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COLTURE DI COPERTURA E CICLO BIOGEOCHIMICO DELL’AZOTO

L’INSERIMENTO DELLE COLTURE DI COPERTURA NELL’ORDINAMENTO PRODUTTIVO AZIENDALE

2.1 COLTURE DI COPERTURA E CICLO BIOGEOCHIMICO DELL’AZOTO

Tra i principali elementi nutritivi, l’azoto è senza dubbio quello di più difficile gestione e, dopo l’acqua, risulta il fattore maggiormente limitante la produttività delle colture agrarie (Caporali, 1991). Le colture di copertura giocano un ruolo importante nell’influenzare il ciclo biogeochimico dell’azoto e quindi l’utilizzazione di quest’ultimo da parte delle colture agrarie. Esse intervengono in due modi diversi: come fonte di azoto organico (specie leguminose) o come intercettatrici dell’azoto disponibile nel terreno e nella soluzione circolante (specie graminacee o crucifere). In quest’ultimo caso si parla più specificamente di “catch crops” o “colture trappola”; queste occupano il suolo lasciato libero dalla coltura principale e sono in grado di assorbire, organicandoli, buona parte dei nitrati presenti nel terreno (AA.VV., 1993). In entrambi i casi le “cover crops” fungono da “pool” temporaneo di azoto, che dopo la devitalizzazione della coltura, verrà rilasciato progressivamente a seguito dei processi di mineralizzazione (Doran e Smith, 1991; Russell e Hargrove, 1993).

L’introduzione delle “colture trappola” negli areali particolarmente soggetti alla lisciviazione dei nitrati sembra poter contenere tale fenomeno ed il conseguente inquinamento delle acque di falda grazie alla loro capacità di utilizzare e “riciclare” gran parte dell’azoto minerale presente nel suolo. La traslocazione dei nitrati può infatti dipendere sia da fattori pedoclimatici (rapida mineralizzazione della sostanza organica ad opera della flora microbica, quantità ed intensità delle precipitazioni in relazione all’evaporazione, natura e giacitura del terreno, profondità della falda) sia da fattori colturali (avvicendamenti colturali, lavorazioni del terreno, tecnica di fertilizzazione, ecc.) che nel loro insieme possono alterare la struttura del terreno modificandone la porosità e la velocità di infiltrazione dell’acqua, i deflussi superficiali ecc.

L’azione delle colture di copertura si svolge sostanzialmente secondo due vie: una diretta e l’altra indiretta. La via diretta consiste nell’asportazione dei nitrati da parte dell’apparato radicale e nella loro successiva organicazione, quella indiretta, nella riduzione della quantità di acqua presente nel terreno a seguito dell’aumento della

30 traspirazione.

L’abilità delle diverse specie di “cover crops” nell’intercettare i nitrati dipende dal loro ritmo di accrescimento durante l’inverno (e quindi alla quantità di sostanza secca prodotta) e dal grado di colonizzazione del suolo da parte delle radici. Le specie migliori sotto questo aspetto appartengono principalmente alle famiglie delle graminacee e delle crucifere e, in misura minore, delle leguminose. Le ricerche condotte in tal senso, infatti, indicano che le specie non-leguminose hanno un’efficacia, nell’intercettare ed assorbire i nitrati del terreno, che è di circa tre volte superiore a quella delle leguminose. Questa differenza è dovuta, (oltre che all’autosufficienza delle leguminose nei confronti dell’azoto) alla maggiore velocità di sviluppo (epigeo ed ipogeo) delle graminacee e delle crucifere durante il periodo autunnale (Meisinger et al., 1991). Tra le graminacee le specie che si sono rivelate più abili nell’assorbire i nitrati durante il periodo invernale sono: la segale (Secale cereale L.), l’orzo (Hordeum vulgare L.), l’avena (Avena sativa L.), il fleolo (Phleum

pratense L.) e lo stesso frumento tenero (Triticum aestivum L.); tra le crucifere,

invece, le specie appartenenti al genere Brassica, come la rapa (Brassica rapa L.) ed il colza (Brassica napus L.) e quelle del genere senape (Sinapis spp.) (Moschler et al., 1967; Mitchell e Teel, 1976; Fielder e Peel, 1992; Ditsch et al., 1993; Sheperd e May 1995).

Anche l’epoca di semina della coltura di copertura è fondamentale nell’influenzare la quantità di azoto asportato in quanto condiziona il ritmo di accrescimento, e quindi la quantità di biomassa prodotta (Fielder e Peel, 1992). Uno studio condotto da Brinsfield e Staver (1991) ha evidenziato che una semina precoce delle coperture, in autunno dopo la raccolta del mais, migliora la loro capacità di accumulare l’azoto presente nel terreno. In particolare sono state confrontate tre date di semina della segale: 1, 15 e 30 ottobre alle quali è corrisposta, alla metà di Marzo, una differente quantità di azoto totale assimilato che è stata rispettivamente di 177, 150 e 83 kg/ha. Ovviamente la quantità di azoto asportato dalla coltura di copertura è strettamente connessa alla quantità di sostanza secca che risulta in grado di produrre ed alla concentrazione di azoto nei suoi tessuti. Nel caso di una “cover crop” non-leguminosa tale quantità sembra legata più al primo fattore, essendo minime le differenze tra le graminacee riguardo al contenuto in N nei tessuti (Holderbaum et al.,1990); invece,

31 nel caso delle leguminose, la quantità di azoto asportato può essere condizionata notevolmente anche dalla sua concentrazione nella biomassa che può assumere valori anche molto diversi a seconda della specie: si passa, ad esempio, da un contenuto del 3-4 % nella veccia al 2-3% del trifoglio incarnato; a parità di sostanza secca prodotta, la veccia può quindi accumulare una quantità di azoto superiore a quella del trifoglio incarnato (Ebelhar et al.,1982; Hargrove, 1986).

Shipley et al. (1992) hanno dimostrato, utilizzando N marcato, la superiorità di specie non-leguminose (segale e loiessa) rispetto a specie leguminose (veccia vellutata e trifoglio incarnato) nell’intercettazione dell’azoto precedentemente distribuito al mais. Ciò sembrerebbe imputabile, non tanto alla maggiore quantità di acqua evapotraspirata o alla maggiore quantità di sostanza secca prodotta, ma alla maggiore capacità delle graminacee e, della segale in particolare, di fungere da centro di accumulo dell’azoto. Questa specie, infatti, cresce molto rapidamente durante il periodo autunnale formando un esteso apparato radicale ed in primavera riprende a vegetare 3-4 settimane prima della veccia, caratteristica che le consente d’intercettare gran parte dei nitrati presenti nel terreno (McCracken et al., 1994). La quantità di azoto asportato dalle specie non-leguminose (segale, orzo e frumento) è generalmente compresa tra 12 e 91 kg ha-¹, ma varia comunque in funzione della quantità di azoto residuo presente nel terreno e del tasso di mineralizzazione della sostanza organica nel sistema suolo (Ebelhar et al., 1982; Brown et al., 1985; Scott Smith et al., 1987). Questi valori sembrano confermati da uno studio condotto da Hoyt e Mikkelsen (1991) utilizzando la segale come “cover crop” dopo il mais in un sistema di non lavorazione che, secondo gli Autori, presenterebbe i maggiori rischi di lisciviazione a causa della maggiore infiltrazione dell’acqua nel terreno non lavorato.

In generale, nella stima dell’azoto intercettato da parte delle colture di copertura si considera solo il contenuto della porzione epigea, trascurando quello dell’apparato radicale. Secondo quanto riportato in letteratura, la percentuale di azoto contenuto nelle radici, pur variando in base alla specie, allo stadio di crescita, al livello di azoto nel suolo, ecc., può oscillare intorno al 25, 33, 10, e 20% del totale, rispettivamente per segale, loietto, veccia vellutata e trifoglio incarnato (Mc Vickar et al., 1946; Mitchell e Teel, 1977). La conoscenza di questi valori permette una stima più precisa della quantità totale di azoto intercettato da una “coltura trappola”.

32 Nonostante i vantaggi offerti dalla “captazione” dei nitrati, le graminacee possono creare alcuni problemi in ordine alla nutrizione azotata della coltura in successione. Infatti, le graminacee producono in genere residui colturali con elevato rapporto carbonio-azoto (C/N), che possono originare fenomeni d’immobilizzazione dell’azoto durante i processi di decomposizione (Hargrove, 1986). Le possibili soluzioni per ovviare a tale inconveniente, sono il dissecamento precoce della copertura vegetale in modo da ottenere residui con un rapporto carbonio azoto più basso (Evanylo, 1991) o la distribuzione di una adeguata quantità di fertilizzante azotato di sintesi da interrare insieme ai residui stessi (nel caso della segale sono consigliati da 100 a 200 kg ha-¹ di azoto) (Wagger, 1989a).

Oltre alle graminacee, anche le crucifere possono fornire buoni risultati come colture trappola; in genere le specie appartenenti al genere Brassica sono caratterizzate da una notevole capacità di adattamento a svariate condizioni agro-pedoclimatiche e, se seminate prima dell’autunno, sono in grado di svilupparsi velocemente producendo un’elevata quantità di biomassa (Sarrantonio, 1990; CETIOM, 1994). In alcune situazioni particolari, la loro capacità di assorbire i nitrati, durante il periodo autunno- vernino, risulta superiore anche a quella delle graminacee come dimostrato da uno studio condotto in Inghilterra da Christian et al., (1992), in cui sono state confrontate specie graminacee (segale, orzo e frumento tenero) con essenze quali la senape bianca (Sinapis alba L.) ed il colza (Brassica napus L.). Tuttavia le crucifere hanno lo svantaggio, rispetto alle graminacee, di essere meno resistenti alle basse temperature invernali e di lasciare residui caratterizzati da un più basso C/N che li rende più rapidamente mineralizzabili dopo l’interramento.

Diversamente dalle graminacee e dalle crucifere, le leguminose (veccia vellutata, trifoglio incarnato, trifoglio bianco, trifoglio sotterraneo), grazie all’attività azoto- fissatrice ed all’ottima qualità dei residui colturali (basso C/N), sono in grado di fornire indirettamente azoto alla coltura che segue soddisfacendo così, almeno in parte, il fabbisogno di colture a ciclo primaverile-estivo quali il mais o il sorgo (Sarrantonio, 1990). La stima di tale contributo viene realizzata con metodi diversi che generalmente forniscono informazioni indirette. Una delle tecniche più frequentemente utilizzata è quella del cosiddetto “equivalente di fertilizzante azotato”. Questo metodo, estremamente semplificato, si basa sull’individuazione della quantità

33 di concime azotato necessaria a far raggiungere alla coltura principale lo stesso livello produttivo che raggiungerebbe qualora non fosse fertilizzata ma venisse preceduta da una “cover crop leguminosa” (Strickler et al., 1959; Hesterman et al., 1987; Wagger, 1989b). L’ “equivalente di fertilizzante azotato”, così calcolato, risulta mediamente compreso tra 70 e 130 kg ha-¹ di N (Ebelhar et al., 1982; Blevins et al., 1990; Dou e Fox, 1994). Un altro metodo decisamente più preciso del precedente è quello del “bilancio dell'azoto”. Esso consiste nel confrontare la quantità di azoto asportato dalla coltura principale coltivata dopo una leguminosa, con quella asportata dalla coltura in assenza di fertilizzazione e con diversa precessione; la differenza tra questi due valori permette di risalire alla quantità di azoto fornita dalla leguminosa. Hargrove (1986) ha stimato tale contributo confrontando le asportazioni di azoto operate dal sorgo da granella (Sorghum bicolor L.) preceduto da segale o cresciuto su terreno lasciato a riposo durante l’inverno, con quelle ottenute dal medesimo cereale preceduto da “cover crops” leguminose, in assenza di interventi di concimazione. Le differenze tra le asportazioni di azoto del sorgo preceduto da leguminosa e quelle del sorgo su terreno precedentemente incolto sono risultate comprese tra 19 e 128 kg ha-¹, mentre utilizzando la segale come precessione colturale, sono oscillate tra 23 e 116 kg ha-¹. Tali metodologie, però, presentano dei limiti essenzialmente connessi alla scarsa precisione con cui si stimano gli apporti di N da leguminosa; essi vengono infatti valutati, soprattutto col metodo dell’equivalente di fertilizzante azotato, sulla base della resa della coltura principale che è fortemente influenzata da altri fattori produttivi diversi da quello più nutrizionale (Hargrove, 1986; Scott Smith et al., 1987).

Un metodo di indagine più preciso è quello isotopico che, pur presentando dei problemi applicativi, ha il vantaggio di permettere una valutazione diretta del contributo di azoto da parte della leguminosa (Sarrantonio, 1991). Esso si basa sull’uso dell’isotopo 15 dell’N, elemento presente in natura, il cui comportamento nel sistema suolo può essere agevolmente seguito (Sequi, 1989). Questo isotopo può essere introdotto nell’agroecosistema mediante residui di leguminose (precedentemente “marcati”); la percentuale di N rilasciata da essi può essere determinata mediante il prelievo e l’analisi dei tessuti della coltura in successione (Norman e Werkman, 1943; Wagger et al.,1985; Varco et al., 1989).

34 La capacità di una leguminosa di fornire azoto alla coltura successiva dipende da una serie di fattori: la specie, lo sviluppo vegetativo, le condizioni climatiche (Doran e Smith, 1991). Tra le specie più diffuse, la veccia vellutata ed il trifoglio incarnato presentano un’elevata efficienza nel processo di azoto-fissazione ed immagazzinano quantità elevate di azoto (Utomo et al., 1990; Hoffstetter, 1993). Tuttavia questo fenomeno varia a seconda del ciclo biologico della pianta: nelle specie annuali aumenta fino al momento della fioritura in corrispondenza della quale inizia a rallentare, arrestandosi del tutto allorché la pianta inizia a trasferire N nei semi in formazione; nelle leguminose perenni, invece, l'attività azoto-fissatrice si mantiene più costante durante l’intero ciclo vitale (Sarrantonio, 1990). Per questo motivo la scelta di genotipi a maturazione precoce può risultare negativa in termini di accumulo di azoto pur consentendo di ottenere una più rapida copertura del suolo (Scott Smith, 1987).

Per quanto attiene l’effetto dell’andamento climatico, la quantità di azoto fissato durante i mesi invernali è maggiore in ambienti temperato-umidi (70÷170 kg ha-¹) rispetto a quelli con clima freddo e secco (35÷45 kg ha-¹)(McVay et al., 1989; Blevins et al., 1990; Power, 1991).

Affinché le colture di copertura rilascino azoto sotto forme assimilabili dalle piante, è necessario che i loro residui subiscano una serie di alterazioni fisico-chimiche. Tali processi sono condizionati dalla composizione chimica dei residui (in particolare dal loro C/N), dalle condizioni climatiche, nonché dalle tecniche agronomiche adottate. Il C/ N condiziona la velocità di decomposizione e quindi quella di liberazione dell’azoto. Nel caso delle leguminose esso ha valori molto bassi (in genere minori di 20:1) per l’alto contenuto di azoto associato ad un’elevata percentuale di composti proteici nella porzione epigea della pianta con ridotta presenza di lignina (Hargrove, 1986; Somda et al., 1991). Anche la temperatura e l’umidità del suolo giocano un ruolo fondamentale nei processi di decomposizione in quanto influenzano l’attività dei microrganismi che è accelerata da valori elevati di temperatura ed umidità.

Per quanto riguarda il ricorso a tecniche alternative di lavorazione del terreno (lavorazione ridotta, non-lavorazione), esse possono causare, rispetto a quelle convenzionali, problemi nella decomposizione dei residui. A questo proposito Wilson ed Hargrove (1986) hanno utilizzato residui di trifoglio incarnato, precedentemente

35 essiccati, contenuti in sacchetti di nylon interrati (nel caso della lavorazione convenzionale) oppure lasciati sulla superficie del terreno (nel caso della non- lavorazione); dopo quattro settimane hanno osservato che i residui interrati contenevano solo il 48% dell'azoto originario mentre quelli abbandonati sulla superficie il 78%. Ad analoghe conclusioni sono pervenuti Power et al. (1991), utilizzando la veccia vellutata come coltura di copertura invernale per il mais; essi hanno notato che l’azoto disponibile per la coltura da rinnovo (mais) era maggiore se i residui essiccati chimicamente non venivano lasciati in superficie ma erano interrati con un erpice a dischi. In questo caso l’effetto della veccia interrata sulla produzione di granella da parte del cereale era pari ad una fertilizzazione con 60 kg ha-¹ di azoto. La causa della minore mineralizzazione dei residui colturali lasciati in superficie è imputabile alla maggiore incidenza dei fenomeni di volatilizzazione, al minore contatto con gli organismi decompositori, all’elevata fluttuazione di temperatura e di umidità rispetto all’ambiente ipogeo (Brown e Dickey, 1970). La non-lavorazione determinerebbe quindi un ritardo nel rilascio dell’azoto e una minor disponibilità dell’elemento (da un quarto ad un terzo del totale) per la coltura che segue (Mitchell e Teel, 1976; Sarrantonio, 1990).

In questo contesto, appare importante anche il raggiungimento di un adeguato sincronismo tra il periodo del ciclo vegetativo della coltura principale, in cui è massima la richiesta di tale elemento e, quello corrispondente alla maggiore disponibilità di azoto derivante dalla mineralizzazione della “cover crop”.

Dou et al. (1994) hanno osservato un incremento della concentrazione di azoto inorganico nel suolo nelle quattro settimane successive all’interramento di veccia vellutata e trifoglio pratense; in questo intervallo di tempo è stato liberato l'80% della quantità totale di N rilasciata nel corso della stagione. Nel caso della non-lavorazione, disseccando le medesime specie, gli Autori hanno riscontrato un forte incremento dell’azoto inorganico nel terreno soltanto dopo otto settimane dal disseccamento; in assenza di lavorazione la disponibilità stagionale di azoto è risultata insufficiente a garantire alla coltura da rinnovo il raggiungimento di adeguati livelli produttivi senza l’ausilio del fertilizzante.

In sistemi colturali che non prevedono l’interramento delle colture di copertura, queste possono esercitare effetti positivi sulle colture in successione anche quando il fattore

36 limitante la produttività non è l’azoto bensì la disponibilità idrica (annate caratterizzate da scarsa piovosità invernale e primaverile-estiva). Infatti, i residui non incorporati nel suolo, rallentano l’evapotraspirazione ed aumentano le disponibilità idriche per la coltura da reddito che può assorbire con maggiore efficienza l’azoto disponibile nel terreno (Sarrantonio e Scott, 1988).

Anche l’epoca in cui si esegue il disseccamento chimico della copertura vegetale può incidere sulla quantità di azoto rilasciata in quanto influenza indirettamente la quantità di biomassa prodotta e la composizione chimica dei residui. Procrastinando tale intervento si assiste in genere ad un aumento della quantità totale di azoto fissato, della biomassa e conseguentemente anche della cellulosa, emicellulosa e lignina nei tessuti delle coperture vegetali. L’aumento di questi composti può rallentare il processo di mineralizzazione e quindi ridurre, almeno temporaneamente, la disponibilità di nutrienti per la coltura successiva.

In una delle sue ricerche, Wagger (1989a) ha osservato che, disseccando veccia vellutata e trifoglio incarnato con due interventi a due settimane di distanza, dopo sedici settimane le percentuali di azoto nei residui risultavano pari al 13 e 14% rispettivamente nel caso di trattamento anticipato e del 35% e 42% nel caso del trattamento ritardato di quindici giorni.

In linea generale si può ritenere che le colture di copertura siano meno efficienti dei fertilizzanti di sintesi nel fornire azoto alle colture da reddito (Fribourg e Bartholomew, 1956; Strickler et al., 1959). Infatti, come esposto precedentemente, l’efficacia delle “cover crops” nello svolgere questa funzione risulta condizionata da vari fattori (specie, clima, lavorazioni ecc.). Esse comunque conservano un’importanza fondamentale nel ridurre l’immissione di fertilizzanti chimici nei sistemi colturali a ridotto impiego di input (Ebelhar et al., 1982; Sullivan et al., 1991; King, 1994).

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2.2 COLTURE DI COPERTURA E DISPONIBILITÀ IDRICHE