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cover crops ed effetti sulle caratteristiche chimico-fisicche del terreno

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Academic year: 2021

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INDICE

PARTE GENERALE

INTRODUZIONE 2

CAPITOLO 1: COLTURE DI COPERTURA E DA SOVESCIO 6 1.2 LA PRATICA DEL SOVESCIO NEL PASSATO 8 1.2 SPECIE DA SOVESCIO 11 1.2.1 Leguminosae 12 1.2.2 Graminacee 18 1.2.3 Cruciferae 21 CAPITOLO 2:L’INSERIMENTO DELLE COLTURE DI COPERTURA

NELL’ORDINAMENTO PRODUTTIVO AZIENDALE 23 2.1 COLTURE DI COPERTURA E CICLO BIOGEOCHIMICO

DELL’AZOTO 29 2.2 COLTURE DI COPERTURA E DISPONIBILITÀ IDRICHE

DEL TERRENO 37

2.3 COLTURE DI COPERTURA E CONTROLLO DELLA

FLORA INFESTANTE 41

CAPITOLO 3: EFFETTI DELLE COVER CROPS SULLA FERTILITA’ DEL

SUOLO 45

3.1 COVER CROP E MIGLIORAMENTO DELLA STRUTTURA

DEL TERRENO 46

3.2 SOSTANZA ORGANICA DEL TERRENO 47 PARTE SPERIMENTALE

 

CAPITOLO 4: SCOPO DELLA TESI 50 CAPITOLO 5: MATERIALI E METODI 51 CAPITOLO 6: RISULTATI E DISCUSSIONE 57 6.1 CARATTERISTICHE FISICHE DEL TERRENO:

STABILITÀ DELLA STRUTTURA 57 6.2 CARATTERISTICHE CHIMICHE DEL TERRENO 62

6.2.1 Ph 62

6.2.2 SOSTANZA ORGANICA DEL TERRENO 64 6.2.3 AZOTO TOTALE DEL TERRENO 68 6.2.4 RAPPORTO C/N DEL TERRENO 73 6.2.5 FOSFORO ASSIMILABILE DEL TERRENO 76 CAPITOLO 7: CONCLUSIONI 79

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INTRODUZIONE

Nell’ultimo decennio si è assistito ad una crescente presa di coscienza da parte dell’opinione pubblica nei confronti delle problematiche legate alla tutela dell’ambiente, alla difesa del territorio e della salute della popolazione. Lo stretto rapporto intercorrente tra l’esercizio della pratica agricola e l’ambiente ha portato ad addossare, a volte non a ragione, molte delle responsabilità relative al degrado ambientale proprio al settore primario, a quell'agricoltura intensiva che ha costituito, almeno negli ultimi decenni, il modello agricolo ordinario dei Paesi più sviluppati. In effetti, dal dopoguerra in avanti, l’attività agricola si è contraddistinta per l’impiego crescente di mezzi tecnici extra-aziendali, derivanti in buona parte dalla chimica di sintesi (fertilizzanti, fitofarmaci, diserbanti ecc.), nonché di macchine operatrici sempre più evolute e specifiche adatte a sistemi colturali sempre più semplificati e specializzati. La ricerca di un progressivo incremento delle rese per ettaro delle coltivazioni trovava una valida giustificazione non solo nell’intento di aumentare il reddito lordo aziendale, ma anche e soprattutto, nella necessità di soddisfare le stringenti esigenze alimentari della popolazione, oltremodo aggravate dai disastrosi effetti del secondo conflitto mondiale. Mentre fino alla prima metà del ‘900 la risoluzione del problema alimentare è stata realizzata attraverso la continua espansione dei terreni messi a coltura - è sufficiente ricordare le imponenti opere di bonifica che hanno interessato vaste aree del nostro Paese, i disboscamenti delle fasce pedemontane e collinari, ecc. – dall’immediato dopoguerra in avanti essa è stata conseguita sostanzialmente attraverso l’applicazione delle nuove scoperte tecnico-scientifiche.

Tutto ciò ha condotto in tempi relativamente brevi, all’intensificazione del processo produttivo; tale cambiamento ha determinato in molti Paesi la formazione di una struttura agricola che può essere appunto definita "industriale" e che fa perno sulla manipolazione pressoché totale dei componenti dell’agroecosistema (Caporali, 1991; Keeney, 1994). Questo significativo cambiamento del modo di fare agricoltura che, come sopra ricordato, aveva quale priorità l’incremento delle produzioni unitarie delle principali colture agrarie, ha comportato, come logica conseguenza, un rilevante impatto ambientale con pesanti ripercussioni sullo stato di conservazione degli

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3 agroecosistemi: riduzione delle risorse naturali non rinnovabili, perdita progressiva della fertilità fisica e chimica dei terreni agrari, gravi rischi di erosione del suolo, fenomeni di eutrofizzazione ed inquinamento delle acque superficiali e profonde, accumulo di molecole dannose per l’uomo e per la fauna nei terreni e nelle derrate alimentari, aumento dell’aggressività di alcuni patogeni e specie erbacee infestanti, ecc.. Inoltre, l’impiego crescente di input chimici ed energetici unitamente all’adozione di tecniche agronomiche innovative e l’apporto altrettanto decisivo del miglioramento genetico, se da un lato hanno definitivamente risolto il problema della fame, almeno nei Paesi più sviluppati, dall’altro hanno portato, paradossalmente, ad un surplus delle produzioni. In ambito Comunitario sono ben noti i gravi problemi derivati dalle eccedenze delle materie prime di origine agricola che hanno dato luogo, tra l’altro, alla onerosa gestione del loro stoccaggio (Bonari et al., 1994).

Anche sulla base di questi presupposti, negli ultimi anni la stessa Unione Europea ha optato per una decisa inversione di rotta nella gestione della politica agricola comunitaria (P.A.C.); si è cercato di coinvolgere maggiormente gli operatori e l’intero comparto agricolo nei problemi relativi alla salvaguardia dell’ambiente, alla tutela e gestione del territorio extraurbano, con un’attenzione sempre più rigorosa alla salute dei consumatori. Questa è stata una delle linee guida dell’intera riforma Mac Sharry e quindi della nuova P.A.C. e delle successive misure di accompagnamento emanate dal Parlamento Europeo, per diffondere e rafforzare questo nuovo concetto di agro-compatibilità. Al riguardo basti ricordare il regolamento 2078/92 relativo ai “Metodi di produzione agricola compatibili con le esigenze di protezione dell’ambiente e la cura dello spazio rurale”, che pone in primissimo piano, per la prima volta, non solo l’importanza produttiva dell’attività agricola ma anche il suo ruolo sociale ed ambientale. Si tratta in pratica di riconoscere all’agricoltura l’enorme valore che essa riveste nell’intera gestione del territorio rurale quale garante della conservazione del paesaggio e della civiltà contadina.

In alcuni Paesi del mondo le tematiche relative al difficile rapporto agricoltura/ambiente sono state affrontate da tempo attraverso ricerche di base che hanno dato luogo a sistemi agricoli, definiti alternativi a quelli tradizionali, improntati alla conservazione delle risorse ambientali. Alcune di queste soluzioni, spesso associate a movimenti di pensiero come l’“agricoltura biologica”, l’“agricoltura

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4 biodinamica”, l’“agricoltura organica” ecc., seppure teoricamente corrette dal punto di vista ecologico, non hanno prodotto significativi cambiamenti nel modo di fare agricoltura se non in particolari situazioni sociali e di mercato. Infatti, pur avendo come obiettivo principale la conservazione delle risorse naturali e la protezione dell’ambiente e della sanità dei prodotti agricoli, non sempre sono risultate applicabili sotto l’aspetto economico.

Alla luce di tali considerazioni, negli ultimi anni, la comunità scientifica internazionale ha pertanto indirizzato i propri interessi verso la messa a punto di sistemi agricoli ispirati ad una “nuova agricoltura”, da molti denominata come “sostenibile” o “ecocompatibile” che rispondesse contemporaneamente alla esigenza di conservare le risorse naturali, di proteggere l’ambiente, di salvaguardare la salute e la sicurezza dei consumatori e degli operatori agricoli e di mantenere un soddisfacente livello di produttività e remuneratività dell’attività agricola. Nel caso dell’agroecosistema ciò implica il mantenimento della fertilità fisico-chimica e microbiologica del terreno, la rinnovabilità del processo produttivo, la riduzione dei fenomeni erosivi e dei rischi di inquinamento delle acque, dei suoli e dei prodotti agricoli.

In teoria i sistemi agricoli sostenibili dovrebbero prevedere la riduzione dell’uso dei prodotti chimici di sintesi, la valorizzazione dei processi naturali che governano la ciclizzazione dei nutrienti incentivando l’uso dei residui organici derivanti anche dall’attività zootecnica e dai residui colturali, l’uso delle biotecnologie, l’impiego di macchine agricole appositamente perfezionate. All’interno di questo quadro rientrano a pieno titolo l’utilizzo di tecniche agronomiche quali le lavorazioni conservative ed il ricorso alla lotta biologica ed integrata (Parr et al., 1990), la reintroduzione di avvicendamenti colturali in grado di favorire un bilancio positivo della sostanza organica del terreno, la riduzione delle omosuccessioni incrementando la diversificazione colturale o produttiva all’interno dell’azienda agraria (Bonari, 1993). La definizione concreta dei concetti sopra esposti non può prescindere da un’attenta valutazione scientifica dei diversi sistemi colturali, analizzati nella loro integrità e nelle diverse condizioni agro-pedoclimatiche e socio-economiche possibili al fine di fornire agli agricoltori gli accorgimenti tecnici ed il management dei fattori produttivi (inteso come "pacchetto" di tecniche nel loro insieme) più idonei ad ottimizzare

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5 l’ordinamento produttivo aziendale e l’agrotecnica di ciascuna specie.

In molti casi però le soluzioni fino ad oggi ipotizzabili, seppure tecnicamente ed agronomicamente inappuntabili, si sono scontrate inevitabilmente con le realtà del mondo agricolo che deve confrontarsi sempre più spesso con continue variazioni delle caratteristiche del mercato all’interno di una generalizzata tendenza alla riduzione dei prezzi dei prodotti agricoli. In quest’ottica gli ordinamenti produttivi a livello aziendale tendono di conseguenza a semplificarsi a favore delle colture che di volta in volta risultano maggiormente redditizie, fino al limite della omosuccessione. E’ pertanto difficile ipotizzare che, almeno nel breve e medio periodo, sia possibile modificare sostanzialmente gli ordinamenti produttivi delle aziende agricole, mentre appare più praticabile la modifica delle tecniche colturali delle singole specie basandosi su criteri di sostenibilità. Anche questa alternativa potrebbe peraltro risultare ostacolata dalla consueta diffidenza degli agricoltori nei confronti dell’innovazione, soprattutto quando i supposti benefici indiretti che dovrebbero derivarne possono risultare non facilmente monetizzabili, in particolare durante il periodo di transizione tra la tecnica convenzionale e quella alternativa.

E’ però ormai evidente che la “sostenibilità” di un sistema colturale è strettamente connessa alla capacità di modificare le tecniche di lavorazione del terreno, di concimazione azotata e di controllo delle infestanti. In pratica si tratta di considerare con maggiore attenzione l’impiego di strumenti agronomici, sia innovativi che tradizionali, in grado di valorizzare i processi naturali che governano la ciclizzazione dell’azoto nel terreno, che ne riducono le perdite per lisciviazione e per ruscellamento superficiale (run-off) e che inducano naturalmente (attraverso fenomeni di competizione e/o allelopatici) una minore presenza di piante infestanti o un loro minore sviluppo. Tutto ciò dovrebbe determinare una riduzione dei mezzi tecnici impiegati tale da mantenere invariata la redditività della coltura anche in presenza di eventuali riduzioni delle rese granellari.

A questo riguardo, un forte contributo alla definizione di sistemi agricoli sempre più sostenibili potrebbe giungere dall’azione combinata di tecniche di lavorazione conservative, dalla differenziazione degli avvicendamenti, dalla razionalizzazione della concimazione azotata e dall’impiego delle colture da copertura.

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CAPITOLO 1

COLTURE DI COPERTURA E DA SOVESCIO

Al fine di definire sistemi agricoli sempre più sostenibili è necessario mettere a punto mezzi tecnici dal basso impatto ambientale e definire strategie gestionali e tecniche colturali idonee a ridurre l’impiego dei mezzi tecnici pur mantenendo una adeguata redditività del processo di produzione. Tra le diverse soluzioni tecniche percorribili, l’inserimento delle cosiddette “colture di copertura” o “cover crops” all'interno dell’avvicendamento, potrebbe contribuire ad aumentare la sostenibilità del sistema colturale.

Per “colture di copertura” si intendono quelle colture erbacee (appartenenti per lo più alle famiglie botaniche delle leguminose, graminacee e crucifere) che è possibile inserire negli ordinamenti aziendali principalmente come colture intercalari, coltivate non a fini esclusivamente produttivi, ma con l’intento di conservare ed aumentare la fertilità (fisica, chimica e microbiologica) del terreno agrario. La definizione “coltura di copertura” lascia chiaramente intendere quale sia il suo ruolo principale: mantenere il terreno coperto da vegetazione in un periodo dell’anno durante il quale esso rimarrebbe incolto (da novembre ad aprile nel caso della omosuccessione di mais). La presenza di vegetazione durante questo periodo consente di:

• sfruttare al meglio l’energia radiante;

• accumulare nella biomassa nutrienti altrimenti persi, in assenza della coltura principale, per lisciviazione o scorrimento superficiale;

• di migliorare, se leguminose, la disponibilità di azoto per le colture principali in successione;

• mantenere all’interno della coltura principale una flora spontanea equilibrata per gli effetti competitivi che le stesse “cover crops” esercitano nei confronti delle piante infestanti anche attraverso azioni allelopatiche;

• aumentare la diversità biologica all’interno dell’agro-ecosistema, soprattutto in situazioni monocolturali;

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7 L’azione delle colture di copertura non si esaurisce nell’arco di tempo compreso tra due colture principali ma permane e si completa anche nel periodo successivo alla semina di quella principale in successione; nel caso in cui per quest’ultima la preparazione del terreno consista nella tradizionale aratura, i residui della “cover crop” verranno interrati e, quindi, andranno a costituire nel terreno un “pool” di sostanza organica mineralizzabile con tempi e modalità diverse in relazione alla natura del residuo ed alle condizioni pedoclimatiche. Nel caso in cui l’aratura venisse sostituita con una tecnica conservativa come la non-lavorazione, le colture di copertura potrebbero essere devitalizzate chimicamente (nel caso in cui non avessero ancora concluso il proprio ciclo biologico), realizzando comunque una pacciamatura naturale sulla superficie del terreno. La formazione di questo “mulch” permetterebbe di:

• migliorare le caratteristiche fisico-chimiche del terreno regolandone la temperatura e conservando un adeguato tenore di umidità nel suolo;

• mantenere o incrementare nello strato più superficiale del terreno il tenore di sostanza organica e quindi accrescere la disponibilità di nutrienti e la strutturazione del terreno stesso, migliorandone la stabilità degli aggregati;

• ridurre la possibilità di formazione di croste superficiali;

• aumentare l’infiltrazione dell’acqua diminuendo i deflussi superficiali e l’erosione idrica ed eolica (Lal et al., 1991; Doran e Smith, 1991).

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1.1 LA PRATICA DEL SOVESCIO NEL PASSATO

Il primo intervento umano per ristabilire artificialmente la fertilità del terreno risale al 6000-5000 a.C., quando la civiltà del villaggio mise in atto la pratica delle concimazioni organiche, utilizzando deiezioni animali invece dell’avvicendamento delle colture con il riposo. Successivamente, al fine di mantenere o incrementare il contenuto in sostanza organica del suolo, vennero utilizzate vie alternative alla presenza del bestiame, tra cui il sovescio.

Alla fine del Neolitico e durante l’Eneolitico (tra il 1800 e il 1200 a.C.), in Sicilia si praticava la coltivazione, oltre che di cereali, colture tessili e oleaginose tipiche del bacino del Mediterraneo, anche di alcune leguminose da granella come: favetta, pisello, veccia, lupino ecc., (Haussmann, 1980). La necessità di dover interrare alcune di queste colture a causa dell’allettamento prodotto dalle avverse condizioni climatiche, permise a qualche agricoltore più attento di osservare come le colture in successione crescessero più rigogliose; ciò diede certamente la spinta a sovesciare appositamente colture adatte, in pieno rigoglio vegetativo per ammendare la terra con sostanza organica. Il sovescio, quindi, entrava a far parte degli ordinamenti colturali e talora consentiva l’eliminazione del campo a riposo, così veniva posta una base solida per un’agricoltura stanziale non depauperante, anzi rigeneratrice e moltiplicatrice delle forze attive della fertilità, anche se non sufficiente da sola a conferire costanza e abbondanza ai raccolti.

Si inizia a capire la vera importanza della fertilità del terreno intorno al 400 a.C. quando le tribù galliche dell’Europa Nord-Occidentale, Belgi, Celti trasformarono l’aratro discissore semplice in discissore - rovesciatore (composto di coltello e sparti terra), che determinò l’approfondimento e, in ultimo, il rovesciamento della fetta arata, rispetto alla lavorazione manuale a zappa da parte dell’uomo; ciò concorse al più rapido depauperamento della fertilità chimico-fisica del terreno. Occorrerebbero, quindi, più anni di riposo per ripristinare l’equilibrio di partenza nel substrato, rimedio però in disaccordo con le esigenze di una comunità in accrescimento; proprio per ovviare a questo si iniziò a fare ricorso alle concimazioni organiche ed ai sovesci in maniera più sistematica.

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9 I Romani furono i primi ad introdurre la pratica del sovescio, condotta con la coltivazione di alcune leguminose ed il loro successivo interramento. Junio Moderato Columella tra il 35 e il 45 d.C., nel De re rustica, scriveva approfondite osservazioni sulla vita dei campi mostrando le sue conoscenze sul modo di utilizzare le leguminose per prevenire la stanchezza del suolo: “[…] quando l’agricoltore mancasse di qualche altra risorsa, avrebbe sempre a portata di mano il sovescio dei lupini”.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, per tutto il Medioevo, però, rimase ben poco della genialità dell’agronomo spagnolo; la cultura scientifica sembrò del tutto annullata (Birnie, 1933). Nel XV secolo la situazione socio-econonica impose cicli colturali più intensivi, sostituendo al riposo avvicendamenti più ricchi ed articolati, con tecniche colturali sempre più affinate. Nel XIX secolo, in Francia, sarà Giorgio Ville per primo a mostrare i vantaggi del sovescio, proponendo un proprio sistema basato sulla coltivazione di trifoglio concimato e interrato prima della semina di frumento; in Italia, Stanislao Solari propose un sistema molto simile al precedente, ma che aveva il pregio di consentire l’utilizzazione di una parte del prodotto del trifoglio. Questi due sistemi avevano però dei difetti, quali il ritorno troppo frequente del trifoglio sullo stesso terreno e l’esclusione di piante sarchiate.

Successivamente, Visocchi, rielaborando un antichissimo sistema di coltura della Campania al quale applicò una concimazione fosfatica e potassica, fece sì che il granoturco fosse la prima coltura a godere dei benefici apportati dal sovescio: il trifoglio, seminato nel frumento, veniva concimato a primavera dell’anno seguente, senza attendere lo sviluppo completo della leguminosa, si sovescia e subito si seminava il granoturco, al quale poi seguiva il frumento. Un’altra importante differenza rispetto ai sistemi precedenti, risiedeva nel fatto di non usare sempre il trifoglio, ma di alternarlo, sostituirlo e mescolarlo secondo i casi con la lupinella o con la capruggine, egualmente seminate in copertura nel frumento, oppure dopo la raccolta del frumento, impiegare leguminose a più rapido sviluppo, come favetta, lupino, trifoglio incarnato, ecc., sempre lautamente concimate e tutte destinate al sovescio primaverile. Questo sistema ha in comune con il sistema Ville la scarsa produzione foraggera, ma presenta i vantaggi di non lasciare il terreno infruttuoso, di non correre il rischio che la ricchezza apportata al terreno con il sovescio vada a danneggiare la coltura successiva, in quanto il granoturco non è soggetto ad allettarsi; inoltre il

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10 sistema ha il pregio di consentire l’inserimento della coltura sarchiata a semina primaverile.

Abbiamo detto in precedenza che per sovescio si intende principalmente la coltivazione di alcune specie che successivamente vengono interrate nel terreno che si vuol fertilizzare, ma anche altre forme di sovescio hanno caratterizzato l’agricoltura del nostro Paese; ad esempio, il sovescio di colture trasportate, che consiste nel raccogliere biomassa coltivata in un luogo per trasportarla altrove ed ivi sovesciarla. A questo proposito ricordiamo il sistema Vestappen, basato sulla coltura intensiva di una leguminosa soltanto sopra una parte del terreno coltivato, allo scopo di ottenere grandi quantità di biomassa da trasportare in altri terreni per farne concime, oppure la pratica siciliana dei “fossoni”, applicata alle vigne del versante orientale dell’Etna quando le vigne erano poco prosperose e conveniva rinvigorirle (Cuppari, 1912).

Lo stesso Thomas Jefferson durante l’epoca coloniale consigliava l’uso di specie quali la veccia vellutata ed i trifogli per fornire azoto alla successiva coltura da reddito (Meisinger et al., 1991). Questa pratica agricola (unitamente alla letamazione) ha quindi rappresentato per molto tempo un mezzo per mantenere la fertilità dei terreni fino all’avvento dei fertilizzanti di sintesi subito dopo la seconda guerra mondiale (Doran e Smith, 1991). A partire dagli anni ‘70, la coltivazione delle “cover crops” si è diffusa nuovamente negli Stati Uniti come utile strumento di conservazione del suolo ed è stata spesso accoppiata a sistemi di non-lavorazione assumendo, in questi casi, una ulteriore funzione nutrizionale.

Negli ultimi anni questa agrotecnica ha suscitato un certo interesse anche in Europa trovando riconoscimento ufficiale all’interno del nuovo quadro legislativo comunitario (Reg. 676/91/CE, Reg. 1765/92/CE, 2078/92/CE). Nell’ambito poi della “Direttiva nitrati”, le “cover crops” occupano un ruolo importante nella protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento da nitrati di origine agricola. A tal fine gli stati membri sono stati chiamati ad elaborare uno o più codici di buona pratica agricola (Cbpa). Il Cbpa predisposto dall’Italia, riporta un paragrafo dal titolo "Gestione dell'uso del suolo" ove, tra l’altro, è previsto il mantenimento della copertura vegetale come tecnica di coltivazione finalizzata al contenimento del rilascio dei nitrati nei terreni coltivati (Sequi, 1995).

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1.2 SPECIE DA SOVESCIO

Le specie utilizzate per il sovescio sono principalmente quelle appartenenti alle famiglie di leguminose, graminacee e crucifere, la scelta varia a secondo degli obbiettivi che si vogliono perseguire. Le specie in grado di mantenere un’adeguata copertura del terreno ed assorbire le maggiori quantità di nutrienti nel suolo

(catch-crops) sono le graminacee e le crucifere, capaci di ridurre, se non annullare, i rischi

ambientali connessi alla lisciviazione dell’azoto. Alcune specie appartenenti a queste due famiglie hanno, inoltre, la caratteristica di esercitare un effetto soppressivo diretto nei confronti di parassiti/patogeni (effetto biocida) e di piante infestanti (effetto

allelopatico), in particolare di quelle con il loro stesso ciclo biologico.

In generale si usano le leguminose perché, grazie all’azotofissazione simbiontica, possono accumulare N e perciò garantire, almeno in parte, la copertura del fabbisogno in N della coltura in successione. Le non leguminose, invece, sono usate soprattutto per prevenire l’erosione del terreno e la lisciviazione dei nitrati durante la stagione piovosa, ma possono anche essere impiegate per il sovescio, da sole o in consociazione alle leguminose. In tal modo l’azoto che esse accumulano può tornare al terreno ed essere parzialmente disponibile per le colture da reddito che seguono. L’accumulo e il rilascio di azoto nella coltura da sovescio dipendono fortemente dalle condizioni pedoclimatiche, e anche nella stessa località variano molto con l’andamento stagionale. Inoltre, il rilascio di azoto dipende dalla composizione della biomassa interrata, il cui tasso di mineralizzazione diminuisce al crescere del contenuto di cellulosa, emicellulosa e lignina e del rapporto C/N. Questi parametri presentano valori bassi nelle leguminose, alti nelle non leguminose, soprattutto graminacee. Pertanto, un mezzo per modulare il quantitativo di azoto apportato e il tempo di rilascio dello stesso può essere rappresentato dal sovescio di consociazioni tra leguminose e non leguminose.

Oltre alle specie, anche la data d’interramento può avere un effetto sull’accumulo di azoto e sul ritmo di mineralizzazione della biomassa interrata. Infatti le colture, con l’avanzare del ciclo aumentano l’accumulo di azoto, ma anche i contenuti di cellulosa, emicellulosa e lignina e il rapporto C/N. Va considerato anche che il posticipo dell’epoca di interramento riduce il tempo a disposizione per preparare il letto di

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12 semina per la coltura che segue. Un interramento troppo precoce, d’altro canto, limita la produttività della coltura in termini di biomassa e quindi l’accumulo di azoto nella parte epigea, e può comportare un rilascio di azoto troppo precoce, oltre a ridurre il tempo in cui la coltura esplica la sua funzione antierosiva.

1.2.1 Leguminosae

L’impiego delle specie leguminose consente di: gestire in maniera più significativa la fertilità dei suoli, limitare il ricorso a risorse energetiche non rinnovabili, ridurre l’impiego di fertilizzanti di sintesi.

Sono molteplici le azioni e i meccanismi secondo cui queste specie influenzano positivamente la fertilità dei terreni. Spicca, in particolare, la capacità che hanno di assumere direttamente l’azoto atmosferico, rendendosi così autosufficienti per questo elemento, arricchendo le dotazioni naturali del suolo e migliorandone l’attività biologica e avvantaggiando le colture in successione. L’assimilazione dell’azoto atmosferico avviene tramite simbiosi radicale con i rizobi, batteri presenti nella microflora del terreno. La quantità di azoto fissata dalle leguminose dipende dalla sostanza secca prodotta dalle piante, perciò dalla specie, dalle condizioni pedoclimatiche, etc.

Gli effetti delle colture leguminose sul terreno cambiano a seconda della specie e dell’indirizzo produttivo. Le foraggere poliennali sono insostituibili nel ripristino di adeguati livelli di sostanza organica e nell’azione di costituzione e conservazione di una buona struttura del terreno. Le foraggere poliennali hanno migliori effetti delle leguminose annuali, soprattutto perché assicurano al terreno una prolungata fase sodiva, che favorisce l’instaurarsi di un’efficace attività biologica e l’accumulo di sostanza organica stabile. Inoltre, la durata del loro ciclo permette loro di sviluppare molto in profondità le radici, riportando in superficie quella parte di fertilità giacente fuori dalla normale esplorazione delle radici o in fase di allontanamento, rendendola così disponibile per le colture che seguono.

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13 Tabella 1 – Azoto fissato con alcune associazioni simbiotiche (Vance 1998).

Specie N fissato Kg/ha per stagione

% dell’N tot. della pianta proveniente dalla N-fissazione

Trifolium repens 172 75 Trifolium pratense 170 59 Lotus corniculatus 92 55 Medicago sativa 180 70 Vicia sativa 130 70 Desmodium spp. 200 85 Pisum sativum 72 35 Glicine max 120 53 Phaseolus vulgaris 65 40 Vigna angularis 80 70 Vicia faba 151 80 Lupinus angustifolius 170 65 Lens culinaris 100 63

Come possiamo vedere dalla tabella 1 le leguminose da foraggio perenni tendono a fissare più azoto attraverso la simbiosi rispetto alle leguminose annuali.

Vi possono essere diversi modi per trasferire l’N organicato, fissato dalla simbiosi, alle colture successive o concomitanti:

• attraverso il rilascio degli essudati radicali;

• attraverso la mediazione di funghi micorrizici arbuscolari; • attraverso la decomposizione delle radici e dei noduli;

• attraverso il rilascio delle deiezioni degli animali che pascolano nei prati di leguminose.

L’attività di azotofissazione delle leguminose aumenta all’inizio della fioritura, raggiunge il massimo a completa fioritura per poi decrescere all’inizio della maturazione dei semi (Bergersen, 1980). In questa fase del ciclo vegetativo la pianta ha raggiunto il suo massimo sviluppo e da quel momento in poi inizia ad aumentare la percentuale di fibra nei tessuti, cioè sale il rapporto C/N e con questo il tempo di cessione.

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14 I benefici alla fertilità dei terreni derivanti da un sovescio di leguminose sono massimi sfalciando la coltura allo stadio di fioritura inoltrata, nella prima fase di riempimento dei semi, poiché la biomassa da interrare contiene la massima quantità di elementi chimici facilmente utilizzabili dalla microflora e microfauna del terreno ed è migliore l’efficienza del processo di umificazione della sostanza organica.

Per quanto riguarda l’avvicendamento, in carenza di risorse idriche la coltura intercalare è possibile solo in ciclo autunno-invernale, in ambienti in cui non pregiudichi la resa dell’eventuale coltura successiva, a ciclo primaverile-estivo. Con l’estensione della coltivazione della leguminosa al periodo primaverile, come coltura principale, il sovescio diviene un’alternativa al maggese; prepara terreni per le colture a ciclo autunno-vernino o, in ambienti irrigui, delle ortive a ciclo estivo.

Le operazioni di preparazione del letto di semina dipendono da quelle previste per la coltura successiva, limitando al minimo gli interventi di maggiore impatto sui terreni (aratura). In asciutto la semina avviene dopo le prime piogge autunnali, mentre in presenza di disponibilità idriche, l’anticipo consente una rapida ed elevata produzione di biomassa. L’operazione si effettua a spaglio, aumentando i quantitativi di seme mediamente del 25% rispetto alla coltura da foraggio. Se in coltura principale è possibile operare lo sfalcio in corrispondenza dell’epoca più idonea, in coltura intercalare questo è condizionato dall’epoca e modalità di semina della coltura immediatamente successiva.

Riguardo alle pratiche di fertilizzazione le leguminose sono autosufficienti per l’azoto, tuttavia ridotti apporti possono fornire un certo “effetto starter”. Pur essendo avide di fosforo e potassio, la fertilità residua alla coltivazione delle precessioni colturali ed all’interramento dei residui colturali, può essere sufficiente a garantire un adeguato soddisfacimento di questi nutrienti da parte della coltura di copertura. Apporti integrativi possono servire, per specie con capacità di ricaccio dopo il taglio, a sostenere sia la produzione di foraggio che di biomassa per il sovescio.

Diversi studi concordano che almeno il 50% degli elementi nutritivi forniti da un sovescio, vengono rilasciati con prontezza, mentre l’altra parte resta a disposizione per gli anni successivi.

La tipologia di intervento per operare l’interramento della biomassa (aratura, discissura, lavorazione minima) varia in dipendenza delle lavorazioni da effettuare per

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15 l’impianto della coltura che segue.

Tra le leguminose da impiegare come cover crops o colture da sovescio possiamo distinguere due grandi gruppi, le leguminose autoriseminanti e leguminose da granella.

Le leguminose autoriseminanti, a cui appartengono alcune specie di trifogli e mediche annuali, si adattano bene al clima mediterraneo, in quanto riescono a sopportare una limitata disponibilità di acqua nel periodo estivo.

Tra i trifogli, ricordiamo:

Trifolium subterraneum è una tipica foraggera adatta a climi mediterranei e terreni

acidi e sciolti, che facilitano la penetrazione dei peduncoli. La biomassa del trifoglio sotterraneo accumulata durante l’inverno può essere sovesciata a favore di una coltura primaverile estiva, inoltre formando una buona copertura per il terreno costituisce una buona difesa dall’erosione. Prove effettuate su coltura di girasole in asciutto hanno messo in evidenza un favorevole effetto del sovescio del trifoglio sulla resistenza del girasole alla siccità estiva, sulla riduzione del fabbisogno di concimi azotati e sul contenimento delle erbe infestanti (Caporali, 1993). L’interramento della leguminosa sembra, infatti, deprimere lo sviluppo delle erbe infestanti, la cui biomassa alla raccolta del girasole è risultata inferiore rispetto a quella rilevata in sistemi tradizionali di coltivazione (Caporali, 1993).

Trifolium repens si adatta ad ogni clima e terreno, crescendo sia nei terreni leggeri

sabbiosi delle zone secche, sia nelle zone umide caratterizzate da molte precipitazioni, spesso impiegato in miscuglio con specie graminacee. Studi condotti nel Regno Unito, hanno mostrato che questo trifoglio, impiegato come coltura da sovescio, accumula, in un periodo di 25 mesi, una quantità di azoto pari a 592 Kg/ha nella biomassa epigea (Stopes et al, 1996). Questo dato è stato confrontato con la quantità di N accumulata dalla coltura di segale, che è risultata di circa 346 Kg N/ha, da questo si è dedotto che la quantità di N fissato dal trifoglio è stata di circa 120 Kg N/ha all’anno.

Trifolium pratense, per la sua coltivazione sono adatti quasi tutti i terreni, tranne quelli

sabbiosi leggeri e poveri di acqua. Vanno bene anche zone fresche ed umide, mentre sui terreni argillosi pesanti e bagnati cresce meglio il trifoglio ibrido. In una prova condotta in una azienda biologica nel Regno Unito, T.pratense coltivato come sovescio, ha accumulato una maggiore quantità di azoto nella biomassa rispetto a

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T.repens nonostante che quest’ultimo abbia prodotto una maggiore quantità di

sostanza secca. T.pratense ha accumulato 371 Kg N/ha in 13 mesi, paragonati ai 328 Kg N/ha di T.repens. I valori dopo 25 mesi erano, invece, 741 Kg N/ha e 592 Kg N/ha rispettivamente (Stopes et al., 1996). Questi valori sono stati poi paragonati con l’N accumulato da segale ed hanno indicato che l’N fissato da T. pratense è stato pari a 277 Kg/ha nei 13 mesi e a 395 Kg N/ha quando rimane in campo per 25 mesi.

Alcuni autori hanno calcolato che la quantità di N fissata da T. pratense è di 343 Kg N/ha quando coltivato per foraggio e di 154 Kg N/ha quando invece è coltivato per sovescio (Loges et al., 2000).

Trifolium incarnatum, la sua robusta radice fittonante è in grado di penetrare

profondamente nel terreno, riuscendo a migliorare l’aerazione anche di terreni costipati. Generalmente viene seminato in primavera o a metà settembre ed è coltivato per 2-3 mesi prima di essere sovesciato rispettivamente in primavera o in estate. Uno studio condotto per due anni in Danimarca da Mueller e Thorup-Kristensen (2001), ha indicato che la quantità di azoto fissata da T.incarnatum seminato in Ottobre può variare da 77 a 111 Kg/ha.

Medicago sativa, coltivata generalmente come coltura da foraggio, a ciclo triennale, è

in grado di fissare ingenti quantità di N mentre se coltivata da sovescio dette quantità tendono a ridursi sensibilmente. In uno studio in Germania è stata indicata in 136 Kg N/ha la quantità di azoto fissata da questa coltura coltivata per il sovescio (Loges et

al., 2000). Medicago sativa coltivata in Canada come coltura da sovescio ha

accumulato 36 Kg N/ha dopo 12 settimane (Townley-Smith et al., 1993).

Medicago lupulina, è una coltura annuale, che tollera bene l’ombreggiamento e per

questo si adatta bene ad essere consociata con una “cash crop” in primavera, per poi essere utilizzata come sovescio una volta che è stata raccolta la coltura principale. In uno studio condotto da Loges et al., nel 2000, dove si mettevano a confronto diversi tipi di sovescio, Medicago lupulina ha mostrato una minore capacità di fissare azoto rispetto a T.repens e T.pratense. La quantità di azoto fissata infatti in questo caso è stata di soli 117 Kg N/ha.

Tra le leguminose da granella, invece, quelle impiegate come sovescio sono:

Vicia sativa, detta anche Veccia comune, è una leguminosa foraggera annuale spesso

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17 ridotte. Prospera meglio in terreni limosi medi e pesanti, calcarei e freschi in zone umide. Resiste alle gelate precoci ed è in grado di sviluppare un apparato radicale ben ramificato e ricco in tubercoli. Il rapido sviluppo esplica un’azione favorevole sulla protezione del suolo, soffoca la crescita di erbe infestanti e porta ad un miglioramento delle caratteristiche del terreno. La quantità di azoto fissata da questa coltura seminata in autunno e sovesciata dopo orzo varia da 40 a 90 Kg/ha, come è emerso da uno studio di due anni condotto da Mueller e Thorup-Kristensen (2001).

Vicia villosa, detta anche Veccia vellutata o invernale, è una specie annuale resistente

al gelo dotata di un apparato radicale fortemente ramificato e ricco di batteri nei tubercoli. Nella coltivazione come coltura intercalare estiva la semina viene effettuata dopo la raccolta del cereale, da luglio all’inizio di agosto, direttamente sulle stoppie. Come coltura intercalare invernale, invece, può essere seminata fin dall’inizio di Settembre, ma forma in questo caso solo una debole copertura del terreno in inverno.

Vicia villosa è stata in grado di fissare 149 Kg N/ha, ma solo 80 Kg/ha nel primo anno

di prova, quando le condizioni climatiche durante la semina autunnale non erano favorevoli (Mueller e Thorup-Kristensen 2001).

Vicia faba, preferisce terreni pesanti e medi in climi marittimi, ma anche terreni

leggeri derivati dalla disgregazione meteorica delle rocce; sopporta basse temperature anche fino a -4 °C. Coltivata principalmente per la produzione di granella, in uno studio condotto in Canada nel 1993 (Townley-Smith et al.) è stata coltivata come coltura da sovescio e la quantità di N che è stata in grado di fissare è stata di 41 Kg N/ha all’anno.

Lupinus luteus (lupino giallo), Lupinus albus (lupino bianco), Lupinus angustifolius

(lupino azzurro), sono colture annuali originarie del mediterraneo, ricche in proteine. In passato erano molto diffuse come colture intercalari, soprattutto nei terreni sabbiosi. Delle due forme “contenenti alcaloidi” e “senza alcaloidi”, le prime vengono scelte per la coltivazione con semina sulle stoppie per poi sovesciarle. Le esigenze di clima e terreno sono diverse per le tre specie: per quanto riguarda Lupinus luteus, la specie maggiormente impiegata per il sovescio, cresce bene anche in ambiente acido, con pH da 4,5 a 5, le radici profonde sono in grado di rifornirsi di acqua anche nelle zone secche, risulta sensibile alle basse temperature (già a 4-6 °C può avere dei problemi). La massa verde contenente alcaloidi non è utilizzabile e viene trinciata

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18 vicino al colletto ed interrata prima dell’inverno, dopo un pre-appassimento, oppure viene fatta gelare durante l’inverno in superficie e poi interrata nella primavera successiva.

1.2.2 Graminacee

Generalmente si scelgono, come colture da sovescio, specie appartenenti a questa famiglia quando l’obbiettivo che si vuol raggiungere è quello di migliorare la struttura del terreno oppure si vuole sfruttare le loro caratteristiche rinettanti. Le specie appartenenti a questa famiglia possono contribuire a ridurre le perdite di N minerale per lisciviazione o trasporto solido intercettando i nutrienti non utilizzati dalle colture precedenti, soprattutto i nitrati. In questo caso si parla di “colture trappola” nei confronti dell’azoto, aspetto molto interessante nel caso dei sistemi agricoli alternativi che hanno come obiettivo la massima valorizzazione delle risorse dell’ambiente. L’azione esercitata da queste colture si svolge secondo due vie: la prima consiste nell’asportazione dei nitrati da parte dell’apparato radicale e nella loro successiva organicazione, l’altra nella riduzione della quantità di acqua presente nel terreno a seguito di una maggiore traspirazione. L’abilità delle diverse specie nell’intercettare i nitrati dipende dal loro ritmo di accrescimento durante l’inverno (quindi dalla quantità di sostanza secca prodotta) e dal grado di colonizzazione del suolo dalle radici. Particolarmente adatte a questo scopo si sono dimostrate la segale (Secale cereale L.), l’orzo (Hordeum vulgare L.), l’avena (Avena sativa L.) ed il frumento tenero (Triticum aestivum L.).

Nel caso di una cover crop graminacea la quantità di N asportato dalla coltura è connessa alla quantità di sostanza secca che essa risulta in grado di produrre piuttosto che alla concentrazione di N nei suoi tessuti che in genere è decisamente bassa rispetto a quella delle leguminose. La quantità di N asportata da specie graminacee (segale, orzo, frumento) è generalmente compresa tra 10 e 90 Kg/ha, ma varia comunque in funzione della quantità di azoto residuo presente nel terreno e del tasso di mineralizzazione della sostanza organica nel sistema suolo (Brown et al., 1970; Scott Smith et al., 1987).

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Lolium moltiflorum westerwoldicum, detto anche loietto annuale, tra i loietti questa

specie rappresenta la forma a ciclo breve. Non resiste al gelo e non necessita del freddo per levarsi. Come “erbaio estivo” presenta un comportamento simile ai cereali estivi. Per la buona rapidità di sviluppo, tutte le varietà delle forme diploidi e tetraploidi sono adatte per la semina sulle stoppie delle colture precedenti. Terreni ricchi in elementi nutritivi ed in buone condizioni colturali, con un rifornimento idrico possibilmente uniforme, sono i più adatti. Con l’irrigazione si possono prendere in considerazione anche zone siccitose.

L’epoca più favorevole per la semina va da metà luglio all’inizio di agosto, questo per poter ottenere nel periodo di sviluppo disponibile un’elevata produzione di foraggio, ma se lo scopo è solo quello del sovescio, la semina può essere fatta anche poco più tardi. E’ importante avere un terreno ben areato per favorire la penetrazione delle radici e un miglior immagazzinamento dell’acqua delle precipitazioni.

Lolium multiflorum, detto anche loietto italico o loiessa, cespitoso e di taglia più alta,

appartiene al gruppo delle forme a vita breve, ma perennanti. Graminacea annuale resistente al gelo, ha un comportamento intermedio tra il loietto annuale e il longevo loietto inglese. Non è molto esigente in fatto di clima e terreno. E’ molto adattabile e per il forte apporto di sostanza organica delle radici, può riportare subito in buone condizioni di coltivabilità terreni sterili. Nella coltivazione come coltura intercalare da sovescio può essere seminato sia per mezzo della trasemina primaverile in una coltura di cereali, sia per semina sulle stoppie dopo la raccolta del cereale precedente. L’azione del sovescio del loietto italico è data dall’intensa copertura del terreno prodotta dalla ricca massa fogliare, dalla penetrazione radicale nell’intero strato attivo del suolo e dall’arricchimento con circa 25-30 q/ha di sostanza secca come sostanza organica (Renius et al., 1992).

Lolium perenne, detto anche loietto inglese, pianta cespitosa, di taglia media (50-80

cm), ha un apparato radicale superficiale. Le esigenze di clima e terreno del loietto inglese sono molto elevate, in generale preferisce i terreni freschi e con sufficiente umidità e quindi sono da escludere i terreni molto leggeri, secchi e sabbiosi per carenza d’acqua. La semina avviene attraverso la trasemina nel cereale in primavera o come semina sulle stoppie dopo la raccolta del cereale precedente. Il loietto inglese,

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20 come coltura intercalare, essendo una specie perenne, nel primo anno non consente produzioni elevate.

Secale cereale, detta anche segale verde, si adatta ai terreni acidi, è sensibile

all’allettamento, per cui non è conveniente impiegarla nei terreni fertili. Cresce anche nei terreni leggeri sfruttando l’umidità invernale. Nell’Italia settentrionale si semina in autunno, nella seconda metà di ottobre. Come colture successive sono adatti mais, navone o cavolo da foraggio. La segale viene spesso consigliata come coltura da sovescio invernale in quanto è resistente alle basse temperature (Ditsch e Alley, 1993), ed ha dimostrato di apportare considerevoli quantità di residui colturali favorevoli alla coltura del mais e della soia su terreno non lavorato (Moschler et al., 1967; Eckert, 1998).

Dalla decomposizione dei residui di segale sembrano però originare delle sostanze allelopatiche in grado di ritardare lo sviluppo e la crescita della pianta che si trova in successione (Rice, 1995; Shilling et al., 1986). Durante la decomposizione dei residui colturali parte dei nitrati o dell’azoto proveniente dai fertilizzanti viene immobilizzato nella sostanza organica del suolo (Hargrove, 1986). In base alle condizioni del terreno e alla distribuzione delle piogge stagionali, questa temporanea riduzione della disponibilità di N può causare una carenza sulle piante ancora giovani di mais in successione creando dei problemi di crescita e sviluppo.

Alcune volte la segale viene inserita all’interno di una rotazione mais-soia, come nel caso di sistemi colturali ideati per proteggere il suolo dall’erosione. La scarsa quantità di residui lasciati dalla soia, infatti e, la loro rapida decomposizione potrebbero incrementare il fenomeno dell’erosione nelle zone maggiormente a rischio. In uno studio è stato valutato che le perdite di terreno dopo soia sono anche del 35% più alte rispetto a quelle registrate dopo mais (Laflen e Moldenhauer, 1979; Miller et al., 1994), e che i residui di segale lasciati in campo dopo la coltura di soia riescono a ridurre significativamente questo fenomeno. Nello stesso studio, la segale si è dimostrata coltura in grado di influire sul ciclo biogeochimico dell’azoto, la semina invernale di segale seguita da mais in un sistema no-tillage può ridurre, infatti, l’accumulo di nitrati nel terreno, in quanto assorbiti dalla pianta, che verranno rilasciati solo successivamente durante il processo di decomposizione dei residui interrati. (Ditsch et al., 1993; Shipley et al., 1992).

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21 La segale è una coltura che potenzialmente può essere sovesciata in primavera o disseccata con gli erbicidi per produrre un “mulch” superficiale nel momento della semina della soia. Come mulch è quindi in grado di conservare il contenuto in acqua del suolo (Bond e Willis, 1969; Wall e Sbobbe, 1984); dall’altro lato, però, a seconda delle precipitazioni primaverili, la coltura della segale in rotazione può diminuire il livello di umidità del profilo del suolo (Triplett, 1986).

1.2.3 Cruciferae

Le specie appartenenti a questa famiglia vengono scelte essenzialmente per la loro capacità di assimilare i nitrati e i fosfati minerali più insolubili; alcune di queste specie permettono di rendere disponibili per le colture successive rilevanti quantità di fosforo.

Inoltre, le brassicacee, come altre specie, sono dotate di specifici sistemi naturali di difesa che si basano sulla produzione di molecole biologicamente attive nei confronti di possibili avversità animali e vegetali. Nelle Brassicacee, nelle Capparidacee ed in altre famiglie botaniche minori, è presente il sistema chimico denominato “glucosinolati-mirosinasi” che permette alla pianta di produrre isotiocianati a partire dai glucosinolati che produce naturalmente; questi ultimi, in presenza di acqua e dell’enzima mirosinasi, idrolizzano dando origine a isotiocianati, nitrili e tiocianati; queste sostanze risultano tossiche per i funghi patogeni ed i nematodi, ma relativamente selettive nei confronti della microflora utile. I due componenti, i glucosinolati e l’enzima, sono separati all’interno delle cellule della pianta ma possono entrare in contatto fra di loro, attraverso la trinciatura della pianta, scatenando la produzione delle sostanze biocide. Queste sono abbastanza volatili e penetrando negli spazi presenti nel terreno inattivano batteri, funghi, nematodi, insetti ed eventuali sementi presenti.

In questi ultimi anni sono state valutate numerose specie appartenenti alla famiglia delle Brassicaceae e delle Capparidaceae, sulla base del loro contenuto quanti-qualitativo in glucosinolati. E’ stato così possibile individuare alcune selezioni di piante biocide da sovescio caratterizzate da una buona adattabilità alle diverse condizioni climatiche, con diverse caratteristiche agronomiche e tecnologiche e con diverse attività in funzione del patogeno bersaglio. L’interramento di piante biocide

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22 permette da un lato di incrementare la microflora totale, ma al tempo stesso, consente di svolgere un’azione di controllo delle popolazioni patogene. La coltivazione ed il sovescio di piante ad alto contenuto in glucosinolati, infatti, oltre ad apportare buone quantità di sostanza organica con positive ricadute sulle caratteristiche chimico-fisiche e sull’attività biologica del terreno, sembra in grado di favorire un riequilibrio della microflora del terreno.

Brassica napus, colza da foraggio o da olio, non è esigente in fatto di terreno e clima;

essa può essere coltivata praticamente in tutti gli ambienti. Il comportamento specifico delle diverse varietà selezionate permette all’agricoltore di farne un uso mirato, per la produzione di foraggio, da olio o come coltura da sovescio, data la rapida copertura del terreno e la buona penetrazione radicale nel suolo che questa specie può garantire se ben coltivata. Nella rotazione la colza dovrebbe ripetersi solo ogni 3-4 anni, per evitare la diffusione di specifici patogeni.

Sinapsi alba, Brassica nigra, Brassica juncea, specie annuali di rapidissimo sviluppo,

sono adatte esclusivamente per il sovescio. Come specie con crescita velocissima, la senape tollera anche semine tardive, ma per rendere massima l’efficacia del sovescio deve essere seminata a fine agosto primi di settembre. Nelle zone secche e calde va a fiore troppo in fretta, e in quelle umide e fredde resta più a lungo allo stadio vegetativo (Renius et al., 1992).

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CAPITOLO 2

L’INSERIMENTO DELLE COLTURE DI COPERTURA

NELL’ORDINAMENTO PRODUTTIVO AZIENDALE

L'introduzione delle colture di copertura in un’azienda agricola, non è legata tanto alla volontà di aumentare la produttività e quindi il reddito lordo aziendale, quanto a quella di tornare a forme di agricoltura più “conservative” che preservino la fertilità dei terreni. Dal punto di vista strettamente tecnico, la gestione delle “cover crops”, ma anche quella delle altre colture con esse in rotazione, pone a livello aziendale nuovi problemi che possono risultare più o meno complessi, in relazione alle finalità per le quali è stata introdotta la coltura di copertura ed al tipo di avvicendamento nel quale si intende inserirla. Queste problematiche si articolano in tre aspetti fondamentali:

• la scelta delle specie da utilizzare come “cover crops”; • il loro posizionamento all'interno degli avvicendamenti; • la loro successiva gestione in rapporto alla coltura principale.

La scelta della specie rappresenta senza dubbio l’aspetto più rilevante sia perché da essa dipendono altre problematiche legate alla possibilità di inserimento della “cover crop” nell’avvicendamento colturale e connesse all’agrotecnica dell’intera rotazione, sia perché essa è di fondamentale importanza per raggiungere i diversi obiettivi che ne hanno promosso l’adozione. Le caratteristiche principali che una coltura di copertura deve possedere e che devono essere ben considerate nella sua scelta sono le seguenti: elevata energia germinativa e rapida emergenza di campo, adeguato adattamento alle condizioni pedoclimatiche dell’ambiente ove si intende introdurla, rapido sviluppo invernale, buona capacità di competizione nei confronti delle piante infestanti, facilità di interramento, sfalcio, trinciatura o disseccamento, bassi costi di impianto. Poiché risulta estremamente difficoltoso che una singola specie possegga tutti questi requisiti, la scelta dovrà essere effettuata in base ad una scala di priorità nella quale al primo posto si colloca il fine preciso per cui deve essere utilizzata la coltura di copertura (AA.VV., 1993). Qualora l’obiettivo principale fosse quello di fornire azoto alla coltura in successione, la scelta dovrebbe ricadere necessariamente sulla famiglia delle leguminose data la loro capacità di fissare l’azoto atmosferico. Se invece si volesse

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24 salvaguardare le acque sotterranee dall’inquinamento da nitrati, occorrerebbe orientarsi su specie appartenenti alla famiglia delle crucifere e/o delle graminacee (Meisinger et al., 1991; Reicosky e Warnes, 1991).

Nel caso in cui l’interesse preminente fosse quello di contenere la flora infestante, si dovrebbero utilizzare o specie in grado di competere maggiormente con essa, come il trifoglio sotterraneo (Enache e Ilnicki, 1990), o specie capaci di produrre sostanze fitotossiche, come la segale ed il frumento tenero (Shilling et al., 1986; Raimbault et al., 1990). Laddove invece il problema principale fosse quello di controllare il fenomeno erosivo del suolo, sarebbe consigliabile ricorrere a specie in grado di svilupparsi rapidamente durante i periodi dell’anno a maggiore rischio di erosione (autunno-inverno, nei nostri ambienti) e che producano, nel caso di formazione di una pacciamatura morta, residui persistenti sul terreno (segale, frumento tenero, loiessa, avena, orzo) (Ram et al., 1960; Sarrantonio, 1990; Hughes-Games e Bertrand, 1991). Per ottenere contemporaneamente i vantaggi tipici di ciascuna famiglia, si potrebbero impiegare miscugli composti da più specie (in genere graminacee e leguminose). A tale proposito, ottimi risultati sono stati ottenuti in Nord America con i miscugli di segale e trifoglio incarnato, segale e veccia vellutata, frumento tenero e trifoglio incarnato, avena e trifoglio alessandrino (Mitchell e Teel. 1977; Clark et al., 1994). Per quanto riguarda il posizionamento delle colture di copertura nell'avvicendamento, esse si possono dividere in due gruppi: le permanenti e le temporanee, queste ultime suddivise in intercolturali e coordinate con il ciclo della coltura principale. Nel caso di coperture permanenti si utilizza una specie in grado di svilupparsi rapidamente e resistere il più a lungo possibile sul terreno senza nuocere alla coltura da reddito (Lolium perenne L., Trifolium repens L.). Esse trovano una più proficua collocazione nell’ambito delle coltivazioni arboree. Le coperture vegetali temporanee, molto più diffuse, occupano il suolo per un periodo di tempo minore rispetto alle precedenti, favorendo un maggiore dinamismo all’interno dell’avvicendamento stesso. Tra esse, le intercolturali vengono seminate dopo la raccolta della coltura principale e devitalizzate prima del successivo ciclo colturale (Lolium multiflorum L., Vicia villosa Roth., Secale cereale L.), quelle coordinate con il ciclo della coltura principale possono venire seminate contemporaneamente a questa, oppure traseminate con l’ultima sarchiatura nel caso di coltura da rinnovo (Secale cereale L., Trifolium

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incarnatum L., Sinapis spp., Raphanus spp.) (AA.VV., 1993; Catizone e Meriggi,

1993). In generale, se tecnicamente possibile, sarebbe preferibile la trasemina della copertura vegetale nella coltura principale in modo tale che essa possa svilupparsi rapidamente ed in maniera adeguata raggiungendo un buon grado di copertura già dalla raccolta della coltura da reddito (Scott Smith et al., 1987).

L’utilizzo di coperture permanenti consente principalmente di limitare i rischi di erosione idrica ed eolica in terreni esposti a tali fenomeni facilitando, in questo modo, la conservazione di un adeguato livello di fertilità fisico-chimica, un adeguato controllo della flora spontanea e, nel caso di frutteti specializzati, una migliore trafficabilità degli appezzamenti.

Le colture di copertura temporanee (intercolturali e coordinate) sono invece utilizzate principalmente per organicare l’azoto nitrico presente nel terreno ed altrimenti lisciviabile oppure per fornire azoto alla coltura successiva attraverso l’azotofissazione.

Infine, per quanto attiene la gestione delle “cover crops”, in particolare di quelle collocate tra due colture da rinnovo primaverili-estive (sia in rotazione che in omosuccesione), si possono distinguere due forme: una finalizzata all’ottenimento di una pacciamatura “morta”, l’altra indirizzata al mantenimento di una pacciamatura "viva". Naturalmente, le tecniche di lavorazione del terreno e quelle di controllo chimico della flora reale, ivi compresa la coltura di copertura, dovranno variare in funzione del tipo di gestione prescelta. Nel primo caso (pacciamatura morta) si effettua, in primavera, una devitalizzazione chimica o meccanica della copertura; nel secondo caso invece (pacciamatura viva), la “cover crop” non è soppressa ma viene lasciata in parte o totalmente vitale durante il ciclo della coltura principale (Lal et al., 1991). Inoltre, le due forme differiscono anche per i sistemi colturali in cui verranno inserite: la pacciamatura morta può essere realizzata sia in sistemi “convenzionali” sopprimendo la copertura vegetale con una aratura primaverile, sia in sistemi "low input" impiegando una lavorazione superficiale od eseguendo un disseccamento chimico. Di contro l’ottenimento di una pacciamatura viva è possibile soltanto nei sistemi che prevedono la non lavorazione del terreno; in questo caso la coltura in successione viene seminata all’interno della pacciamatura (ancora viva) cosicché il terreno rimane totalmente indisturbato ad eccezione delle file di semina (Sartori e

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26 Rovatti, 1993). In queste condizioni, la specie selezionata dovrà esercitare la minore competizione possibile nei confronti della coltura principale per quanto riguarda la luce, l’acqua e gli elementi nutritivi (Lal et al., 1991). Diviene quindi fondamentale utilizzare specie che concludano il proprio ciclo biologico prima dell’inizio di quello della coltura da reddito. Così facendo è possibile ridurre l’impiego di input nel sistema colturale evitando la distribuzione di prodotti disseccanti di contatto o sistemici. Anche nel caso in cui la differenziazione dei due cicli biologici non risulti del tutto completa è possibile ridurre il disseccamento della copertura vegetale soltanto alla striscia di terreno su cui verrà seminata la successiva coltura (“disseccamento in banda”) (Ranells e Wagger, 1992) oppure, facendo affidamento sulla scarsa capacità di ricaccio della "cover crop" prescelta, può essere sufficiente praticare una trinciatura della copertura vegetale pochi giorni prima della semina della coltura principale. L’introduzione nell’ordinamento aziendale di specie di copertura impone una serie di valutazioni di carattere economico oltre che tecnico-agronomico. Come tutte le colture infatti, anche quelle di copertura implicano sia dei costi colturali sia una produzione lorda vendibile difficilmente quantificabile data la natura non mercantile delle “cover crops”. Ponendo innanzitutto l’attenzione sui costi, occorre precisare che essi derivano principalmente dall’acquisto delle sementi, dalle operazioni di preparazione del terreno, semina e devitalizzazione. La prima voce è quella che incide maggiormente sui costi variabili totali, soprattutto nel caso delle leguminose, scarsamente riprodotte in Italia. La preparazione del terreno e la semina richiedono invece spese notevolmente ridotte rispetto ad una coltura “tradizionale” in quanto sembra possibile fare ricorso a tecniche molto semplificate come la lavorazione minima e la semina a spaglio (Shepherd e May, 1995). Infine, i costi relativi alla devitalizzazione della cover crop, sono quelli che variano maggiormente data l’ampia possibilità di tecniche utilizzabili: si passa infatti da una spesa praticamente inesistente nel caso di colture di copertura perfettamente asincrone nei confronti della coltura principale, al costo ben più alto di un trattamento disseccante per quelle che richiedono di essere soppresse prima della semina della coltura da reddito.

La voce attiva nel bilancio economico delle “cover crops” è rappresentata da alcuni vantaggi di tipo agronomico ed ambientale quali il complessivo miglioramento della fertilità del terreno e la riduzione dei fenomeni erosivi, il conseguente possibile

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27 incremento delle rese delle colture in successione e della loro efficienza nell’utilizzazione dei fertilizzanti, la riduzione del dosaggio degli input ed un più agevole controllo delle infestanti. Questi vantaggi possono tradursi nel lungo periodo in un incremento della produzione lorda vendibile aziendale o in una generale riduzione dei costi variabili (AA.VV., 1993).

Nel caso in cui si intendano ridurre i costi d’impianto, senza realizzare una pacciamatura permanente, si possono utilizzare varietà in grado di “autoriseminarsi” e capaci, pertanto, di acquisire un comportamento perennante. A questo scopo, sono da ricordare tra le leguminose il trifoglio sotterraneo (Trifolium subterraneum L.), specie annuale a ciclo autunno-vernino originaria delle regioni mediterranee, in grado di andare a seme prima della siccità estiva. Esso matura i semi in capolini che si approfondiscono nel terreno e, se devitalizzato al momento opportuno, si autorisemina agevolmente riprendendo il proprio ciclo in autunno (Caporali, 1991; Caporali e Campiglia, 1993, 1994). Secondo Myers e Wagger (1991), anche il trifoglio incarnato (Trifolium incarnatum L.) potrebbe avere comportamento perennante grazie alla naturale disseminazione che avverrebbe in campo qualora la coltura non venisse raccolta. Un’ulteriore soluzione al problema dei costi di impianto può essere rappresentata dall’adozione di specie perenni. In questo caso però possono verificarsi problemi di gestione a causa dei fenomeni di competizione che si instaurano tra la coltura principale e quelle di copertura (Scott Smith et al., 1987). Questa competizione riguarda principalmente l’acqua; infatti, come indicato da uno studio condotto in Georgia da Box et al. (1980) utilizzando la Festuca arundinacea L. come “cover crop” per il mais, in presenza di irrigazione le rese del cereale dopo Festuca disseccata in banda o sull’intera superficie tendevano ad equivalersi a differenza di quanto osservato in coltura asciutta ove le rese del mais risultavano decisamente inferiori con disseccamento “in banda”della cover.

Non sempre, però, l’impiego delle colture di copertura migliora o conserva invariata la capacità produttiva della specie in successione. In alcuni casi infatti, sono stati riscontrati problemi di germinazione e scarso sviluppo della successiva coltura da reddito dovuti alla minore temperatura del terreno al di sotto del mulch, all’eccessivo impoverimento delle riserve idriche del terreno, allo scarso contatto tra seme e suolo a causa dell’elevata quantità di residui colturali, alla produzione di sostanze

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28 allelopatiche che inibiscono la germinazione dei semi della coltura in successione; alla “fame di azoto” causata dall’elevato rapporto C/N dei residui colturali ( Rice e Smith, 1984; Wagger e Mengel, 1988; Purvis, 1990; Tollennar et al., 1992; AA.VV., 1993). In definitiva l’introduzione delle “cover crops” nell’ordinamento aziendale, richiede che siano valutati attentamente il sistema colturale adottato, l’ambiente pedoclimatico in cui si opera e la disponibilità di attrezzature specifiche, in modo da operare una scelta perfettamente integrata con la realtà operativa.

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2.1 COLTURE DI COPERTURA E CICLO BIOGEOCHIMICO

DELL’AZOTO

Tra i principali elementi nutritivi, l’azoto è senza dubbio quello di più difficile gestione e, dopo l’acqua, risulta il fattore maggiormente limitante la produttività delle colture agrarie (Caporali, 1991). Le colture di copertura giocano un ruolo importante nell’influenzare il ciclo biogeochimico dell’azoto e quindi l’utilizzazione di quest’ultimo da parte delle colture agrarie. Esse intervengono in due modi diversi: come fonte di azoto organico (specie leguminose) o come intercettatrici dell’azoto disponibile nel terreno e nella soluzione circolante (specie graminacee o crucifere). In quest’ultimo caso si parla più specificamente di “catch crops” o “colture trappola”; queste occupano il suolo lasciato libero dalla coltura principale e sono in grado di assorbire, organicandoli, buona parte dei nitrati presenti nel terreno (AA.VV., 1993). In entrambi i casi le “cover crops” fungono da “pool” temporaneo di azoto, che dopo la devitalizzazione della coltura, verrà rilasciato progressivamente a seguito dei processi di mineralizzazione (Doran e Smith, 1991; Russell e Hargrove, 1993).

L’introduzione delle “colture trappola” negli areali particolarmente soggetti alla lisciviazione dei nitrati sembra poter contenere tale fenomeno ed il conseguente inquinamento delle acque di falda grazie alla loro capacità di utilizzare e “riciclare” gran parte dell’azoto minerale presente nel suolo. La traslocazione dei nitrati può infatti dipendere sia da fattori pedoclimatici (rapida mineralizzazione della sostanza organica ad opera della flora microbica, quantità ed intensità delle precipitazioni in relazione all’evaporazione, natura e giacitura del terreno, profondità della falda) sia da fattori colturali (avvicendamenti colturali, lavorazioni del terreno, tecnica di fertilizzazione, ecc.) che nel loro insieme possono alterare la struttura del terreno modificandone la porosità e la velocità di infiltrazione dell’acqua, i deflussi superficiali ecc.

L’azione delle colture di copertura si svolge sostanzialmente secondo due vie: una diretta e l’altra indiretta. La via diretta consiste nell’asportazione dei nitrati da parte dell’apparato radicale e nella loro successiva organicazione, quella indiretta, nella riduzione della quantità di acqua presente nel terreno a seguito dell’aumento della

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30 traspirazione.

L’abilità delle diverse specie di “cover crops” nell’intercettare i nitrati dipende dal loro ritmo di accrescimento durante l’inverno (e quindi alla quantità di sostanza secca prodotta) e dal grado di colonizzazione del suolo da parte delle radici. Le specie migliori sotto questo aspetto appartengono principalmente alle famiglie delle graminacee e delle crucifere e, in misura minore, delle leguminose. Le ricerche condotte in tal senso, infatti, indicano che le specie non-leguminose hanno un’efficacia, nell’intercettare ed assorbire i nitrati del terreno, che è di circa tre volte superiore a quella delle leguminose. Questa differenza è dovuta, (oltre che all’autosufficienza delle leguminose nei confronti dell’azoto) alla maggiore velocità di sviluppo (epigeo ed ipogeo) delle graminacee e delle crucifere durante il periodo autunnale (Meisinger et al., 1991). Tra le graminacee le specie che si sono rivelate più abili nell’assorbire i nitrati durante il periodo invernale sono: la segale (Secale cereale L.), l’orzo (Hordeum vulgare L.), l’avena (Avena sativa L.), il fleolo (Phleum

pratense L.) e lo stesso frumento tenero (Triticum aestivum L.); tra le crucifere,

invece, le specie appartenenti al genere Brassica, come la rapa (Brassica rapa L.) ed il colza (Brassica napus L.) e quelle del genere senape (Sinapis spp.) (Moschler et al., 1967; Mitchell e Teel, 1976; Fielder e Peel, 1992; Ditsch et al., 1993; Sheperd e May 1995).

Anche l’epoca di semina della coltura di copertura è fondamentale nell’influenzare la quantità di azoto asportato in quanto condiziona il ritmo di accrescimento, e quindi la quantità di biomassa prodotta (Fielder e Peel, 1992). Uno studio condotto da Brinsfield e Staver (1991) ha evidenziato che una semina precoce delle coperture, in autunno dopo la raccolta del mais, migliora la loro capacità di accumulare l’azoto presente nel terreno. In particolare sono state confrontate tre date di semina della segale: 1, 15 e 30 ottobre alle quali è corrisposta, alla metà di Marzo, una differente quantità di azoto totale assimilato che è stata rispettivamente di 177, 150 e 83 kg/ha. Ovviamente la quantità di azoto asportato dalla coltura di copertura è strettamente connessa alla quantità di sostanza secca che risulta in grado di produrre ed alla concentrazione di azoto nei suoi tessuti. Nel caso di una “cover crop” non-leguminosa tale quantità sembra legata più al primo fattore, essendo minime le differenze tra le graminacee riguardo al contenuto in N nei tessuti (Holderbaum et al.,1990); invece,

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31 nel caso delle leguminose, la quantità di azoto asportato può essere condizionata notevolmente anche dalla sua concentrazione nella biomassa che può assumere valori anche molto diversi a seconda della specie: si passa, ad esempio, da un contenuto del 3-4 % nella veccia al 2-3% del trifoglio incarnato; a parità di sostanza secca prodotta, la veccia può quindi accumulare una quantità di azoto superiore a quella del trifoglio incarnato (Ebelhar et al.,1982; Hargrove, 1986).

Shipley et al. (1992) hanno dimostrato, utilizzando N marcato, la superiorità di specie non-leguminose (segale e loiessa) rispetto a specie leguminose (veccia vellutata e trifoglio incarnato) nell’intercettazione dell’azoto precedentemente distribuito al mais. Ciò sembrerebbe imputabile, non tanto alla maggiore quantità di acqua evapotraspirata o alla maggiore quantità di sostanza secca prodotta, ma alla maggiore capacità delle graminacee e, della segale in particolare, di fungere da centro di accumulo dell’azoto. Questa specie, infatti, cresce molto rapidamente durante il periodo autunnale formando un esteso apparato radicale ed in primavera riprende a vegetare 3-4 settimane prima della veccia, caratteristica che le consente d’intercettare gran parte dei nitrati presenti nel terreno (McCracken et al., 1994). La quantità di azoto asportato dalle specie non-leguminose (segale, orzo e frumento) è generalmente compresa tra 12 e 91 kg ha-¹, ma varia comunque in funzione della quantità di azoto residuo presente nel terreno e del tasso di mineralizzazione della sostanza organica nel sistema suolo (Ebelhar et al., 1982; Brown et al., 1985; Scott Smith et al., 1987). Questi valori sembrano confermati da uno studio condotto da Hoyt e Mikkelsen (1991) utilizzando la segale come “cover crop” dopo il mais in un sistema di non lavorazione che, secondo gli Autori, presenterebbe i maggiori rischi di lisciviazione a causa della maggiore infiltrazione dell’acqua nel terreno non lavorato.

In generale, nella stima dell’azoto intercettato da parte delle colture di copertura si considera solo il contenuto della porzione epigea, trascurando quello dell’apparato radicale. Secondo quanto riportato in letteratura, la percentuale di azoto contenuto nelle radici, pur variando in base alla specie, allo stadio di crescita, al livello di azoto nel suolo, ecc., può oscillare intorno al 25, 33, 10, e 20% del totale, rispettivamente per segale, loietto, veccia vellutata e trifoglio incarnato (Mc Vickar et al., 1946; Mitchell e Teel, 1977). La conoscenza di questi valori permette una stima più precisa della quantità totale di azoto intercettato da una “coltura trappola”.

Figura

Tabella 2 - Caratteristiche fisico-meccaniche, chimiche ed idrologiche medie del  terreno che ospita la ricerca (analisi effettuate all’inizio della ricerca  nel novembre del 1993)
Tabella 5 Quadro sintetico degli effetti medi dei trattamenti e delle loro  interazioni
Figura 1 – Variazioni della stabilità degli aggregati nello strato di terreno  superficiale (0-5 cm – a sinistra) e in quello sottosuperficiale (5-10 cm – a destra)  in relazione alla tecnica di lavorazione del terreno ed alla disponibilità di azoto
Figura 2 – Variazioni della stabilità degli aggregati nello strato di terreno  superficiale (0-5 cm – a sinistra) e in quello sottosuperficiale (5-10 cm – a destra)  in relazione alla tecnica di lavorazione del terreno ed alla coltura di copertura
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