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Recensione di "Una filosofia attraverso la storia della filosofia" di Giuseppe Riconda

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Academic year: 2021

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FILOSOFIA

Rivista fondata nel 1950 da Augusto Guzzo

Direttore scientifi co Vittorio Mathieu Comitato direttivo Andrea Poma, Gianluca Cuozzo, Sara Nosari, Luca Bertolino, Luca Taddio

Comitato scientifi co Evandro Agazzi (Genova)

Enrico Berti (Padova) Remo Bodei (Los Angeles) Antonio Brancaforte (Catania) Girolamo Cotroneo (Messina)

Tullio Gregory (Roma) Giuseppe Riconda (Torino) Emanuele Severino (Venezia)

Carlo Sini (Milano) Gianni Vattimo (Torino)

Direttore responsabile Marco Fracon Comitato di redazione

Sally Paola Anselmo, Alessandro Carrieri, Antonio Dall’Igna, Simona Porro, Damiano Roberi, Ernesto Sferrazza Papa, Greta Venturelli

Redazione

Dipartimento di Filosofi a e Scienze dell’Educazione Università degli Studi di Torino

Via Po, 18 – 10123 Torino e-mail: redazionefi losofi [email protected]

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FILOSOFIA

Rivista annuale

Quarta Serie – Anno LXII – 2017

burocrazia

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Per l’acquisto copie (solo della IV serie) contattare l’uffi cio commerciale di MIM Edizioni Srl telefonicamente o al seguente indirizzo e-mail: [email protected] La rivista è acquistabile anche on-line: http://www.mimesisedizioni.it

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] ISSN 0015-1823 ISBN 9788857546803 © 2017 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)

Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Tutti i diritti sono riservati

Registrazione presso il Tribunale di Cuneo, n. d’ordine 54 del 30 agosto 1949

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Sommario

burocrazia

Gianluca Cuozzo

Esercizi spirituali, horologia e mistica protocollare. Da Ignacio di Loyola a Franz Kafka

p. 9

Gian Vito Zani

Burocrazia e università nel neoliberalismo

p. 25

Benedetta Catanzariti

Angelologia e burocrazia: tecnologie del potere amministrativo

p. 41

Daina Habdankaite˙

Delay As (Non)Foundation of Bureaucracy

p. 59

Miscellanea

Barbara Lanati

“Enfant prodige” della menzogna

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Petar Bojanic´

Paura, terrore ed esplosione. “... l’importanza del fuoco e la costruzione di bombe...”

p. 91

Aldo Pardi

Nietzsche-fi gura, Nietzsche-concetto, Nietzsche-azione. Il triplice valore di Nietzsche nella prima ricezione italiana

p. 109

Enrico Cerasi

Su un divergente accordo. Perlini, Cacciari e la critica del principio-speranza

p. 123

José González Ríos

Presagi di un nuovo pensiero negli ultimi scritti di Cusano?

p. 139

Stanisław Czerniak

Sui legami categoriali della teoria della forma con l’antropologia fi losofi ca classica del XX secolo

p. 151

Vito Mancuso

Sulle malattie genetiche e la loro rivelazione

p. 163

Rassegna di libri

Giuliano Pontara, Quale pace? Sei saggi su pace e guerra, violenza e nonviolenza, giustizia economica e benessere sociale

(E. Peyretti)

p. 175

Giovanni Gusmini, L’uomo nel mistero di Cristo. L’antropologia teologica nelle opere di Niccolò Cusano (1404-1464)

(G. Venturelli)

p. 179

Giuseppe Riconda, Una fi losofi a attraverso la storia della fi losofi a, a cura di Marco Brignone (A. Carrieri)

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cura di Marco Brignone, Milano-Udine, Mimesis, 2017, 152 pp.

cura di Marco Brignone, Milano-Udine, Mimesis, 2017, 152 pp.

Il volume, edito da Mimesis per la collana Minimaphilosophica, si compone di otto sezioni – verbali fedeli di altrettanti incontri, avvenuti tra Marco Brignone, nel ruolo di intervistatore, e Giuseppe Riconda –, che rappresentano delle vere e proprie incursioni attraverso la vita e il pensiero del fi losofo che, come egli stesso afferma, si costituisce come un “tentativo di trovare una convergenza fra ontolo-gismo, esistenzialismo ed empirismo non riduzionistico” (p. 127). In effetti, la sua intera produzione si può considerare una tenace e rigorosa battaglia teorica contro il relativismo nichilista e ateo e contro ogni degenerazione del razionalismo – in-cluso quello metafi sico – che, affermando il primato della fi losofi a sulla religione e postulando l’assoluta negatività del fi nito, fi nisce per tradire Dio e negare ogni trascendenza. Una battaglia per la difesa della fi losofi a, poiché essa è la “difesa di questa dimensione [...] di questo aspetto metafi sico dell’uomo” (p. 135).

Infatti, se il razionalismo metafi sico conduce necessariamente all’ateismo, all’a-bolizione di ogni trascendenza e di ogni apertura all’Altro, il nichilismo rassicuran-te e climatizzato della società opulenta, annientando ogni valore – eccetto, beninrassicuran-te- beninte-so, quello economico – e scotomizzando il senso del tragico, fi nisce per rimuovere quella realtà positiva del male e della sofferenza umana, ridotta oggi a live

perfor-mance, strumento retorico o genere letterario. Invece, secondo Riconda interprete

di Kierkegaard, quello del male è il problema essenziale non solo della fi losofi a, ma dell’intera vicenda umana, la cui cronografi a è quella di un’eterna lotta del bene contro il male. Solo attraverso la viva esperienza del male e della tragedia – solo a coloro che James defi nisce i nati due volte – è possibile trascendere il finito e scorgere nel Totalmente Altro un orizzonte escatologico di salvezza. Estendendo e adattando una formula tipica del personalismo ontologico di Luigi Pareyson, il filosofo propone, dunque, una “meditazione sul fi nito che ritrova nel fi nito un elemento positivo senza per questo fare del fi nito qualcosa di autosuffi ciente” (p. 139), senza esaurire il mondo in esso, e afferma che “si può accentuare l’insuffi -cienza umana ma mai sino a giungere alla pura negatività, si può accentuare la positività umana ma mai sino a raggiungere l’autosuffi cienza” (p. 132).

Si tratta, per Riconda, di pervenire a un’idea di uomo come essere degno di infi nito rispetto, poiché partecipe della natura del divino, a un’idea di umanità che rimanda sempre a un Altro-da-sé, e che si defi nisce in rapporto alla trascendenza e a Dio e non in rapporto al Mondo alla sua fi nitezza; “l’esperienza del male si apre all’invocazione e alla speranza e un’ermeneutica dell’esperienza religiosa non

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può non chiudersi con un’ermeneutica dell’eschaton” (p. 138). Del resto, secondo l’autore, ogni “impegno morale esige un orizzonte metafi sico-religioso come fon-damento” (p. 70) e l’intera morale kantiana – dalla quale Riconda mutua l’idea del male non solo come sovversione dei principi (giacché la concezione di tradizione agostiniana del male come privazione è per lui inaccettabile) ma soprattutto come

menzogna, come principio di falsifi cazione e come prodotto della libertà umana –,

senza un tale orizzonte, si risolverebbe in un mero formalismo. “All’idea del male come banalità si accompagna quella del male come menzogna, del male che si presenta come bene” (p. 115). Infatti, se le fi losofi e positivistiche e idealistiche, ivi incluso il marxismo, hanno fallito anche e soprattutto in virtù dell’aver considerato il male come un momento costitutivo e storicamente necessario per l’affermazione progressiva di un bene terreno, il razionalismo strumentale vigente (o

strumentali-smo come egli lo defi nisce) è reo di aver naturalizzato il male, di averlo implicato

nel destino dell’uomo, nella sua stessa essenza. Sancire l’idea che i germi del male dimorino nella natura umana, ammonisce l’autore, signifi ca, però, inferirne che quella stessa natura vada in qualche modo contenuta, smussata e all’occorrenza re-pressa – se “all’essere è inerente la violenza, [...] il problema è quello di indebolire l’essere” (p. 105) –, ciò che il totalitarismo tecnocratico non manca di fare; ma ciò signifi ca anche privare l’uomo di qualunque responsabilità.

In una tale prospettiva, la fi losofi a postmoderna – che sognava la realizzazione terrena della Übermacht nietzschiana mediante la liberazione delle pulsioni e degli istinti umani o, nella sua declinazione post-human, mediante il potenziamento del corpo e l’ibridazione nanotecnologica – ha fi nito per rivelarsi la riverente ancella di una società, quella tecnocratica, che non fa che depotenziare e avvilire l’uomo, neutralizzando in lui ogni affl ato di trascendenza, e quindi di libertà, conducendo “l’umanità a rinunciare alle sue più alte possibilità e a dissiparsi in forme banali di vita” (p. 115). Secondo Riconda, infatti, il postmoderno – che propugna “un Nietzsche dissociato dalla tragedia e un Marx senza rivoluzione” (p. 79) –, ben lungi dal contestare l’esistente, ha assunto nei suoi confronti un atteggiamento non solo apologetico, ma condiscendente e celebrativo, e ha fatto dell’uomo un obbe-diente e acritico consumatore, incapace di operare alcuna scelta, eccetto quella, imposta, tra un gadget e l’altro.

D’altra parte, il tema della scelta è uno dei fuochi attorno al quale orbita il pen-siero dell’autore; questa, come afferma Gianluca Cuozzo nella Prefazione al testo, “in Riconda diviene una vera e propria categoria storiografi ca” (p. 9). Alla base dell’esperienza, non solo religiosa ma tout court, dunque, vi sarebbe sempre il mo-mento pascaliano-jamesiano della scommessa: l’ambiguità dell’universo impone una scelta inemendabile: “se io scelgo il bene piuttosto che il male, faccio una scommessa. Non ci sono delle ragioni che mi garantiscano la vittoria del bene” (p. 69), ma tale scelta è inevitabile e va costantemente affermata; se il male assoluto non può essere estirpato, l’uomo ha comunque il dovere di lottare contro ogni sua manifestazione storica, poiché se è vero che “non c’è libertà senza verità” (p. 119), è vero anche il suo opposto.

In un simile contesto teorico, la religione è assurta a garante della realizzazione del bene e alla fi losofi a è affi data la custodia di quella dimensione metafi sica e

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Filosofia

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trascendente dell’uomo, la quale, direbbe Walter Benjamin, “oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e [...] non deve farsi scorgere da nessuno” (W. Benjamin, Tesi

di fi losofi a della storia, in Idem, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, p. 75).

L’attività fi losofi ca, pertanto, non può che confi gurarsi come baluardo del singolo, contro quel “totalitarismo tecnocratico, che oggi ci minaccia. Ad una politica im-postata nei termini di progresso-reazione, eredità dell’Ottocento, occorre sostitu-ire una politica come difesa dell’individuo contro le forze totalitarie che tendono ad annullarlo” (p. 140).

Su questo il professore emerito non ha dubbi, quella che viviamo non è tanto una crisi economica, quanto una crisi etico-religiosa, derivata dall’aver concesso il primato dell’homo oeconomicous su quello metaphysicus, una patologia morale, maturata in seno a un nichilismo confortevole e totalmente dispiegato che abolisce, insieme con la verità, qualsivoglia alterità. Il mito del progresso, archetipo fonda-mentale della società tecnocratica – che si presenta come realizzazione terrena e mondana dell’utopia celeste –, cela in realtà il dramma del trionfo di un acosmismo nichilista e bioclasta, quello del Grande Inquisitore, che “diabolicamente vorrebbe negare [la libertà], mentre il Cristo viene a risvegliarla ed esaltarla” (p. 120).

“Se Dio non esiste, tutto è permesso”, tuonava Ivan Karamazov, atterrito dagli esiti della sua teodicea, ma, come afferma l’autore – che Cuozzo, nel titolo della sua

Prefazione, defi nisce appunto “Il quinto Karamazov” (p. 7) –, “noi non possiamo

fare il bene se non combattendo il male, sia il male reale che quello possibile” (p. 138), mantenendo quell’antinomia, tipica del personalismo ontologico, tra essere e peccato; antinomia che solo entro un orizzonte escatologico può trovare riso-luzione. In fondo, “l’eschaton non consiste solo [...] nella restituzione del bene con la repressione del male in atto, ma importa [...] la soppressione della stessa possibilità del male. È il puro trionfo del bene” (p. 129). Ed è questa, secondo il fi losofo, la colpa più grave del nietzschianesimo vigente: l’aver neutralizzato ogni trascendenza e bandito defi nitivamente l’eschaton. Solo una restaurazione dei va-lori etico-religiosi, una vera e propria rivoluzione morale – promossa “in nome di valori eterni che nelle condizioni di fatto sono negati” (p. 112) –, potrebbe disto-gliere l’umanità dalla sua volontaria maratona verso la possibile catastrofe. Volon-taria perché il male, secondo l’autore, non è un impulso naturale dell’uomo, non inerisce alla sua natura – ed è questa la più preziosa tra le eredità kantiane –, ma è un atto deliberato, frutto di “una libertà che ha in sé capacità distruttive terribili” (p. 119); possibile perché, a dispetto della sua elevata probabilità, la catastrofe non rappresenta – almeno non necessariamente – il destino dell’uomo: “penso che non si abbia diritto alla rassegnazione”, afferma Riconda, “si deve comunque tentare, l’impegno etico a far vincere il bene sul male in ogni momento della storia non deve essere mai abbandonato” (p. 147).

Il vero, come insegnava Pareyson, ha un che di inesauribile ed eterno, è qualcosa che va costantemente affermato e perennemente difeso, “da riprendere e far valere con impegno etico contro un possibile oblio o tradimento” (p. 31), ed il pensiero fi losofi co è rivelativo di quella verità, che è “luce che illumina” (p. 145). È questo il senso più profondo di una fi losofi a attraverso la storia della fi losofi a, l’idea di un “li-bero fi losofare radicato nella storia” (p. 45) del pensiero; l’idea, cioè, che vi sia un

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nesso indissolubile tra la fi losofi a e la sua storia, fra tradizione e pensiero. L’autore fa discendere tale sfumatura concettuale alla “scuola torinese” presso la quale si è formato: “da una parte si pensava che una fi losofi a senza riferimento alla storia del-la fi losofi a rischiava di fi nire una specie di farneticismo mentale, e dall’altra parte che una storia della fi losofi a senza fi losofi a sarebbe stata una pura cronaca” (p. 46).

La tradizione fi losofi ca, così come la storia umana, non è un sedimento inerme e granitico, né una panoplia informe da cui trarre, all’occorrenza, idee e norme preconfezionate, come da un menu – ed è questo, probabilmente, il più prezioso tra gli insegnamenti di Giuseppe Riconda –, ma “un legato da mettere a frutto”; essa, che va senz’altro distinta dal mero tradizionalismo, rappresenta nondimeno “l’avvento della verità nella storia” (p. 124). La tradizione del pensiero va dunque approfondita e reinterpretata con atteggiamento avventuroso – o pettinata contro-pelo, per dirla di nuovo con Benjamin (cfr. W. Benjamin, op. cit., p. 79) – “facen-done scaturire le possibilità fi nora inesplorate capaci di suscitare nuovi approfon-dimenti e a dar vita a nuovi svolgimenti” (p. 106).

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