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L'utilizzo della calce come filler attivo nei lavori di riciclaggio a freddo

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Corso di Laurea Magistrale in

Ingegneria Idraulica, dei Trasporti e del Territorio

Anno Accademico 2014/2015

Tesi di Laurea Magistrale

Utilizzo della calce come filler attivo

nei lavori di riciclaggio a freddo

Relatore

Dott. Ing. Alessandro Marradi

Correlatore

Candidato

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Indice

Sommario ... 7

-1 INTRODUZIONE ALLE PAVIMENTAZIONI STRADALI E AL RICICLAGGIO DELLE PAVIMENTAZIONI FLESSIBILI ... 10

-1.1 Generalità sulle pavimentazioni ... 10

-1.2 Meccanismi di ammaloramento ... 13

-1.3 Manutenzione e riabilitazione delle pavimentazioni ... 15

1.4 Gli interventi di riabilitazione delle pavimentazioni ... 17

1.5 Introduzione al riciclaggio delle pavimentazioni ... 19

1.6 Storia del riciclaggio in Italia ... 21

1.7 Le tecniche di riciclaggio ... 23

-2 IL RICICLAGGIO A FREDDO ... 26

2.1 Generalità sul riciclaggio a freddo ... 26

2.2 Il riciclaggio a freddo in impianto ... 28

2.3 Il riciclaggio a freddo in situ ... 30

2.4 Vantaggi del riciclaggio a freddo in situ ... 33

2.5 Applicazioni del riciclaggio a freddo ... 35

-3 LEGANTI E STABILIZZANTI NEL RICICLAGGIO ... 38

3.1 Gli agenti stabilizzanti nella tecnica stradale ... 38

3.2 Gli agenti stabilizzanti cementizi ... 38

3.2.1 Cemento ... 40

3.2.2 Calce ... 41

3.3 Gli agenti stabilizzanti bituminosi ... 44

3.3.1 Emulsioni Bituminose ... 44

3.3.2 Bitume schiumato ... 46

3.4 Caratteristiche delle miscele stabilizzate ... 50

3.5 Stabilizzazioni con filler attivo ... 53

3.6 Il comportamento strutturale degli strati stabilizzati a bitume ... 54

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4.1 Test di deflessione non distruttivi ... 58

4.2 Il Light Weight Deflectometer ... 59

4.2.1 Piastra di carico... 59

4.2.2 Cella di carico ... 60

4.2.3 Sensore di deflessione ... 60

4.2.4 Massa battente ... 60

4.2.5 Smorzatori ... 60

4.2.6 Sistema di acquisizione dati ... 60

4.3 Analisi dati LWD ... 61

4.4 Introduzione alle strumentazioni FWD ... 62

4.5 Breve storia del Falling Weight Deflectometer ... 64

4.6 La strumentazione FWD ... 66

4.6.1 Impulso di carico ... 67

4.6.2 Piastra di carico ... 67

4.6.3 Cella di carico ... 68

4.6.4 Sensori di deflessione ... 69

4.6.5 Temperatura degli strati bituminosi ... 70

4.6.6 Odometro ... 70

4.7 Rilievo dei dati FWD ... 71

4.7.1 Parametri legati al contesto ... 72

4.7.2 Parametri legati alla configurazione dello strumento ... 76

4.7.3 Parametri legati al processamento dei dati ... 77

4.8 L’innovativo FastFWD ... 79

4.9 Analisi dati deflettometrici ... 81

4.9.1 Preprocessamento delle deflessioni ... 81

4.9.2 Divisione in sottosezioni omogenee ... 83

4.9.3 Analisi dello stato tensodeformativo ... 85

4.9.4 I moduli superficiali equivalenti ... 88

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4.9.6 Correzione dei moduli rispetto alla temperatura ... 94

-5 LA VITA UTILE DELLE PAVIMENTAZIONI FLESSIBILI ... 96

5.1 Le prestazioni strutturali delle pavimentazioni ... 96

5.2 Il degrado delle pavimentazioni ... 97

5.2.1 La fessurazione per fatica... 97

5.2.2 Le deformazioni permanenti ... 98

5.3 Il degrado degli strati stabilizzati a bitume ... 98

5.4 Le leggi di fatica ... 99

5.4.1 I conglomerati bituminosi ... 100

5.4.2 I materiali granulari ... 101

5.4.3 I misti cementati ... 102

5.4.4 I materiali terrosi... 105

5.4.5 I materiali stabilizzati a bitume ... 105

5.5 Le prove APT ... 107

-6 SITO E METODOLOGIE DI PROVA ... 112

6.1 Il progetto di ricerca ... 112

6.2 Il campo prove ... 114

6.2.1 Lo scheletro solido... 116

6.2.2 I leganti bituminosi ... 119

6.2.3 Il filler attivo ... 121

6.2.4 Localizzazione e struttura del campo prove ... 121

-6.3 Le prove deflettometriche ... 124

-6.4 La sensibilità termica degli strati riciclati ... 125

-6.5 I test a rottura ... 127

-7 ANALISI DATI... 129

7.1 Quadro generale ... 129

7.2 Dati raccolti ... 130

7.3 Prove sulla qualità della messa in opera ... 131

(6)

7.5 Evoluzione temporale delle performance strutturali ... 138

7.6 Prove di danno accelerato ... 149

7.6.1 Prova APT... 149

7.6.2 Vita utile della miscela ... 149

7.6.3 Correlazione del danno ... 152

7.6.4 Evoluzione dei dati APT ... 153

7.6.5 Analisi vita utile ... 161

-8 CONCLUSIONI ... 163

8.1 Sommario dello studio ... 163

8.2 Risultati dello studio ... 164

Bibliografia ... 167

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-Sommario

Questo lavoro di tesi si inserisce all’interno di un ampio programma di studio promosso dalla società Wirtgen e sviluppato attraverso la collaborazione tra l’Università di Pisa, l’Università di Parma, la Stellenbosch University, e la University of Nottingham.

L’obiettivo dello studio è quello di valutare la possibilità ed i vantaggi dell’utilizzo della calce aerea come filler attivo nei processi di riciclaggio a freddo. In particolare sono state investigate le performance in situ di diverse miscele di filler formate da calce, cemento e filler minerale, utilizzate nei procedimenti di riciclaggio a freddo sia con schiuma di bitume che con emulsione bituminosa.

Le miscele sono state poste in opera in un campo prove appositamente costruito in località Figline Valdarno, in provincia di Firenze. La valutazione delle prestazioni strutturali delle diverse miscele è stata basata sulla misurazione della capacità portante attraverso l’utilizzo di strumentazione Dynatest FWD (Falling Weight Deflectometer). I dati raccolti durante i rilievi sono stati analizzati ed elaborati attraverso un processo di backcalculation, con lo scopo di ricavare i moduli di rigidezza medi di ogni miscela relativi a ciascuna prova.

Inoltre, grazie all’utilizzo dell’innovativa strumentazione Dynatest FastFWD (Fast Falling Weight Deflectometer), è stato possibile condurre delle prove APT (Accelerated Pavement Testing), sempre in situ, per studiare il comportamento delle miscele nel lungo termine. In particolare è stata studiata l’evoluzione dei parametri deflettometrici e dei moduli di rigidezza al crescere del numero di battute applicato. È stato inoltre calcolato un coefficiente di equivalenza per poter trasformare il numero di battute in passaggi dell’asse standard equivalente, e relazionarlo con la vita utile stimata della pavimentazione.

Nel capitolo 1 si presenterà una breve introduzione sulle pavimentazioni stradali, accennando ai meccanismi di ammolaramento, alle tecniche di manutenzione e riabilitazione, ed infine alle tecniche di riciclaggio proprie delle pavimentazioni flessibili.

Il capitolo 2 sarà interamente dedicato alle tecniche di riciclaggio a freddo, sia in impianto che in situ, descrivendone le modalità di esecuzione, i macchinari utilizzati, le possibili applicazioni, ed i vantaggi rispetto le altre tecniche di riciclaggio.

Nel capitolo 3 verranno presentati i differenti agenti stabilizzanti che trovano applicazione nei lavori di riciclaggio a freddo, sia bituminosi, ovvero le emulsioni bituminose ed il bitume schiumato, che cementizi, quali il cemento e la calce.

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Il capitolo 4 sarà dedicato alla strumentazione utilizzata per le misurazioni delle performance in situ delle differenti miscele. Si introdurrà brevemente la strumentazione deflettometrica portatile Light Weight Deflectometer (LWD), quindi si presenteranno le caratteristiche f0ndamentali e le modalità di utilizzo della strumentazione Falling Weight Deflectometer (FWD). Infine si presenterà l’innovativo Dynatest 8012 Fast FWD.

Il capitolo 5 tratterà i fenomeni di degrado strutturale dei diversi materiali che possono comporre una pavimentazione flessibile, riportando le leggi di fatica che si possono trovare in letteratura. Verranno inoltre presentate le prove di danno accelerato APT (Accelerated Pavement Testing).

Il capitolo 6 descriverà la struttura e le caretteristiche del campo prove appositamente allestito per lo studio. Inoltre si presenteranno le metodologie di analisi dei dati raccolti durante le campagne di rilievo dei dati deflettometrici. Queste comprenderanno tutta la fase di back-analysis e uno studio sulla correzione dei moduli ricavati in funzione della temperatura registrata al momento dei rilievi.

Il capitolo 7 sarà infine dedicato alla presentazione dei dati ottenuti attraverso le campagne di rilievo condotte sul campo prove e ai risultati successivamente ottenuti per mezzo delle diverse elaborazioni effettuate.

Nel capitolo 8 si presenterà la sintesi dei risultati con le relative conclusioni derivanti dallo studio.

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1 INTRODUZIONE ALLE PAVIMENTAZIONI STRADALI E

AL RICICLAGGIO DELLE PAVIMENTAZIONI FLESSIBILI

1.1 Generalità sulle pavimentazioni

Le pavimentazioni stradali sono delle strutture multi strato costruite con lo scopo di permettere il transito del traffico veicolare garantendo determinate caratteristiche funzionali e strutturali. A livello funzionale una pavimentazione deve essere in grado di garantire una circolazione confortevole e sicura attraverso una superficie regolare e determinate caratteristiche di aderenza. Inoltre deve essere garantita una protezione della pavimentazione stessa e del terreno su cui questa poggia dagli agenti atmosferici, quali acqua e gelo, che possono mettere in crisi la stabilità dell’intero pacchetto costituente la pavimentazione. A livello strutturale una pavimentazione deve essere in grado fondamentalmente di resistere agli sforzi dovuti ai carichi veicolari, e di trasmetterli opportunamente attenuati al terreno su cui poggia la pavimentazione.

Figura 1.1 Strati di una pavimentazione stradale e modalità di trasferimento dei carichi da traffico

Essenzialmente una pavimentazione stradale può essere suddivisa in tre differenti componenti, quali il manto, la struttura, ed il sottofondo, ognuno con le sue caratteristiche e funzioni. Il manto rappresenta l’interfaccia della pavimentazione con

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il traffico e l’ambiente, e la sua funzione è quella di proteggere la struttura da tali agenti. Constituendo il punto di contatto tra la pavimentazione ed i veicoli deve presentare elevate caratteristiche di regolarità e di resistenza. Le azioni del traffico che interessano il manto sono i carichi veicolari, fondamentalmente verticali ma che in alcuni casi possono presentare anche elevate componenti orizzontali, e l’azione abrasiva esercitata dalle ruote sulla superficie, la quale può portare ad una pericolosa riduzione dell’aderenza. Le azioni ambientali più dannose derivano invece dagli effetti termici di dilatazione e contrazione e dalle radiazioni ultraviolette, responsabili dell’ossidazione dei materiali bituminosi. Il manto dovrà quindi essere dotato di una certa elasticità per poter resistere alle deformazioni dovute ai cambi di temperatura, e di una certa durabilità rispetto all’assorbimento delle radiazioni ultraviolette e all’esposizione agli agenti atmosferici o chimici che agiscono sulla superficie stradale.

Figura 1.2 Azioni ambientali che agiscono sul manto stradale

La struttura ha il compito di trasmettere gli sforzi che agiscono sul manto stradale derivanti dal traffico, distribuendoli su di una superficie più ampia, in modo

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che il sottofondo su cui poggia il pacchetto stradale riesca a resistere adeguatamente. Normalmente la struttura è costituita da diversi strati

con materiali di differenti

caratteristiche di resistenza e rigidità. Visto che gli strati più superficiali sono soggetti a sforzi maggiori rispetto a quelli più profondi, la qualità e la resistenza dei materiali decrescono con la profondità. Il sottofondo non è altro che il terreno su cui viene collocata la struttura. In funzione delle caratteristiche di portanza del sottofondo si dovrà progettare la struttura sovrastante, in modo che le tensioni dovute all’applicazione dei carichi veicolari

possano essere sopportate

adeguatamente dal sottofondo e non si abbiano deformazioni permanenti

che compromettano l’intera

pavimentazione.

Le pavimentazioni possono essere distinte in flessibili, semirigide, e rigide, in funzione dei materiali utilizzati. Le pavimentazioni rigide sono formate da una lastra di calcestruzzo appoggiata su uno strato stabilizzato, normalmente a cemento. In Italia sono normalmente utilizzate per i piazzali di sosta aeroportuali o per le pavimentazioni industriali [17]. In questo lavoro comunque non verranno prese in considerazione, in quanto i meccanismi di degrado e le tecniche di riabilitazione e manutenzione differiscono completamente da quelle utilizzate per le pavimentazioni flessibili e semirigide. Tali pavimentazioni invece sono costituite da strati legati a bitume e da strati di materiale granulare non legato. La differenza fondamentale tra le pavimentazioni flessibili e quelle semirigide è la presenza in queste ultime di uno strato di materiale stabilizzato, con cemento e/o con calce, di elevata rigidezza, interposto tra gli strati inferiori di materiale granulare e gli strati superiori di conglomerato bituminoso. Come già accennato, in questa sede verranno trattate solamente le pavimentazioni flessibili e semirigide.

Figura 1.3 Sforzi derivanti dall'azione del traffico veicolare

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Figura 1.4 Struttura tipica delle pavimentazioni flessibili e rigide con indicazione dei materiali e spessori di esempio

1.2 Meccanismi di ammaloramento

Come si è già detto in precedenza, le azioni derivanti dall’ambiente e dal traffico veicolare sono le principali cause di deterioramento delle pavimentazioni, agendo secondo diverse modalità sui diversi strati del pacchetto stradale.

I fattori ambientali risultano deleteri soprattutto per il manto stradale. I raggi ultravioletti sono infatti responsabili dell’ossidazione del bitume che si traduce in un processo di invecchiamento, riducendone l’elasticità. Inoltre l’acqua che preneta nei vuoti della superficie stradale, sotto l’azione del traffico, trasmette delle pericolose pressioni interstiziali che possono portare al disgregamento del conglomerato bituminoso. I fattori ambientali risultano quindi i maggiori responsabili della fessurazione superficiale della pavimentazione, ma allo stesso tempo possono mettere in crisi gli strati più profondi. Infatti, una volta che l’integrità superficiale risulta compromessa, l’acqua può penetrare negli strati sottostanti al manto, portando ad un rapido deterioramento di tutto il pacchetto stradale. L’acqua infatti può essere considerata il peggior nemico della struttura di una pavimentazione, in quanto causa un rammollimento dei diversi strati e una lubrificazione degli aggregati, con una conseguente perdità di resistenza. Altro fenomeno molto pericoloso è quello dovuto al congelamento dell’acqua, soprattutto negli strati posti più in profondità, la quale, nel momento in cui si scongela, lascia dei pericolosi vuoti nella struttura.

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Inoltre l’acqua penetrata negli strati sottostanti sotto l’azione dei carichi veicolari può erodere gli strati non legati e provocare il cosiddetto fenomeno di “pumping”, in cui la frazione più fina degli aggregati viene espulsa in superficie attraverso le fessure aumentando la percentuale di vuoti all’interno della pavimentazione.

Il traffico veicolare risulta allo stesso modo deleterio per la pavimentazione. Ad ogni passaggio veicolare infatti gli strati subiscono una deformazione, più o meno significativa in base all’entità del carico che vi agisce. A questo proposito si può dire che i veicoli leggeri applicano dei carichi trascurabili rispetto a quelli dovuti agli automezzi pesanti. La ripetizione di tali carichi ha un effetto cumulativo ed è responsabile di due differenti meccanismi di degrado, quali le deformazioni plastiche e le fessurazioni per fatica degli strati legati. Le deformazioni plastiche, chiamate anche ormaie, sono causate dalla densificazione degli strati non legati. Le fessurazioni per fatica degli strati legati invece iniziano principalmente alla base di questi, dove le tensioni di trazione dovute al traffico sono maggiori, e con la ripetizione dei passaggi veicolari si propagano verso l’alto.

Figura 1.7 Fenomeno di ormaiamento

Figura 1.6 Risalita di materiale fine dovuta al fenomeno di pumping

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1.3 Manutenzione e riabilitazione delle pavimentazioni

Come si è visto nei paragrafi precedenti, durante la loro vita le pavimentazioni sono continuamente attaccate da diversi fattori che ne degradano le caratteristiche. Gli interventi di manutenzione e riabilitazione stradale hanno l’obiettivo di far fronte a tale degrado, e di mantenere l’infrastruttura stradale in condizioni di esercizio sufficientemente buone e sicure per gli utenti stradali. Inizialmente il degrado delle condizioni di viabilità presenta un tasso di crescita abbastanza piccolo, ma successivamente, se non adeguatamente fronteggiato, l’andamento diventa di tipo esponenziale. Questo significa che più le condizioni dell’infrastruttura sono degradate, più l’entità degli interventi necessari diventa grande, e quindi i costi di intervento aumentano. Per ottimizzare le risorse, spesso scarse, messe a disposizione dall’ente gestore della rete stradale, si dovrà quindi trovare la giusta tempistica per effettuare gli interventi di manutenzione e riabilitazione durante la vita utile dell’infrastruttura. Questo risulta possibile solo attraverso l’utilizzo di efficaci strumenti di monitoraggio delle condizioni di salute della pavimentazione ed una loro efficiente organizzazione, quali i PMS (Pavement Management System).

Figura 1.8 Decadimento delle pavimentazioni stradali

Gli interventi di manutenzione stradale hanno come obiettivo quello di mantenere l’acqua lontana dalla struttura della pavimentazione, e quindi di rallentare il più possibile il processo di degrado, o il ripristino di alcune caratteristiche di regolarità o aderenza. Gli interventi di manutenzione più comuni sono la sigillatura delle fessure superficiali, i trattamenti superficiali in generale, e l’applicazione di un sottile strato di conglomerato bituminoso.

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Come si può ben capire però, tali interventi hanno un effetto limitato sulla pavimentazione, agendo solamente sulla flessibilità e durabilità del manto stradale e trattando i soli effetti dovuti alle azioni ambientali. Le problematiche derivanti dalle deformazioni plastiche e dalle fessurazioni da fatica, causate dai carichi veicolari, dovranno essere risolte tramite degli interventi di riabilitazione, di cui tratteremo nel proseguo.

Figura 1.9 Tipici interventi di manutenzione stradale: a sinistra la sigillatura delle fessure superficiali, e a destra un trattamento superficiale

L’ANAS, l’ente che gestisce la rete stradale e autostradale italiana, allo scopo di orientare le scelte progettuali finalizzate alla ricostruzione o al rafforzamento delle pavimentazioni esistenti ha prodotto nel 2008 un documento tecnico riguardante la manutenzione stradale [2]. In tale documento i differenti interventi di manutenzione vengono divisi in tre categorie distinte:

 Trattamenti superficiali

Questo tipo di interventi mira a trattare quelle pavimentazioni che presentano solamente problemi di natura funzionale, come la perdita di aderenza o una leggera fessurazione superficiale. Questi trattamenti hanno quindi lo scopo di ripristinare l’aderenza o di impermeabilizzare la pavimentazione sigillando le micro fessure superficiali. Possono essere utilizzati anche dei microtappeti per ripristinare le caratteristiche di regolarità superficiale.

 Risanamenti superficiali

Rientrano in questa categoria quegli interventi manutentivi che agiscono sulla parte più superficiale della pavimentazione, prevedendo la fresatura al massimo dei primi 15 cm della pavimentazione. Costituiscono sicuramente un’alternativa più economica rispetto ai risanamenti profondi, considerando però che la loro efficacia risulta inferiore nel tempo.

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 Risanamenti profondi

In questi interventi è prevista la completa demolizione della pavimentazione esistente, con un eventuale riutilizzo del materiale fresato. Questi interventi si rendono necessari quando la pavimentazione presenta seri ammaloramenti o quando si vogliono garantire durate elevate in relazione al traffico circolante.

1.4 Gli interventi di riabilitazione delle pavimentazioni

In questo paragrafo verranno introdotte le differenti tecniche di riabilitazione utilizzabili per le pavimentazioni flessibili. Prima di passare ad elencarle, si vuole sottolineare che ognuna di tali tecniche presenta sia vantaggi che svantaggi rispetto alle altre, e che quindi la scelta di quale utilizzare deve essere fatta con attenzione in base al problema concreto che si presenta nella pratica. Gli aspetti da tenere in conto per la scelta di quale tecnica utilizzare per l’intervento di riabilitazione sono principalmente due, ovvero la tipologia del problema da risolvere, e l’efficacia temporale del trattamento. Tener conto della tipologia del problema significa individuare il tipo e l’estensione degli ammaloramenti presenti nella pavimentazione in esame, localizzandoli nella parte più superficiale o più profonda dell’infrastruttura. L’efficacia temporale del trattamento invece riguarda la volontà, ma soprattutto le possibilità tecniche ed economiche, di prolungamento della vita utile della pavimentazione che si vuole ottenere attraverso l’intervento di riabilitazione. Oltre queste due caratteristiche relative all’infrastruttura, la scelta del tipo di intervento riabilitativo può essere influenzata dalle competenze tecniche delle maestranze locali e dalle disponibilità di materiali e macchinari.

Questi diversi aspetti devono essere attentamente valutati e ponderati, al fine di optare per l’intervento riabilitativo che presenti il miglior rapporto costo beneficio. Di seguito si riporta una sommaria descrizione dei possibili interventi di riabilitazione che possono essere eseguiti sulle pavimentazioni bituminose.

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Ricostruzione parziale o totale

Questo tipo di intervento

consiste semplicemente nel

rimuovere, attraverso l’utilizzo di macchine fresatrici, gli strati di conglomerato bituminoso fessurati, e di rimpiazzarli con dei nuovi strati di conglomerato. In funzione del tipo e della localizzazione delle fessure, si potranno fresare solamente gli strati più superficiali oppure si dovrà agire anche sugli strati più profondi.

Costruzione di uno strato aggiuntivo

Questa soluzione viene

tipicamente utilizzata per risolvere problemi superficiali o per adeguare l’infrastruttura a livelli di traffico maggiori di quelli previsti in sede progettuale. Ovviamente nel primo caso lo spessore di overlay sarà minore che nel secondo. Questa soluzione presenta il vantaggio di essere abbastanza veloce, ma, presentando un’elevazione del livello stradale, può presentare problemi riguardanti le opere di drenaggio o di accesso.

Riciclaggio

Questa soluzione prevede la demolizione degli strati ammalorati tramite macchine fresatrici o riciclatrici specializzate, e l’utilizzo del materiale di risulta, chiamato fresato, per la creazione di un nuovo conglomerato. A seconda delle caratteristiche di resistenza che si vogliono ottenere il fresato può essere miscelato con leganti bituminosi e/o idraulici. Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, questi tipi di interventi richiedono una progettazione accurata e necessitano di macchinari appositi, ma presentano diversi vantaggi sia dal punto di vista ambientale che economico rispetto alle altre alternative di riabilitazione.

Figura 1.10 Schema di una ricostruzione totale [48]

Figura 1.11 Sovrapposizione di uno strato aggiuntivo [48]

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Figura 1.12 Schema di un tipico intervento di riciclaggio in impianto [48]

1.5 Introduzione al riciclaggio delle pavimentazioni

Durante il corso degli ultimi decenni le infrastrutture stradali sono state protagoniste di uno sviluppo senza precedenti, volto a creare una rete ramificata ed efficiente di trasporto su strada in modo tale da permettere la circolazione delle merci, affidata ai veicoli pesanti, con una maggiore rapidità e flessibilità rispetto al passato. Il numero di veicoli pesanti che percorrono le reti stradali è esso stesso cresciuto nel tempo, e la tipologia dei veicoli commerciali si è evoluta, avendo come conseguenza un carico per asse maggiore rispetto a quello degli anni precedenti. Col passare del tempo questi fattori si sono tradotti in un rapido ammaloramento della rete stradale, con la conseguente necessità di numerosi interventi di manutenzione e riabilitazione. Nel passato la tecnica di riabilitazione più utilizzata era senza dubbio la ricostruzione totale dell’intero pacchetto costituente la pavimentazione. Questo tipo di intervento costituisce una soluzione di indubbia valenza tecnica, ed in linea teorica potrebbe essere applicata ad ogni tipo di strada ed in ogni contesto ambientale. Tuttavia presenta delle caratteristiche intrinseche che hanno portato alla ricerca di soluzioni alternative. Per la ricostruzione totale di una pavimentazione infatti si necessitano notevoli consumi di materie prime e di risorse non rinnovabili, quali aggregati lapidei e materiali bituminosi, e si deve far fronte allo smaltimento dei prodotti derivanti dalla demolizione della pavimentazione ammalorata, con conseguenti svantaggi ambientali ed economici. Inoltre la crisi economica che si sta affrontando rende necessaria la ricerca di soluzioni atte ad aumentare la redditività degli investimenti che possono essere affrontati dagli enti gestori delle reti stradali.

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Una delle soluzioni alternative che maggiormente si sta affermando nell’ambito della riabilitazione delle pavimentazioni flessibili è senza dubbio quella del riciclaggio. Tale terminologia raggruppa tutti quegli interventi che prevedono il riutilizzo del materiale risultante dalla fresatura del pacchetto stradale per la costruzione di nuovi strati strutturali. I vantaggi che derivano dall’applicazione di tale tecnica sono molteplici:

 Riduzione dell’apporto di materiale lapideo naturale, riducendo quindi l’impatto ambientale

 Riduzione dell’impiego di bitume nuovo, diminuendo l’incidenza sui consumi dei prodotti petroliferi

 Riduzione, o addirittura annullamento, della produzione di materie destinate a discarica, con vantaggi economici ed ambientali

 Riduzione dei fattori di inquinamento ambientale

 Risparmio economico ed energetico globali rispetto alla produzione di conglomerati bituminosi ex novo

Per tutte queste ragioni non risulta sorprendente che nella maggior parte dei paesi europei, negli Stati Uniti, ed in Giappone vi siano leggi e normative che regolamentino la produzione e la gestione del materiale proveniente da fresatura delle pavimentazioni stradali, favorendo ed incoraggiando una sua riutilzzazione, con l’obiettivo futuro di azzerarne il quantitativo destinato a discarica.

Purtroppo lo scenario in Italia non è altrettanto al passo dei tempi. Da un recente studio del 2014 condotto dall’Associazione Italiana Bitume e Asfalto Stradale – Siteb emerge che in Italia solo il 20% del fresato viene recuperato, contro una media europea che sfiora il 60%. Probabilmente tale situazione di arretratezza è dovuta all’ambiguità della normativa e al pregiudizio di alcuni tecnici che troppo spesso considerano, erroneamente, il materiale riciclato un prodotto di scarsa qualità [33].

A livello normativo la direttiva europea CE/98/2008, recepita in Italia con Decreto Legislativo 205/2010, pone come obiettivo entro il 2020 il raggiungimento della quota del 70% per il riciclaggio dei materiali non pericolosi risultanti da processi di demolizione. Purtroppo in Italia, a differenza di paesi come per esempio la Francia, la Germania o l’Olanda, non sono ancora state messe in atto misure in grado di favorire lo sviluppo e la diffusione del riciclaggio nella pratica comune. Inoltre in Italia si ha un conflitto normativo sulla definizione del fresato, e quindi sul suo trattamento come rifiuto o come sottoprodotto, scoraggiandone l’utilizzo nei processi di riciclaggio [32].

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Paese Conglomerato bituminoso di recupero disponibile (t) Percentuale di riutilizzo USA 66.500.000 84 Germania 14.000.000 82 Austria 500.000 80 Olanda 4.000.000 75 Svezia 1.100.000 70 Belgio 1.500.000 57 Danimarca 350.000 56 Spagna 1.590.000 56 Svizzeria 1.450.000 52 Francia 7.080.000 40 Irlanda 100.000 40 Romania 40.000 40 Slovenia 25.000 30 Italia 11.000.000 20 Turchia 2.420.000 19 Cecoslovacchia 1.650.000 15 Norvegia 750.000 15 Ungheria 44.000 12 Polonia 110.000 4 Croazia 75.000 / Finlandia 1.000.000 / Gran Bretagna 4.000.000 / Islanda 15.000 /

Tabella 1.1 Utilizzo del fresato nella produzione di conglomerato bituminoso relativa al 2010 [32]

1.6 Storia del riciclaggio in Italia

In Italia i primi interventi di riciclaggio delle pavimentazioni stradali si collocano nel 1974, eseguiti da parte della Società Autostrade. In quegli anni infatti l’Europa era stata colpita dalla crisi petrolifera dovuta agli scontri tra Egitto, Siria, ed Israele che

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derivati, tra cui il bitume, necessario per la costruzione e la manutenzione della rete stradale. Il riciclaggio quindi nasceva inzialmente dalla necessità di recuperare il bitume dalle pavimentazioni esistenti. I primi interventi furono del tipo di fresatura a caldo, in cui dei riscaldatori alimentati a gas trasmettevano il calore alle pavimentazioni, e successivamente dei pettini demolivano gli strati superficiali fessurati. La tecnica riscosse grande successo perchè, oltre a permettere il recupero di tutte le componenti nobili della strada, conservava le quote stradali, e quindi non creava problemi legati alle precedenti installazioni di barriere di sicurezza e dei dispositivi di drenaggio. Lo spessore di intervento però era limitato a solo 5 o 6 cm di profondità, e quindi gli strati fessurati non venivano trattati nella loro interezza. Inoltre il riscaldamento della pavimentazione presupponeva la presenza sulla strada di grandi contenitori di gas, rappresentando un elemento di pericolo non trascurabile. Questi problemi portarono allo studio e alla progettazione di soluzioni meno pericolose e più produttive. Nacquero così macchinari mobili indipendenti, tra cui ricordiamo la macchina riciclatrice ART, sviluppata dalla società Pavimental, consociata della Società Autostrade, in collaborazione con la ditta Marini. I primi interventi con questo macchinario risalgono al 1983 sulla Roma-Civitavecchia. Con l’impiego della fresatura a freddo, oltre che fare a meno della fase di riscaldamento della superficie stradale, tale macchinario riusciva a spingere il riciclaggio fino a profondità di 20 centimetri. Inoltre la sua capacità produttiva di circa 120 tonnellate l’ora rappresentava un considerevole passo in avanti rispetto alle tecniche precedentemente utilizzate, così come l’integrazione calibrata di inerti, legante, e additivi chimici. Tali caratteristiche permisero alla ART di riciclare efficacemente più della metà della rete autostradale italiana. Tuttavia agli inizi degli anni Novanta tale macchinario uscì di scena, soprattutto a causa della produzione di fumo blu, dovuto al contatto tra il fresato e la fiamma del bruciatore, in contrasto con le leggi sull’inquinamento dell’atmosfera. Nel frattempo si erano sviluppate anche le tecniche di riciclaggio a caldo in impianto fisso come alternativa razionale da mettere in pratica quando si disponeva di materiale fresato in precedenza. Il primo impianto fisso di riciclaggio fu utilizzato, agli inizi degli anni Ottanta, per l’esecuzione di un intervento di riabilitazione della pista numero 1 dell’aeroporto di Fiumicino.

Alla fine degli anni Ottanta lo sviluppo maggiore nel mondo del riciclaggio delle pavimentazioni fu l’introduzione delle cosiddette tecniche a freddo, nelle quali vengono utilizzati leganti che funzionano bene anche senza il riscaldamento preventivo degli inerti, come le emulsioni bituminose. I primi interventi di questo tipo venivano eseguiti con un apposito treno di riciclaggio che permetteva elevate produzioni orarie, anche superiori alle 200 tonnellate all’ora, come per esempio la macchina riciclatrice CMT 250 della Marini, che permetteva di raggiungere una produzione di 250 t/h di conglomerato.

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Figura 1.13 Macchina riciclatrice Marini CMT 250

Inizialmente però il più grande svantaggio di questi interventi era l’eccessivo tempo di attesa per la riapertura al traffico, a volte anche di 3 o 4 giorni. Questo portò la ricerca ad indagare maggiormente, attraverso studi e sperimentazioni, le possibilità di questa tecnica di riciclaggio, sviluppandone le potenzialità, fino ad introdurre il bitume schiumato come alternativa alle emulsioni bituminose (Foschi, Bonola, & Sandulli, 2003).

1.7 Le tecniche di riciclaggio

Le diverse tecniche di riciclaggio delle pavimentazioni stradali possono essere fondamentalmente suddivise secondo due criteri distintivi. Il primo criterio è quello che differenzia il riciclaggio a caldo, in cui gli inerti devono essere riscaldati prima di essere mescolati con i materiali bituminosi, ed il riciclaggio a freddo, in cui il preriscaldamento non risulta necessario. Il secondo criterio invece distingue le tecniche di riciclaggio in impianto fisso da quelle in situ. I due criteri di differenziazione possono essere combinati tra loro, in modo da avere i seguenti quattro tipi di riciclaggio:

 Riciclaggio a caldo in impianto fisso

 Riciclaggio a caldo in situ

 Riciclaggio a freddo in impianto fisso

 Riciclaggio a freddo in situ

Come già accennato in precedenza, le tecniche di riciclaggio a caldo sono state le prime ad essere utilizzate. Queste prevedono il riscaldamento degli inerti vergini a temperature superiori ai 150°C prima di essere miscelati con gli altri elementi costituenti il conglomerato bituminoso finale, quali il fresato, che può essere aggiunto in percentuali variabili, il bitume, normale o modificato, ed eventuali additivi chimici, che hanno lo scopo di ripristinare alcune delle caratteristiche del bitume riciclato perse a causa del fenomeno di invecchiamento. Le tecniche di riciclaggio a caldo sono state utilizzate sia in impianto fisso, di tipo continuo o discontinuo, che in situ, con appositi treni di riciclaggio.

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difficilmente supera il 50%. Inoltre, principalmente a causa dei problemi riguardanti le emissioni, va precisato che le tecniche a caldo sono state messe da parte a favore delle tecniche di riciclaggio a freddo. Va comunque segnalato che il riciclaggio a caldo in situ, con le dovute modifiche e precauzioni, viene tuttora utilizzato per il riciclaggio dei tappeti di usura costituiti da conglomeranti drenanti.

Nelle tecniche di riciclaggio a freddo il preriscaldamento degli inerti non risulta necessario, in quanto come legante, invece del bitume, vengono utilizzate le emulsioni bituminose o il bitume schiumato. Come per le tecniche a caldo, il riciclaggio a freddo in impianto risulta conveniente quando si ha la necessità di utilizzare materiale fresato e stoccato in precedenza, oppure quando i differenti materiali devono essere miscelati con accuratezza in merito alle proporzioni. Inoltre si rende necessario la lavorazione in impianto quando il materiale costituente la pavimentazione esistente varia considerevolemente lungo il tratto da riciclare, o quando tale materiale, a causa della sua notevole durezza, non può essere adeguatamente polverizzato, e si necessita un processo di frantumazione prima di poter essere utilizzato per la costruzione dello strato riciclato. D’altra parte il riciclaggio a freddo in sito costituisce un’alternativa realmente vantaggiosa in termini economici ed ambientali, ma necessita di appositi macchinari e manodopera specializzata.

Visto che per la costruzione del campo prove utilizzato per lo studio sono state utilizzate tecniche di riciclaggio a freddo, il capitolo che segue è stato interamente dedicato ad esse.

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2 IL RICICLAGGIO A FREDDO

2.1 Generalità sul riciclaggio a freddo

Come già detto in precedenza, le tecniche di riciclaggio a freddo definiscono quei processi di lavorazione che permettono di riutilizzare il conglomerato bituminoso fresato senza la necessità di ricorrere a processi di riscaldamento degli aggregati per la miscelazione di questi con il legante. Questo risulta possibile grazie all’utilizzo di leganti bituminosi che permettono di ottenere buoni risultati anche senza riscaldamento degli inerti, quali le emulsioni bituminose ed il bitume schiumato, il quale necessiterà comunque di un processo di riscaldamento del legante per creare appunto la schiuma. Nelle tecniche tradizionali, il riscaldamento del legante e degli aggregati a temperature maggiori di 160 °C risulta necessario al fine di abbattere la viscosità del bitume e di migliorare la lavorabilità della miscela, sia in fase di impasto che di stesa e compattazione. Nelle tecniche a freddo invece, utilizzando come leganti le emulsioni e lo schiumato, tale problema di lavorabiltà non si pone, potendo utilizzare aggregati a temperatura ambiente. Tali leganti, pur necessitando tempi di maturazione diversi, permettono di raggiungere risultati molto simili in termini di comportamento meccanico dell’intera miscela.

Figura 2.14 Emulsione bituminosa e schiuma di bitume

Come già accennato, nelle miscele riciclate a freddo possono essere utilizzati come leganti le emulsioni bituminose o il bitume schiumato. In genere tali leganti vengono utilizzati in percentuali, rispetto al peso totale della miscela, variabili intorno al 3,5% [3]. Oltre il legante sarà presente anche un quantitativo di aggregati derivante dalla fresatura del conglomerato bituminoso da riciclare. Con le tecniche a freddo le percentuali di materiale fresato utilizzabili nella miscela sono molto elevate, e non sono rari i casi in cui si utilizza solamente tale materiale come inerte, con una percentuale di riutilizzo quindi del 100%. Nel caso però risulti necessaria una correzione granulometrica possono essere aggiunti alla miscela degli aggregati vergini di integrazione. Inoltre per raggiungere determinate caratteristiche meccaniche è possibile utilizzare anche degli agenti stabilizzanti, quali calce o cemento in

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percentuali che normalmente si aggirano attorno al 2%. Tali agenti stabilizzanti potranno essere introdotti nella miscela sotto forma polverosa, o già miscelati ad un certo quantitativo di acqua (slurry).

Figura 2.15 Spandicemento

Analizzando le caratteristiche proprie delle tecniche a freddo si possono individuare diversi vantaggi rispetto alle tecniche a caldo. Il non dover riscaldare gli aggregati prima della fase di miscelazione permette di utilizzare percentuali maggiori di fresato nella miscela finale. Si ricorda che le percentuali di materiale fresato rispetto alla quantità di inerti, con le tecniche a caldo difficilmente supera il 30%, mentre con le tecniche a freddo si può arrivare anche ad una percentuale del 100% [11]. A questo corrisponde una minore richiesta di aggregati naturali provenienti da cave di prestito o depositi alluvionali, nonchè una diminuzione del materiale da mandare a discarica. Tali fattori si riflettono in un minore utilizzo di mezzi pesanti per il trasporto. Inoltre la mancata fase di riscaldamento degli inerti si traduce in un risparmio di combustibile ed in una diminuizione delle emissioni. Tutti questi fattori si traducono automaticamente in vantaggi, sia in termini ambientali che economici rispetto alle tencniche di riciclaggio a caldo. Nel seguito si analizzeranno separatamente il riciclaggio a freddo in impianto e quello in situ.

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2.2 Il riciclaggio a freddo in impianto

Si parla di riciclaggio in impianto quando il processo di miscelazione del materiale che andrà a formare lo strato riciclato viene eseguito da macchinari ed attrezzature installate in modo permanente o di tipo semovente appositamente costruite o adattate allo scopo, come per esempio gli impianti di produzione di misto cementato opportunamente modificati.

Fondamentalmente, come per gli impianti di produzione di conglomerato bituminoso standard o di riciclaggio a caldo, i tipi di impianto per il riciclaggio a freddo possono essere distinti in due tipologie:

 Impianti continui

 Impianti discontinui

Tale distinzione si basa semplicemente sulla metodologia di dosaggio degli inerti. Negli impianti discontinui gli inerti vengono caricati, secondo diverse pezzature, in appositi predosatori, i quali a loro volta pesano e lasciano passare la giusta quantità di materiale per ottenere la granulometria desiderata. Operando in questa maniera il ciclo produttivo presenta delle pause tra la miscelazione di un impasto e un’altra. Negli impianti continui invece il dosaggio degli inerti avviene secondo volumi prestabiliti di materiale, in modo che il processo di produzione del conglomerato risulti appunto continuo. In via generale possiamo dire che gli impianti discontinui, che risultano essere i più diffusi, permettono una maggiore precisione e flessibilità nella lavorazione rispetto agli impianti continui, a scapito però di un rendimento orario inferiore. È da notare tuttavia che negli impianti continui risulta necessario un opportuno controllo dei materiali di partenza [19].

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Ovviamente, non essendo necessaria la fase di riscaldamento degli inerti, gli impianti di riciclaggio a freddo risultano più semplici di quelli per la produzione di conglomerato a caldo, in quanto non richiedono gli apparati necessari per il riscaldamento e riselezione degli inerti, e quelli per l’aspirazione ed il filtraggio dei fumi. Da questo deriva la possibilità di utilizzare impianti per i misti cementati opportunamente adattati ai fini del riciclaggio.

Il riciclaggio in impianto risulta essere la principale, se non l’unica, alternativa possibile quando è richiesto l’utilizzo di materiale già fresato in precedenza tramite fresatura a freddo. Si ricorda che inizialmente nei primi lavori di riciclaggio, di tipo a caldo in situ, veniva utilizzata la fresatura a caldo, con la quale il materiale superficiale veniva riscaldato e successivamente asportato. Un eventuale raffreddamento di tale fresato caldo comporterebbe una perdita di lavorabilità irreversibile, motivo per cui la sua applicazione è possibile solo per interventi in situ, in cui viene immediatamente riutilizzato. Oggi con la tecnica di fresatura a freddo, la quale lascia il materiale sciolto e lavorabile, è invece possibile stoccare il materiale per un suo successivo utilizzo in impianto [48].

La scelta di riciclare in impianto risulta inoltre preferibile quando si vogliono ottenere, rispetto ai risultati ottenibili con le tecniche in situ, strati di riciclato con migliori caratteristiche di omogeneità grazie alla possibilità di utilizzare aggregati, compreso il fresato, selezionati per classi granulometriche, e di ottenere un’ottima finitura dello strato, visto che la miscela confezionata può essere stesa tramite una vibrofinitrice. Le tecniche in sito inoltre non risultano performanti quando lungo il tratto interessato dall’intervento di riciclaggio gli spessori dei diversi materiali costituenti la pavimentazione risultano troppo variabili. Anche in questo caso quindi la scelta del riciclaggio in impianto risulta preferibile. Inoltre quando si ha la necessità di intervenire anche sul sottofondo stradale, l’utilizzo dell’impianto risulta essere necessario per lavorare il materiale fresato per raggiungere gli strati inferiori che deve essere stoccato prima di essere utilizzato [19].

Come esempio si riportano i macchinari e le attrezzature principali che tipicamente compongono un impianto di riciclaggio a freddo discontinuo, che risulta essere la tipologia più diffusa.

 Sistema di frantumazione e riselezionatura del fresato

 Predosatori per il materiale fresato e per gli eventuali inerti di integrazione  Serbatoio di stoccaggio dell’emulsione bituminosa, o del bitume per la

schiumatura

 Serbatoio dell’acqua  Silos del cemento

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 Mescolatore, tipicamente a due alberi

 Attrezzature e sistemi di controllo e pesatura

Figura 2.17 Intervento di riabilitazione profonda che prevede sia lavorazioni in impianto che in situ

2.3 Il riciclaggio a freddo in situ

Parliamo di riciclaggio a freddo in situ quando le operazioni di fresatura e miscelazione vengono eseguite da appositi macchinari che si muovono autonomamente sulla superficie stradale lungo il tratto interessato dall’intervento. Storicamente, nei primi interventi in situ le fasi di fresatura e di miscelazione venivano tenute separate affidandole rispettivamente ad una fresa e ad un miscelatore.

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Negli anni però, attraverso il progresso tecnologico, è stato possibile costruire macchinari sempre più avanzati appositamente pensati per il riciclaggio delle pavimentazioni stradali in grado di garantire caratteristiche dello strato riciclato simili a quelle ottenibili confezionando la miscela in impianto ed elevati rendimenti. Il frutto di tale evoluzione sono le moderne riciclatrici. Le riciclatrici sono potenti macchinari montati su pneumatici o su cingoli, in cui le fasi di fresatura e miscelazione avvengono contemporaneamente all’interno di quello che viene definito tamburo di fresatura. Dentro di esso troviamo il rotore di fresatura che ha il compito sia di demolire il conglomerato bituminoso ammalorato che di miscelarlo contemporaneamente con i leganti bituminosi, gli agenti stabilizzanti e con l’acqua necessaria per raggiungere un grado di umidità ottimale per la compattazione [37].

Figura 2.19 Tamburo di fresatura di una riciclatrice

I leganti bituminosi, così come l’acqua e gli agenti stabilizzanti, vengono introdotti all’interno del tamburo attraverso un sistema di spruzzatura comandato con precisione da un microprocessore, che regola la quantità di fluido introdotto in base al volume di materiale contenuto nella camera stessa. Modificando opportunamente la velocità di avanzamento della macchina e la velocità di rotazione del rotore di fresatura è possibile variare il grado di polverizzazione del fresato. Nel caso si utilizzino riciclatrici montate su pneumatici, affinchè queste possano avanzare e polverizzare il conglomerato bituminoso, il rotore di fresatura, che normalmente ruota verso l’alto, deve penetrare al di sotto dello strato legato, cosa che non risulta necessaria per le riciclatrici su cingoli, dove la profondità della demolizione viene regolata attraverso il sollevamento o l’abbassamento dell’intero macchinario. Con l’avanzamento della macchina il materiale mescolato cade indietro nel vuoto lasciato

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dal rotore di fresatura, e successivamente viene sovrastato da una robusta barra che lo sagoma, in attesa del passaggio delle macchine compattatrici e rifinitrici.

Come già accennato in precedenza, nel processo di riciclaggio a freddo, oltre al materiale fresato in situ, verranno utilizzati anche altri materiali per il confezionamento del conglomerato bituminoso, quali i leganti bituminosi, gli agenti stabilizzanti, e l’acqua. Questi elementi verranno trasportati da una serie di altri veicoli che potranno precedere o seguire la riciclatrice. Il complesso dei veicoli che congiuntamente eseguono l’intervento di riciclaggio in situ viene chiamato comunemente treno di riciclaggio.

I treni di riciclaggio risultano differenti a seconda della modalità di somministrazione degli agenti stabilizzanti. Come gia accennato parlando del riciclaggio in impianto, anche negli interventi in sito tali agenti stabilizzanti possono essere utilizzati in forma polverosa o sottoforma di boiacca.

Figura 2.20 Treni di riciclaggio nel caso si utilizzi come legante emulsione bituminosa

La somministrazione sotto forma polverosa consiste nello spargimento di tali agenti sulla superficie stradale attraverso uno spandilegante in testa al treno di riciclaggio. In questo modo, al passaggio della riciclatrice, verranno direttamente incorporati all’interno del tamburo di fresatura. In questo caso il treno di riciclaggio presenta in ordine lo spandilegante, l’autocisterna dell’acqua, l’autocisterna del bitume, la riciclatrice, ed infine le macchine compattatrici e rifinitrici.

L’altra modalità di somministrazione degli agenti stabilizzanti è quella sotto forma di malta fluida, chiamata anche boiacca, e consiste nell’utilizzo di un miscelatore di sospensioni, in cui il cemento viene preventivamente miscelato con

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l’acqua. In questo caso la boiacca verrà direttamente introdotta nel tamburo di fresatura mediante il collegamento, attraverso un tubo flessibile, tra il miscelatore ed il tamburo stesso. In questo modo l’autocisterna dell’acqua non sarà più necessaria ed il treno di riciclaggio sarà composto, in ordine, dall’autocisterna del bitume, dal miscelatore di sospensioni, dalla riciclatrice ed infine dalle macchine compattatrici e rifinitrici.

A seconda delle caratteristiche della miscela e delle prestazioni che questa deve conseguire in termini di densità, la successione di macchine compattatrici e rifinitrici può variare. In termini generali possiamo dire che, nei lavori in cui viene utilizzato un legante bituminoso come l’emulsione o la schiuma, un treno di riciclaggio potrebbe prevedere in ordine, uno o più rulli monotamburo, una motolivellatrice, un rullo tandem vibrante, ed infine un rullo gommato [20].

2.4 Vantaggi del riciclaggio a freddo in situ

Oltre ai vantaggi propri del riciclaggio a freddo, tale tecnologia applicata in situ rappresenta probabilmente l’alternativa che offre la maggiore efficienza in termini ambientali ed economici, risultando la più diffusa e utilizzata a livello mondiale [48]. Qui si presentano le caratteristiche ed i vantaggi principali di tale tecnica.

 Integrità strutturale

L’utilizzo di moderne riciclatrici permette la costruzione di strati monolitici di spessore considerevole, fino a 30 cm. Tale caratteristica permette di evitare l’effetto di laminazione, presente invece quando si costruiscono strati di pavimentazione più sottili collegati da deboli interfacce.

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 Minimizzazione delle azioni sul sottofondo

Il sottofondo delle

pavimentazioni, ed in generale tutti gli strati granulari, sotto l’azione del traffico veicolare subiscono un effetto di compattazione, che migliora le caratteristiche di portanza di questi strati [48]. Una maggiore densità dei materiali naturali infatti si traduce in un

miglioramento della

resistenza a sopportare i carichi veicolari. Gli interventi di riabilitazione dovrebbero mirare a preservare il valore

residuo della pavimentazione esistente, e quindi i materiali che hanno subito tale processo di compattazione non dovrebbero essere alterati. Eseguendo il riciclaggio in situ questo risulta possibile dal momento che il traffico di cantiere, non viene mai in contatto con gli strati più profondi, poggiando direttamente sulla superficie del materiale appena riciclato e steso.

 Brevi tempi di costruzione

Le moderne riciclatrici sono state progettate e costruite in maniera tale che i processi di costruzione che devono eseguire vengano portati a termine nel minor tempo possibile. I tempi di costruzione necessari risultano quindi considerevolmente inferiori rispetto a qualsiasi altra alternativa di riabilitazione. Tempi di costruzione più corti si traducono in un risparmio sui costi di progetto ed in una minore alterazione del traffico, con benefici anche per gli utenti stradali.

 Sicurezza

Le operazioni di riciclaggio vengono eseguite sulle singole corsie di traffico. In questo modo, sulle strade con almeno due corsie per senso di marcia, il traffico può essere dirottato sulle corsie che non sono interessate dai lavori, limitando le interferenze con gli utenti stradali.

Figura 2.22 Le ruote della riciclatrice transitano sul materiale appena riciclato

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Figura 2.23 Limitazione delle interferenze con il traffico veicolare

 Vantaggio economico

La combinazione di tutti i vantaggi sopra citati si traduce in una grande efficacia dal punto di vista dei costi, facendo del riciclaggio a freddo in situ una delle alternative di riabilitazione più vantaggiose.

2.5 Applicazioni del riciclaggio a freddo

Fondamentalmente possiamo dividere gli interventi di riciclaggio a freddo in tre categorie distinte, quali il riciclaggio superficiale, il riciclaggio in profondità, e l’adeguamento delle cosiddette strade bianche [48]. Come si vedrà tra poco, le prime due categorie sono molto simili tra loro, differenziandosi fondamentalmente solo per l’estensione degli ammaloramenti e quindi dell’intervento.

Si parla di riciclaggio superficiale quando l’estensione degli ammaloramenti riguarda solamente gli strati della pavimentazione prossimi alla superficie, ma in generale gli strati più profondi mantengono una sufficiente capacità portante. Le alternative convenzionali consisterebbero nella sovrapposizione di uno strato di conglomerato bituminoso o nella rimozione dello strato ammalorato rimpiazzandolo sempre con uno strato di conglomerato. Il riciclaggio superficiale invece prevede la creazione di uno strato riciclato e la successiva sovrapposizione di un tappetino di usura. Lo spessore di intervento in questo caso non supera i 15 centimetri.

Il riciclaggio in profondità viene invece applicato nei casi in cui la pavimentazione presenti estesi ammaloramenti a profondità dell’ordine dei 20 centimetri o superiori, che si manifestano sottoforma di gravi fessurazioni in superficie, ormaiamento, e buche. In questo caso l’alternativa convenzionale di intervento sarebbe la sovrapposizione di nuovi strati di conglomerato, o addirittura,

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ricostruzione del pacchetto stradale. Attraverso il riciclaggio in profondità invece si può trattare uno spesso strato di pavimentazione, fino a 30 centimetri, e successivamente applicare uno trattamento superficiale nel caso di strade a basso volume di traffico o ricoprire lo strato riciclato con altri strati di conglomerato bituminoso.

Il miglioramento delle strade bianche, ovvero di quelle strade che non presentano una copertura bituminosa, viene spesso effettuato attraverso il riciclaggio del manto superficiale in ghiaia con uno stabilizzante bituminoso e sovrapponendovi un trattamento superficiale. Questo tipo di intervento presenta diversi vantaggi. Le strade bianche infatti presentano il problema che annualmente vanno in contro a perdita di ghiaia che può raggiungere anche i 50 millimetri, a causa del traffico e degli agenti atmosferici, necessitando un continuo rifornimento di aggregati dalle cave di prestito. Inoltre le strade bianche risultano molto suscettibili alle condizioni atmosferiche, in quanto con tempo piovoso possono presentare problemi di regolarità e stabilità, mentre con tempo asciutto si ha una generazione di polvere, pericolosa per la popolazione locale e per la produzione agricola. L’insieme di tutti questi fattori si traduce in alti costi di manutenzione. Tutti questi problemi possono essere risolti tramite l’intervento di miglioramento appena descritto.

Come abbiamo visto, nel riciclaggio di una pavimentazione vengono utilizzati leganti e agenti stabilizzanti differenti, a seconda delle caratteristiche che si vogliono ottenere per lo strato riciclato. Il prossimo capitolo sarà dedicato a tali materiali.

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3 LEGANTI E STABILIZZANTI NEL RICICLAGGIO

3.1 Gli agenti stabilizzanti nella tecnica stradale

In questo capitolo tratteremo quei materiali che, miscelati in piccole quantità con materiali, anche marginali, permettono di ottenere delle miscele con caratteristiche idonee per formare strati profondi della pavimentazione stradale. Tali materiali vengono definiti agenti stabilizzanti, ed in particolare tratteremo quelli che trovano applicazione nei lavori di riciclaggio, descrivendone le caratteristiche principali come la composizione, il modo in cui reagiscono con gli aggregati ed i possibili utilizzi. Si può dire che la diffusione degli agenti stabilizzanti è stata particolarmente favorita dalla difficoltà di reperimento di ottimi materiali da costruzione per il pacchetto stradale. Con piccole quantità di legante, rispetto agli inerti da trattare, si rende infatti possibile l’impiego di materiali marginali, ovvero con caratteristiche che li rendono non idonei per un’eventuale utilizzo nella tecnica stradale, e che quindi andrebbero scartati. La miscelazione con gli agenti stabilizzanti infatti dota il materiale di partenza di coesione, migliorandone le caratteristiche di resistenza meccanica e riducendone la sensibilità all’acqua.

Al giorno d’oggi vengono utilizzati svariati agenti stabilizzanti, tra cui polimeri artificiali o naturali, resine di petrolio, sali igroscopici, prodotti derivati dal bitume e agenti cementizi [48]. Ognuna di queste sostanze presenta caratteristiche specifiche, le quali possono renderne l’impiego in determinate condizioni più o meno adeguato o conveniente. Tra i fattori che devono essere presi in considerazione per l’utilizzo di una sostanza piuttosto che un’altra figurano sicuramente il prezzo unitario, la reperibilità della sostanza, e le caratteristiche del materiale da legare. Tra tutte queste alternative però gli agenti bituminosi e quelli cementizi rappresentano quelle maggiormente diffuse ed utilizzate, anche combinandosi tra loro, soprattuto nei lavori di riciclaggio a freddo. Gli agenti bituminosi comprendono le emulsioni bituminose ed il bitume schiumato, mentre fanno parte degli agenti cementizi il cemento e la calce. Questi quattro agenti stabilizzanti sono quelli su cui ci concentreremo nel seguito.

3.2 Gli agenti stabilizzanti cementizi

Tra gli agenti cementizi più utilizzati troviamo il cemento, la calce idraulica, le scorie d’alto forno, i materiali pozzolanici, e le ceneri volanti. Tutti questi materiali rientrano nella categoria dei leganti idraulici, materiali inorganici che vengono utilizzati normalmente mescolandoli con acqua e inerti, in modo che il prodotto finale, risultato di specifici processi fisici e chimici, presenti proprietà meccaniche migliori rispetto all’aggregato di partenza, così come una migliore resistenza all’acqua

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e agli agenti corrosivi. I leganti idraulici sono il risultato della cottura, a temperature dell’ordine dei 1000 °C, di materiali calcarei e argillosi che in seguito a tale processo si combinano in strutture cristalline. Successivamente alla cottura si ha la macinazione in cui il materiale viene frantumato fino alle dimensioni idonee per un suo utilizzo. Un’altra classe di leganti che si affianca ai leganti idraulici è quella dei leganti aerei, che comprende la calce aerea, il gesso ed il cemento magnesiaco. La differenza principale tra le due classi di leganti è che quelli aerei sviluppano i fenomeni di presa e indurimento a contatto con l’aria, a differenza di quelli idraulici che possono essere impiegati anche a contatto con acqua.

Figura 3.24 Calce e cemento in forma polverosa

I campi di applicazione di tali leganti risultano svariati, ma in ambito stradale il loro impiego risulta fondamentale nella stabilizzazione delle terre, in particolare con calce e con cemento. Tali processi hanno l’obiettivo di dotare le terre naturali di sufficiente portanza per la creazione degli strati profondi di una pavimentazione e per migliorare la resistenza all’acqua di tali strati. Inoltre, come si vedrà nel seguito, non è raro l’utilizzo del cemento o della calce come filler attivo nei processi di riciclaggio a freddo.

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3.2.1 Cemento

Il cemento è il legante idraulico per eccellenza, tanto che con il nome cementi spesso ci si riferisce all’insieme di tutti i leganti idraulici. La sua facile reperibilità, insieme all’esperienza maturata come materiale da costruzione ed il suo costo relativamente basso hanno promosso il suo utilizzo e diffusione a livello mondiale. La sua produzione a livello industriale iniziò a metà dell’800, ma già agli inizi del secolo scorso gran parte dei paesi industrializzati lo utilizzava.

La sua produzione inzia con la cottura, non sotto i 1200 °C, di un calcare argilloso naturale o di una miscela artificiale di calcare e argilla. Attraverso successive reazioni che trasformano la struttura dei componenti della miscela, si arriva alla formazione delle cosiddette fasi del cemento, responsabili dei processi di presa e indurimento tipici dei cementi. Queste fasi infatti, una volta venute a contatto con l’acqua, danno luogo a delle reazioni fisiche e chimiche che inizialmente portano il conglomerato a perdere plasticità e lavorabilità, e successivamente ad acquistare una notevole resistenza meccanica. Tali reazioni sono la presa e l’indurimento.

Figura 3.26 Schematizzazione del comportamento delle fasi del cemento durante il mescolamento con acqua, l'inizio della presa, e l'indurimento

Come esempio si riportano le quattro fasi che, in percentuali variabili, costiutiscono il cemento Portland, il cemento più utilizzato nel mondo delle costruzioni:

Composto Fase Abbreviazione Percentuali

Silicato tricalcico Alite C3S 50 ÷ 70 %

Silicato bicalcico Belite C2S 15 ÷ 30 %

Alluminato tricalcico Celite C3A 5 ÷ 10 %

Ferro alluminato tetracalcico Fase ferrica C4AF 5 ÷ 15 %

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Nella tecnica stradale il cemento viene principalmente utilizzato per la stabilizzazione delle terre e per la costruzione di strati di fondazione in misto cementato per strade ad elevato traffico pesante. Queste applicazioni permettono di ottenere strati con portanza sufficiente per far parte del pacchetto stradale a partire da terre o materiali granulari marginali, miscelando il legante in percentuali che si aggirano attorno al 3.5%. Il materiale finito, dopo un adeguato tempo di maturazione, raggiunge così maggiori livelli di resistenza a compressione rispetto agli inerti di partenza, nonchè acquista un’elevata insensibilità all’acqua. Un adeguato mix design risulta necessario per determinare la giusta percentuale di legante da utilizzare negli interventi, in quanto, se da un lato una maggiore quantità di cemento porta ad una maggiore resistenza a compressione, dall’altro rende il materiale più rigido e friabile. Sempre come esempio si riportano le tipiche percentuali di utilizzo di cemento, rispetto la massa del materiale stabilizzato, in funzione del materiale trattato e facendo distinzione tra materiali leggermente cementati, con resistenza a compressione Rc inferiore ai 4 MPa, e materiali cementati, con una resistenza a compressione fino a 10 MPa.

Materiale trattato Rc < 4 MPa Rc < 10 MPa

Conglomerato bituminoso recuperato/aggregati naturali (50/50) 2.0 ÷ 3.0 % 3.5 ÷ 5.0 % Aggregati naturali ben assortiti 2.0 ÷ 2.5 % 3.0 ÷ 4.5 % Ghiaia naturale (PI < 10, CBR > 30) 2.5 ÷ 4.0 % 4.0 ÷ 6.0 %

Tabella 3.2 Tipiche percentuali di utilizzo del cemento in funzione del materiale da stabilizzare

La resistenza a compressione comunque non è il solo parametro che entra in gioco nel mix design. Infatti si deve anche tener conto che una maggiore quantità di cemento porta inevitabilmente ad una maggiore fessurazione per ritiro, rendendo lo strato nel suo complesso sempre più debole come effetto del ripetuto passaggio veicolare, come sarà esposto più avanti.

3.2.2 Calce

Precedentemente, parlando dei leganti idraulici, si è accennato alla calce idraulica, la quale, essendo molto simile al cemento sia come composizione che come effetti, risulta largamente utilizzata per le malte in campo edilizio. Tuttavia nella tecnica stradale non è questa la calce che viene impiegata, bensì quella aerea. Con il termine di calce aerea, nell’ambito delle calci da costruzione, ci si riferisce in particolare a due prodotti derivanti dalla decomposizione termica, a temperature di

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circa 1000 °C, del carbonato di calcio naturale: la calce viva e la calce idrata (o spenta). La prima è costituita prevalentemente da ossido di calcio CaO, e deriva da un processo di frantumazione successivo alla cottura. La seconda invece è il prodotto di un processo di idratazione per il quale l’ossido di calcio viene trasformato in idrossido di calcio Ca(OH)2 aggiungendo un’opportuna quantità di acqua. Differenza molto importante tra le due è che la calce viva risulta molto caustica e a contatto con la pelle può provocare forti irritazioni, ragion per cui le lavorazioni che ne prevedono l’uso sono da considerarsi pericolose e devono essere eseguite rispettando determinati standard di sicurezza, a differenza della calce spenta, che comunque deve essere maneggiata con le dovute precauzioni.

A livello storico la calce aerea risulta essere il primo legante utilizzato da Fenici e Romani, in combinazione con sabbie a formare delle malte. Come si è già accenato il suo impiego principale nella tecnica stradale è la stabilizzazione delle terre, ed in particolare delle terre argillose e/o limose. Tale tipologie di terre infatti non risultano idonee ad essere trattate con cemento, in quanto i materiali plastici non possono essere mescolati con successo al cemento a causa delle ridotte dimensioni delle particelle argillose, inferiori ai 2 μm, sulle quali il cemento non riesce ad avere effetto. In generale quindi il trattamento con calce trova la sua migliore espressione con quei terreni che presentano un indice di plasticità PI > 10, ma può essere utilizzato anche per stabilizzare terreni ghiaio argillosi con PI inferiore ma che presentino un passante al setaccio 0,4 mm non inferiore al 35%. Il fatto che la stabilizzazione a calce sia efficace solo con determinati terreni dipende dal tipo di reazioni a cui la calce può andare in contro.

Fondamentalmente la stabilizzazione con calce avviene in due fasi che sono la flocculazione dell’argilla e le reazioni pozzolaniche. La flocculazione è quel processo per cui gli ossidi di calcio subiscono un fenomeno di idrolisi quando mescolati con il terreno, e successivamente reagiscono con gli ioni presenti nell’argilla, dando luogo ad uno scambio ionico. Il risultato di questo processo è la formazione di macro particelle estremamente stabili che fanno acquistare alla terra un buon assortimento granulometrico ed una ridotta sensibilità all’acqua.

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Tuttavia in questa fase il materiale stabilizzato non ha ancora sperimentato un miglioramento delle caratteristiche meccaniche, cosa che avviene in seguito alle reazioni pozzolaniche. Queste reazioni avvengono nell’arco di qualche giorno dopo la stabilizzazione, coinvolgendo gli idrossidi di calcio che non partecipano alla flocculazione dell’argilla e i gruppi silicati e alluminici costituenti l’argilla, in maniera molto simile a quella che si manifestano nell’idratazione del cemento. Attraverso queste reazioni la miscela sperimenta un miglioramento delle caratteristiche meccaniche rimanendo comunque insensibile all’acqua. Si vuole rimarcare che in assenza dei gruppi silicati e alluminici, e quindi in assenza di argilla, le reazioni pozzolaniche non potrebbero avvenire, per cui la stabilizzazione con calce fondamentalmente non produrrebbe alcun effetto in termini di miglioramento della resistenza meccanica, diminuendo solo l’umidità del terreno e migliornandone la resistenza all’acqua.

Riassumendo, gli effetti della calce in seguito al processo di stabilizzazione di terre argillose sono:

 Riduzione del contenuto di acqua

Risulta possibile ottenere una riduzione dell’umidità del terreno grazie alle reazioni di idratazione che coinvolgono gli ossidi di calcio nel caso della calce viva, e alle reazioni pozzolaniche tra i gruppi silicati e alluminici e l’idrossido di calcio. Inoltre l’azione di mescolamento genera un’areazione della terra che favorisce la riduzione del contenuto di acqua.

 Incremento delle prestazioni meccaniche

Il miglioramento delle caratteristiche di resistenza della miscela finale è dovuto principalmente all’azione cementificante delle reazioni pozzolaniche, ma in minor parte anche dal miglior assortimento granulometrico che si ottiene in seguito alla flocculazione dell’argilla.

 Riduzione della suscettività all’acqua

A seguito delle reazioni descritte si ha una riorganizzazione strutturale dell’argilla ed un cambiamento del pH della miscela stabilizzata, che sarà quindi maggiormente insensibile all’acqua, eliminando le problematiche di rigonfiamento e perdita di coesione.

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