostacoli amministrativi, burocratici e pratici possono inoltre determinare l’apolidia quando gli individui che potrebbero soddisfare i requisiti non hanno la possibilità di seguire le procedure e navigare l’iter necessario per acquisire una cittadinanza. https://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2019/11/UNHCR_Impatto_apolidia_ITPTES_def_web.pdf.

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popolazioni o comunità. Di seguito verranno illustrati tre casi: quello degli immigrati di origine haitiana nella Repubblica Dominicana; quello della popolazione di origine tibetana in India; e quello della popolazione di etnia rohingya in Myanmar.

3.1.1 Gli immigrati di origine haitiana nella Repubblica Dominicana

Hispaniola è una delle maggiori isole delle Antille ed è condivisa da due Stati, la Repubblica di Haiti a ovest, che occupa circa un terzo dell’isola, e la Repubblica Dominicana a est, che occupa la parte rimanente.

La sua scoperta è avvenuta nel 1492 e da allora è rimasta sotto il dominio spagnolo fino al ‘700, quando la parte orientale dell’isola fu conquistata dai francesi.

Dopo la sua divisione, su di essa si svilupparono due Stati molto diversi: nella metà francese furono importati migliaia di schiavi dall’Africa per impiegarli nelle piantagioni, mentre nella parte spagnola gli indigeni furono integrati nella società.

Nonostante entrambi gli Stati abbiano raggiunto l’indipendenza, le dittature, la povertà e i disastri naturali che hanno colpito Haiti, hanno creato una grande disparità di ricchezza e di sviluppo economico, rendendo la Repubblica Dominicana una meta per gli haitiani in cerca di lavoro17.

Nella popolazione dominicana, nel corso dei decenni d’immigrazione haitiana, si sono però sviluppate delle forti tendenze razziste verso di essi, spesso sfociate in violenze. Ciò anche a causa dei precedenti leader del paese, in particolare del dittatore Rafael Trujillo18,

17 Cfr. Farci, P., op. cit., p. 237.

18 Rafael Trujillo s'impadronì del potere nel 1930 rovesciando con un colpo di stato il presidente H. Vélazquez. Pur esercitando la carica di presidente della Repubblica solo dal 1930 al 1938 e dal 1942 al 1952, governò di fatto il paese con metodi dittatoriali fino alla morte, avvenuta nel 1961, grazie al controllo sulle forze armate, a quello sull'economia nazionale e al ricorso sistematico a metodi terroristici contro i suoi oppositori. http://www.treccani.it/enciclopedia/trujillo-molina-rafael-leonidas/.

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che si mostrò sempre contrario all'immigrazione haitiana al punto tale da promuovere una politica xenofoba e tentare un’operazione di “sbiancamento razziale” della popolazione con l’omicidio di oltre 15 000 haitiani.

Questo razzismo, non riconosciuto dal governo attuale, contribuisce ogni giorno a rendere ardua la vita degli immigrati haitiani e dei loro discendenti, già costretti a svolgere solamente le professioni più umili.

Ed è in questo contesto che si colloca una sentenza della Corte Costituzionale del 201319, che ha privato della cittadinanza dominicana i discendenti di migranti haitiani non registrati, nati sul territorio dominicano a partire dal 192920. Una decisione che ha reso

apolidi quasi 150 000 figli di haitiani, rimasti così senza diritti e senza possibilità di essere regolarizzati21.

Dopo tale sentenza, sono iniziate le deportazioni verso Haiti che hanno riguardato più di 80.000 discendenti haitiani, la maggior parte dei quali non era mai stata ad Haiti e non aveva alcun contatto. Essi si sono ritrovati soli in un paese straniero, senza una casa ed un lavoro.

19 Sentencia TC/0168/13, Dominican Republic: Constitutional Court, 23 September 2013, disponibile al link https://www.refworld.org/cases,DR_CC,526900c14.html.

20 In particolare, la Corte Costituzionale della Repubblica Dominicana ha pronunciato in data 23 settembre 2013 la sentenza 168-13 con la quale ha stabilito che tutti gli individui nati nella Repubblica Dominicana, non in grado di dimostrare lo status migratorio regolare dei loro genitori, non sono considerati cittadini dominicani. Ciò, nonostante il fatto che la Costituzione in vigore al tempo della loro nascita, prevedeva l’acquisizione della cittadinanza per ius soli. La sentenza, essendo stata applicata alle persone nate a partire dal 1929, costituisce una privazione arbitraria e retroattiva della cittadinanza. Cfr. il report ‘Without papers,

I am no one’ Stateless people in the Dominican Republic, Amnesty International Publications, 2015,

disponibile al sito https://www.amnestyusa.org/files/without-papers_stateless-people-dominican-republic.pdf.

21 Con la Sentenza 168-13 decine di migliaia di persone, considerate da tutta una vita dominicane e registrate come tali alla nascita, in possesso di carte d’identità, tessere elettorali e passaporti dominicani, sono state private del diritto di cittadinanza. Report on the Situation of Human Rights in the Dominican Republic, Inter-American Commission on Human Rights, 31 December 2015, disponibile al link https://www.justice.gov/eoir/page/file/905511/download.

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L'esecutivo si trovò schiacciato tra le critiche della comunità internazionale e le pressioni interne di politici che chiedevano l'applicazione della sentenza22. Nel tentativo

di trovare un compromesso, esso adottò nel maggio 2014 una legge, la 169-14, con l’obiettivo di regolarizzare coloro che non erano stati deportati.

In base a tale legge, ai figli di immigrati irregolari nati nella Repubblica Dominicana e registrati prima della sentenza, veniva restituita subito la cittadinanza. Invece per quelli che non erano stati registrati, il provvedimento prevedeva in un primo tempo la loro registrazione e in seguito la possibilità di richiedere la naturalizzazione attraverso la creazione di un percorso giuridico a cui inoltrare la richiesta23.

La prima via è stata un successo, mentre la seconda si è rivelata una farsa in quanto per una serie di intoppi burocratici solo il 6% dei richiedenti è riuscito effettivamente ad inoltrare una richiesta, lasciando quasi 142 000 persone in una situazione di stallo, che va avanti ancora oggi24.

3.1.2 La popolazione di origine tibetana in India

Fino al 1950 il Tibet era uno Stato sovrano indipendente di stampo teocratico governato dal Dalai Lama, la massima autorità religiosa del buddhismo tibetano. In quell’anno venne invaso dall’esercito della Repubblica popolare cinese, proclamata nel 1949 al termine della guerra civile in seguito alla quale il governo della Repubblica di Cina dovette ritirarsi nell'isola di Taiwan.

22 Si veda l’articolo Repubblica Dominicana, uomini senza stato. La dura lotta degli apolidi contro la discriminazione, di Chiara Nardinocchi, 28 novembre 2015, visionabile al sito https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2015/11/28/news/apolidi_discriminazioni-128313105/. 23 Cfr. Amnesty International Report 2017/18 - Dominican Republic, Amnesty International, 22 febbraio 2018, disponibile al link https://www.refworld.org/docid/5a993914a.html.

24 Crf. il report Repubblica Dominicana. Dal paradiso terrestre al razzismo, a cura di Riccardo Borella, visionabile al sito https://www.cisda.it/attachments/article/2270/Diritti_umani_BORELLA.pdf.

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Nel 1959 l’esercito cinese dopo aver schiacciato una rivolta scoppiata in Tibet, costrinse il Dalai Lama a fuggire in India dove costituì il Governo tibetano in esilio. Egli fu seguito da circa 100 000 tibetani25. In seguito, nel 1965, nacque ufficialmente la Regione Autonoma del Tibet dove la Cina governò con la forza e la repressione26.

Oggi, la quasi totalità del territorio tibetano è parte della Repubblica Popolare Cinese mentre una piccola parte sud-occidentale, il Ladakh, è una regione indiana.

Il parlamento indiano esercitò il suo potere di regolamentare la cittadinanza adottando la legge del 1955 sulla cittadinanza, il Citizenship Act of 1955, modificato poi dalle leggi del 1986 e del 2003 sulla cittadinanza. La legge prevede l’acquisto e l’annullamento della cittadinanza indiana a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, avvenuta il 26 gennaio 1950.

L’articolo 3 del Citizenship Act del 1955 stabilisce che una persona nata in India tra il 26 gennaio 1950 e il primo luglio 1987 è cittadino indiano di nascita, senza riguardo alla nazionalità dei genitori. Inoltre essendo l’acquisto della cittadinanza per nascita automatico, non è prevista alcuna richiesta da parte dell’interessato.

Questo in linea di principio. Nella pratica, invece, capita che le autorità indiane rilascino alla persona di origine tibetana, che avrebbe diritto ad acquisire la cittadinanza ai sensi dell’art. 3, un documento, il certificato d’identità, in cui viene precisato che il soggetto ha la “cittadinanza tibetana”, ovvero la cittadinanza di un paese scomparso dalla realtà geopolitica nel 1950. Essi vengono quindi trattati come stranieri: sono liberi di

25 Attualmente, il numero dei rifugiati supera le 135 000 unità e l’afflusso dei profughi che lasciano il paese per sfuggire alle persecuzioni cinesi non conosce sosta. In Tibet, a dispetto delle severe punizioni, la resistenza continua. http://www.italiatibet.org/tutto-sul-tibet/.

26 Con la Rivoluzione Culturale lanciata nel 1966 da Mao Zedong, vennero uccisi circa 1 200 000 tibetani, distrutti oltre 6 000 monasteri e trasferiti nei campi di lavoro circa 100 000 tibetani. Cfr. Farci P., op. cit., p. 247.

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lavorare ed essere proprietari di beni immobili ma non hanno gli stessi diritti dei cittadini, come il diritto di partecipare all’attività politica o il diritto di avere il passaporto indiano.

In altri casi, ai fini dell’ottenimento della cittadinanza per nascita, il governo indiano esige dai tibetani un certificato di non obiezione rilasciato dal governo tibetano in esilio, ostacolo insormontabile secondo quanto dichiarato da numerosi tibetani.

Altre volte ancora, quando i genitori tibetani non sono stati in grado di iscrivere ufficialmente la nascita dei figli nel registro del governo dell’India, le autorità si rifiutano di accettare altre prove che certifichino la loro nascita.

Un’altra opportunità di accesso alla cittadinanza è rappresentata dalla possibilità di naturalizzazione, prevista dall’articolo 6 della legge sulla cittadinanza indiana del 195527.

Ma anche in questo caso numerosa è la documentazione che attesta le gravi difficoltà nell’avere accesso a questa procedura.

Inoltre, sia che si tratti di naturalizzazione o di riconoscimento automatico della cittadinanza per nascita, anche se non ci fossero gli ostacoli appena menzionati, difficilmente i tibetani ne approfitterebbero. Per essi infatti, diventare cittadini del paese ospitante equivale ad una loro esclusione di fatto dalla comunità tibetana e ad ammettere di non poter più tornare in Tibet. Per tali motivi, lo stesso Dalai Lama e la maggioranza dei tibetani in India hanno scelto di rimanere apolidi28.

27 L’art. 6 della legge sulla cittadinanza indiana del 1955 prevede l’acquisto della cittadinanza indiana mediante naturalizzazione a favore di colui che “risiede in India da almeno 12 anni e comunque deve

risiedere 12 mesi prima della domanda di naturalizzazione, l’interessato deve aver risieduto in India per almeno 11 anni complessivi nei 14 anni precedenti il periodo di 12 mesi”.

28 In Italia, la Cassazione civile con sentenza n. 5212 del 27.02.2008 in merito ad un ricorso promosso da una donna tibetana nata e vissuta in India per ottenere il riconoscimento dello status di apolidia, ha accolto il concetto di “identità tibetana dell’esilio”, stabilendo che: “la scelta della ricorrente di non diventare

cittadina indiana e di chiedere il riconoscimento dello status di apolide in Italia doveva essere pertanto ritenuta fondata. Nel caso della cittadinanza tibetana, non riconosciuta a livello internazionale e riconosciuta a limitati fini dal Governo Indiano, dichiararsi apolide equivale a riconoscersi nel governo, attualmente in esilio, del Dalai Lama, ed è l'unica scelta per i tibetani di continuare a riconoscersi tali e fedeli a quel governo. L'esistenza di una enclave riconosciuta a livello civile da un governo, anche se priva di rappresentanza internazionale - enclave che gestisce oltre che un sistema di istruzione e di sanità, anche

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20 3.1.3 La popolazione di etnia rohingya in Myanmar

I rohingya sono “uno dei popoli più discriminati del mondo, se non il più discriminato”, ha detto recentemente il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Un milione e mezzo di persone, forse di più, sono fuggite dall’originale insediamento nell’ovest del Myanmar e si sono rifugiate soprattutto in Bangladesh (oltre 1 000 000), Thailandia (circa 100 000) e Malaysia (altri 100 000)29.

Essi sono musulmani sunniti che parlano una lingua di ceppo indoeuropeo vicina, ma non mutuamente comprensibile, all’idioma parlato in Bangladesh. Vivono da molti secoli in Myanmar, e in particolare nello Stato Rakhine (precedentemente Arakan), che si trova al confine con il Bangladesh. Nel Rakhine vive circa il 6% della popolazione birmana, in gran parte di religione buddista e per questo ostile ai rohingya.

Per le autorità governative e per la maggior parte dei birmani, i rohingya sono considerati come stranieri indesiderabili30. Essi sono privi di alcuni diritti fondamentali, come quello di voto o di spostamento sul territorio senza un permesso ufficiale, e sono soggetti a restrizioni e discriminazioni che riguardano l’istruzione, il lavoro, il matrimonio e i cambi di residenza. Il loro status irregolare li ha resi vulnerabili a discriminazioni e soprusi. Nel tempo sono stati obbligati a svolgere prestazioni personali per i militari e sono stati frequentemente privati delle loro terre a favore di immigrati buddisti.

un'anagrafe con valore legale - rende lo status di tibetani in India qualcosa di più definito e anche controllabile rispetto ad altre situazioni di apolidia, e molto vicino ad una identità forte analogo ad una cittadinanza”.

29 https://www.limesonline.com/rubrica/rohingya-myanmar-bangladesh-profughi-onu.

30 Cliff T., Les Rohingyas, des parias sans toit ni droits. Birmanie-Bangladesh, in Courrier International, giugno 2011.

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I motivi sono da ricercare nei fatti storici avvenuti il secolo scorso quando l’Impero britannico conquistò il paese. Nel corso della guerra, i rohingya prestarono servizio come ausiliari nell’esercito britannico, per cui quando nel 1948 la Birmania diventò indipendente, questi vennero considerati dai birmani come collaboratori del nemico inglese subendo così le prime persecuzioni31.

A seguito della guerra indo-pakistana del 1971, un numero indefinito di rifugiati, la maggior parte proveniente dal Bangladesh, fuggirono dal conflitto e dalla miseria economica entrando nel paese birmano e stabilendosi ad Arakan.

Così nel 1978, con il pretesto di lottare contro l’immigrazione illegale e clandestina, le autorità birmane avviarono un’operazione nel paese per il controllo dell’identità delle popolazioni. L’esercito birmano uccise, violentò e arrestò migliaia di persone di etnia rohingya, mentre i villaggi e le moschee vennero saccheggiati e bruciati.

Oltre 280 000 rohingya furono costretti a fuggire nel Bangladesh, anche se poi nel 1979 la maggior parte di loro furono rimpatriati.

Ed ecco che nel 1982, il dittatore Ne Win promulgò la nuova legge sulla cittadinanza che privava i rohingya della loro nazionalità birmana32. Il governo aveva infatti certificato che nel paese esistevano 135 etnie ma non quella rohingya.

Quanto alla possibilità di richiedere la cittadinanza per naturalizzazione, essa fu resa impraticabile dalla pretesa di mostrare prove indiscutibili ovvero il possesso di documenti che certificassero che l’ingresso e la residenza in Myanmar era avvenuta prima del 1948.

Negli anni 1991-1992 un’altra ondata di 260 000 rohingya abbandonò il paese per sfuggire ai lavori forzati, alle esecuzioni sommarie, alle torture e alle violenze che si

31 Cfr. Farci P., op. cit., pp. 258-259.

32 La legge è la n. 4 del 15 ottobre 1982 ed ha sostituito la precedente normativa del 1948 che riconosceva a tutti i cittadini uguali diritti.

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perpetravano ai loro danni. Essi trovarono rifugio in Bangladesh dove però furono anche qui oggetto di persecuzioni in quanto gli abitanti di questo paese, le cui condizioni di vita erano già precarie, pensavano che i rifugiati volessero impossessarsi del loro lavoro e della loro terra.

Questo esodo portò ad una reazione da parte della comunità internazionale e obbligò l’UNHCR ad intervenire.

Tuttavia le repressioni esercitate nei loro confronti sono continuate e continuano tuttora. Tra queste, gravissima è quella avvenuta nel 2017 che ha costretto 700.000 rohingya a fuggire, ancora una volta, in Bangladesh. In un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nell’agosto del 201833 dopo un anno di ricerche34, vengono accusati i generali

birmani di aver commesso un genocidio contro la minoranza musulmana del paese, già perseguitata e oppressa sistematicamente35.

33 Trattasi del rapporto della Missione del Consiglio per i diritti umani dell'Onu, istituito per accertare i fatti accaduti in Myanmar, iniziati il 25 agosto 2017 dopo alcuni attacchi contro la polizia birmana che hanno causato le rappresaglie per mezzo di una sanguinosissima repressione. Report of the independent

international fact-finding mission on Myanmar, Human Rights Council, Thirty-ninth session, 10–28

September 2018. Il rapporto è visionabile al sito

https://www.ohchr.org/Documents/HRBodies/HRCouncil/FFM-Myanmar/A_HRC_39_64.pdf?smid=nytcore-ios-share.

34 L'inchiesta, condotta dall'avvocato per i diritti umani Marzuki Darusman, si basa su interviste con 875 testimoni e sopravvissuti, nonché sull'analisi di immagini satellitari e altri documenti. Birmanie. Les

Rohingyas sont victimes d’un génocide selon l’ONU. Courrier International, Paris, 28 agosto 2018. 35 Nel rapporto si legge che "I principali generali birmani, tra cui il comandante in capo Min Aung Hlaing, devono essere indagati e perseguiti per genocidio, come pure per crimini contro l'umanità e crimini di guerra negli Stati di Rakhine, Kachin e Shan". Report of the independent international fact-finding mission on Myanmar, Human Rights Council, September 2018 (per il link si veda la nota n. 30).

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CAPITOLO II

LA NORMATIVA INTERNAZIONALE ED EUROPEA

E IL RUOLO DELL’UNHCR

2.1 Il quadro giuridico internazionale

2.1.1 La Convenzione delle Nazioni Unite sullo status degli apolidi (1954)

Con la fine della Seconda guerra mondiale, le delegazioni di 50 Stati36 si riunirono per trovare una via comune che salvaguardasse la pace e la sicurezza mondiali. La convinzione era quella che se avessero organizzato in modo migliore le proprie relazioni reciproche, istituendo tra le nazioni una cooperazione economica, sociale e culturale, e favorendo la via diplomatica nelle controversie internazionali, si sarebbero prevenuti altri conflitti armati.

Si arrivò così, il 26 giugno 1945, alla firma dello Statuto delle Nazioni Unite che, entrato in vigore il 24 ottobre dello stesso anno, poneva i principi fondamentali cui doveva essere improntata l’attività dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)37.

36 In realtà il totale dei membri fondatori risulterà essere 51 poiché la Polonia, che non era stata rappresentata alla Conferenza di giugno, firmò il 15 ottobre 1945. I membri originari delle Nazioni Unite sono stati: Francia, Repubblica di Cina, Unione Sovietica, Regno Unito, Stati Uniti, Argentina, Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Bielorussia, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Cecoslovacchia, Danimarca, Repubblica Dominicana, Ecuador, Egitto, El Salvador, Etiopia, Grecia, Guatemala, Haiti, Honduras, India, Iran, Iraq, Libano, Liberia, Lussemburgo, Messico, Olanda, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Filippine, Polonia, Arabia Saudita, Sud Africa, Siria, Turchia , Ucraina, Uruguay, Venezuela e Jugoslavia.

37 Oggi l'ONU ha la sede centrale a New York ed è costituita da 193 membri ovvero la quasi totalità degli Stati. Santa Sede e Palestina hanno lo status di osservatore permanente. Circa 4 200 organizzazioni non governative beneficiano dello status consultivo presso il Consiglio economico e sociale. L’organizzazione è conosciuta soprattutto per le attività di mantenimento della pace e della sicurezza mondiali, della prevenzione dei conflitti e dell’assistenza umanitaria cui si sono aggiunte nel tempo molteplici e fondamentali tematiche, quali lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la protezione dei rifugiati, la lotta al terrorismo, il disarmo e la non-proliferazione delle armi nucleari, la promozione della democrazia, i diritti umani, lo sviluppo economico e sociale e la salute pubblica internazionale. Le Nazioni Unite, pertanto, si sono dotate di un “sistema” costituito da Agenzie specializzate, Fondi e Programmi. http://www.salute.gov.it/portale/rapportiInternazionali/menuContenutoRapportiInternazionali.jsp?lingua= italiano&area=rapporti&menu=unite e https://unipd-centrodirittiumani.it/it/collaborazioni/Organizzazione-delle-Nazioni-Unite-ONU/473.

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La prima esigenza fu quella di creare un sistema normativo volto alla protezione dei diritti degli individui e alla tutela delle loro libertà individuali. A tale scopo, il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo38. In essa si poteva già ravvisare l’impegno della

comunità internazionale in favore dell’eliminazione dell’apolidia. Infatti all’articolo 15 venne stabilito che ogni persona ha diritto ad avere una cittadinanza e che non può esserne privata arbitrariamente 39.

L’anno dopo il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite40 emanò la

Risoluzione 248 (IX) sul problema dell’apolidia, con la quale veniva chiesto di nominare un apposito Comitato sui rifugiati e gli apolidi, composto dai rappresentanti di tredici stati competenti in materia, allo scopo di elaborare un progetto di Convenzione sullo status dei rifugiati e degli apolidi e contestualmente eliminare il problema dell’apolidia.

Il Comitato Ad Hoc venne costituito nell’agosto del 1950 e in occasione della Conferenza dei plenipotenziari delle Nazioni Unite tenutasi a Ginevra nel luglio 1951, fu adottata la Convenzione relativa allo status dei rifugiati. Il tema dell’apolidia non era stato trattato e il motivo fu chiarito nella Parte III dell’Atto Finale della Conferenza dove

38 Essa è composta da trenta articoli, preceduti da un preambolo, che incorporano i diritti inalienabili dell’uomo. Le norme della suddetta Dichiarazione sono ormai considerate, dal punto di vista sostanziale, come principi generali del diritto internazionale e come tali vincolanti per tutti i soggetti dell’ordinamento. https://www.ohchr.org/en/udhr/pages/Language.aspx?LangID=itn e http://www.senato.it/documenti/repository/relazioni/libreria/fascicolo_diritti_umani.pdf.

39 Art. 15 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo: “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza”.

40 Istituito con lo scopo di programmare lo sviluppo economico e l'assistenza tecnica e finanziaria ai paesi meno sviluppati, nonché promuovere studi o relazioni su questioni economiche, sociali, culturali e sanitarie, si compone di cinquantaquattro membri eletti ogni tre anni dall'Assemblea generale.

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veniva affermato che l’argomento necessitava di uno studio più approfondito e perciò veniva rinviato41.

La Convenzione relativa allo status degli apolidi venne quindi adottata il 28 settembre 1954 a seguito della Conferenza dei plenipotenziari sullo status degli apolidi, che si tenne a New York dal 13 al 23 settembre dello stesso anno. Ad essa parteciparono ventisette Stati e cinque Stati osservatori42.

La Convenzione è strutturata in sei capitoli e un Allegato. Il primo capitolo, dedicato alle disposizioni generali, determina il campo di applicazione personale della Convenzione e stabilisce rilevanti principi come il divieto di discriminazione fra gli apolidi, l’obbligo di accordare loro lo stesso trattamento attribuito agli stranieri in generale, salvo le disposizioni più favorevoli, e la dispensa della reciprocità legislativa a favore degli apolidi che abbiano maturato tre anni di residenza nel paese. I successivi quattro capitoli sono dedicati rispettivamente alla condizione giuridica dell’apolide, alle attività lucrative, ai vantaggi sociali ed alle misure amministrative. Il capitolo sesto contiene le clausole finali, mentre l’Allegato regolamenta le modalità e le forme per il rilascio all’apolide del documento di viaggio.

La Convenzione sullo status degli apolidi prevede tre diversi livelli di trattamento per gli apolidi: il trattamento nazionale (per es. il diritto alla libertà religiosa e il diritto all’assistenza pubblica); il trattamento accordato ai cittadini del loro Stato di residenza abituale (per es. il diritto di stare in giudizio); il trattamento più favorevole possibile ed

41 Atto finale della Conferenza dei plenipotenziari della Nazioni Unite sullo status dei rifugiati e degli apolidi. U.N. Doc. A/Conf. 2/108, 1951.

42 I ventisette Stati sono: Australia, Belgio, Brasile, Cambogia, Colombia, Costa Rica, Danimarca, Ecuador, El Salvador, Filippine, Francia, Repubblica della Germania Federale, Guatemala, Honduras, Iran, Israele, Jugoslavia, Liechtenstein, Monaco, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Santa Sede, Svezia, Svizzera, Turchia, Yemen. I cinque osservatori: Argentina, Egitto, Giappone, Grecia e Indonesia.

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in ogni caso che non sia meno favorevole di quello accordato agli stranieri in generale (per es. il diritto di esercitare un lavoro subordinato ed autonomo).

2.1.1.1 La struttura e gli articoli della Convenzione

Il primo capitolo è intitolato Disposizioni generali e racchiude gli articoli da 1 a 11. All’articolo 1 troviamo la definizione del termine apolide e l’ambito di applicazione. Apolide è una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione. Quindi una persona priva di una nazionalità per cui l’assenza di cittadinanza deve essere dimostrabile e provata. L’apolide de jure, ossia il soggetto che in base alle leggi del paese non è considerato dallo Stato come proprio cittadino, non avrebbe avuto problemi a dimostrare il proprio stato di apolidia. Cosa non altrettanto facile per un apolide de facto, che ufficialmente possiede una nazionalità ma questa nazionalità non è effettiva. Si discusse pertanto se le disposizioni e i benefici previsti dalla Convenzione sugli apolidi dovessero essere applicati solo agli apolidi de jure o anche agli apolidi de facto. La Conferenza decise di applicare la Convenzione solamente ai primi, stabilendo tuttavia la possibilità per le Parti contraenti di estendere i suoi vantaggi anche agli apolidi de facto43.

Quanto all’ambito di applicazione, dal momento che la Convenzione sui rifugiati si riferisce anche a una parte degli apolidi, essendo molti rifugiati privi di una nazionalità,

43 In particolare, la situazione degli apolidi de facto fu indirettamente regolata nella Raccomandazione finale, inserita però come clausola facoltativa nell’Atto Finale della Convenzione: “La Conferenza

raccomanda a ciascun Stato contraente, quando questo ritiene che siano valide le ragioni per cui una persona abbia rinunciato alla protezione del proprio Stato, di considerare favorevolmente la possibilità di concedere a questa persona il trattamento che la Convenzione riconosce alle persone apolidi. Raccomanda inoltre anche agli altri Stati contraenti, nel caso in cui uno Stato, nel cui territorio risiede una persona, abbia deciso di concedere il trattamento sopra menzionato, di riconoscere a questa persona il trattamento previsto dalla Convenzione”. Si noti che detta Raccomandazione si riferisce esclusivamente alle persone

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si stabilì che questi ultimi sarebbero stati trattati dalla Convenzione del 1951, mentre i soli apolidi sarebbero stati trattati dalla Convenzione del 195444.

L’articolo 2 enuncia gli obblighi generali dell’apolide con riferimento al paese in cui risiede45. Essi comprendono l’obbligo di rispettare le leggi e i regolamenti, così come le

misure prese per il mantenimento dell’ordine pubblico46.

L’art. 3 fa riferimento al divieto di discriminazione, da parte degli Stati contraenti, per razza, religione o paese di origine, nell’applicazione agli apolidi delle disposizioni della Convenzione47.

Segue l’articolo 4 in base al quale lo Stato contraente deve riconoscere all’apolide, indipendentemente dal suo credo, la stessa libertà di praticare la sua religione e di insegnarla ai propri figli, come viene riconosciuto ai cittadini che professano la stessa religione48.

L’articolo 5 chiarisce poi che nessuna disposizione della Convenzione pregiudica altri diritti e vantaggi eventualmente accordati agli apolidi in base all’ordinamento legislativo di uno Stato o in virtù di trattati internazionali49.

44 “Considerando che unicamente gli apolidi rifugiati possono beneficiare della Convenzione del 28 luglio 1954 sullo statuto dei rifugiati e che esistono numerosi apolidi ai quali detta Convenzione non è applicabile”. Preambolo della Convenzione sullo statuto degli apolidi.

45 Questo articolo riprende letteralmente l’articolo 2 della Convenzione sui rifugiati, con l’unica modifica della sostituzione del termine rifugiato con quello di apolide. Robinson N., A commentary on the

Convention relating to the status of stateless persons. Its history and interpretation, Institute of Jewish

Affairs, World Jewish Congress, 1955, pp. 14-15.

46 Nel senso che gli apolidi devono essere soggetti ai vincoli posti alla loro attività politica in quanto ritenuti necessari per l’interesse dell’ordine pubblico del paese. Trattasi di un’espressione introdotta per venire incontro al suggerimento, proposto dalla Francia, di restringere l’attività politica dei rifugiati. Cfr. Farci P.,

op. cit., p. 153.

47 Questo articolo ripete le stesse parole dell’articolo 3 della Convenzione sui rifugiati. Robinson N., in op. cit., pp.15-18.

48 Tale articolo non era nel progetto della Convenzione sui rifugiati ma su suggerimento dei rappresentanti della Svezia e della Svizzera, la Conferenza lo introdusse nella Convenzione. Robinson N., in op. cit., p. 18.

49 La norma ricalca esattamente l’articolo 5 della Convenzione del 1951. N. Robinson, in op. cit., pp. 18-19.

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L’articolo 650 invece specifica il significato di una locuzione che ricorre più volte nella

Convenzione. Si tratta dell’espressione “nelle stesse circostanze” che ricorre quando gli apolidi vengono trattati nello stesso modo degli altri stranieri, oppure nello stesso modo dei cittadini che si trovano, appunto, nelle medesime situazioni. Tra le condizioni che l’interessato dovrebbe adempiere, sono escluse naturalmente quelle che per loro natura non possono essere ottemperate da un apolide51.

L’art. 752 va verso la direzione di garantire agli apolidi uno status giuridico accettabile.

Infatti da un lato, al comma 1, stabilisce che deve essere accordato loro almeno lo stesso trattamento riservato agli stranieri in generale, che corrisponde al trattamento minimo di cui godono gli stranieri in un determinato Stato53.Dall’altro lato, al comma 2, consente a tutti gli apolidi che hanno soggiornato tre anni, di fruire dell’esenzione dalla condizione di reciprocità legislativa54. Tale espressione sta a significare che a una persona debbono essere concessi quei diritti che normalmente sono attribuiti sulla base della reciprocità, senza che sia richiesta la stessa reciprocità. La giustificazione sta nel fatto che gli apolidi non godono della protezione di uno Stato straniero. Di conseguenza gli apolidi non possono beneficiare della regola della reciprocità. Inoltre il terzo comma del medesimo articolo sottolinea che l’apolide mantiene tutti i diritti e doveri di cui godeva in

50 N. Robinson, in op. cit., pp. 19-20.

51 A sostenere l’introduzione di questo articolo, furono in primo luogo i rappresentanti della Gran Bretagna e dei Paesi Bassi, i quali precisarono che gli apolidi, se collocati sullo stesso piano degli altri stranieri, sarebbero stati obbligati a rispettare determinati requisiti che invece non avrebbero potuto rispettare (per esempio fornire la prova della loro nazionalità). Cfr. Farci P., op. cit., p. 157.

52 Questa norma rappresenta un’incorporazione dello stesso articolo della Convenzione sui rifugiati. N. Robinson, in op. cit., pp. 20-24.

53 Si noti che tale disposizione non mira a stabilire un trattamento uniforme per gli apolidi nei vari paesi, ma anzi lascia ad ogni Stato il potere di legiferare sugli stranieri e di fissare la portata dei diritti

riconosciuti agli apolidi.

54 La reciprocità legislativa consiste nel principio per cui lo straniero è ammesso a godere dei diritti attribuiti al cittadino a condizione che il medesimo trattamento sia accordato al cittadino nello Stato d'origine dello straniero. Dizionario Giuridico Brocardi.

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precedenza all’applicazione della Convenzione. Infine il quarto, esorta gli Stati a concedere agli apolidi diritti e doveri superiori rispetto a quelli che gli competono, riferendosi ai commi secondo e terzo, e a far valere l’estensione della condizione di reciprocità anche a chi non adempie alle condizioni della disposizione.

Passando all’articolo 855, viene disposto che in caso di misure straordinarie prese contro la persona, i beni o gli interessi dei cittadini e degli ex-cittadini di uno Stato straniero, le stesse non dovranno essere applicate all’apolide per il solo fatto di aver posseduto in passato la cittadinanza di quel paese56. É il caso dei provvedimenti che in tempo di guerra o di tensione tra due Stati, sono presi da uno Stato per limitare i diritti dei cittadini del paese con il quale è in contrasto57. Nel corso dell’ultima guerra, infatti, queste misure straordinarie vennero applicate non solo ai cittadini attivi dello Stato nemico ma anche alle persone che erano state private o avevano perso la nazionalità. Lo scopo della norma è dunque quello di impedire il ripetersi di tali pratiche. Tuttavia la norma stessa prosegue enunciando un’eccezione in favore degli Stati che, in base alla loro legislazione, non possono applicare la norma generale prevista in questo articolo58.

L’art. 959 precisa che possono essere adottate misure provvisorie in tempo di guerra o

in presenza di gravi ed eccezionali circostanze, nei confronti di una persona determinata.

55 Questo articolo riproduce, con qualche modifica, l’articolo 8 della Convenzione sui rifugiati. N. Robinson, in op. cit., pp. 24-27.

56 Se ne deduce che uno Stato è libero di applicare delle misure eccezionali ad un apolide, se adottate per motivi estranei alla sua precedente nazionalità.

57 E/AC.32/SR. 35, p. 8.

58 «Gli Stati contraenti che, secondo la loro legislazione, non possono applicare la norma generale prevista nel presente articolo autorizzano in casi appropriati esenzioni in favore di tali apolidi”. Questa frase fu

inserita per soddisfare quei governi che non volevano accettare la regola generale prevista nella prima parte dell’articolo. Per tale motivo la norma venne predisposta in questa forma perché fosse accettata da questi Stati, al fine di indurli ad assumere almeno alcuni impegni nei confronti dei rifugiati. Cfr. Farci P., op. cit., p. 160.

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Tuttavia esse devono essere sospese una volta accertato che tale persona sia effettivamente un apolide o qualora non siano giustificate da interessi di sicurezza nazionale60.

Il primo comma dell’articolo 1061 stabilisce che il soggiorno forzato di un apolide in

uno Stato contraente, dovuto a un trasferimento avvenuto durante l’ultima guerra, dove vi è stato portato senza i documenti o contro la sua volontà, viene computato quale periodo di residenza richiesto per il godimento di determinati diritti. Mentre il secondo comma richiede allo Stato di considerare come se fosse stato un unico periodo, due periodi in cui si è verificata un’interruzione forzata. L’unico requisito richiesto è che l’apolide ritorni alla sua precedente residenza prima dell’entrata in vigore della Convenzione nello Stato di sua residenza62.

L’articolo 1163 si occupa invece della gente di mare apolide ovvero di quelle persone

apolidi regolarmente impiegate come membri dell’equipaggio delle navi battenti la bandiera di uno Stato contraente. La norma obbliga gli Stati a considerare favorevolmente le loro richieste64 in merito al loro stabilimento o all’ammissione temporanea, nel territorio dello Stato di bandiera. La ratio sta nel fatto che queste persone non godevano di un permesso per soggiornare ovunque, tranne che a bordo della nave dove svolgevano

60 Lo scopo dell’articolo 9 della Convenzione sui rifugiati era quello di procedere in tempo di guerra ad internare i rifugiati a cui poi avrebbe fatto seguito il controllo sulle loro persone. Questa posizione venne pertanto applicata anche agli apolidi. SR. 6, p. 15, SR 26, p. 6 e E/AC.32/SR. 35, p.6.

61 Trattasi di una disposizione già prevista dall’articolo 10 della Convenzione sui rifugiati. N. Robinson, in op. cit., pp. 28-29.

62 É stato ritenuto che questo articolo non si riferisca solo ai casi da esso espressamente previsti ma che abbia invece una portata generale, per esempio quando la legge di uno Stato richiede, per la naturalizzazione della persona, un certo periodo di residenza. SR. 35, p. 12.

63 Anche in questo caso venne riprodotto per intero il testo dell’articolo 11 della Convenzione sui rifugiati. Detta disposizione fu adottata all’unanimità dalla Conferenza sui rifugiati. N. Robinson, in op. cit., pp. 29-30.

64 Trattasi pur sempre di una disposizione discrezionale. Infatti l’obbligo per gli Stati consiste nel dover trattare queste richieste e nel non poterle rigettare senza un valido motivo.

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la loro attività, e pertanto non potevano scendere a terra quando la nave faceva scalo in un paese.

Il secondo capitolo della Convenzione riguarda la condizione giuridica degli apolidi. L’art. 1265, in particolare, si occupa dello status personale degli apolidi, vale a dire della

loro capacità giuridica, del loro diritto di famiglia e del relativo regime matrimoniale, della successione e dell’eredità. Esso afferma che lo statuto personale dell’apolide viene determinato in base al paese di domicilio o, in mancanza di un domicilio, in base alla legge del paese di residenza66. Inoltre tutti i diritti in precedenza acquisiti, dovranno essere rispettati da tutti gli Stati contraenti, a patto che siano conformi alla propria legislazione.

Per gli articoli successivi, la Convenzione distingue situazioni in cui gli apolidi sono equiparati ai cittadini e altre in cui essi sono soggetti ad un trattamento non meno favorevole di quello concesso, nelle stesse circostanze, agli stranieri in genere. Rientrano in quest’ultima categoria l’articolo 13 sulla proprietà immobiliare e mobiliare67 e

l’articolo 15 sul diritto di associazione.

Tra i diritti elencati all’articolo 13 vi sono l’acquisto di beni mobili ed immobili e i diritti a ciò connessi, i contratti di locazione, e gli altri contratti riguardanti la proprietà mobiliare ed immobiliare68.

65 Questo articolo riproduce letteralmente la formulazione dell’articolo 12 della Convenzione sui rifugiati. N. Robinson, in op. cit., pp. 30-32.

66 Si desume che il criterio principale da prendere in considerazione è il domicilio, seguito solo in via residuale dalla residenza. Quest’ultima èstata introdotta in seguito alla consapevolezza della difficoltà di determinare il domicilio, sia per la condizione dell’apolide in sé, siaperché lo stesso concetto di domicilio varia da paese a paese. V. E/AC.7/SR. 8, par. 14.

67 Disposizione uguale alla stessa norma contenuta nella Convenzione sui rifugiati. Essa si applica agli apolidi indipendentemente dal fatto che abbiano o meno la residenza o il domicilio nel paese in cui desiderano acquistare il bene. N. Robinson, in op. cit., pp. 32-33.

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