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Mamme e papà in conflitto. Costruzioni di genitorialità su terreni incerti

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E RICERCA SOCIALE

14 febbraio 2020 - Aula Kessler del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale

Atti seminario

a cura di Diletta Mauri

costruzioni di genitorialità su terreni incerti

Mamme e papà in conflitto

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Università di Trento

Mamme e papà in conflitto

costruzioni di genitorialità su terreni incerti

Atti seminario

a cura di Diletta Mauri

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Collana: Quaderni del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale (Online) Anno: 2020

Comitato scientifico-editoriale: Paolo Boccagni

Emanuela Bozzini Andrea Mubi Brighenti Natalia Magnani Katia Pilati Segreteria di Redazione: quaderni.dsrs@unitn.it

ISSN 2465-0161

ISBN 978-88-8443-901-7

Quest’opera è distribuita con Licenza

Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale

Editore: Università di Trento Via Verdi, 26 – 38122 Trento – Italia Tel.: 0461 281322-281319

Fax: 0461 281458

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Mamme e papà in conflitto

costruzioni di genitorialità su terreni incerti

Atti seminario

a cura di Diletta Mauri

14 febbraio 2020 - Aula Kessler del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Abstract

Lo studio sulla genitorialità ha prodotto un’abbondante letteratura, con un numero crescente di esperti che stabiliscono standard, impartiscono istruzioni e identificano errori. D’altra parte, le voci di coloro che hanno responsabilità genitoriali, soprattutto in condizioni complesse come l’alta conflittualità tra i genitori, raramente sono state esplorate sistematicamente. Il seminario è stato promosso dal progetto di ricerca CoPInG, che intende colmare questo vuoto di conoscenza e offrire un contributo per lo sviluppo di politiche e interventi più efficaci ed inclusivi. Si è proposto di fornire spunti di riflessione circa le possibili rappresentazioni di genitorialità nei contesti di alta conflittualità ed è stato aperto uno spazio di confronto su criticità e risorse del sostegno professionale in questo ambito, anche in relazione alle numerose professionalità coinvolte.

Annalisa Benacchio, operatrice del Punto Famiglie dell’Associazione A.M.A. (Auto Mutuo Aiuto)

Teresa Bertotti, professoressa ordinaria di Sociologia e Servizio Sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento

Sonia Chiusole, coordinatrice Area Minori e Adulti della Comunità delle Giudicarie

Silvia Fargion, professoressa ordinaria di Sociologia e Servizio Sociale presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento e principal investigator progetto CoPInG

Luca Fazzi, professore ordinario e presidente del corso di laurea triennale in Servizio Sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento

Franca Garreffa, professoressa aggregata di Sociologia Giuridica, della Devianza e Mutamento Sociale presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria

Rocco Guglielmi, operatore di Spazio Neutro per Cooperativa Progetto 92

Diletta Mauri, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento

Franca Olivetti Manoukian, psicosociologa Studio APS

Nicoletta Poli, coordinatrice Area Tutela dell’Ufficio Famiglie e Minori del Servizio Attività Sociali del Comune di Trento

Angela Rosignoli, presidente del Consiglio Regionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali del Trentino Alto Adige

Federica Sartori, dirigente del Servizio Politiche Sociali della Provincia Autonoma di Trento

Livia Taverna, ricercatrice a tempo determinato in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzanohg

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1. INTRODUZIONE

Teresa Bertotti, professoressa ordinaria di Sociologia e Servizio Sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento

Sono molto felice di darvi il benvenuto a questo primo seminario della ricerca “Construction of Parenting on Insecure Grounds” (CoPInG) di cui Silvia Fargion vi parlerà più estesamente a breve. Oggi è San Valentino e vorrei utilizzare questa curiosa coincidenza per celebrare la speranza che dai terreni infranti nascano dei nuovi fiori, dei nuovi amori, nuovi affetti. Come avete visto, il manifesto di oggi porta un’immagine di terreni fratturati, il disegno che rappresenta il progetto racconta di persone che camminano sul filo. Silvia Fargion vi spiegherà il senso di questo nome e di questa immagine.

Questo seminario ha un duplice scopo.

In primo luogo è un modo per far conoscere questo progetto e il nostro lavoro di ricerca, non solo alla sua conclusione - come usa solitamente fare -, ma lungo tutto il suo percorso a partire dalle fasi iniziali. Un pò come se volessimo tenervi accanto, mostrarvi e condividere con voi, il percorso di scoperta e progressiva ri-calibrazione degli interrogativi e degli elementi che incontriamo strada facendo e che richiedono momenti di confronto e di scambio per poter essere com-presi e afferrati.

In secondo luogo, e questo è più immediato, vuole essere un momento per offrire agli operatori ma anche a noi gruppo di ricerca, e alle persone direttamente coinvolte nelle situazioni di separazioni conflittuali, un’occasione di pensiero e di scambio, un momento di arricchimento e di riflessione attorno alcuni stimoli. Un modo per pensare insieme, per condividere e interrogarci su aspetti che vanno al di là della dimensione più strettamente operativa e della dimensione individuale con cui si affrontano i problemi, sia professionalmente che personalmente.

Il seminario però costituisce una parte stessa della ricerca. Infatti, come meglio spiegherà Silvia Fargion, nella sua origine la ricerca ha come attività centrale l’ascolto dei genitori. A loro è rivolta la parte più significativa delle interviste: sono loro i principali interlocutori, i portatori di quei punti di vista, troppo spesso non ascoltati che abbiamo voluto mettere al centro della nostra attività di indagine. Però, dato che la ricerca ha come finalità il miglioramento dell’intervento del servizio sociale nella delicata attività di supporto alla genitorialità nelle sue diverse manifestazioni e nelle complesse transizioni, abbiamo voluto creare delle occasioni periodiche in cui poter accogliere anche il punto di vista degli operatori.

Così questo seminario non sarà solo un momento in cui potremo ascoltare il prezioso contributo che ci porterà Franca Olivetti Manoukian, ma sarà anche un modo per raccogliere il punto di vista degli operatori. È lo spazio che abbiamo voluto creare per tener conto di questo aspetto ed è parte della ricerca. I gruppi di discussione a cui vi siete iscritti e che verranno condotti da un membro del gruppo di ricerca e da uno degli operatori dei servizi del Trentino verranno infatti registrati e diventeranno parte del materiale empirico e dei dati che, insieme alle interviste, saranno il cuore del nostro lavoro di analisi.

Abbiamo in questo modo voluto ampliare la possibilità per gli operatori di portare la loro voce e di dire il loro punto di vista. Abbiamo voluto creare uno spazio per portare la propria esperienza e le rappresentazioni di quali siano le principali difficoltà del lavoro con famiglie intrappolate

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nelle separazioni ad alta conflittualità. Sappiamo che si tratta di difficoltà che sfidano e mettono alla prova gli operatori e i servizi, di situazioni che talvolta si protraggono per anni senza che si riescano a trovare delle buone vie di uscita. In cui spesso non è facile rintracciare risorse e modi per approcciarsi adeguati, in cui punti di vista su cosa sia bene e cosa non lo sia confliggono ed entrano in tensione. In un contesto di lavoro per il servizio sociale spesso spinto su una dimensione troppo esecutiva o di pura attivazione di servizi messi in campo da altri. Un contesto in cui il lavoro degli assistenti sociali è molto ‘osservato’ e ‘giudicato’, proprio per la sua rilevanza e la sua potenzialità. Dai genitori in conflitto, dai ragazzi e dai bambini figli di quei genitori, dagli avvocati, dai magistrati e dai vari soggetti a diverso titolo coinvolti. Attraversato dal timore di sbagliare, dal sentirsi tirati a ‘prendere parte’, dal pensare di non avere il tempo sufficiente per aver cura delle relazioni e per provare a costruire e sviluppare un terreno minimo di fiducia e incontro. Un campo di intervento con alti margini di incertezza.

A queste voci vogliamo provare a dare spazio. Ai gruppi partecipano prevalentemente gli operatori ma ad essi abbiamo anche voluto invitare alcuni genitori con i quali abbiamo svolto delle conversazioni preliminari. Siamo lieti che abbiano accolto il nostro invito, ringraziandoli fin da ora per lo sforzo che hanno fatto di ritagliare un tempo in una giornata lavorativa.

L’ultima sottolineatura riguarda proprio questa impostazione, che è distintiva del metodo che si è deciso di adottare nella ricerca. Un metodo che vede nella partecipazione e nella promozione della collaborazione dei diversi soggetti un valore specifico.

Chiudo ringraziandovi della folta partecipazione, ed esprimendovi la nostra contentezza per l’avvio di questo percorso, e la gratitudine per le belle collaborazioni che si stanno già attivando che promettono di rendere questo terreno incerto così generativo.

2. L’INNOVAZIONE NELLA RICERCA SOCIALE

Luca Fazzi, professore ordinario e presidente del corso di laurea triennale in Servizio Sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento

Questo è un seminario molto importante per la professione e la formazione, per diversi motivi: da un lato perché attualmente la tematica dei minori mette il servizio sociale sotto pressione, quindi parlarne in modo non ideologico ma scientifico è molto importante, dall’altro penso che sia indispensabile fare ricerca su queste problematiche. La ricerca è una parte integrante del servizio sociale e io penso sia fondamentale investirci, non perché i professionisti non abbiano le competenze per affrontare le questioni, ma perché la realtà è talmente in cambiamento, talmente complessa, che abbiamo continuamente bisogno di nuove informazioni. Ritengo inoltre la ricerca sia fondamentale per i professionisti e per gli studenti, ossia l’oggetto del nostro lavoro.

Infine credo sia molto importante, questo lo apprezzo particolarmente, che questo tipo di ricerca sia fatta in collaborazione con i beneficiari dei servizi, con i partner, cioè i genitori e in ultima istanza anche i minori. Questo tipo di ricerca che attiva e coinvolge i beneficiari non è una prassi molto consolidata in Italia, credo sia invece molto importante da seguire, sia per quanto riguarda la ricerca che per quanto riguarda l’attività professionale. Sono quindi molto contento di poter portare i saluti e ringrazio Franca Olivetti Manoukian che è venuta qui ancora una volta e vi auguro buon lavoro.

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3. NUOVE RAPPRESENTAZIONI PER RICOMPORRE I CONFLITTI

Federica Sartori, dirigente del Servizio Politiche Sociali della Provincia Autonoma di Trento

L’ambito dei minori, soprattutto in questa fase, è attraversato da una serie di processi, anche di polarizzazioni di rappresentazioni, che arriva un po’ a tutti i livelli.

Inizio con un saluto che mi piace ancorare a questo luogo, che è un luogo in cui tanti di noi hanno iniziato ad imparare una professione importante che è quella dell’assistente sociale. Qui abbiamo mosso i nostri primi passi e abbiamo cercato di lavorare, di imparare, di metterci alla prova con i tirocini. Forse l’ambito di lavoro con i minori e con le famiglie è sempre stato quello che più ci ha mosso in termini di tensione, di ricerca, anche un po’ di preoccupazione.

Ce l’abbiamo messa tutta, abbiamo iniziato a lavorare ed ora torniamo con una prospettiva diversa che ci può venire da questa ricerca importante, che ci porterà a raccogliere il punto di vista delle famiglie in alta conflittualità, anche rispetto probabilmente alla percezione del lavoro con l’assistente sociale e con la rete dei servizi. Arricchire la nostra prospettiva d’intervento con questo punto di vista, credo sia un aspetto molto importante per poi poter tornare al nostro lavoro con degli elementi in più che hanno a che fare con la dimensione delle rappresentazioni delle famiglie nei confronti dei servizi, ma anche dei servizi nei confronti delle famiglie.

Le rappresentazioni sociali sono delle grandi semplificazioni, possono essere giuste, sbagliate, polarizzate, fisse, mobili, etc, però ci sono ed hanno una potenza importante. La responsabilità che abbiamo come rete dei servizi e singoli professionisti è di riconoscerle e provare ad accostare anche alle rappresentazioni più difficili o polarizzate, altre rappresentazioni più costruttive e più positive per la relazione di aiuto.

La ricerca in questo è una grande opportunità, proprio perché va oltre la pancia, le nostre rappresentazioni o semplificazioni, e vede le famiglie come le prime protagoniste. Poter quindi costruire una buona prassi basata su un rigore scientifico e con delle comparazioni a livello nazionale, restituisce alla professione e al nostro sistema, la giusta attenzione.

Chiudo con due rischi e un auspicio che ci facciamo rispetto alla giornata di oggi e al prosieguo degli interventi che ci aspettano. I due rischi sono legati alla nostra responsabilità, come rete dei servizi e singoli professionisti. Nelle rappresentazioni distorte c’è sempre qualcuno che perde e perde qualcosa di importante che è un legame familiare, la possibilità di cambiamento, la fiducia nella possibilità di potersi rivolgere ai servizi in maniera costruttiva. Abbiamo quindi una responsabilità importante anche rispetto all’integrazione tra servizi, perché nei buchi della mancata integrazione, probabilmente si sedimentano le esperienze più negative che magari poi è anche difficile contrastare con altrettante esperienze positive. Parlando di conflitto, una responsabilità importante che abbiamo come rete dei servizi, che magari a volte nella mancata integrazione o difficoltà di integrazione fa fatica a trovare compimento, è quella di non alimentare conflitto su conflitto. Al contrario l’obiettivo degli interventi integrati credo debba essere quello di aiutare le persone nel tentativo di ricomporre questo conflitto, che non va assolutamente alimentato.

L’auspicio ha a che fare con quello che ci aspetta, un lavoro molto importante e prezioso che è quello di un legame familiare genitoriale da sostenere, da rafforzare, da integrare. Su questo il passaggio da fare è quello che tende a rinforzare il legame genitoriale e che lo ponga al centro degli interventi, promuovendo quindi azioni di cambiamento che possano sostenere e alimentare esperienze positive pur nella conflittualità e nella difficoltà.

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4. COMUNITÀ PROFESSIONALE IN PRIMA LINEA NELLA COMPLESSITÀ DELLE RELAZIONI

Angela Rosignoli, presidente del Consiglio Regionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali del Trentino Alto Adige

Sono in sostituzione del presidente nazionale, Gianmario Gazzi, che si scusa per non essere qui, ma che avrebbe ringraziato in maniera sentita i professori dell’Università di Trento, con tutti gli altri professori della Libera Università di Bolzano, della Calabria e di Trieste, per aver dato vita a questo progetto che ha il merito di mettere in prima linea il servizio sociale professionale. Tutti i professori coinvolti sono infatti colleghi assistenti sociali, quindi per la nostra comunità professionale è anche motivo d’orgoglio il poter essere noi ad affrontare il tema del sostegno alla genitorialità, che è un tema molto complesso e come già si diceva nel comunicato che ha anticipato questo convegno, non è solo da conoscere e da comprendere, ma anche da sostenere con nuovi strumenti di lettura.

In questo senso, sia la Fondazione Nazionale degli Assistenti Sociali sia il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali si assumono l’impegno di sostenere questa ricerca, non solo dando comunicazione dei vari step e progressi, ma soprattutto impegnandosi fortemente nel diffonderne gli esiti, in quanto il fine ultimo di ciò che ha inizio oggi, è riuscire a qualificare ancor di più gli interventi professionali degli assistenti sociali

5. LA RICERCA CON GENITORI IN SITUAZIONI DI INCERTEZZA

Silvia Fargion, professoressa ordinaria di Sociologia e Servizio Sociale presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento e principal investigator progetto CoPInG

Mamme e papà in conflitto è il seminario di avvio pubblico di una ricerca finanziata dal ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca all’interno del programma PRIN. Coping è l’acronimo del titolo in inglese (Construction of parenting on insecure grounds) e lo abbiamo mantenuto perché in inglese la parola Coping significa ‘fronteggiare’: questa ricerca intende proprio esplorare le strategie di fronteggiamento dei genitori, che per motivi diversi si trovano a svolgere il proprio ruolo in contesti di incertezza, nonché degli assistenti sociali che si trovano ad affiancare questi genitori.

La ricerca ha origine da uno studio esplorativo promosso dall’università di Bolzano. Il nome della ricerca, Dynamic patterns of kinship relations and child rearing practices - Dypkin (Pattern dinamici di relazioni e pratiche di educazione dei figli) illustra bene il punto di partenza del progetto. Un’analisi dei dati nell’ area della provincia di Bolzano aveva infatti permesso di cogliere come le dinamiche che caratterizzano le famiglie in Italia fossero ben rappresentate anche nella area dell’Alto Adige, con un aumento della instabilità familiare e una presenza sempre crescente di nuove forme di famiglia (Widmer, 2016; Zanatta, 2008). La principale domanda di ricerca di Dypkin era relativa al comprendere come coloro che svolgono funzioni genitoriali trovassero dei modi per rispondere a quelli che sono generalmente riconosciuti come bisogni fondamentali nell’infanzia, e cioè i bisogni di stabilità e di una base sicura. Questo nel contesto della fluidità e instabilità delle nuove forme di relazione all’interno delle quali ha luogo l’educazione e cura dei bambini. La ricerca ha dato dei risultati estremamente ricchi, forse uno degli aspetti più interessanti riguarda proprio

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le nuove forme di famiglia in particolare quelle connesse all’aumento delle separazioni e delle famiglie ricostruite. Quello che nella nostra ipotesi poteva rappresentare una sfida per i genitori, è risultato invece qualcosa che viene nelle maggior parte dei casi considerato, sia dai genitori sia dai professionisti del settore, una situazione che fa parte della normalità. Che i bambini vivano in due case, che abbiano più famiglie, che crescano in famiglie ricostruite ecc. rappresentano per tutti qualcosa che è divenuto usuale e che si è appreso a fronteggiare, qualcosa che può essere fonte di sofferenze, ma di per sé non crea problemi nella crescita. Se i genitori riescono a ricreare nuove forme di equilibrio i bambini crescono sereni. Chiaramente potrebbe essere interessante approfondire questo processo di ‘normalizzazione’ delle nuove famiglie (Ribbens McCarty et al, 2013). Tuttavia a fianco di questo risultato, è anche emerso come altre situazioni pongano sfide estremamente alte sia per i genitori sia per i servizi sociali (Bertotti, 2010). Le difficoltà e le crisi che richiedono più sforzi e su cui genitori e servizi si sentono scoperti emergono quindi da altre situazioni e contesti. Le problematiche che vengono considerate come particolarmente sfidanti sono connesse per esempio a processi di impoverimento e di insicurezza economica delle famiglie, all’instabilità connessa alle migrazioni forzate. Pur non rappresentando di per sé un problema, gli operatori si sentono tuttora impreparati ad affrontare richieste e compiti in relazione alle nuove famiglie arcobaleno. Infine una delle situazioni che sono risultate particolarmente critiche rispetto alla genitorialità sono le situazioni di alta conflittualità familiare nelle separazioni.

Quest’ultimo tema è in specifico il tema dell’unità di ricerca di Trento. Il team che fa capo a Trento è composto oltre che da me, da Teresa Bertotti, Diletta Mauri per Università di Trento, Franca Garreffa per l’Università della Calabria e Livia Taverna per la Libera Università di Bolzano.

La ricerca parte da una contestualizzazione dei cambiamenti sociali che hanno toccato i ruoli genitoriali: la società contemporanea è infatti contraddistinta da cambiamenti significativi nella vita familiare e nei modi di educare bambine e bambini. Nella società occidentale i ruoli genitoriali sono stati fortemente destabilizzati sia per i cambiamenti nelle relazioni personali, sia per le instabilità dei contesti sociali e culturali in cui la cura ed educazione di minori. Ciò che caratterizza la fase attuale è la contemporanea presenza di differenti modelli familiari e l’instabilità e fluidità delle strutture familiari, in un contesto sociale esso stesso instabile e in rapido cambiamento (Naldini, 2016; Ramaekers, & Suissa, 2012; Richter, & Andersen, 2012).

In questo contesto si è sviluppata una ideologia che in area anglosassone è stata definita ‘genitorialità intensiva’, ma di cui si vedono ampie manifestazioni anche in Italia (Faircloth & Murray, 2015; Satta. 2017). I tratti fondamentali di questa corrente sono: una tendenza ad individualizzare e ‘privatizzare’ le funzioni di educazione delle nuove generazioni. Si è parlato inoltre di una sorta di professionalizzazione della genitorialità, che viene letta in termini di competenze che devono essere apprese. Si tratta di una visione che in realtà è profondamente ambigua in quanto i genitori vengono visti come da una parte totalmente e singolarmente responsabili per l’educazione dei figli e figlie, dall’altra, in particolare le madri (Widding, 2015; Daly,2013; Hays, 1996), come incapaci, insicuri e bisognosi di guida da parte degli esperti (Satta, 2017; Gillies, 2008).

Il diffondersi dell’ideologia della ‘gentorialità intensiva’ si coniuga e si intreccia con il discorso neoliberista che è divenuto dominante nelle società occidentali e in cui le questioni sociali tendono ad essere reinterpretate come questioni individuali, meramente psicologiche, mentre la dimensione sociale passa sullo sfondo (Ramaekers & Suissa, 2012; Nyby et al. 2018).

In questo quadro la ricerca in provincia di Bolzano ha confermato gli esiti di studi precedenti che hanno sottolineato la situazione di solitudine vissuta dai genitori, la loro percezione di essere

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sotto attacco, una situazione che chiaramente diventa più grave nel momento in cui le famiglie affrontano situazioni di incertezza e difficoltà particolari. Va rimarcato però che la ricerca ha spesso ignorato la prospettiva dei genitori, in particolare in relazione a situazioni di vulnerabilità e/o di sfida (McDonald-Harker, 2016). I genitori vengono trattati come ‘oggetti’ di ricerca, viene studiato l’impatto del loro stile genitoriale e solo più raramente viene esplorata la loro posizione e si dà voce in modo sistematico alla loro prospettiva.

La ricerca CoPinG si pone l’obiettivo di contribuire a colmare questa carenza di conoscenza e di confrontare la visione dei genitori, le loro idee sulla cura ed educazione, con quanto emerge nelle politiche sulla famiglia e quanto espresso dai professionisti che intervengono con le famiglie.

Come si è anticipato, il progetto si concentra sulla genitorialità in particolari contesti quali situazioni di povertà (Università di Trieste), migrazione forzata (Università della Calabria), famiglie arcobaleno (Libera Università di Bolzano), alta conflittualità familiare (Trento).

Lo studio preliminare condotto a Trento nei primi mesi di ricerca ha confermato come l’alta conflittualità genitoriale rappresenti una questione in crescita e come sia una delle situazioni che impegnano maggiormente i servizi. La strategia ricerca che abbiamo scelto è qualitativa e partecipata. Qualitativa in quanto intendiamo aprire uno spazio perché le diverse voci possano essere ascoltate senza essere inquadrate e forzate negli schemi precostituiti dei ricercatori. Partecipata in quanto Il progetto mira a coinvolgere, come consulenti nel disegno di ricerca, soggetti e associazioni rilevanti rispetto al tema, questo per garantire una aderenza del progetto alle concrete situazioni ma anche la sua significatività in relazione alle pratiche. I dati verranno raccolti attraverso interviste narrative a circa 50 genitori e a 20 assistenti sociali coinvolti negli interventi con le famiglie ad alta conflittualità.

Attraverso il preliminare confronto con professionisti, operatori e genitori abbiamo identificato alcune questioni che risultano centrali nella genitorialità in alta conflittualità, quali elementi della cura materiale, la dimensione del ruolo di guida e normativo dei genitori, la gestione della dimensione economica. E abbiamo identificato alcuni stimoli che aiutino i genitori a parlare della loro esperienza, senza presupposti che indirizzino la comunicazione.

Il coinvolgimento di assistenti sociali avverrà a partire dal prossimo settembre in termini di interviste, ma avviene già adesso sia nello studio preliminare svolto in questi mesi, sia attraverso iniziative come questo seminario che favoriscano momenti di riflessione e confronto con colleghi e colleghe.

I risultati attesi sono la produzione di sapere utile per approntare interventi e metodologie che tengano conto delle esperienze maturate dalle professioniste e dai professionisti e che trovino il modo di sistematizzare l’esperienza sul campo rendendola condivisibile. Nello stesso tempo pensiamo di poter arricchire le competenze maturate sul campo, con una più approfondita conoscenza delle percezioni e delle competenze dei genitori per sviluppare metodi di intervento che siano in grado di supportare e non ostacolare le strategie risolutive dei genitori stessi.

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6. COSTRUZIONI DI GENITORIALITÀ SU TERRENI INCERTI

Franca Olivetti Manoukian, psicosociologa Studio APS

Ho accettato molto volentieri questo invito perché si sta facendo una ricerca e io, nei molti anni di lavoro, ho sempre cercato di fare ricerca, che è ciò che può aiutarci a sopravvivere in questa società, soprattutto la ricerca su problemi che sono vitali per la convivenza quotidiana. Dirò alcune cose su di me per capire da dove viene ciò che dirò.

Ognuno di noi ha delle rappresentazioni, che sono collegate alla nostra storia, alle nostre vicende, agli incontri che abbiamo fatto, alle elaborazioni che siamo riusciti a produrre.

Io ho una formazione di base di tipo sociologico, soprattutto sono stata in Germania e in Francia, perché all’epoca in Italia la sociologia era balbettante. Quando sono tornata in Italia ho fondato con altri colleghi lo Studio APS che vive a Milano da molti anni e che ha cercato di proporre attività di formazione e di consulenza organizzativa in un’ottica di ricerca a vari tipi di organizzazioni.

Ricostruendo a posteriori, ci sono stati due binari che mi hanno guidata. Uno è stato il cercare di collegare la teoria con la pratica, non nel senso di applicare la teoria, ma di concettualizzare la pratica, cioè di farla diventare esperienza che diventi comunicabile, confrontabile, perfettibile, ricca anche di spunti per ulteriori confronti e acquisizioni. Questo è stato il motivo principale per cui non sono rimasta all’università, in quanto mi sembra che questa saldatura sia molto difficile.

L’altro filone è stato quello di cercare di avere più interesse ai problemi che alle discipline, e questa è stata una delle ragioni che mi ha spostato dall’università a altri contesti, perché mi sembra che le problematiche con le quali siamo confrontati siano così complesse che non possono essere affidate a una sola disciplina. Abbiamo la necessità di collegare tra loro visioni, sguardi, approcci, che vengano da più contesti disciplinari. Per questo mi sono infilata in quell’area interstiziale che in Francia chiamavano psicosociologia, che anche in Italia è venuta fuori e cerca di collegare un approccio più psicologico e psicanalitico, con un approccio sociologico, ed insieme ad alcuni riferimenti antropologici, alla conoscenza di fenomeni economici e giuridici, è molto importante per affrontare questa multidisciplinarietà. Questo sguardo aperto e interagente è molto interessante per affrontare i problemi di cui ci occupiamo oggi.

Come sono arrivata ai servizi? Per i primi 10 anni della mia attività ho lavorato con grandi aziende industriali, con imprenditori, soprattutto aziende che arrivavano dal mondo anglosassone ed interessate ad introdurre nel funzionamento organizzativo delle modalità di lavoro differenti come gruppi autonomi di lavoro, coordinamento più orizzontale etc.

Dopo la legge Basaglia, nei primi anni ‘80, sono arrivati i servizi, inizialmente psichiatria e tossicodipendenza. Qualcuno che mi conosceva mi ha spinta a riconoscere l’esigenza di affrontare il tema dei ruoli di coordinamento, le equipe allora erano l’elemento organizzativo fondamentale dei servizi.

Per me è stata una scoperta, una croce e una delizia. Mi sono sembrate delle organizzazioni difficilissime, in confronto alle organizzazioni industriali con le quali avevo lavorato c’erano dei problemi molto più complicati, molto più profondi e implicanti le persone e c’erano dei fenomeni molto interessanti da studiare, ecco la ricerca. Per me è stato come si fosse aperto un mondo, poi mi sono data questa spiegazione che i servizi possono contribuire alla qualità della vita della gente. I servizi presenti nella quotidianità possono fornire alle persone dei supporti, delle indicazioni, degli elementi di miglioramento rispetto a situazioni di pesantezza e di sofferenza non indifferenti.

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Mi sono impegnata anche in quella direzione lì e l’ho fatto anche perché questi lavori sono fatti dalle donne per le donne, ma è importante che in questi servizi si lavori per fare uscire le donne dal lavoro femminile e domestico, e quindi non riportare nel sociale questa forma di “casalinghitudine” che spesso riveste l’impegno delle donne nella società.

È un lavoro molto difficile e grazie a questa idea della ricerca ho lavorato in molti contesti diversi. Non solo nei servizi sociali, perché si impara molto dalla comparazione, dal vedere come certi fenomeni si ripetono. Mi sono occupata degli ospedali, perché tra il sanitario e il sociale il rapporto è fondamentale. La cosa assurda è che mi sono accorta che il sociale andava dietro al sanitario invece che essere il sanitario che si sposta sul sociale. Questo è un elemento fondamentale, quando pensiamo che abbiamo la metà delle patologie o forse anche più che sono croniche, sono quelle patologie in cui i medici dicono “Non c’è più niente da fare, quindi il sociale...”.

Abbiamo un’esigenza enorme che il sociale contamini, entri, penetri le impostazioni sanitarie, perché non riescono a realizzare un lavoro di cura adeguato alle esigenze di queste situazioni.

Ho lavorato inoltre con il tribunale, e ho visto come anche in questo caso non deve essere questo a dire al sociale cosa fare, al contrario sono gli operatori che attraverso la conoscenza delle situazioni permettono di prendere decisioni più pertinenti. Arrivano ai Tribunali dei Minori persone che non hanno una specializzazione, quindi l’acculturazione dei magistrati avviene in situazione, là dove ci sono i dossier, la casistica, le separazioni. È lì che gli operatori sociali possono permettere ai magistrati di accostare dei modi di rappresentarsi le situazioni che devono necessariamente uscire un po’ dal giuridico. Perché i magistrati hanno il compito di collegare come dicono “la norma alla fattispecie”, loro conoscono benissimo la norma, ma non la fattispecie, ossia la realtà di vita in cui sono presenti i genitori, i figli, la scuola etc.

Con i magistrati non ho fatto formazione, perché solo altri magistrati possono fare loro formazione. Quindi io avevo escogitato di essere un appoggio alla loro autoformazione, inserendomi in questi modi un po’ anomali. Questo per dirvi che anche quando si sviluppano attività di formazione in contesti diversi, è importante trovare degli spiragli, delle posizioni che ti consentano di entrare in contatto anche se non hai un ruolo istituzionale. Questo lo dico perché per le assistenti sociali, ma anche per gli altri operatori, molto spesso i ruoli non sono già fatti. Non c’è già una posizione chiara, quindi si tratta di capire come inserirsi, attraverso delle modalità che possano essere apprezzate.

Per questa ragione è importante che gli operatori scrivano, non solo i docenti. Gli operatori sono depositari di contenuti esperienziali che vanno concettualizzati per essere comparati, approfonditi, articolati in modo che incontrino diverse discipline, perché così si legittima e si arricchisce il patrimonio di conoscenze del servizio sociale. Questo sapere, finché lo teniamo chiuso, coperto, ingabbiato nei nostri quadri, dagli altri viene misconosciuto. E tante delegittimazioni, presenti nel contesto sociale, sono ritornate a galla oggi. Vuol dire che non siamo stati in grado di sensibilizzare anche l’opinione pubblica rispetto a cosa significhi fare un lavoro nel sociale. Scrivere è importante per questo, aiuta noi a concettualizzare e può mettere in contatto con gli altri, perché si entra in un gioco di contaminazioni.

Permette di entrare in un gioco di interpretazioni, di confronti etc. che consentono di stare con altri, ad esempio con l’antropologia culturale, con la psicologia, con la stessa medicina, con la psichiatria, alla quale noi abbiamo tantissimo da dire. Non sono gli psichiatri che devono dirci cosa fare, il contrario. Un esempio per tutti, una signora conosciuta da 20 anni dal servizio sociale che chiede un sussidio e si è scoperto che questa aveva ereditato dai genitori una casa, aveva un

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patrimonio di azioni, di titoli etc., m ha incontrato un personaggio furbo che le ha portato via tutto. Questa signora era sempre servita dai servizi della psichiatria, che non si interessavano mai della sua collocazione sociale, di come viveva, con chi viveva, come spendeva, chi incontrava. Allora vi pare che questo sia un intervento pertinente? Ma se gli psichiatri si limitano a dare i farmaci e a controllare una volta ogni tanto con qualche colloquio se la persona li prende o non li prende, non fanno un buon servizio. Poi ricorrono all’assistente sociale quando non sanno più come fare. L’integrazione è fondamentale, ma deve essere costruita da entrambe le parti, dalla parte di ognuno che non si chiuda nel proprio.

Il tema delle mamme e papà in conflitto è molto interessante perché è come se andassimo a vedere con la ricerca, con la lente di ingrandimento, delle situazioni limite. Non sono situazioni che si incontrano tutti i giorni, e tuttavia, questo lo abbiamo imparato da tempo, quando ci sono gli incidenti, si capisce qualcosa del funzionamento normale. Ci sono situazioni esasperate, drammatiche, che permettono di capire con maggior evidenza questioni che ricorrono in quella che viene chiamata “normalità”. In quelle vicende della vita quotidiana in cui si vivono fenomeni analoghi, ma in modo più nascosto, latente, controllato.

Quindi è molto interessante che la ricerca qui a Trento abbia preso questo sguardo. Cercherò di fare un discorso in quattro punti:

- contesti: ogni volta che apriamo un discorso dobbiamo dirci dove siamo; - servizi in questo contesto: come si muovono;

- processi conoscitivi che mettiamo in atto;

- come interveniamo, con la consapevolezza che conoscenza e azioni sono due parti molto collegate, ma per ragioni analitiche le distinguiamo.

Il contesto è un elemento metodologico da tenere sempre presente. Ogni volta che apriamo uno sforzo conoscitivo, occorre dirci il contesto nel quale lo facciamo. La questione dei cambiamenti epocali la dicono tutti, guardate anche quanti ricercatori lo fanno, in Italia da Magatti a Recalcati, perfino Edgar Morin. A noi interessa richiamarli, perché questi cambiamenti che nella storia e nella società ci sono sempre stati, oggi hanno una grande accelerazione e delle ricadute molto consistenti nella vita quotidiana di singoli e famiglie. Scuotono i modelli di comportamento e di relazione e cambiano in modo consistente i nostri modi di agire e interagire, nei ruoli più tradizionali, quindi quello che mi interessa richiamare è che siamo di fronte a delle transizioni travolgenti, a cambiamenti non previsti, non immaginati, subiti più che agiti, mal governati, spesso non capiti. Questo porta a mettere in atto letture semplificate, cosa che non ci aiuta per niente. È come se attaccassimo delle etichette a delle complessità, e quindi restano staccate dalla realtà. Queste semplificazioni che vengono utilizzate perché rassicurano, portano a degli smarrimenti e

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al ricorso a idee e ideologie che pensavamo dissolte. È da tempo che Chiara Saraceno racconta agli studenti che non esiste la famiglia normocostituita e idealizzata, ma esistono “le famiglie”. Questa sembrava una cosa acquisita, invece ora torna questa idea di famiglia ideale con la mamma, con il papà, con la mamma che deve stare a casa e occuparsi dei bambini. “Non c’è tanto lavoro”, “ma forse è meglio perché così cresce meglio i figli”. Dall’altra il papà impegnato fuori, che deve portare reddito. Questo movimento sta riprendendo piede perché rassicura, è come se mettesse a posto le cose, ma le mette a posto in modo fasullo e nega l’esistenza di famiglie, come Barbagli dice nelle sue ricerche, composte, scomposte, temporanee, incerte.

Il fatto che si è acquistata una maggiore libertà di scelta rispetto al matrimonio, al fare o non fare i figli etc. ha avuto come contropartita anche una grande incertezza di ciò che avverrà. La differenziazione di situazioni familiari porta i bambini ad avere 2, a volte 3 stanze in cui dormire. Questo accade dove ci sono le separazioni esplicite, perché poi ci sono le separazioni latenti, i

“separati in casa”...

Siamo oggi di fronte a una moltiplicazione di frantumazioni, cioè famiglie che si rompono e una situazione generale di frammentazione, perché non si frequentano più gli stessi amici, si cambia la scuola, si cambiano gli insegnanti. Tutto questo porta a chiedersi cosa implichi essere o fare il genitore, che non è la stessa cosa. Sul piano soggettivo le persone si fanno questa domanda: “cosa significa per me essere genitore?” Per alcuni è un grande impegno, in termini di tempo da dedicare, denaro...è un impegno che viene vissuto con peso e a volte con rifiuto, con insofferenza, con l’idea che si dovrebbe comunque garantire l’armonia: “le famiglie non conflittuali”, che non esistono, perché ogni rapporto ha una parte di ambivalenza, quindi se si va sempre d’accordo c’è qualcosa che non funziona, significa che si negano i conflitti.

Ci sono due o tre leggi che parlano di responsabilità genitoriale e del fatto che anche le donne possono essere capifamiglia, ma si torna a invocare la patria potestà, una cosa che non sta più da nessuna parte. Quindi c’è un ruolo che viene vissuto come impegnativo, con ambivalenze, e un po’ in contrasto con questi desideri, che oggi sono sempre più forti, di affermarsi “ho diritto alla mia libertà, ho diritto a far carriera, ho diritto ad avere del tempo libero...” quindi si creano degli squilibri. E’ interessante la figura di stare in equilibrio sul filo, perché secondo me oggi le persone vivono in modo squilibrato attese e richieste, di essere genitori attenti, capaci, dediti, generosi, e dall’altra il non sapere chi si è come individui.

Oggi c’è questa esigenza fortissima di riuscire da qualche parte: se non sono qualcuno, non sono nessuno. E’ come se ci fosse questa difficoltà di tenere in equilibrio queste attese differenti e contrastanti e quindi si va verso questa tendenza a deresponsabilizzarsi per poter affermarsi, e nello stesso tempo c’è questa idea che “me la devo cavare da solo”.

La sfiducia nelle istituzioni viene da tutte e due le parti. Da una parte dal fatto che le istituzioni sempre più nel nostro paese sono lontane dai cittadini, perché da più parti vengono fuori gli

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slogan “una città amica dei cittadini”? Perché viene vissuta la distanza nei confronti delle amministrazioni, dei tribunali, degli ospedali. Non ci si sente appoggiati dalle istituzioni. Ma c’è anche sfiducia perché è come se le istituzioni mi avessero deluso rispetto alle mie aspettative. Nell’incertezza e nella confusione, ognuno deve badare a se stesso. Contemporaneamente ho paura di non farcela. È la paura di quello che succede o potrà succedere, ma più concretamente è la paura di non riuscire, di non essere all’altezza, di non essere capaci. Nelle conflittualità tra i genitori, questa è una componente molto forte, perché si attribuisce all’altro la difficoltà che io stesso vivo. “Sei tu che non sei in grado perché sono io che non mi sento in grado”.

In questa individualizzazione dei ruoli genitoriali, nel vedere se stessi al centro della dinamica familiare con questi differenti atteggiamenti rispetto alla responsabilità che ci si può prendere o che si sente di dover prendere, si diffondono le contraddizioni. Anche qui c’è il problema dell’equilibrio. Questo lo diceva anche Baumann, ossia che abbiamo rinunciato al diritto alla libertà per avere il diritto alla sicurezza. Dappertutto ci sono le telecamere, i controlli, e allora cosa siamo liberi di fare? La libertà è sempre più ristretta. Dall’altra parte ci sono delle attese di riconoscimento, di cui parlavo prima, che richiederebbero delle amicizie, delle relazioni, il trovarsi attraverso vari tipi di connessioni, con persone che ti apprezzano, che riconoscono quello che sei, e contemporaneamente ci sono chiusure, isolamenti, coesioni difensive, per cui ci si ritrova solo tra simili. È forte questo dato che si stanno moltiplicando le associazioni. C’è un numero sempre più alto di associazioni, ma con un numero sempre più ristretto di soci. Qui c’è la frantumazione, la frammentazione, ma anche il cercare di trovarsi tra simili, di associarsi in situazioni in cui viviamo tutti le stesse difficoltà. Mettendoci insieme ci sentiamo tutti più sicuri. Da una parte vogliamo essere riconosciuti, dall’altra ci chiudiamo.

Un’ulteriore contraddizione è che la ricerca di essere felici porta a non sopportare più le difficoltà del quotidiano.

Dall’altra parte ci sono le negazioni di ciò che accade. Vi faccio una domanda: “si può pensare al genitore, a mamma e a papà, come ruoli sociali?”. Ruoli sociali significa ruoli che vivono nella società, si alimentano di ciò che succede nella società, trovano nelle società interazioni con altri che consentono di ricostituirsi delle identità. Per me questo è un elemento centrale. Questa componente dei ruoli genitoriali, che è la corresponsabilizzazione rispetto alle nuove generazioni, dove va a finire?

C’era un giudice minorile che si chiamava Pazé che ha fondato la rivista “Minori e Giustizia”, che diceva sempre, anche quando faceva le conferenze, di ricordarsi del proverbio africano che dice che per crescere un bambino ci vuole un villaggio. Abbiamo qualcosa da imparare dall’Africa. È vero che la famiglia sempre più nucleare, a volte costituita solo da madre e figlio, è l’ambito più adeguato per far crescere i bambini? Anche l’oratorio, che era un luogo di socializzazione

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importante, si sta sgretolando. È importante trovare nei contesti sociali degli attori che con i genitori, o con una mamma, o con un papà, interagiscano per pensare come sta crescendo il bambino.

Viviamo in un contesto confuso, carico di contraddizioni, letto in modo semplificato, in cui vengono addossate ai singoli, mamma e papà, delle responsabilità che investono la soggettività di ciascuno e rispetto alle quali esistono dei grossi punti interrogativi, perché non si sa bene verso

dove andare.

Per quanto riguarda i servizi, la ricerca si propone di capire il loro ruolo rispetto a queste situazioni. Perché si chiamano “territoriali” i servizi? I servizi sono stati istituiti, a cominciare dal consultorio che è stato il primo servizio attivato, e si chiamano territoriali, perché sono vicini, nella prossimità, ed hanno un mandato di tutela dei diritti.

Nella quotidianità, nell’interazione diretta, si possono trovare delle modalità che tengano conto dei diritti degli uni e degli altri, di uscire dal dilemma trovando nell’effettività delle relazioni qualche aggiustamento possibile, per quanto provvisorio. Che rapporti si sono creati anche nel corso di questi anni?

All’inizio, negli anni ‘80, i servizi erano ancora movimentisti, molto animati da motivazioni ideali, forti, qualcuno era convinto che nell’occuparsi di queste situazioni ci sarebbe stata un’evoluzione positiva della società. Con il passare degli anni, i servizi si sono istituzionalizzati, si sono moltiplicati, hanno avuto le loro sedi, dotazioni di professionisti, che si sono professionalizzati. Tutto questo ha portato ad una auto-crescita, e anche ad una chiusura. Si lavorava con gli utenti, che già era un’evoluzione da pazienti, ma è comunque una brutta parola. Si è utenti del gas, della luce, dell’acqua. Non a caso oggi ci sono persone che nel rivolgersi ai servizi provano vergogna. Si usa sempre questa parola, dicendo che i genitori ad esempio accedono ad un servizio. Ed accedono a qualcosa che è in alto, che non è così orizzontale rispetto alla vita quotidiana. Spesso le mamme, ancor più che i papà, che sono invitati ma non vengono.

I genitori ai servizi vengono inviati, a volte anche dai vicini di casa. Se sono inviati, ci vanno volentieri? Forse sì, forse no. Le mamme ci vanno più spesso, i papà devono essere trascinati. Spesso vengono invitati dopo che è andata la moglie, ma non ci vanno, non tengono gli appuntamenti...A volte l’invio è più strutturato, più coercitivo, vengono convocati. Quando arrivano ai servizi, come sono? Hanno delle attese molto ambivalenti, perché da una parte hanno paura di essere rimproverati, dall’altra si aspettano di essere aiutati.

Ma cosa significa essere aiutati in queste situazioni? Fare quello che desiderano. Ad esempio le mamme si aspettano che l’operatore dica “sì, lui è cattivissimo, devi tenerti stretto il tuo bambino perché lui gli fa del male”. Uscire da queste attese di essere confermati nelle proprie rappresentazioni per aprirne altre, è difficile, e non sentendosi confermati, i genitori pretendono.

Che differenza c’è tra attese e pretese? Le attese sono larghe, le pretese sono pre, acquisiscono una priorità sul resto, e si caricano di aggressività. Si caricano di contrasto, di contrapposizione. Molto spesso le pretese sono legate a rappresentazioni molto semplificate. I genitori arrivano ai

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servizi con grandi diffidenze e spesso con rivendicazioni. Avrete sentito dire anche voi, io ne ho un repertorio di situazioni in cui le assistenti sociali chiedono ci sia la guardia giurata per la paura di essere aggrediti. Questo è una distorsione totale. Ho incontrato un’assistente sociale aggredita da una utente che seguiva da 7 anni. Questa vuole sporgere denuncia, ma come ha fatto in 7 anni a non comprendere la situazione di questa ragazza, e come questa agisce e reagisce? Vedete che distorsioni che esistono? Un’ipotesi che faccio è che le interazioni tra genitori e servizi, vengano collocate entro strutturazioni di rapporti che sono distanziati, predefiniti nei contenuti: si definiscono gli orari, i prerequisiti per ottenere l’appuntamento, a volte si fanno aspettare. C’è la prassi di assegnare i casi e siccome c’è tanto lavoro, restano in sospeso anche 15-20 giorni senza una telefonata.

Un modo per organizzarsi occorre trovarlo, ma tutta questa strutturazione in questo modo è in contrasto con la necessità di incontrare delle situazioni così dense di affetti, emozioni inquietanti, intime, perché in quelle situazioni le persone sono chiamate ad esporre qualcosa che è considerato poco dicibile nell’intimità delle persone.

Galimberti dice sempre che c’è l’analfabetismo delle emozioni, ma non si può parlare con chiunque. In un rapporto così predefinito, precostituito, come posso parlare di me stesso? Di quello che mi preoccupa, delle vergogne che ho, delle mie inquietudini, dei miei interrogativi? Ho paura che quello dico sia giudicato... è come se ci fosse questa divaricazione, questa difficoltà dei setting comunicativi, che siano congruenti con i contenuti da trattare, perché abbiamo l’esigenza di definirli. Anche questioni come darsi del lei, chiamarsi per cognome, o per nome, sono elementi sottili, ma che giocano nella costruzione dei rapporti.

L’altro elemento è che noi siamo abituati ad immaginare i rapporti tra genitori e servizi entro incontri singolari. Quindi i servizi sono interpellati a intervenire in situazioni singole. Queste potrebbero essere lette e trattate come situazioni che non sono di una singola mamma, papà, famiglia, ma trasversali a più famiglie. Pensiamo ad esempio a bambini che dicono le bugie. Ci sono insegnanti che a fronte di bambini che sistematicamente raccontano bugie alla mamma e al papà di ciò che accade a scuola, si allarmano e chiamano i genitori. Ma quanti bambini dicono le bugie? Come le dicono? Quante ne dicono? Perché non costruiamo dei setting

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gruppali per affrontare questioni come queste? Possiamo considerare queste situazioni come situazioni sintomo di malessere trasversali a più situazioni. Perché tuttora c’è una separazione tra lavoro con le situazioni singolari e lavoro con gruppi, con il territorio, con più attori sociali che hanno quel tipo di preoccupazione e altri che potrebbero averla?

Penso che i genitori siano chiamati a ri-conoscere. Uso questa parola perché quello che crediamo di sapere è quello che sappiamo meno. Ce lo diceva Giuseppe Pontiggia insieme a tanti altri. Siccome pensiamo di saperlo, non diventa più oggetto di investimento conoscitivo specifico. Siamo chiamati a riconoscere, anche perché il conoscere è intrinsecamente legato all’agire. Siamo chiamati a riconoscere i genitori nelle loro difficoltà e le situazioni familiari disgregate, più o meno conflittuali, in modo evidente o in modo latente sono un’area chiave del lavoro degli operatori sociali.

Arrivo quindi al terzo punto del mio discorso, ossia i processi conoscitivi.

Questo mi sta molto a cuore, perché penso sia molto importante. Il contesto, cioè la complessità e intensità delle questioni in gioco, da una parte e dall’altra parte il mandato attribuito ai servizi di tutelare i diritti. Spesso questo tutelare i diritti viene confuso con il mettere a posto le cose, ma non è la stessa cosa. Questi retropensieri creano una confusione generale in quello che siamo chiamati a fare, ci inducono a ricercare conoscenze certe, che non esistono nel sociale. Non esistono dappertutto. Le conoscenze certe, in qualsiasi campo, in una società come la nostra, sono sempre provvisorie, quindi sono sempre incerte. È per questo che c’è bisogno delle cooperazioni conoscitive. Di fronte alle questioni dobbiamo co-operare, nella parola operare c’è la dimensione dell’azione, perché nell’azione si capisce. Ho delle esperienze infinite e non ho mai imparato abbastanza. Allora per i servizi la cosa più importante è accogliere, perché le persone sono troppo sole, disperate, preoccupate, cioè investite e rinchiuse nelle loro questioni. I servizi dicono che l’accoglienza la fanno, poi si scopre che così non è. Le cose si capiscono da come le persone agiscono, molto di più che da ciò che dicono. Ancora qualcuno cerca l’oggettività, che sembra che l’oggettivo siano i numeri, ma questi sono delle rappresentazioni semplificate dei fenomeni. Pensate agli standard, ad esempio nei rapporti numerici tra operatori e persone, ma poi i numeri vanno coniugati con dati qualitativi che dicano delle competenze, della disponibilità, della gravità dei problemi.

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notevolmente il fabbisogno. Non esiste oggettività, ma esiste materializzazione di certi contenuti. C’è la possibilità di oggettivare, cioè di rendere visibile, perché con il fatto che i servizi sono immateriali, è come se non si sapesse cosa fanno. Degli psicologi e dei medici si sa cosa fanno, ma degli assistenti sociali non lo si sa.

Oggettivare significa rendere visibile attraverso elementi rappresentati in modo più specifico, il contenuto del lavoro che facciamo. Abbiamo sempre delle conoscenze parziali e provvisorie, conosciamo dei pezzetti e li conosciamo adesso. Cosa succederà domani e dopodomani non lo sappiamo: questa è una delle questioni chiave, soprattutto nelle situazioni di mamme e papà in conflitto, che sono situazioni di persone inquiete, a volte sofferenti, a volte no, che a volte negano, a volte si preoccupano troppo, però sono situazioni di inquietudine. Perché sono persone in un rapporto complicato, sia con il papà o la mamma, che con i figli, ma anche con il contesto, perché ancora adesso una donna separata non è ben vista.

In queste situazioni inquiete, i servizi cosa possono mettere a disposizione?

- Fiducia, perché le persone abbiano fiducia in se stesse e in come possano vivere e non solo sopravvivere:

- Attenzione. Uno degli elementi che compromette le possibilità di costruire fiducia è il ricorso a modalità conoscitive adottate automaticamente e collegate a convinzioni personali degli operatori riconducibili a pratiche professionali. Le rappresentazioni molto spesso sono collegate a questo, ed è molto forte la comprensione di questa dinamica quando si vedono le relazioni che vengono fatte delle situazioni dei minori ai magistrati. Quando lavoravo con i magistrati, suggerivo che chiedessero relazioni congiunte di assistente sociale e psicologo, e che non le accettassero separate. Però in tanti tribunali la prassi è il ricorso a relazioni separate. Quella psicologica firmata dallo psicologo e quella dell’assistente sociale controfirmata dal responsabile del servizio. Queste mettono in luce elementi diversi, a volte anche non congruenti. Ciò significa che la propria preparazione professionale guida a mettere in luce certi aspetti o altri, ma quello che conta per chi, come il giudice, deve prendere decisioni, è la connessione tra questi sguardi.

I molti sguardi sono importanti, ma devono trovare il nesso, o più nessi, e che l’uno e l’altro possano essere divergenti, e si può spiegare perché. Questo si coniuga poi anche con i pregiudizi rispetto a ciò che è bene e male. Cosa ne sappiamo noi di cosa è bene e male? Pensando anche a noi con i nostri figli. Ci sono pregiudizi rispetto al genere, perché ancora adesso, questi femminicidi, discriminazioni che ci scandalizzano tanto, è perché nella nostra società esistono ancora tanti pregiudizi rispetto alle differenze di genere, e più si va nella quotidianità, più sono forti. Poi dipende dai contesti, ma anche tra i sindacalisti c’è ancora questa tendenza.

Mi interessa richiamare il tema dell’attribuzione di colpe, ossia che di fronte a qualche episodio critico, all’ordine del giorno nelle separazioni conflittuali, bisogna trovare una colpa, ma questo non porta da nessuna parte. In primo luogo perché tutto ciò che accade è multi-causato, quindi ci sono diversi fattori che hanno contribuito, non se ne può trovare uno solo. In secondo luogo,

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anche se si trovasse una colpa, cosa si fa? Quando si è condannata una persona, cosa si è costruito nei rapporti? Quando si è trovata la colpa, la si trova soprattutto per noi stessi, ma non si è capito nulla. Perché il nostro capire è legato a mettere in moto, non a staticizzare, a cristallizzare. Quando abbiamo schiacciato qualcuno nel corridoio della colpa non si fa più niente.

Altra questione è la violenza, perché i rapporti conflittuali sono intrisi di violenza e questa prima di tutto va capita. Se hai un ragazzino che picchia gli altri, che non sta fermo, che si fa male, prima di tutto è da capire. La violenza è un modo di esprimersi, di esprimere qualcosa che non si riesce ad esprimere in altro modo. Ricordo sempre la situazione che mi hanno raccontato di una famiglia immigrata da anni che aveva tre figli e il più grande, un ragazzino di 8-10 anni, ha iniziato ad andare male a scuola. I genitori per una famiglia di origine tunisina, avevano scambiato i ruoli. Lui non sapeva parlare l’italiano, faceva lavori di bassa lega, guadagnava poco. Lei parlava l’italiano, andava a fare lavori presso famiglie benestanti, guadagnava bene. C’era un’inversione dei ruoli e il ragazzino più grande ha iniziato a dare segnali di fatica. Non andava a scuola, creavi problemi. Questo ragazzino a 13 anni è arrivato a fare una rapina con un coltello e ha fatto del male grave a una persona. Ricostruendo la storia di questo ragazzino, abbiamo visto che per vari anni aveva dato dei segnali, peggiorando sempre di più la situazione e aggravando le azioni che compiva. Ha dovuto addirittura mettersi nella situazione di essere arrestato per poter essere visto. Ci saranno persone che reprimeranno e condanneranno, ma chi opera nel sociale e anche gli insegnanti, che entrano in contatto con la violenza, prima di tutto devono capire. Le repressioni non fanno che aumentare la violenza. Se il senso della violenza è farmi vedere, più mi schiacci e escludi, più mi faccio avanti. Nella nostra società viviamo di modalità conoscitive considerate “giuste” che sono del tutto improprie rispetto ai fenomeni da conoscere. E noi, che siamo portatori di conoscenze che riguardano i fenomeni sociali, è importante che le offriamo alla gente.

La diagnosi non esiste. In un periodo si parlava della diagnosi sociale, ma questa non esiste perché la vita delle persone è sempre un film, non può essere una fotografia. È una dinamica continua e non può essere fatta non perché le cose cambiano e occorrerebbe farne un’altra, ma perché la si capisce nel rapporto. Nella comprensione di vincoli e disfunzioni siamo bravissimi, ma nel sociale dobbiamo riconoscere le risorse, cosa c’è di buono anche nel genitore più cattivo, insofferente, inadeguato, distante, agguerrito. Se è agguerrito, lo è per qualche motivo. Invece di guardare ciò che non va, perché non vado a cercare qualche cosa di positivo?

E poi bisogna valorizzare la conoscenza indiziaria. Carlo Ginzburg, in un famoso articolo parlava di indizi, dettagli, che dicono moltissimo sulle situazioni. Occorre cercare quelli più che le regolarità, perché quelle tendono a seguire un copione. Gli indizi mettono in luce le discrepanze, i pertugi a cui attaccarsi per poter apprendere qualcosa di importante, l’apprendimento dagli errori. Gli operatori, soprattutto in queste situazioni conflittuali, hanno paura di sbagliare, di prendere lucciole per lanterne, ma noi nel sociale non possiamo che apprendere dai riscontri non

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confermanti che abbiamo su quello che mettiamo in campo. È dalla disconferma che capiamo meglio che cosa fare, perché le persone non sono solo razionali, anzi in una società come questa sono molto di più i comportamenti irrazionali. Non sbagliare è riconoscere quello che non è confermante.

Oggi il lavoro che si fa nel sociale viene sempre definito con la parola progetto, ma più importante di tutto per costruire il progetto sono le ipotesi. La nostra conoscenza è sempre ipotetica. Dall’ipotesi disconfermata capiamo qualcosa di più.

Conoscere nel sociale è intrinsecamente connesso ad agire e intervenire. La conoscenza-azione non è solo un metodo scoperto negli anni ‘40 dalla scuola di Chicago, è un’impostconoscenza-azione molto interessante per affrontare le situazioni difficili, soprattutto con i genitori. Conosciamo “con” i genitori. Uno degli elementi chiavi è che i ricercatori sono attori e gli attori sono ricercatori. Non c’è separazione. Da lì prendiamo l’idea che chi vive i problemi e il modo in cui sono vissuti, è molto importante per capire il problema stesso. Se una persona riconosce che ha un problema, è già molto avanti nella possibilità di affrontarlo. Nelle situazioni conflittuali più difficili la mamma che dice “io per mio figlio faccio tutto e di più, è lui che gli compra le cose...è lui…”, se le persone non riconoscono i problemi, che possibilità hanno di interagire o agire rispetto ai problemi? Se le persone non vedono i problemi, li escludono.

Per i servizi diventa cruciale l’affiancamento nel rivedere e vedere anche il meno visibile, rivedersi nel contesto, in una situazione aperta, e riconoscere i rapporti. Ri-vedere serve per chiamare a rapporto gli elementi positivi, perché in una situazione in cui sembra tutto chiuso, tutto deteriorato, trovi qualcosa e questo deve essere rivisto, perché subito non lo si vede. Sembrano talmente grosse certe cose, di come uno ha speso i soldi, oppure che decisioni ha preso rispetto alle vacanze, che sono molto difficili con i genitori separati.

Con questo sono anche un po’ entrata nel discorso dell’intervenire, che è strettamente legato al conoscere. Io credo che intervenire implichi accompagnare, che significa non mettersi da una parte o dall’altra del tavolo. Abbiamo fatto dei video una volta su come sono accolte le persone nei servizi e c’erano due situazioni limite. In una situazione, con un’assistente sociale seduta al tavolo che continuava a scrivere, battono alla porta e non risponde, non saluta, non si alza, non da la mano. Se ci si mette già in questa situazione così, è difficile accompagnare. Accompagnare

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significa mettersi a fianco dei cittadini. Li vediamo come cittadini o come utenti? Con l’idea che non risolviamo niente, al massimo resettiamo delle situazioni, cioè ricollochiamo delle questioni attraverso delle cooperazioni con coloro che vivono.

E poi soprattutto allestire delle situazione di fiducia. Se c’è la fiducia andiamo avanti a capire, se non c’è le persone continuano a raccontare quello che pensano serva di più per ottenere quello che vogliono.

Metto questa insistenza sui possibili perché non possiamo tutto quello che possiamo. Credo sia Pascal a dire che non solo non siamo onnipotenti, ma non possiamo tutto quello che possiamo. Però possiamo ri-conoscere con altri attori sociali, anche nelle situazioni più tese, più conflittuali, più consistenti.

È veramente impossibile lavorare di più nel sociale con altri attori sociali che ruotano attorno a queste situazioni? Con gli insegnanti, ma anche con gli amici, con le persone che vivono problemi analoghi, con l’allenatore di calcio. Allora la provocazione è questa: Il lavoro nel sociale, se non è sociale, che lavoro è?

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INDICAZIONI PER LA DISCUSSIONE NEI GRUPPI

Obiettivo della discussione è collegare quanto esposto nella relazione con il proprio lavoro quotidiano nel sociale. Ci divideremo in quattro gruppi.

Gruppi 1 e 2: conoscere situazioni familiari conflittuali: perché, come.

Gruppi 3 e 4: intervenire rispetto a situazioni familiare conflittuali: perché, come. GRUPPO 1 Conoscere = accogliere

Silvia Fargion, professoressa ordinaria di Sociologia e Servizio Sociale presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento e principal investigator progetto CoPInG

Annalisa Benacchio, operatrice del Punto Famiglie dell’Associazione A.M.A. (Auto Mutuo Aiuto)

L’obiettivo del nostro gruppo era quello di capire come nella pratica si realizzi la conoscenza e delle storie familiari. Ci siamo inizialmente confrontati su come si realizzi l’accoglienza e come il primo incontro sia importante per creare un clima in cui le persone possano sentirsi accolte e a proprio agio, in cui il servizio venga vissuto come una risorsa di accompagnamento e non giudizio. Nel primo incontro occorre fare un lavoro di equilibrismo tra il custodire questo clima, crearlo con un protagonismo da parte di chi lo conduce e a volte l’impeto delle persone che hanno invece bisogno in quel momento di raccontare molte

cose.

In molti servizi c’è l’attenzione che questo primo incontro venga svolto da personale esperto, affinché questa attenzione ci sia, c’è una cura particolare del setting, inteso come luogo fisico e come spazio relazionale, ma anche come

momento in cui vengono esplicitate le regole di ciò che succede.

Ambienti diversi fanno emergere elementi e narrazioni diverse da parte delle persone, quindi trovarsi nell’ufficio dell’assistente sociale, nello spazio neutro o nella visita domiciliare è differente. È importante avere la capacità anche di stare in contesti diversi. Rispetto al setting relazionale, la dimensione della fiducia richiede anche all’operatore di darla, quindi un saperci fidare delle persone che abbiamo davanti, facendoglielo capire.

È stato sottolineato quanto l’ascolto sia centrale nella conoscenza delle persone, questo è un bisogno importante e a volte le persone che a noi si rivolgono hanno anche bisogno di sfogarsi, di qualcuno che raccolga la rabbia e la frustrazione, i sentimenti. Forse occorre anche accettare di dover fare di tanto in tanto anche un po’ da “sfogatoio”.

Rispetto all’ascolto, è anche stato detto che con il nostro lavoro entriamo nelle storie delle persone, che ci vengono raccontate, occorre poi non escludere i protagonisti di questi racconti, ma saper tenere le mamme e i papà e la loro relazione dentro il percorso che seguirà alla conoscenza.

Tra i vari professionisti c’è chi interviene prima e chi dopo. Tra di noi c’erano operatori che subentrano in un processo dopo che sono state fatte delle valutazioni, questo influisce su ciò che si vive e che succede nel processo. Da un lato per le persone può essere positiva la possibilità di ridefinirsi nel rapporto con un nuovo servizio che entra in gioco, dall’altro è importante accompagnare i bambini a stare nelle situazioni che sono definite dagli adulti, e quindi

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accompagnarli, avendo uno sguardo per loro e per le loro sofferenze, per le loro dinamiche di lealtà verso un genitore o l’altro. A volte queste dinamiche ci sfuggono e i bambini rimangono invisibili.

Un’altro aspetto che è emerso, è che spesso nelle vicende delle famiglie la conflittualità nasconde e soffoca la genitorialità. Si pone tanto l’accento sul conflitto e la genitorialità rimane in secondo piano. Questo è stato detto sia da operatori che da genitori che facevano parte del nostro gruppo. Quindi saper invece promuovere e orientare l’attenzione sulla genitorialità è molto importante.

C’è stato anche un appunto su come si possa tenere bassa la conflittualità, chiedendosi anche chi o che cosa la alimenta. Spesso gli avvocati non facilitano il processo di risoluzione della conflittualità, anzi a volte lo alimentano, come a volte complicano la situazione i tempi dei procedimenti giudiziari.

GRUPPO 2 Cornici nei percorsi di conoscenza incerta: vincoli e opportunità per gli operatori sociali

Livia Taverna, ricercatrice a tempo determinato in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione presso la Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano

Nicoletta Poli, coordinatrice Area Tutela dell’Ufficio Famiglie e Minori del Servizio Attività Sociali del Comune di Trento

Anche noi abbiamo riflettuto sul processo di conoscenza. In queste situazioni entriamo tutti in corsa, siamo all’interno di un film in cui gli attori principali hanno già definito parte della trama e sanno già in che direzione vogliono andare. Avviciniamo questa realtà con questi occhi e con ruoli diversi. Il servizio sociale spesso è titolare di un mandato, ha una cornice che

l’autorità giudiziaria gli ha dato, diverso il ruolo del mediatore, che conosce la famiglia e la coppia nel contesto di mediazione, diverso ancora l’educatore, che conosce la famiglia avendo acquisito lo sguardo del servizio sociale.

Si entra quindi in questo film con ruoli e tempi diversi. Ci viene chiesto di stare dentro un percorso di conoscenza incerto, spesso connotato da imprevisti, ci siamo raccontati anche di episodi in cui questa imprevedibilità può metterci a disagio come operatori. Certo stare nella conflittualità per un operatore non è facile e per gli operatori è un costruire insieme.

È un percorso nel quale ci viene chiesto come operatori di assumere anche un ruolo di adultità, ci viene chiesto aiuto e ci giochiamo in una relazione molto delicata. All’interno della conflittualità, fa la differenza come noi stiamo con la dimensione della conflittualità, quindi mettiamo

in gioco anche una dimensione molto personale che influenza il nostro modo di stare nelle relazioni con le famiglie. Dobbiamo essere consapevoli di quanto la conflittualità agisca su di noi e sulla relazione che instauriamo con le famiglie.

Altro aspetto rilevante è la dimensione del tempo. Spesso ci succede di sperimentare che in questi percorsi la dimensione del tempo assuma valenze diverse. La famiglia ha i suoi tempi, noi servizi alle volte dobbiamo anche rispondere a mandati, quindi con tempi più contenuti, e la dimensione del tempo è molto rilevante nel processo di conoscenza.

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Ci siamo inoltre chiesti quali strumenti abbiamo, cosa ci aiuti nell’accompagnare le famiglie. A volte ci aiutano mandati chiari, perché ci permettono di avere la cornice che permette alle famiglie di essere protette. Quando ci sono famiglie momentaneamente non in grado di proteggersi da sole, avere una cornice a volte aiuta ad abbassare il tono del conflitto e a garantire quella situazione di protezione, per loro e i bambini.

Ci aiutano i colloqui, dare più tempi ai colloqui condivisi, ai tempi di condivisione tra i servizi. Siamo tanti attori, i punti di vista sono una grande ricchezza, ma anche fatica, perché vanno integrati.

Fondamentale l’approccio dell’accoglienza e del costruire fiducia, anche in presenza di mandati e senza una richiesta esplicita di aiuto da parte delle famiglie. Costruire un rapporto di fiducia chiede un forte investimento, richiede di costruire il setting, in situazioni di questo tipo è utile molto spesso vedere le coppie insieme, perché ci aiuta a comprendere le dinamiche, ma anche dare spazi individuali. Ci sembra fondamentale avere come focus la disponibilità ad accogliere la fragilità dell’altro senza giudicare. Questo facilita l’incontro e l’accompagnamento delle famiglie.

Siamo molto bravi a mettere a fuoco le fragilità, ma siamo più in difficoltà a vedere le competenze. Rispetto a una coppia di genitori ci può aiutare il chiedere a loro di raccontarci i loro bambini, per capire quanto loro li abbiano nella mente. Può essere un buon punto di partenza. Altro strumento interessante è l’approccio PIPPI, che ci sta insegnando l’utilizzo di strumenti partecipativi molto interessanti e intriganti. Ci chiede un grande investimento, di uscire dalla zona di comfort, per costruire progetti partecipativi sia per genitori che bambini. Ci stiamo accorgendo di come questi strumenti ci permettano di aiutare i genitori a focalizzare l’attenzione sul bambino più che sul conflitto e ci sembra una buona possibilità.

Altro aspetto rilevante è lo sguardo verso i bambini e uno strumento importante è il loro ascolto. Nella sua semplicità ci porta dei dettagli che spesso il mondo adulto non permette di mettere a fuoco.

GRUPPO 3 Co-costruire rappresentazioni. Il delicato lavoro del ricomporre le voci di tanti attori

Teresa Bertotti, professoressa ordinaria di Sociologia e Servizio Sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento

Sonia Chiusole, coordinatrice Area Minori e Adulti della Comunità delle Giudicarie

Nel trattare il tema di come si interviene, ci siamo inizialmente confrontati sul tema della collaborazione, cogliendo la difficoltà/fatica che spesso emerge nel lavorare insieme tra servizi diversi.

Questo dipende anche dalla storia di collaborazione esistente nei territori tra i servizi. Lavorare insieme significa ricomporre le voci di tutti, che spesso non si incontrano. Soprattutto, queste voci non sempre vengono ricomposte assieme ai genitori. È importante che ci sia un responsabile della rete che ne permetta il funzionamento. Spesso il conflitto tra i genitori, viene riverberato dai servizi stessi.

Se pensiamo alla ricerca, cosa ci potranno dire di questo i genitori? Che forse questa cosa li disorienta, con conseguenze nella relazione di fiducia che si intende creare.

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