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La concorrenza fiscale nell'Unione Europea nelle imposte societarie e nelle imposte personali

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Corso di Laurea Magistrale

in Amministrazione, Finanza e Controllo

Curriculum Consulenza Amministrativa

Tesi di Laurea

La concorrenza fiscale nell'Unione

Europea nelle imposte societarie e

nelle imposte personali

Relatore

Ch. Prof. Dino Rizzi Correlatore

Ch. Prof. Valeria Maggian

Laureando

Davide Capraro Matricola 846230

Anno Accademico

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SOMMARIO

Introduzione

Capitolo I - Considerazioni preliminari e teoriche sulla concorrenza fiscale ...1

1.1 Cos’è la concorrenza fiscale ...1

1.2 Il concetto di concorrenza nella concorrenza fiscale ...3

1.2.1 Concorrenza fiscale e teoria dei giochi ...4

1.2.2 La mobilità dei fattori produttivi: il capitale ...7

1.2.3 La tassazione delle società ...8

1.2.4 Il modello di Gordon (1986) ...10

1.3 I diversi approcci della concorrenza fiscale ...17

1.3.1 Concorrenza fiscale verticale e concorrenza fiscale orizzontale ...18

1.3.2 Concorrenza fiscale dannosa e concorrenza fiscale benefica...19

1.3.3 Le esternalità create dalla concorrenza fiscale ...21

1.4 Le teorie economiche a riguardo della concorrenza fiscale ...23

1.4.1 Il modello di Tiebout (1956): la pietra miliare della teoria sulla concorrenza fiscale ...23

1.4.2 La teoria di Oates (1972). Il cambiamento della concezione di concorrenza fiscale: da una concorrenza fiscale “efficiente” a una concorrenza fiscale “dannosa” ...26

1.4.3 Il modello base di concorrenza fiscale di Zodrow e Mieszkowski (1986): gli spunti per la nascita di un processo di armonizzazione e coordinamento fiscale ...29

1.4.4 Un focus su un particolare fenomeno di concorrenza fiscale: il cross-border shopping...34

1.4.5 Un modello per l’analisi del cross-border shopping: il modello di Kanbur e Keen (1993) ...36

1.4.6 Una breve reinterpretazione del modello considerando le imprese ...43

1.4.7 Conclusioni del modello ...44

1.4.8 Una visione alternativa della concorrenza fiscale: lo Stato Leviatano ...45

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Capitolo II - Il processo di sviluppo della concorrenza fiscale sulle imposte

societarie nell’Unione Europea ...50

2.1 La creazione del Mercato Unico Europeo ...50

2.1.1 Cosa è successo alle imposte sulla società? ...52

2.1.2 L’aliquota fiscale legale ...52

2.1.3 La base imponibile ...57

2.1.4 Il gettito fiscale delle imposte societarie ...62

2.1.5 Le motivazioni alla base della concorrenza fiscale nell’Unione Europea ...69

2.1.6 Conclusioni e osservazioni dell’analisi ...72

2.2 La giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea ...75

2.2.1 La sentenza Cadbury Schweppes ...75

2.2.2 La sentenza Van Caster ...79

2.3 La mancanza di un organo centrale che diriga la politica fiscale nell’Unione Europea . ...81

2.4 Conclusioni ...82

Capitolo III - La concorrenza fiscale sulle imposte personali nell’Unione Europea ...84

3.1 L’aliquota fiscale massima sui redditi personali ...84

3.1.1 La nascita di regimi fiscali speciali per i ricchi ...90

3.1.2Il caso dell’Italia ...94

3.2 L’aliquota fiscale media sui redditi personali ...96

3.3 Conclusioni ...106

Capitolo IV - Le politiche contro la concorrenza fiscale adottate dall’Unione Europea ...108

4.1 Il processo di armonizzazione fiscale ...108

4.2 Il Rapporto Ruding ...112

4.2.1Il problema: le distorsioni nel funzionamento del mercato interno causate dalle differenze di imposizione dei redditi societari ...112

4.2.2La convergenza dei sistemi fiscali ...114

4.2.3 L’intervento da parte dell’Unione Europea ...115

4.3 Il Codice di Condotta ...118

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4.5 La posizione dell’OCSE ...126

4.6 Conclusioni ...130

Capitolo V - La concorrenza fiscale tra regioni in Italia: il caso del Trentino-Alto Adige ...132

5.1 La normativa nazionale dell’IRAP ...132

5.2 Il caso delle province autonome di Trento e Bolzano ...136

5.3 Conclusioni ...139

Conclusioni ...141

Bibliografia ...145

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INTRODUZIONE

Una delle problematiche a cui l’Unione Europea è chiamata a rispondere ancora al giorno d’oggi è il progredire di un fenomeno di natura fiscale che prende il nome di concorrenza fiscale. La concorrenza fiscale è un processo a catena che si innesca nel momento in cui dei paesi riducono la pressione fiscale sulle imprese allo scopo di attirare nuovi capitali esteri e, a ruota, vengono seguiti da altri paesi. Ciò che ne consegue è una continua corsa a chi riesce ad offrire il trattamento fiscale più vantaggioso. Sin dalla nascita della Comunità Economica Europea nel 1957, la Commissione Europea si è dimostrata molto attiva nel contrastare questo tipo di problema, cercando di creare un sistema armonizzato fra tutti i sistemi fiscali dei paesi membri. Nonostante questo grande impegno profuso nel proporre delle iniziative e delle soluzioni atte ad ostacolare un fenomeno che crea delle distorsioni al mercato interno dell’Unione Europea, alle proposte di armonizzazione non è seguita una reale e concreta attuazione di queste in quanto gli Stati membri vedono nella concorrenza fiscale un potente strumento, a cui non vogliono rinunciare, per assicurarsi dei notevoli vantaggi in termini di capitale finanziario, capitale umano e nuove risorse tecnologiche.

L’obbiettivo del presente elaborato è quello di analizzare questo fenomeno all’interno del territorio dell’Unione Europea. Il primo capitolo sarà prettamente teorico e verterà sui principali modelli che descrivono dal punto di vista teorico la concorrenza fiscale. Il secondo capitolo è il vero e proprio cuore dell’analisi in quanto, attraverso l’utilizzo di vari indicatori, si cercherà di constatare la presenza o meno di una concorrenza fiscale sulle imposte societarie fra i paesi membri dell’Unione Europea, individuando delle possibili cause che hanno alimentato tale fenomeno nel tempo. Nel terzo capitolo tale analisi verrà estesa anche al caso delle imposte sui redditi personali, cercando sempre di accertare se gli Stati membri si danno “battaglia fiscale” anche in questo campo. Il quarto capitolo riguarderà le principali proposte che l’Unione Europea ha cercato di

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attuare nel tempo per limitare la concorrenza fiscale. Nel quinto e ultimo capitolo è stato messo sotto la lente d’ingrandimento un particolare caso di concorrenza fiscale legato al pagamento dell’IRAP che riguarda il Trentino-Alto Adige e le altre regioni d’Italia.

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CAPITOLO 1

CONSIDERAZIONI PRELIMINARI E TEORICHE SULLA

CONCORRENZA FISCALE

1.1 COS’È LA CONCORRENZA FISCALE

Negli ultimi decenni si è assistito ad un forte aumento degli investimenti esteri verso i paesi in via di sviluppo in un processo di globalizzazione che ha coinvolto il mondo intero. Questo trend è stato il frutto di una continua concorrenza tra paesi che avevano (e hanno) lo scopo di attirare questi investimenti esteri attraverso l’aumento di incentivi offerti dai governi ospiti e la riduzione delle restrizioni delle operazioni delle imprese estere che operano in questi paesi (Sokol, 2008). Questo fenomeno, che come si avrà modo di vedere nel capitolo successivo ha avuto uno sviluppo importante anche tra paesi membri dell’Unione Europea man mano che il processo di integrazione si consolidava, prende il nome di concorrenza fiscale.

Dunque, la concorrenza fiscale è un fenomeno che deve essere analizzato sia in un contesto di integrazione economica internazionale, sia in un contesto di livello mondiale quando si parla di globalizzazione. Sotto questo punto di vista, molti sono stati gli studi che si sono occupati di spiegare i fattori che hanno spinto alla nascita di una concorrenza di tipo fiscale tra paesi con i relativi problemi che essa può causare (Sokol, 2008). Tuttavia, prima di addentrarsi in quelli che sono gli aspetti fondamentali, è opportuno capire cosa si intende realmente per concorrenza fiscale tra paesi. A tal proposito, l’economista americano Michael Keen ha definito la concorrenza fiscale in questo modo:

«La concorrenza fiscale è un processo attraverso il quale i diversi paesi scelgono in modo strategico e non cooperativo le variabili fiscali (aliquote, basi imponibili, servizi alle

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2

imprese ecc.) su taluni cespiti dotati di mobilità a livello internazionale, allo scopo di procurarsi vantaggi (gettito, capitali, tecnologia, occupazione) rispetto ad altri paesi.»

(Bagello, 2000)

Con questa definizione, Keen definisce la concorrenza fiscale come un processo in cui i paesi scelgono di ridurre il carico fiscale sui fattori produttivi mobili con l’intento di rendere il proprio sistema fiscale più appetibile e attrattivo, soprattutto per le attività economiche. Per attuare un alleggerimento del proprio carico fiscale, il paese di riferimento può utilizzare diverse metodologie: per esempio attraverso una diminuzione dell’aliquota fiscale sul reddito d’impresa, definendo determinate basi imponibili con lo scopo di attirare imprese che operano in determinati settori, concedendo determinati servizi e agevolazioni etc. In Irlanda, per fare un esempio, le imprese che svolgono un’attività commerciale pagano un’aliquota fiscale del 12,5% sul reddito prodotto, una tra le più basse in Europa (a meno che l’attività non sia mineraria, estrattiva, petrolifera o immobiliare ai quali viene applicata un’aliquota del 25%). Inoltre, il sistema tributario irlandese prevede delle agevolazioni per quelle imprese che si stabiliscono proprio in Irlanda: infatti, per queste imprese è prevista una sospensione del pagamento delle imposte per i primi tre anni di attività al verificarsi di determinate condizioni (Fisco oggi-Rivista online dell’agenzia delle entrate (2019), Scheda paese: Irlanda).

Inoltre, sarebbe opportuno aggiungere che una concorrenza fiscale tra paesi non necessariamente avviene attraverso la definizione di determinate variabili fiscali atte ad attirare nel proprio territorio imprese estere. Basti pensare al cosiddetto segreto bancario, ossia quell’istituto di diritto bancario che ha lo scopo di proteggere la segretezza dei dati bancari dei clienti di una banca. Questi paesi, che sono ostili nell’ instaurare dei rapporti di scambio di informazioni, sfruttano il segreto bancario allo scopo di attirare nuovi capitali i cui possessori hanno il fine di sottrarsi ai controlli fiscali del proprio paese di residenza (Biasco, 2014).

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1.2 IL CONCETTO DI CONCORRENZA NELLA CONCORRENZA

FISCALE

Quando si parla di concorrenza fiscale, è essenziale fare un breve cenno preliminare al concetto di concorrenza. Con il termine concorrenza si intende quella situazione nella quale più imprese che producono medesimi beni e servizi competono nel medesimo mercato per soddisfare una pluralità di consumatori. Il modello base inerente alla concorrenza fa riferimento al concetto di concorrenza perfetta. In una condizione di concorrenza perfetta, il mercato deve presentare una serie di caratteristiche:

A) Le imprese che operano in un determinato mercato sono considerate price-taker, ovvero non possono in alcun modo condizionare i prezzi di vendita; B) I beni e i servizi offerti sono omogenei;

C) Assenza di asimmetrie informative e costi di transazione; D) Assenza di barriere all’ingresso e all’uscita.

Se queste condizioni fossero soddisfatte, ci sarebbe un unico prezzo di mercato e la massima efficienza delle risorse utilizzate (Varian, 2010). Tuttavia queste ipotesi rimangono solamente teoriche poiché nella realtà vi sono: degli agenti con potere di mercato, costi di transizione e asimmetrie informative. Questo genera fallimenti del mercato che costringono ad accettare la concezione di una concorrenza imperfetta come un normale stato di funzionamento del mercato, il che impedisce la piena adozione delle ipotesi di mercato e di concorrenza considerati dai teorici della concorrenza perfetta (Enciclopedia Treccani-Dizionario di Economia e Finanza (2012), Concorrenza imperfetta).

Se da questo punto si può trarre una conclusione è che la concorrenza tra imprese è una realtà complessa e, poiché la concorrenza fiscale è un fenomeno parallelamente complesso, non si può fare a meno di non considerare gli elementi offerti dalla prospettiva commerciale per comprendere e approfondire lo studio della concorrenza fiscale. Ciò significa che si presuppone che la concorrenza

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fiscale si manifesti con effetti e risultati molto vicini alla concorrenza commerciale tra imprese. In entrambi i casi, infatti, è stato osservato che è necessario l'intervento di un'autorità superiore che regoli il gioco della concorrenza.

Dunque, si può dire che la concorrenza fiscale sia un termine con un'origine chiaramente legata alla concorrenza tra imprese e nonostante la vastità della teoria economica a riguardo di quest'ultima non sia oggetto di tale elaborato, non si può negare l'utilità dei molteplici punti in comune che si possono trovare tra queste due forme di concorrenza.

1.2.1 Concorrenza fiscale e teoria dei giochi

Un altro punto che accomuna la concorrenza tra imprese e la concorrenza fiscale tra paesi è la possibilità di applicare la teoria dei giochi1 anche a quest’ultima

forma. Infatti, in ulteriore analisi della definizione di concorrenza fiscale, un punto fondamentale sottolineato da Keen è che il processo di scelta delle variabili fiscali avviene in modo “strategico” e “non-cooperativo”, il che sta ad indicare che non esiste una cooperazione e collaborazione tra paesi bensì ogni paese è libero di agire a seconda dei propri intenti. Sotto questo punto di vista, per analizzare un processo di concorrenza fiscale, ci si può avvalere della teoria dei giochi (Bagello, 2000).

Nella teoria dei giochi applicata in questo contesto, i giocatori corrispondono ai governi, le strategie corrispondono alle variabili fiscali mentre i pay-off corrispondono ai vantaggi che i paesi si procurano dalla concorrenza fiscale a discapito di altri paesi. Nello specifico ci si riferisce ai giochi non-cooperativi, o definiti anche giochi competitivi, dove i giocatori non stringono alcun accordo

1 La teoria dei giochi è una disciplina matematica che si occupa di studiare e analizzare le scelte

che adotta un individuo in un contesto dove si trova ad essere in conflitto con altri soggetti. I soggetti che partecipano alla cosiddetta interazione strategica sono chiamati giocatori e hanno l’obbiettivo di massimizzare il guadagno, che nel gergo della teoria dei giochi prende il nome di pay-off (Calzolari, Norman, Pepall e Richards, 2013).

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vincolante tra di loro e dove la soluzione è data da un equilibrio di Nash2. Infatti,

in un gioco competitivo come la concorrenza fiscale che si risolve con un equilibrio di Nash, date le aliquote fiscali adottate da ogni paese, nessun altro paese riuscirebbe ad ottenere un esito migliore poiché esso sceglierebbe un’aliquota fiscale differente da quella di equilibrio (Grazzini e Petretto, 2004). Questa soluzione si dice essere Pareto-inefficiente poiché esisterebbero delle soluzioni migliori senza andare a peggiorare la situazione degli altri paesi. Il motivo di questa conclusione è semplice: nel momento in cui ogni governo sceglie in maniera non-cooperativa le proprie variabili fiscali, esso non considera l’effetto delle decisioni che assume sugli altri paesi e, quindi, non prenderebbe le scelte adeguate da un punto di vista economico. In altre parole, vi sarebbero delle conseguenze “esterne” nelle scelte dei paesi che non verrebbero “internalizzate” nel computo economico. Ecco spiegata la ragione per cui si arriverebbe ad una situazione economicamente inefficiente (Bagello, 2000).

Tuttavia è possibile eliminare questi effetti distorsivi e passare da un equilibrio di Nash di un gioco competitivo ad un gioco cooperativo, in cui i paesi in questione non sono in conflitto tra di loro sotto il punto di vista fiscale bensì hanno un comune interesse di migliorare il proprio pay-off. Infatti, attraverso un coordinamento fiscale tra paesi, è possibile far sì che tra di essi vi sia una cooperazione, anziché una concorrenza, basata su accordi di natura fiscale e organi di controllo. Ciò permetterebbe ai paesi di ottenere un risultato migliore, anche se si renderebbe necessario instaurare un sistema di compensazione: alcuni paesi, da un rapporto di coordinamento fiscale, potrebbero vedersi peggiorata la propria situazione e non avrebbero nessun incentivo a stringere accordi cooperativi, poiché da essi non ne trarrebbero alcun beneficio. È il caso dei paesi più piccoli in termini di popolazione e di dimensione, caratterizzati anche dalla

2 Per equilibrio di Nash nella teoria dei giochi si intende una combinazione di strategie dove

ciascun giocatore non ha nessun incentivo a modificare la propria strategia (Calzolari, Norman, Pepall e Richards, 2013).

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presenza di un basso livello di capitale. Tali paesi sarebbero dunque i più motivati ad attirare nuova base imponibile proveniente dall’ estero nel proprio territorio attraverso dei vantaggi fiscali. Per questo motivo, dei sistemi di compensazione (cosiddetti side payments) sarebbero adatti a compensare quei paesi che da un rapporto coordinativo e cooperativo non ricaverebbero nessun beneficio. Lo stesso Keen ha fornito un esempio molto semplificato per meglio comprendere il concetto di cooperazione e compensazione in un contesto di concorrenza fiscale. Si immagini un mondo formato esclusivamente da due paesi che hanno caratteristiche uguali tra di loro, ad eccezione del fatto che uno è più grande in termini di popolazione rispetto all’altro. Qualora non vi fosse alcuna cooperazione tra i due paesi, sicuramente il paese più piccolo sarebbe incentivato a ridurre, per esempio, l’aliquota fiscale sul capitale e a mantenerla a livelli più bassi rispetto all’altro paese, poiché così facendo la perdita di gettito dovuta da una diminuzione dell’aliquota d’imposta sarebbe più che compensata dalla maggiore base imponibile che esso riuscirebbe ad attirare. Intuitivamente il passaggio ad una cooperazione tra i due paesi porterebbe uno svantaggio al paese più piccolo poiché esso non sarebbe più in grado di attirare le imprese estere. Per arrivare dunque ad una soluzione cooperativa e coordinata, il paese più grande dovrebbe attuare dei sistemi di compensazione nei confronti dell’altro paese allo scopo di convincerlo ad aderire al coordinamento. In questo modo, entrambi i paesi perseguirebbero dei vantaggi: il paese più grande non perderebbe base imponibile poiché le imprese locali non avrebbero nessun incentivo a spostarsi in un paese dove l’aliquota fiscale non è minore; mentre il paese più piccolo non ha bisogno di ridurre le aliquote d’imposta per attirare nuova base imponibile poiché la differenza di gettito verrebbe compensata attraverso pagamenti di compensazione che l’altro paese gli corrisponderebbe (Grazzini e Petretto, 2004).

Concludendo brevemente questa parentesi, le implicazioni relative alla teoria dei giochi applicate in questo contesto trovano notevole riscontro nelle

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problematiche connesse alla concorrenza fiscale nell’Unione Europea. In assenza di un organo centrale che si occupi della politica economica e fiscale all’interno della Comunità Europa, ogni paese è libero di prendere decisioni indipendenti inerenti al proprio sistema fiscale e poiché la struttura che assume quest’ultimo può andare ad incidere sulla base imponibile degli altri paesi, è molto probabile che la situazione all’interno dell’Unione Europea sia Pareto-inefficiente. Come si avrà modo di vedere nel successivo capitolo, l’Unione Europa è caratterizzata da una concorrenza fiscale importante che ha preso piede man mano che il processo di integrazione europea si è sviluppato con il tempo. Tuttavia, seppur le scelte delle variabili fiscali non siano Pareto-efficienti, non è detto che esse siano migliorabili. Infatti, il miglioramento descritto dalla teoria dei giochi secondo cui è possibile migliorare la situazione di alcuni giocatori senza peggiorane quella di altri, sembrerebbe essere poco applicabile in un contesto di concorrenza fiscale tra paesi, se non appunto attraverso un coordinamento fiscale basato su meccanismi di compensazione. Il motivo è che tali implicazioni non definiscono il senso dell’inefficienza poiché esse non esprimono quale, per esempio, possa essere il livello ottimo di aliquota fiscale sui redditi da capitale e, nello stesso momento, non permettono di poter analizzare se tale aliquota d’imposta possa essere troppo elevata o troppo bassa (Bagello, 2000).

1.2.2 La mobilità dei fattori produttivi: il capitale

Un ultimo aspetto da considerare che si ricava dalla definizione di concorrenza fiscale di Keen è la mobilità del capitale. Infatti, l’autore dice che l’oggetto della concorrenza fiscale sono i “cespiti dotati di mobilità”. Questo è un punto importante quando si parla di questo fenomeno poiché è grazie alla caratteristica mobile del capitale da cui può nascere un processo di concorrenza fiscale tra paesi. Quando si parla di capitale, si intende uno dei tre fattori produttivi (gli

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altri due sono la terra e il lavoro) che è costituito da quelle risorse che sono necessarie (come ad esempio gli impianti, le scorte o le risorse di natura finanziaria) per dare avvio ad un’attività d’impresa. Dunque, quando si parla di mobilità dei capitali non si può non fare un piccolo cenno alla tassazione sulle società e connetterla al fenomeno della concorrenza fiscale (Questo paragrafo e i

successivi due sotto-paragrafi si basano sul lavoro di Panteghini).

1.2.3 La tassazione delle società

Al giorno d’oggi la tassazione sulle società e sulle attività d’impresa costituisce uno dei principali mezzi d’imposizione utilizzati nei sistemi tributari moderni. L’attività d’impresa può essere svolta sotto forma di strutture organizzative diverse. Nello specifico, se ne possono individuare due a secondo dell’autonomia patrimoniale dell’imprenditore o dei soci:

- Impresa individuale o società di persone: in questo caso l’autonomia patrimoniale si dice essere imperfetta in quanto l’imprenditore o i soci sono chiamati a rispondere illimitatamente e solidalmente con il proprio patrimonio personale delle obbligazioni assunte dall’impresa o dalla società di persone;

- Società di capitali: in questo caso invece l’autonomia patrimoniale si dice essere perfetta in quanto i soci rispondono dei debiti sociali solo limitatamente al patrimonio conferito nella società. Di conseguenza, sarà la società stessa ad essere responsabile delle proprie obbligazioni assunte (De Angelis, 2017).

Sotto il profilo della tassazione, il reddito prodotto da un’impresa individuale viene tassato in capo all’imprenditore stesso facendo confluire i redditi d’impresa nei redditi complessivi del soggetto che vengono poi tassati con un’imposta sui redditi personali. Questo metodo di tassazione viene chiamato “tassazione per trasparenza”. Per quanto riguarda invece la società, come detto in precedenza è

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necessario distinguere due tipi di società sempre in base all’autonomia patrimoniale: le società di persone la cui tassazione dei redditi segue lo stesso metodo che viene applicato nel caso delle imprese individuali, ossia la “tassazione per trasparenza”; le società di capitali il cui reddito prodotto viene tassato direttamente in capo alla società applicando un’aliquota fissa, che in Italia è del 24% (IRES) (Logozzo, 2017).

La tassazione sulle società di capitali ha sia dei vantaggi che dei svantaggi. L’elencazione di questi esula dai fini di questo elaborato, tuttavia non si possono tralasciare alcuni aspetti, soprattutto quelli legati alla mobilità dei capitali. Infatti, la tassazione sui redditi delle società di capitali può essere vista come uno strumento di politica industriale ed economica e ciò rappresenterebbe un vantaggio: la leva fiscale può essere utilizzata come strumento per indurre gli imprenditori con le loro società ad intraprendere determinate scelte piuttosto che altre. Per esempio, andando a modificare il livello di tassazione, i policy-maker possono spingere le imprese a localizzarsi in zone economicamente svantaggiate. Basti pensare alla creazione delle cosiddette Zone Economiche Speciali (ZES), ossia quelle aree geografiche dove vige una legislazione fiscale più vantaggiosa rispetto alla legislazione dello stesso Stato di appartenenza (De Luca, 2017). La città di Shenzhen, in Cina, è uno di tanti esempi dove il governo nazionale ha istituito una Zona Economica Speciale con lo scopo di sviluppare un’area economicamente svantaggiata facendo leva su una legislazione fiscale ed economica più favorevole per le imprese, attirando così nuovi capitali esteri (De Blij e Murphy, 2002).

Tuttavia, l’introduzione di un’imposta societaria ha anche degli svantaggi. Facendo un’analisi sempre dal punto di vista di mobilità dei capitali e degli investimenti, il lato negativo del vantaggio appena descritto è che la tassazione sulle società potrebbe creare effetti distorsivi nelle scelte, soprattutto in termini di decisione delle forme di finanziamento, della localizzazione e del livello degli investimenti, dell’assunzione di forza lavoro etc. In Italia, per esempio, nel 1994

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è stata emanata la cosiddetta “Legge Tremonti” che prevedeva una detassazione degli investimenti qualora il livello di quest’ultimi in un determinato esercizio fosse maggiore della media degli investimenti effettuati nei cinque esercizi precedenti. Il risparmio d’imposta che potevano ottenere le imprese da questa forma di detassazione incentivava le imprese a concentrare tutti gli investimenti pianificati a lungo termine in un solo esercizio, creando di conseguenza una distorsione nelle scelte.

Un altro aspetto negativo da considerare riguardo la tassazione sui redditi prodotti dalle società è che essa può essere causa di concorrenza fiscale. La concorrenza fiscale con il passare dei decenni è diventato un fenomeno che man mano ha preso sempre più campo a causa del progredire della globalizzazione e del libero commercio. E poiché i capitali si possono muovere in tempi molto rapidi da un paese all’altro, in tal contesto i paesi concorrono garantendo benefici fiscali con lo scopo di attirare nuove risorse.

Il fenomeno della concorrenza fiscale connesso alla mobilità dei capitali è stato spiegato e descritto attraverso un modello dall’economista americano Roger Gordon nel 1986.

1.2.4 Il modello di Gordon (1986)

L’ipotesi principale su cui si basa il modello di Gordon è che vi siano due fattori produttivi: il capitale, caratterizzato da una maggiore possibilità di mobilità; e il lavoro, che è invece considerato meno mobile rispetto al primo. Data questa prima considerazione, ogni paese che sia interessato a raccogliere gettito sarà incentivato a tassare maggiormente il lavoro poiché è considerato il fattore meno mobile. Dall’altro lato, risulta più opportuno detassare il capitale, o comunque tassarlo in maniera minore, allo scopo di attirare nuovi capitali dall’estero in quanto risulta essere il fattore più mobile.

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Per descrivere il suo modello, Gordon è partito dalle seguenti assunzioni: 1) Ci sono due fattori produttivi: il lavoro (L) e il capitale (K);

2) Si assume che il lavoro sia costante;

3) k= remunerazione del capitale

w = remunerazione del lavoro

i = tasso d’interesse mondiale, in quanto esso non dipende né dalla

localizzazione né dalla nazionalità del proprietario del fattore produttivo; 4) C’è una funzione di produzione: q = f(K,L).

La condizione di primo ordine che massimizza il profitto di un’impresa è (vedi Appendice A):

𝑀𝐴𝑋 π →𝜕π

𝜕𝑘= 0 → 𝐹𝑘(𝐾, 𝐿) = 𝑖

(1.1)

che indica il prodotto marginale del capitale.

5) Le imprese operano in un mercato di concorrenza perfetta, ciò significa che realizzano profitti nulli.

Per comprendere al meglio il ragionamento del modello, è necessario distinguere tre differenti situazioni di equilibrio: una situazione in cui non c’è alcuna tassazione sulle società, una situazione dove viene introdotta la tassazione (t) e una situazione in cui viene ridotta l’aliquota fiscale.

Di seguito, verranno descritte ed illustrate le differenti situazioni di equilibrio anche grazie al supporto di grafici.

Situazione di equilibrio 1: Assenza di tassazione

Innanzitutto, viene ipotizzato che la curva di offerta del capitale (i) sia infinitamente elastica e che la curva di domanda del capitale (Fk [K,L]) sia

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inclinata negativamente. Come mostrato nella figura 1, la quantità di capitale ottimale investito è K*. Nel punto di equilibrio A, il profitto marginale del capitale

(Fk [K,L]) eguaglia il suo costo marginale, cioè il tasso d’interesse i. In assenza di

tassazione il capitale detenuto nel proprio paese di residenza restituisce una remunerazione i che è uguale alla remunerazione che si otterrebbe investendo lo stesso capitale all’estero.

Figura 1 - Situazione di equilibrio in assenza di tassazione sul capitale.

Fonte: Figura 1.1 di Panteghini (2014), p. 17.

Pertanto, non vi sarebbe nessun incentivo a spostare il capitale da un paese all’altro.

La figura mette poi in evidenza due aree: l’area A, quella al di sotto della retta i, che rappresenta la remunerazione del fattore capitale (K) e l’area B, quella al di sopra della retta i, che invece rappresenta la remunerazione del fattore lavoro (L).

Situazione di equilibrio 2: Introduzione della tassazione

Si suppone ora che venga introdotta un’imposta sul capitale rispetto alla situazione di equilibrio in assenza di tassazione.

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Nel momento in cui viene introdotta un’imposta sul capitale con aliquota t in un determinato Paese, il tasso lordo diventerebbe i + t. Nella figura 2 si può notare come la retta del tasso d’interesse i si sposti verso l’alto di un ammontare pari all’aliquota introdotta (+ t), determinando di conseguenza uno spostamento del punto di equilibrio dal punto A al punto B.

Figura 2 - Situazione di equilibrio in presenza di un’aliquota fiscale sul capitale.

Fonte: Figura 1.2 di Panteghini (2014), p. 18.

Per quanto riguarda la condizione di massimizzazione del profitto, la nuova funzione diventa:

𝑀𝐴𝑋 𝜋 = 𝑓(𝐾, 𝐿) − (𝑖 + 𝑡)𝐾 − 𝑤𝐿 (1.2)

da cui derivando la funzione rispetto a k e ponendo MAX π = 0, si trova la condizione di primo ordine:

𝑀𝐴𝑋 π →𝜕π

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14

Come si può notare dalla figura 2, l’introduzione dell’imposta va a modificare il livello di capitale investito nel paese. In particolare, esso si riduce passando da un livello K* ad un livello inferiore pari a KI. L’introduzione dell’imposta ha fatto

sì che una parte di capitale che era investito nel paese d’origine venga investito in un paese estero dove l’aliquota d’imposta sul capitale è più bassa, causando una fuga di capitali. Nello specifico, il capitale investito sarà sempre dello stesso ammontare (quindi i proprietari di capitali non riducono il livello di capitale investito), solo che la porzione di segmento K*- KI viene investita all’estero.

Per comprendere al meglio gli effetti derivanti dall’introduzione della tassazione, è necessario analizzare la remunerazione del capitale. Poiché la porzione di capitale K*- KI viene investita all’estero, l’area E rappresenta il rendimento del

capitale investito all’estero che offre una remunerazione pari a i. La remunerazione lorda del capitale investito nel paese d’origine è invece rappresentato dall’area AC, dove l’area A rappresenta il rendimento netto del capitale mentre l’area C rappresenta il gettito dello Stato derivante dalla tassazione sul capitale. È molto importante sottolineare che il rendimento totale del capitale non cambia ed è pari all’area AE. Il motivo di questo effetto sta nel fatto che i proprietari dei capitali, al fine di ottenere lo stesso rendimento, fanno ricadere l’onere dell’imposta sui lavoratori attraverso una diminuzione dei salari, traslando di fatto l’imposta dal cosiddetto contribuente di diritto (cioè il proprietario del capitale, che dovrebbe sostenere la tassazione) al contribuente di fatto (ovvero colui che sostiene realmente il carico tributario, che nel caso è il lavoratore). Infatti, confrontando la figura 1 con la figura 2 si può notare come il rendimento del capitale non sia mutato, mentre il rendimento del fattore lavoro nel momento in cui viene introdotta l’imposta sul capitale diminuisce. Nello specifico, una parte di rendimento del lavoro della situazione ante-imposta si trasforma in gettito per lo Stato (area C) e in eccesso di pressione fiscale3 (area P)

3 Per eccesso di pressione fiscale si intende una situazione di inefficienza all’interno di un sistema

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nel momento in cui viene introdotta l’aliquota fiscale sul capitale, causando di fatto una riduzione del rendimento netto del fattore lavoro (area B).

Si può concludere dicendo che l’introduzione di un’imposta crea un duplice effetto negativo per il fattore lavoro: i lavoratori saranno coloro che realmente sosterranno l’onere fiscale e la stessa imposta sul capitale determinerà una perdita di risorse che era destinata agli stessi a causa della traslazione dell’imposta che avverrà attraverso una diminuzione dei salari.

Situazione di equilibrio 3: Riduzione della tassazione

Nella terza ed ultima situazione, si suppone che l’aliquota fiscale sul capitale venga ridotta. Attraverso questo schema conclusivo, analizzato insieme al precedente, è possibile affermare che una riduzione delle aliquote fiscali sul capitale possa dare luogo ad una concorrenza di tipo fiscale tra paesi.

Applicando una riduzione dell’imposta sul capitale da t a tE, si può notare dalla

figura 3 come il livello di capitale investito nel paese aumenti da KI a KII. Questo

aumento di capitale investito è dato dal fatto che grazie alla riduzione dell’imposta, il paese è riuscito ad attirare nuovi capitali esteri spinti da una minore pressione fiscale. In particolare, l’area G delimita il rendimento del nuovo capitale che entra nel paese.

Inoltre, anche il fattore lavoro ne trae beneficio da una riduzione dell’aliquota fiscale sul capitale. Sempre dalla figura 3 si può notare che il rendimento del fattore lavoro aumenta e se prima della riduzione dell’imposta era rappresentato dall’area A, ora invece è rappresentato dall’area ABC. Ciò accade perché grazie ad una minore pressione fiscale, i proprietari dei capitali traslano in maniera minore l’imposta nei confronti dei lavoratori e ciò permette un aumento dei salari.

tutte quelle risorse che non costituiscono né un surplus delle imprese e dei consumatori né gettito per lo Stato. Sono risorse che vanno “perse” nel momento in cui viene introdotta un’imposta (Gayer e Rosen, 2013).

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L’ultimo effetto che si può riscontrare da una riduzione dell’imposta sul capitale riguarda il gettito per lo Stato e l’eccesso di pressione. Per quanto riguardo il gettito dello Stato, una minore aliquota fiscale implica una minore entrata. Infatti, lo Stato perderebbe in termini di entrate derivanti dalle imposte l’area B.

Figura 3 – Situazione di equilibrio in presenza di una diminuzione dell’aliquota

fiscale sul capitale.

Fonte: Rizzi, 2018, p. 16.

Tuttavia questa perdita di gettito viene però compensata dal nuovo capitale estero che è stato investito: un aumento del livello di capitale implica maggiore materia imponibile da tassare, seppur con un’aliquota minore. Il nuovo gettito per lo Stato risulta essere rappresentato dall’area DE.

Per quanto riguarda invece l’eccesso di pressione, essa è diminuita. In linea generale una riduzione delle imposta provoca una diminuzione anche dell’eccesso di pressione. In questo specifico caso, se prima della riduzione dell’imposta l’eccesso di pressione era costituita dall’area CEP, ora invece è costituita dall’area P.

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Concludendo brevemente quanto detto sopra, andando a tassare il capitale si crea un duplice effetto negativo: da un lato l’imposta verrà pagata di fatto dai lavoratori poiché viene traslata in questa direzione a causa di una diminuzione dei salari; dall’altro lato l’imposta sul capitale determinerà un eccesso di pressione le cui risorse appartenevano alla remunerazione dei lavoratori in assenza di tassazione. Per evitare che ciò accada, sarebbe necessario invece tassare maggiormente il fattore immobile, ossia il lavoro, e detassare il fattore mobile, cioè il capitale. Guardando la cosa sotto il punto di vista di un paese che ha intenzione di attuare una politica tributaria basata sulla riduzione della pressione fiscale, la detassazione del capitale farà in modo che la quantità di capitale investita nel paese ritorni ad essere di equilibrio e che quindi non si verifichi alcun disinvestimento. È ora facilmente intuibile come una simile politica tributaria attuata da un singolo paese possa appunto dar il via ad un processo di concorrenza fiscale, allo scopo di rendere più appetibile investire del capitale in un paese dove la pressione fiscale è più bassa rispetto ad altri paesi.

1.3 I DIVERSI APPROCCI DELLA CONCORRENZA FISCALE

Prima di proseguire descrivendo le diverse tipologie di concorrenza fiscale che si possono riscontrare, è necessario fare una piccola nota. Finora si è parlato di una concorrenza fiscale tra paesi, ossia tra paesi che sono indipendenti tra di loro. In questo caso la concorrenza fiscale sarebbe un problema di tassazione internazionale. Tuttavia nel proseguimento di questo capitolo si parlerà prevalentemente di concorrenza fiscale tra giurisdizioni ubicate all’interno di uno Stato federale. Ciò si rende necessario in quanto le successive teorie economiche esposte, sono state sviluppate tenendo in considerazione un contesto federale come quello degli Stati Uniti.

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1.3.1 Concorrenza fiscale verticale e concorrenza fiscale orizzontale

Nell’ambito della concorrenza fiscale tra giurisdizioni è possibile trovare sia relazioni di tipo verticale che relazioni di tipo orizzontale. Quando si parla della cosiddetta concorrenza fiscale verticale, si intende quel tipo di concorrenza fiscale tra giurisdizioni che sono situate a diversi livelli gerarchici all'interno della stessa struttura di uno Stato e con diversi gradi di autonomia e potere (ad esempio, si potrebbe avere una concorrenza fiscale tra Stato e regione) (Grazzini e Petretto, 2014). Quando invece si parla di concorrenza fiscale orizzontale, si intende quel tipo di concorrenza fiscale tra Stati sovrani e autonomi oppure tra giurisdizioni che si trovano allo stesso livello giuridico all'interno dello stesso Stato. Dunque, nel secondo caso, quando le giurisdizioni si trovano allo stesso livello (come ad esempio le regioni), ciò che fondamentalmente può nascere è una lotta di tipo “orizzontale” per l'attrazione di fattori mobili (Enciclopedia Treccani-Dizionario di Economia e Finanza (2012), Concorrenza fiscale). Questa mobilità delle basi imponibili tra le varie giurisdizioni che sono poste allo stesso livello gerarchico può richiedere un intervento dell'autorità superiore al fine di ristabilire l'equilibrio, poiché possono scatenarsi sia fenomeni di esportazione fiscale4 che

di una corsa al ribasso delle aliquote fiscali (la cui espressione inglese è race to the

bottom) (Goodspeed, 1998).

Nelle relazioni di tipo verticale, invece, i principali conflitti nascono poiché esiste una stretta interdipendenza tra le decisioni assunte nei diversi livelli. Ad esempio, ciò potrebbe accadere perché due differenti giurisdizioni poste ad un livello diverso l’una dall’altra desiderano modificare la stessa base imponibile. A tal proposito, la concorrenza verticale potrebbe essere regolata da un possibile sistema normativo e regolativo posto in essere dagli organi istituzionali superiori

4 Secondo Goodspeed (1998), quando una giurisdizione ha un qualche vantaggio competitivo

(perché per esempio può essere un centro finanziario), può tassare maggiormente quei soggetti o attività che ricercano questo vantaggio. Si parla dunque di esportazione fiscale, in quanto i non residenti finanziano servizi e beni pubblici che non usufruiscono.

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e potrebbe essere caratterizzata da meccanismi atti a risolvere i conflitti di concorrenza tra giurisdizioni. Il grado di intervento dei livelli superiori su quelli inferiori, sia di natura giuridica attraverso la regolamentazione e la delimitazione delle competenze fiscali, sia di natura economica principalmente attraverso trasferimenti intergovernativi5, determinerà non solo il grado di concorrenza

verticale in sé, ma influenzerà anche il grado di concorrenza orizzontale che potrebbe verificarsi a livelli inferiori (Grazzini e Petretto, 2004). La concorrenza fiscale, così come verrà analizzata in seguito, è esattamente adattata al concetto di concorrenza di tipo orizzontale.

1.3.2 Concorrenza fiscale dannosa e concorrenza fiscale benefica

In un ambito di concorrenza tra giurisdizioni (che a livello internazionale è particolarmente incentrato prevalentemente sulle relazioni di tipo orizzontale), la concorrenza può essere vista sotto altri due aspetti (Questo paragrafo si basa

principalmente sul lavoro di Grazzini e Petretto, 2004).

Sotto un primo aspetto, la teoria economica ha constatato l'esistenza di una

concorrenza fiscale dannosa, che viene causata dalla mera interazione tra

giurisdizioni. La concorrenza fiscale dannosa si verifica nel momento in cui le giurisdizioni diminuiscono la propria pressione fiscale sui fattori caratterizzati da maggiore mobilità allo scopo di attirare nuovi investimenti al proprio interno. La conseguenza di questo fenomeno è che si innesca una reazione a catena per cui le altre giurisdizioni, per sopperire al deflusso dei propri capitali, reagiscono riducendo a loro volta la pressione fiscale. Si innesca così una corsa al ribasso delle aliquote fiscali. Nel momento in cui una determinata giurisdizione dà vita

5 Come è stato analizzato nel paragrafo precedente relativo alla teoria dei giochi applicata in un

contesto di concorrenza fiscale, attraverso dei trasferimenti compensativi tra diverse giurisdizioni è possibile dare luogo ad un coordinamento fiscale che ha lo scopo di limitare la concorrenza fiscale.

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ad una corsa fiscale al ribasso, l'effetto di queste misure su altre giurisdizioni pone quest’ultime nel dilemma di valutare un qualche tipo di risposta che, in breve, potrebbe consistere nell’adottare misure della stessa natura, ossia replicare le medesime misure adottate dall’altra giurisdizione con lo scopo di difendersi dagli effetti di una politica di concorrenza fiscale6. Facendo nuovamente

riferimento alla teoria dei giochi, tale situazione a cui ci si trova di fronte è molto simile al dilemma del prigioniero7. Dunque, il modello prevede che il risultato di

questo gioco nel campo della concorrenza fiscale tra giurisdizioni sia lo stesso: una corsa al ribasso. Tuttavia, come sottolinea anche la teoria economica, è possibile cambiare gli incentivi dei partecipanti attraverso un'opzione di cooperazione, soprattutto se vengono stabilite sanzioni per i soggetti che scelgono di non cooperare oppure vengano istituiti meccanismi di compensazione. In questo modo, le giurisdizioni potrebbero coordinarsi per fissare, ad esempio, livelli minimi di tassazione che non mettano a repentaglio l’equilibrio. Nonostante ciò possa sembrare semplice, il gran numero di partecipanti e la molteplicità degli interessi possono rendere molto difficile l'adozione di strategie di coordinamento. La concorrenza fiscale vista sotto questo aspetto produce un equilibrio di lungo periodo che, come si è visto in precedenza, è considerato Pareto-inefficiente. Per questo motivo, la concorrenza fiscale che produce tale effetto si dice che sia dannosa.

Infine, sotto un secondo aspetto, non è da escludere che sotto alcuni punti di vista la concorrenza fiscale possa essere benefica, poiché potrebbe portare a dei risvolti positivi per il benessere della collettività con uno spreco ridotto di risorse pubbliche.

6 Tale comportamento prende il nome di beggar-thy-neighbor, ossia quel tipo di politica che

produce effetti benefici solo al paese che adotta una qualche politica economica a discapito di altri paesi (Enciclopedia Treccani-Dizionario di Economia e Finanza (2012), Beggar-thy-neighbor, politica di).

7 Nel dilemma del prigioniero la situazione a cui si giunge non è un equilibrio di Nash bensì ad

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1.3.3 Le esternalità create dalla concorrenza fiscale

La concorrenza fiscale, come si è avuto modo di intuire arrivati fino a questo punto, è un fenomeno che può creare dei problemi distorsivi per i sistemi fiscali delle giurisdizioni con situazioni di inefficienza (Questo paragrafo si basa sul lavoro Grazzini e Petretto, 2004). Gli effetti negativi che possono venire a crearsi vengono comunemente chiamate esternalità negative. Tuttavia la concorrenza fiscale può creare anche degli effetti positivi che vengono definiti esternalità positive. Il filone di ricerca inerente alle esternalità provocate dalla concorrenza fiscale è molto ampio e un approfondimento di questo esula dagli obbiettivi del seguente capitolo. Tuttavia non si possono trascurare almeno gli aspetti principali.

Quando si parla di esternalità, si intende quell’effetto che indirettamente viene creato nei confronti di altre giurisdizioni nel momento in cui un governo intraprende determinate decisioni in ambito fiscale. Queste esternalità si possono definire come esternalità fiscali e nascono nel momento in cui l’azione fiscale di una determinata giurisdizione ha ripercussioni sul bilancio pubblico di altre. Se una giurisdizione, per esempio, diminuisse la propria aliquota fiscale sul capitale allo scopo di attirare nuovi investimenti nel proprio territorio, ne consegue che ciò accadrebbe a danno di altre giurisdizioni, provocando a queste un calo dei loro investimenti (e dunque una diminuzione della base imponibile) e del gettito fiscale. Questa giurisdizione ha dunque causato un’esternalità negativa sulle altre giurisdizioni. Viceversa, se invece che una diminuzione avesse attuato un aumento dell’imposta sul capitale, si verifica l’effetto contrario: un’emigrazione degli investimenti verso l’estero e una diminuzione delle entrate fiscali che corrisponde ad un aumento del gettito di altre giurisdizioni. In questo caso si parla di esternalità positiva.

Le esternalità finora descritte fanno riferimento alla concorrenza fiscale orizzontale, ma casi di esternalità possono nascere anche da una concorrenza

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fiscale di tipo verticale. Tali esternalità sorgono per il fatto che in una federazione i differenti livelli di governo tassano la medesima base imponibile. Ciò può accadere nel momento in cui i livelli inferiori di governo introducono delle sovraimposte8 o delle addizionali9. Anche nel caso delle esternalità fiscali verticali

esiste un legame tra l’imposta applicata dal governo superiore e l’imposta applicata dal governo di livello inferiore. Questo legame crea un effetto opposto rispetto a quello che si crea in un contesto di concorrenza fiscale orizzontale. Quando il legame tra aliquota regionale e aliquota federale risulta essere positivo, l’esternalità subita dalla regione a causa di un aumento dell’imposta federale è negativa anziché positiva: il benessere della regione diminuisce poiché diminuisce il livello di base imponibile disponibile10. Ciò accade perché il

ragionamento viene fatto in termini verticali. Se invece lo stesso viene fatto in termini orizzontali, come più volte sottolineato, l’aumento di un’imposta da parte di una giurisdizione aumenta il benessere in un’altra giurisdizione.

8 La sovrimposta si ha quando il presupposto e l’imponibile di una determinata imposta

costituiscono presupposto e base imponibile per l’applicazione di un’altra imposta (Enciclopedia Treccani-Diritto Online (2015), Addizionali e sovraimposte).

9 L’addizionale consiste nel sommare all’aliquota del livello governativo superiore un’ulteriore

aliquota da parte di un livello di governo inferiore sulla stessa base imponibile. In pratica, alla stessa base imponibile vengono applicate due aliquote della stessa imposta: una il cui gettito spetta al governo superiore e una il cui gettito spetta al governo di livello inferiore (Enciclopedia Treccani-Diritto Online (2015), Addizionali e sovraimposte).

10 Poiché la concorrenza in questo senso si sviluppa in senso verticale, un aumento delle imposte

su una determinata base imponibile, che può essere ad esempio il reddito da capitale, induce le imprese a disinvestire una parte di questo capitale poiché la tassazione risulta diventare troppo elevata. Lo stesso discorso si può fare sui beni di consumo: se la tassazione su un determinato bene aumenta, i consumatori acquisteranno una quantità minore di quel bene. Questo è il motivo per cui la base imponibile di una giurisdizione posta a livello inferiore diminuisce (anziché aumentare) in seguito ad un aumento dell’imposta da parte del governo superiore.

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1.4 LE TEORIE ECONOMICHE A RIGUARDO DELLA CONCORRENZA

FISCALE

Nonostante la concorrenza fiscale esista da molto tempo, la teoria economica a riguardo è molto recente. Si iniziò a parlare di concorrenza fiscale negli Stati Uniti a cavallo tra il 1800 e il 1900, quando si manifestò una libera concorrenza tra gli Stati federali per convincere le grandi società a stabilirsi nella propria giurisdizione. Tuttavia all’epoca risultava essere un fenomeno ancora debole a causa dei sistemi fiscali non ancora sviluppati per incoraggiare la delocalizzazione fiscale. Inoltre, lo scarso sviluppo delle vie di comunicazione e dei trasporti rendevano difficile lo spostamento della base imponibile. Nel corso del 1900, nonostante lo sviluppo dei sistemi fiscali che hanno aumentato notevolmente la pressione fiscale sulle imprese, sono state erette numerose barriere alla mobilità transnazionale dei capitali (Yablon, 2007). Questo scenario ha contribuito al fatto che i primi lavori sulla concorrenza fiscale non erano basati su uno scenario internazionale, ma sono nati in un contesto di uno Stato federale come gli Stati Uniti, con l'obiettivo di studiare l'interazione tra i diversi livelli di giurisdizione: sia la concorrenza verticale tra l’autorità centrale e gli Stati federali, sia la concorrenza orizzontale tra gli stessi Stati federali.

1.4.1 Il modello di Tiebout (1956): la pietra miliare della teoria sulla

concorrenza fiscale

Il modello che può essere considerato la pietra miliare della teoria relativa alla concorrenza fiscale è stato presentato dall’economista e geografo americano Charles Tiebout nel 1956 (Questo paragrafo si basa principalmente sul lavoro di Tiebout, 1956). Quanto sostenuto dall’autore serviva per dimostrare che c’è un modello che lega l’offerta di beni pubblici ad un modello analogo a quello della

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concorrenza perfetta neoclassica per i beni privati. Infatti Tiebout assume che le comunità locali che si trovano a competere dal punto di vista fiscale siano

utility-takers, ovvero non sono in grado di poter influenzare da sole l’utilità degli

individui11.

Le assunzioni del modello

Le assunzioni del modello di Tiebout sono:

- Gli individui possono trasferirsi liberamente da una comunità locale12

all’altra e si stabilizzeranno dove la loro utilità è maggiore;

- Esistono un gran numero di comunità locali dove gli individui possono stabilizzarsi;

- Assenza di asimmetrie informative e costi di trasporto;

- Le comunità locali cercano di raggiungere le dimensioni ottimali e sono razionali tanto che cercano di tenere al di fuori del proprio territorio i cosiddetti cittadini free-rider13.

Queste assunzioni stanno ad indicare essenzialmente che gli individui possono trasferirsi da una comunità all'altra senza costi e che sanno tutto quello che c'è da sapere sui servizi forniti dai governi locali e sulle aliquote fiscali di tutti i governi locali.

Il modello

Il principio fondamentale su cui si basa il modello di Tiebout è che le idee della concorrenza tra imprese viste in precedenza possano essere portate nella sfera pubblica nell’ambito della fornitura della beni pubblici.

Il modello sostiene che se le comunità locali offrissero diversi beni e servizi

11 Proprio come nel modello di concorrenza perfetta dove le imprese sono price-takers.

12 Nel suo modello Tiebout fa riferimento ad uno Stato formato da comunità locali autonome. 13 Gli individui free-rider sono quei soggetti che beneficiano dell’utilizzo di risorse, beni e servizi

pubblici senza contribuire al pagamento degli stessi, di cui si fa carico la collettività (Enciclopedia Treccani-Enciclopedia Online (2019), Free rider).

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pubblici richiedendo per il finanziamento di essi il pagamento di imposte a somma fissa (lump sum tax), gli individui sarebbero in grado di effettuare delle valutazioni personali e razionali sul livello di beni e servizi offerto in relazione al costo, in termini di imposta, che essi dovrebbero sostenere. (Grazzini e Petretto, 2004).

Di conseguenza, una volta effettuata questa valutazione, gli stessi individui si spostano da una comunità locale all’altra massimizzando la loro utilità. In altre parole, gli individui si trasferiscono da un posto all’altro in base alla loro preferenza in ambito di imposte/beni pubblici offerti dalla comunità locali in cui decidono di spostarsi. Questo sistema viene chiamato anche con l’espressione inglese «voting with your feet», poiché sta ad indicare una condizione in cui un soggetto abbandona una situazione che non gli aggrada per spostarsi ad una situazione che viene considerata più vantaggiosa.

L’idea di Tiebout è che nell’ipotesi che i soggetti possano trasferirsi liberamente da una comunità all’altra, quest’ultime competono tra di loro sotto il punto di vista fiscale offrendo aliquote d’imposta sufficientemente ridotte per coloro che decidono di spostarsi all’interno del proprio territorio ma allo stesso tempo che siano sufficienti per finanziare un livello efficiente di beni e servizi pubblici. Infatti, nel spostarsi da una comunità all’altra i soggetti tengono in considerazione anche il livello di fornitura di beni e servizi pubblici.

Conclusioni ed evidenze

Analogamente a come la concorrenza perfetta tra imprese porti ad una situazione di efficienza di mercato, questo modello sostiene che le scelte individuali su dove spostarsi porterebbero ad un equilibrio efficiente nella fornitura di beni pubblici locali secondo i gusti dei residenti, dividendo così la popolazione in comunità ottimali e raggiungendo l’efficienza anche sotto questo punto di vista. Secondo la visione di Tiebout, la concorrenza fiscale sarebbe «efficiente» e non provocherebbe alcun effetto negativo.

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Tuttavia le assunzioni del modello sono molto semplicistiche e, come è stato evidenziato in precedenza, la concorrenza fiscale sembrerebbe condurre verso una situazione di inefficienza più che di equilibrio come sostenuto dallo stesso autore. Il motivo principale è che in realtà non esiste una perfetta mobilità degli individui e che si verificano delle esternalità interregionali. Infatti il comportamento adottato dalle comunità locali, atto ad incrementare il livello di benessere dei propri cittadini, conduce ad una perdita di benessere per gli individui residenti nelle altre comunità (Grazzini e Petretto, 2004)

1.4.2 La teoria di Oates (1972). Il cambiamento della concezione di concorrenza

fiscale: da una concorrenza fiscale “efficiente” a una concorrenza fiscale “dannosa”

Prendendo come riferimento il modello di Tiebout, Wallace E. Oates (noto professore americano di economia pubblica e ambientale) sottolineò come sarebbe stato difficile instaurare un sistema fiscale improntato su uno schema di federalismo fiscale efficiente ed equo in cui sia i beni che le persone si trasferiscono liberamente da una giurisdizione all’altra (Questo paragrafo si basa

sul lavoro di Oates, 1972).

Con la sua teoria inerente al federalismo fiscale Oates ha posto le basi per un cambiamento di modello, passando da una visione «efficiente» ad una visione «dannosa» della concorrenza fiscale.

Le assunzioni

La teoria di Oates si basa sulle seguenti assunzioni: - Esistono n regioni identiche fra loro;

- Vi sono due fattori di produzione: il capitale che è un fattore mobile la cui dotazione è fissa e il lavoro che è un fattore immobile;

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- I beni e servizi pubblici vengono finanziati attraverso un’imposta sul capitale.

La teoria

Tiebout, nel suo modello, proponeva l’utilizzo di un’imposta diretta a somma fissa per finanziare la spesa pubblica. Tuttavia Oates sosteneva che la proposta di Tiebout poteva funzionare solo in un mondo ideale dove ci sarebbe un’equa distribuzione del reddito. Infatti, l’esistenza di disparità che caratterizza il mondo reale renderebbe necessario l’utilizzo di un sistema basato maggiormente sulla capacità contributiva. Lo stesso autore ha sottolineato come la maggior parte dei sistemi fiscali fossero (e sono tuttora) composti da un insieme di imposte che tassano i consumi, le proprietà e i redditi. Oates evidenziava il fatto che se una giurisdizione attua un programma fiscale redistributivo di questo tipo, ovvero aumentando le imposte su consumi, proprietà e redditi, si corre il pericolo che i soggetti danneggiati si trasferiscano in un’altra giurisdizione. A questo punto il collegamento con la concorrenza fiscale viene spontaneo: dopo aver messo in evidenza questi problemi, Oates ha analizzato da più vicino la realtà rispetto quanto fatto da Tiebout, rivoluzionando completamento il suo modello. Infatti, mentre Tiebout sosteneva che erano i cittadini che si spostavano da una giurisdizione all’altra a seconda di quanto fosse più favorevole la relazione imposte pagate-servizi ricevuti, Oates sosteneva come la mobilità ricadesse di più sui flussi di capitali più che sugli individui. Questa evidenza provoca un effetto negativo: l’imposizione di una tassa sul capitale favorirebbe una fuga di capitali verso l’estero con conseguente aumento dei livelli di disoccupazione nel territorio.

Ciò farebbe emergere una concorrenza fiscale tra giurisdizioni che cercheranno da un lato di attirare nuovi investimenti e dall’altro lato di proteggere le imprese locali attraverso un sistema di incentivi. Questa riduzione dell'onere fiscale accompagnata da una riduzione del gettito causerebbe una diminuzione

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dell’efficienza nei livelli di produzione e fornitura dei beni e servizi pubblici. Infatti, nel mantenere ridotte le aliquote fiscali sul capitale allo scopo di attirare nuovi investimenti dalle imprese “estere”, i governi locali manterranno la spesa pubblica ad un livello inferiore rispetto a quello in cui i benefici marginali eguagliano i costi marginali.

A tal proposito l’autore sottolineava che:

«Il risultato della concorrenza fiscale potrebbe portare verso livelli di produzione di servizi

pubblici locali meno efficienti. Nel tentativo di mantenere basse le aliquote fiscali per attirare gli investimenti delle imprese, i governi locali mantengono la spesa al di sotto di

quei livelli per i quali i benefici marginali equivalgono ai costi marginali.»14 (Oates,

1972).

Oltre ad evidenziare questo effetto negativo, Oates aveva previsto che i governi avrebbero compensato la loro perdita di gettito andando a tassare maggiormente i fattori meno mobili, ossia il lavoro e le proprietà immobiliari.

Infine, poiché la dotazione di capitale è fissa, Oates sosteneva che un’uscita del capitale da una determinata giurisdizione equivale all’entrata dello stesso in un’altra giurisdizione. Quest’ultima ne ricaverà un effetto positivo in quanto la produttività marginale del capitale aumenterà ad un livello superiore del suo costo marginale per un ammontare pari all’aliquota d’imposta.

Conclusioni ed evidenze

Oates è stato il primo ad esaminare gli effetti negativi di una concorrenza fiscale tra giurisdizioni derivante dalla tassazione di un fattore mobile come il capitale. In un tale contesto, secondo l’autore la concorrenza fiscale peggiorerebbe la situazione di efficienza all’interno delle giurisdizioni e rappresenterebbe un

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ostacolo alla competitività delle imprese, in quanto non darebbe la possibilità di realizzare programmi appositi per migliorarla.

1.4.3 Il modello base di concorrenza fiscale di Zodrow e Mieszkowski (1986):

gli spunti per la nascita di un processo di armonizzazione e coordinamento fiscale

Il modello di Zodrow e Mieszkowski è conosciuto come il primo “modello base della concorrenza fiscale”. Tale modello è noto poiché ha dato uno sviluppo matematico alla precedente teoria di Oates, anche se i calcoli e le formule verranno trascurati ai fini della comprensione dello stesso modello.

Uno degli aspetti principali del modello è che è stato preso come punto di riferimento per lo sviluppo di successivi modelli inerenti alla concorrenza fiscale e ha fornito i primi spunti per trovare delle soluzioni per limitare tale fenomeno (Zodrow, 2003)

Le assunzioni del modello

Il modello si basa sulle seguenti assunzioni:

- Si consideri una federazione composta da n regioni. Ogni regione è uguale all’altra sia in termini di livello di capitale presente nel proprio territorio (dunque dispongono della medesima base imponibile), sia in termini di sistema fiscale. Il sistema di imposizione è formato da un’imposta sul capitale (t) e da una cosiddetta head tax 15(h);

- Le loro politiche fiscali sono interdipendenti tra di loro, ossia un aumento delle imposte sul capitale da parte di una regione provoca uno spostamento di tale capitale in un’altra regione;

15 La head tax è un’imposta che ha un ammontare fisso per chiunque e non è proporzionale alla

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- Ogni regione ha una propria funzione di utilità che determina il benessere della collettività. Il benessere è dato dal consumo privato e dall’ammontare di beni e servizi pubblici che la regione fornisce ai suoi residenti. La funzione di utilità è data ui = Ui (Ci, Gi) dove:

o Ci = Consumo privato;

o Gi = Ammontare di beni e servizi pubblici;

- Il saggio marginale di sostituzione (SMS) è dato da: SMS = dUi / dGi

dUi / dCi

(1.4)

I prezzi sono considerati uguali a 1. Pertanto, la condizione necessaria affinché vi sia un’efficiente fornitura di beni e servizi pubblici è data da SMS=1. Se:

o SMS > 1 ci sarà una sotto-fornitura di beni e servizi pubblici; o SMS < 1 ci sarà una sovra-fornitura di beni e servizi pubblici; - L’imposta sul capitale è proporzionale, per cui viene meno la premessa del

modello di Tiebout secondo il quale i beni e servizi pubblici vengono finanziati mediante un’imposta a somma fissa;

- I residenti di ogni regione non si spostano in un’altra regione per accedere ad una migliore qualità di beni e servizi pubblici;

- La domanda di beni e servizi pubblici è omogenea, da cui nasce l’assunzione precedente;

- Il capitale è considerato esclusivamente mobile, anche se il suo valore rimane costante nel tempo. Inoltre, il capitale ha lo stesso tasso di rendimento;

- Con riferimento all’assunzione precedente, il capitale è libero di spostarsi da una giurisdizione all’altra e stabilirsi dove la produttività marginale è maggiore (Zodrow e Mieszkowski, 1986).

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Il modello

Nel loro modello base, Zodrow e Mieszkowski si chiedevano come viene influenzata la distribuzione del capitale attraverso la tassazione sul capitale e la head tax. Assumendo che tutte le regioni sono così piccole e che ogni singola regione non può influenzare il tasso di interesse, i due autori sono giunti alla conclusione che un incremento della tassazione sul capitale spingerebbe i proprietari di quest’ultimo ad investirlo in un’altra regione. Il motivo di questa conclusione è che se la tassazione del capitale aumenta, la produttività marginale del capitale deve aumentare anch’essa per mantenere valida la condizione secondo cui "produttività marginale del capitale = costo marginale del capitale". Di conseguenza, poiché il capitale è un fattore mobile, verrà investito in un paese dove l’aliquota fiscale è più bassa e si possa diminuire il costo marginale del capitale. Dunque, secondo Zodrow e Mieszkowski la tassazione del capitale influenzerebbe la distribuzione del capitale tra una regione all’altra. La stessa cosa se la sono chiesta a riguardo della head tax: cosa succederebbe se invece ci fosse una variazione di un’imposta a somma fissa? Il risultato a cui sono giunti Zodrow e Mieszkowski è che un incremento della head tax non comporta alcuna conseguenza sul capitale per cui un’imposta sul capitale è distorsiva mentre una tassa a somma fissa non lo è (Zodrow e Mieszkovski, 1986).

Arrivati a questa conclusione, Zodrow e Mieszkowski si sono poi chiesti quale sia il livello ottimale di aliquota fiscale sul capitale e di head tax se le regioni avessero la possibilità di scegliere liberamente il loro ammontare al fine di massimizzare l’utilità della collettività. La conclusione a cui sono arrivati i due autori è che se i governi potessero scegliere liberamente la tassa a somma fissa, allora il capitale potrebbe non essere tassato e i beni e servizi pubblici verrebbero forniti ad un livello efficiente. Di conseguenza, l’unica entrata a disposizione delle giurisdizioni è rappresentata dalla head tax. Ciò porterebbe ad una soluzione neutrale. Tuttavia se la head tax fosse esogeneamente fissata ad un livello troppo basso, l’imposta sul capitale dovrebbe venire necessariamente

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