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Quando a migrare è una donna: una prospettiva di genere nello studio delle migrazioni transnazionali.

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Academic year: 2021

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FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN SOCIOLOGIA E MANAGEMENT DEI SERVIZI SOCIALI LM-87

TESI DI LAUREA

QUANDO A MIGRARE E’ UNA DONNA: UNA PROSPETTIVA DI

GENERE NELLO STUDIO DELLE MIGRAZIONI

TRANSNAZIONALI.

Relatore:

Prof. Gabriele Tomei

Candidata:

Federica Tamburello

(2)

1

SOMMARIO

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO 1... 5

INQUADRIAMO IL FENOMENO: I MOVIMENTI MIGRATORI ... 5

1.1 Storia delle migrazioni: l’evoluzione storica dei flussi migratori in Europa e in Italia ... 5

1.2 Un excursus normativo ... 16

1.2.1 Dalle norme alle politiche sociali: tra teoria e prassi ... 23

1.3 La sfida della multiculturalita’ ... 28

1.3.1 Il pregiudizio tra natura e cultura ... 42

1.4 Teorie della migrazione e apporti della femminizzazione delle migrazioni all’approccio transnazionale ... 46

CAPITOLO 2... 56

LA MIGRAZIONE FEMMINILE ... 56

2.1 Una prospettiva di genere ... 56

2.2 La donna migrante, ieri e oggi ... 58

2.3 Migrazione femminile e sviluppo culturale ed economico ... 66

2.4 Il lavoro domestico delle donne immigrate in Italia: donne che lavorano per donne ... 76

CAPITOLO 3... 87

VIVERE IN ITALIA: TRA INTEGRAZIONE ED ESCLUSIONE ... 87

3.1 Famiglie in movimento ... 87

3.1.1 Il caso italiano ... 94

3.2 Le seconde generazioni ... 99

3.3 Accesso alla sanità delle donne straniere in Italia ... 108

3.4 Il disagio psicologico, comunicativo e culturale degli immigrati: le specificità di genere ... 116

(3)

2

3.5 Alcuni dati sulla presenza di donne straniere sul territorio toscano e pisano ... 122

CONCLUSIONI... 125

BIBLIOGRAFIA... 129

(4)

3

INTRODUZIONE

L’obbiettivo del mio lavoro di tesi è di realizzare un quadro dell’attuale situazione del nostro paese riguardo le migrazioni internazionali con uno sguardo particolarmente attento alle migrazioni femminili, al loro sviluppo e alle specificità di genere dell’esperienza migratoria.

L’innovazione teoretica secondo me più significativa della letteratura riguardante questo tema, che ho scelto di usare come filo conduttore del mio elaborato, è quella di trattare il genere non solo come una variabile ma come un concetto centrale, per studiare la migrazione e per comprendere le relazioni che intorno a questa si costituiscono e che forma prendono.

Usare la prospettiva di genere come lente d’analisi, per la decostruzione di un concetto statico e naturale di genere e per la costruzione di nuove forme di relazione, che influenzano ogni soggetto.

Non si tratta, quindi, semplicemente di documentare o sottolineare la presenza di donne nel fenomeno delle migrazioni transnazionali, ma di portare alla luce come le relazioni di genere influenzino gli spostamenti e le migrazioni sia di donne che di uomini.

Ritengo, che conoscere i processi storici delle migrazioni può fornire una chiave di lettura illuminante per studiare il fenomeno nelle sue manifestazioni attuali.

Il primo capitolo del mio lavoro di tesi si pone infatti l’obiettivo di fornire un breve quadro dell’evoluzione storica che ha caratterizzato i flussi migratori in Europa e, scendendo più nel dettaglio, in Italia; elencherò poi brevemente la normativa italiana, quella del passato e quella attualmente in vigore, in tema di immigrazioni, focalizzando l’attenzione soprattutto sui titoli di legge che regolano gli aspetti di natura sociale, in particolare riguardo donne e minori.

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4

Andrò ad analizzare i maggiori apporti alle teorie delle migrazioni, e ad illustrare quali possono essere nella nostra società le sfide che bisogna fronteggiare in quanto società multiculturale.

Nel secondo capitolo sposterò il focus sull’argomento più specifico della migrazione femminile. Partirò spiegando l’importanza di una prospettiva di genere e proseguirò delineando il processo evolutivo del fenomeno della femminizzazione delle migrazioni, osservando come lo stesso sia cambiato e si sia evoluto nel tempo, e arriverò fino alle specificità dei nostri giorni. Approfondirò poi la tematica del lavoro delle donne straniere in Italia, in particolare del lavoro domestico.

Il terzo ed ultimo capitolo si intitola “Vivere in Italia, tra integrazione ed esclusione” e parte dall’argomento delle famiglie che migrano, e delle seconde generazioni di immigrati, delle loro difficoltà eventuali di integrazione e di conciliazione tra le due culture, quella d’origine, e quella del paese ospitante.

Affronterò poi brevemente il tema dell’accesso ai servizi che il nostro paese offre agli stranieri, in particolare l’accesso alla sanità, e mi sposterò infine, sul tema del disagio comunicativo, culturale e psicologico dei migranti, in particolare delle donne, e le specificità di genere nell’affrontarlo.

Ho inserito nella parte finale del mio elaborato alcuni dati riguardo la presenza di migranti, soprattutto di donne, sul territorio toscano ed in particolare pisano.

(6)

5

CAPITOLO 1

INQUADRIAMO

IL

FENOMENO:

I

MOVIMENTI

MIGRATORI

1.1 Storia delle migrazioni: l’evoluzione storica dei flussi migratori in Europa e in Italia

Quello delle migrazioni internazionali è senza dubbio uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo.

Per le sue conseguenze sociali e per le ricadute politiche che da esso scaturiscono è certamente uno dei temi più discussi e probabilmente quello al centro di maggiori controversie,.

Da molti anni ormai le dinamiche sociologiche e politiche delle migrazioni, le politiche finalizzate a gestirle, nonché le conseguenze che ne derivano in termini di integrazione socio- economica, sono al centro del dibattito pubblico, e politico, nella maggior parte dei paesi economicamente avanzati.

Nonostante quindi, quello delle migrazioni sembri un tema prettamente di attualità, si tratta di un fenomeno radicato nella storia della civiltà umana, le manifestazioni in cui ci troviamo coinvolti oggi non sono altro che una modifica rispetto alle tendenze che hanno caratterizzato lo stesso fenomeno nel passato.

Studiare ed analizzare la storia delle migrazioni può darci gli strumenti per capire meglio il presente, vedere ciò che sta succedendo alla luce di ciò che è già successo può infatti fornire una chiave di lettura illuminante del fenomeno.

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6

Questo primo paragrafo dl mio lavoro di tesi si pone l’obiettivo di fornire un breve quadro dell’evoluzione storica che ha caratterizzato i flussi migratori in Europa e, scendendo più nel dettaglio, in Italia. Fino al Medioevo gli esseri umani erano per la maggior parte nomadi, o, più in generale, mobili perchè la loro economia era legata essenzialmente alla pastorizia, al commercio o alla pesca.

Durante il medioevo, tale mobilità, ancora diffusa, aveva un ruolo strutturale, seppur non ufficialmente dichiarato: la forte presenza di vagabondi ed emarginati che si spostavano attraverso i territori del continente era funzionale infatti a mantenere attiva la pratica cristiana della carità.

Quella medievale, tuttavia, era una società fondata sull’agricoltura, sulla proprietà terriera, di conseguenza la stabilità fisica acquisisce, in questo contesto sociale, un nuovo valore, che i vagabondi e i viandanti iniziarono a subire anche in termini legislativi, diventando gradualmente degli outsider della società.

A conferma di questo nasce il termine “banditi”, con l’accezione di persone colpite da un bando, una limitazione della libertà di movimento.

È in quel momento storico che nasce l’idea del movimento come qualcosa da controllare e limitare, lo spazio diventa il linguaggio della differenziazione sociale.

La prima grande migrazione di massa risale al cinque-seicento, quando circa 50 milioni di europei migrano verso le Americhe, l’Africa, l’Asia, colonizzando vaste aree del pianeta.

L’Europa diventa così il punto di partenza di un’emigrazione senza precedenti e i suoi coloni si stabilizzano un po’ ovunque nel mondo, intrecciando rapporti di vario tipo con i governi e le popolazioni locali. Precedentemente a questo periodo a lasciare il vecchio continente erano avventurieri e conquistatori, si assiste quindi all’instaurarsi di

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7

una nuova tendenza che in letteratura è stato battezzato come “il modello delle tre M” per indicare gli spostamenti di mercanti, missionari e militari.

Le nuove terre diventarono presto anche la destinazione di esiliati, condannati, eretici ed oppositori politici, che pian piano si sostituiscono alle popolazioni indigene, ormai poco presenti sul territorio perché combattute, sterminate o esse stesse deportate. L’Africa è un esempio emblematico del fenomeno suddetto, infatti, fino al 1807, anno in cui la Gran Bretagna dichiara illegale la tratta, vengono deportati nel Nuovo Continente circa 11 milioni di schiavi, possiamo definire questa operazione come una combinazione, fra migrazioni forzate e condizioni di schiavitù.

Questa è certamente annoverabile come la pagina più nera della storia delle migrazioni.

Durante l’ottocento Il colonialismo territoriale si trasforma in imperialismo economico. Questo getta le sue basi e si afferma con strategie politiche quali la creazione di confini tracciati a tavolino, spesso irrispettosi delle diverse presenze etniche sul territorio, la progressiva militarizzazione ed evangelizzazione, l’imposizione delle monocolture e la conseguente creazione di una dipendenza alimentare ed economica che mantiene le sue conseguenze ancora oggi.

E’ iniziata con il colonialismo e finita con la decolonizzazione del secondo Novecento una fase di oltre cinque secoli durante la quale dai paesi africani ed asiatici “si giunge in Occidente soltanto in catene”1: un’esperienza storica e psicologica durata troppo a lungo

per non imprimersi nelle rappresentazioni che gli abitanti di quei luoghi e in particolare dell’Africa sub-sahariana, dove la

1 Gambino Ferruccio, “Processi migratori internazionali e cause storico-sociali del fenomeno migratorio in Italia e nel Veneto: un compendio di problemi aperti”, Seminario tenuto a Treviso, Nov. 2011

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8

desegregazione effettiva viene conquistata solo dal 1991, anno dell’accesso al mondo europeo e che va tenuta presente per comprendere molte delle attuali spinte migratorie verso il nostro continente.

Per ripercorrere le fasi più recenti dell’evoluzione dei flussi migratori che hanno coinvolto il nostro continente, bisogna partire dell’analisi risale alla fine del XIX secolo, quando l’Europa ha iniziato a sperimentare una vera e propria migrazione di massa, in particolare verso le Americhe.

Hatton e Williamson2 riportano che in circa un secolo, tra il 1820 e il 1940, emigrano circa 60 milioni di europei, a ritmi anche di più di un milione di persone l’anno nei primi vent’anni del novecento.

Di questi, ben 38 milioni emigrano negli Stati Uniti. Gli altri sono distribuiti tra Canada, paesi dell’America del sud, Australia e, in percentuale molto minore, Africa.

In quella fase il tasso di emigrazione dell’Italia è altissimo, di ben 108 persone ogni mille abitanti.

A cavallo fra Ottocento e Novecento l’Italia ha visto espatriare più di 16 milioni di persone dirette principalmente in Stati Uniti, Canada, Argentina e Brasile, Australia e, seppur in percentuali minori, verso le colonie africane.

2

T. Hatton e J. Williamson, Global Migration and the World Economy, MIT Press, Cambridge USA, 2005.

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9

I principali fattori che contribuirono all’avvento delle migrazioni di massa si possono identificare come segue3:

• Una forte riduzione dei costi di trasporto, in termini sia di tempo, sia di risorse economiche, sia di rischi associati alla mobilità intercontinentale.

I progressi nella tecnologia consentirono di costruire navi più veloci e più sicure, il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie contribuì a ridurre i tassi di mortalità a bordo delle navi, sulle quali le

3 Ibidem 2

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10

tariffe della cosiddetta “terza classe” diventarono sempre più accessibili anche per gli strati meno abbienti della popolazione europea.

Nel contempo, la costruzione di linee ferroviarie capillari sul continente rese per milioni di persone più facile l’accesso ai porti di partenza delle rotte migratorie.

•Una forte riduzione delle restrizioni all’emigrazione che erano state imposte in molti paesi europei, tra cui principalmente Inghilterra, Irlanda, Germania e Svezia e, al contrario, l’introduzione di sussidi per favorire il trasferimento dei cittadini in territori lontani oltreoceano. Il governo inglese, ad esempio, varò generosi piani di sussidi per favorire l’insediamento di cittadini britannici in Australia.

•L’ultima grande carestia europea, che ebbe luogo in Irlanda tra il 1845 e il 1849,causò l’emigrazione di almeno un milione e mezzo di persone, principalmente verso gli Stati Uniti.

•Un aumento generalizzato dei salari medi in seguito al processo di industrializzazione diffusosi ormai in buona parte dell’Europa. Se da un lato un miglioramento del livello medio delle condizioni di vita poteva tradursi in un ridotto stimolo ad emigrare, dall’altro però metteva una quota sempre maggiore della popolazione nelle condizioni di permettersi un viaggio transoceanico e la possibilità di cercare vita migliore altrove.

La fine dell’epoca delle migrazioni di massa è segnata dallo scoppio della prima guerra mondiale.

Un brusco freno nei flussi migratori in uscita dall’Europa, che tuttavia non si arrestarono, fu causato da: i conflitti mondiali, il periodo della Grande Depressione tra le due guerre che colpì gli Stati Uniti che in quel momento erano il principale paese di destinazione, così come quelli di origine, tra cui l’Europa, e il contemporaneo varo di politiche

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11

di immigrazione restrittive da parte del governo statunitense, che prevedevano test di alfabetizzazione e quote annuali di cittadini ammessi dai paesi sud europei.

Una nuova svolta nelle dinamiche migratorie europee inizia nel secondo dopoguerra. Il boom economico, il raggiungimento del livello di piena occupazione e la conseguente carenza di manodopera nei primi anni sessanta aveva indotto alcuni paesi ad aprire i loro mercati del lavoro ai lavoratori stranieri attraverso programmi di reclutamento attivo dei cosiddetti “Guest workers”, per offrire una risposta temporanea alle esigenze del mercato del lavoro.

In Francia, Germania, Regno Unito, Svizzera, Belgio e Olanda giunsero lavoratori dai paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, Jugoslavia) e dell’Africa del Nord (Marocco, Tunisia, Algeria).

La direttiva principale dei flussi migratori era dunque l’asse Sud-Nord, ma principalmente all’interno dello stesso continente europeo.

Nel 1973 avviene un nuovo cambiamento: la crisi economica mondiale che segue allo shock petrolifero convince i paese del centro nord Europa a rivedere le proprie politiche migratorie in senso restrittivo, e i flussi di migranti sull’asse sud-nord si riducono significativamente.

A partire dalla fine degli anni ottanta però si apre un nuovo asse migratorio: quello est-ovest.

Durante il comunismo, i movimenti migratori nell’Est Europeo furono di entità estremamente limitata.

Il crollo del muro di Berlino, che nel novembre 1989 segnò la fine della cortina di ferro e dell’isolamento dei Paesi comunisti dalle economie di mercato dell’Europa occidentale.

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12

I flussi migratori che ne seguirono furono di notevole portata : nel 1989 circa 1,2 milioni di persone emigrarono dai Paesi dell’Est.

I conflitti nell’area dell’ex-Jugoslavia contribuirono a rafforzare una rotta migratoria inter-europea durante l’ultimo decennio del secolo scorso4.

Il 1 maggio 2004 otto paesi dell’ex blocco sovietico (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) fecero ufficialmente ingresso nell’Unione Europea, insieme a Malta e a Cipro, e poi di altri due, Romania e Bulgaria, nel 2007, il che rende ancora più facili e fluidi gli spostamenti.

I movimenti lungo la direttrice Romania-Italia si sono poi accentuati nella fase successiva all’ingresso di quest’ultima nell’UE, e non hanno subito rallentamenti neppure in seguito allo scoppio della crisi che ha indebolito l’economia europea e mondiale negli ultimi anni.

Nel frattempo flussi sempre più consistenti di migranti arrivano da paesi extra-europei, da Africa, Asia e Sud America in particolare, andando a comporre il quadro del fenomeno migratorio come lo conosciamo oggi.

Un quadro che, secondo i dati Eurostat, ha visto la popolazione straniera residente in Europa quasi raddoppiare negli ultimi venti anni, passando dai circa 20 milioni del 1998 ai circa 37 milioni del 2016 (il dato include i cittadini europei che vivono in un paese europeo diverso da quello di cittadinanza).

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13

L’Italia si trasforma in paese di immigrazione solo a partire dalla metà degli anni Settanta, anche se l’arrivo di cittadini stranieri inizia molti decenni prima.

Il boom economico degli anni ’50-’60 aveva già alimentato i primi arrivi di stranieri in Italia per ragioni di lavoro; la crescita del reddito e le migliori condizioni di vita dei cittadini italiani avevano creato una domanda di lavoratori stranieri per quei lavori a scarsa qualificazione, con salari bassi rispetto agli standard italiani.

A differenza dei paesi dell’Europa centro settentrionale, dove l’immigrazione era sostenuta e promossa attraverso canali ufficiali di reclutamento attivo.

In Italia gli arrivi sono spontanei e si basano sull’ iniziativa individuale degli immigrati o sul sostegno di piccole organizzazioni religiose, questo fatto alimenta la forte eterogeneità della composizione della popolazione immigrata.

In tutti questi anni l'attenzione verso l'immigrazione è stata piuttosto mode sta, dato che il ritorno degli emigrati italiani era un tema molto più caldo nell’agenda politica dell’epoca.

Il saldo migratorio in Italia diventa positivo per la prima volta nel 1973. Ma è solo con l’aumento del tasso di disoccupazione autoctona, e la diffusione dei primi dati sull’immigrazione, che la tematica inizia a diventare rilevante, soprattutto in relazione alla paura della competizione tra lavoratori italiani e stranieri.

Con la pubblicazione dei dati del censimento della popolazione del 1981, che indicano un aumento della presenza straniera, l’Italia scopre di essere diventata meta di destinazione definitiva di immigrati da paesi in via di sviluppo5.

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14

Una delle peculiarità del modello migratorio mediterraneo, che coinvolge sia l’Italia che gli altri paesi dell’Europa meridionale, è la marcata presenza femminile, stimolata da una forte domanda di lavoro nel settore della cura per gli anziani e dalla presenza di un modello di welfare fortemente familistico.

L’immigrazione femminile, già presente negli anni Sessanta e Settanta, si è fortemente intensificata a partire dagli anni Novanta con gli arrivi dall’Europa dell’Est.

Oggi si assiste ad un certo equilibrio nella composizione per genere della popolazione straniera. A livello nazionale il peso femminile è leggermente maggioritario (54,7% nel 2011).

Tuttavia, vi è una forte variabilità all’interno delle singole comunità straniere, dovuta in parte all’anzianità migratoria.

Le nazionalità di più recente arrivo presentano generalmente un rapporto tra i sessi più sbilanciato, mentre per le collettività di più “antica” immigrazione i ricongiungimenti familiari hanno determinato un riequilibro di genere.

Alcune nazionalità provenienti dall’ Africa e dall’ Asia, sono caratterizzate da una forte presenza maschile, mentre altre come l’Ucraina, la Polonia, la Moldova, il Perù, sono comunità prevalentemente femminili.

Queste ultime rappresentano una peculiarità del modello migratorio italiano e sono frutto di un welfare state debole che scarica il peso della cura degli anziani e dei bambini sulle famiglie , che ricorrono al la manodopera straniera6

6

King, Southern Europe in the changing global map of migration. In Eldorado or fortress, in: King, R.,Lazaridis, G. C. Tsardanidis (eds.) Migration in Southern Europe, London,Palgrave Macmillan, 2000

(16)

15

Altre comunità , come quella rumena, albanese e cinese, presentano una struttura per sesso più equilibrata, frutto in gran parte di modelli migratori di lungo periodo, caratterizzati dal ricongiungimento familiare e la stabilizzazione in Italia.

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16 1.2 Un excursus normativo

La normativa italiana in materia di immigrazione ha una storia abbastanza recente.

Nel nostro paese, fino alla fine degli anni ’80 la complessità del fenomeno è stata sottovalutata, sia nell’ambito delle politiche sociali, sia per quanto riguarda gli studi specifici, questo si può far dipendere in parte dal fatto che l’ Italia, dagli inizi del ‘900, è stato di tendenzialmente un paese di emigrazione, infatti era frequente che nostri connazionali migrassero verso gli Stati Uniti, l’America Latina e i Paesi del Nord Europa. Di conseguenza, la legislazione nazionale affrontava le problematiche degli stranieri sotto l’esclusivo profilo dell’ordine pubblico, senza cioè una visione organica.

Ma anche dagli anni ‘80 in poi, la produzione normativa, fatta eccezione del Testo Unico del 1998, si è sviluppata in maniera poco organica, sia a causa delle differenti correnti politiche dei governi di in carica, sia per ragioni contingenti quali ad esempio la necessità di dare attuazione a norme europee e a sentenze della Corte costituzionale.

Tre potevano essere le possibili strade da seguire per arrivare ad una legislazione organica:

1. la progressiva eliminazione delle discriminazioni nei confronti degli stranieri presenti sul territorio

2. l’adeguamento della politica nazionale sull’immigrazione a quella degli altri paesi dell’Europa occidentale.

3. Leggi di sanatoria che accompagnano le nuove leggi di indirizzo e programmazione per “regolarizzare” le situazioni di illegalità precedentemente createsi.

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17

Le leggi emanate nel corso di questi anni hanno affrontato singoli aspetti della condizione dello straniero, ma solo nel 1998 siamo arrivati ad una legge organica che, abrogata quasi tutta la legislazione precedente, ha disciplinato in modo completo la condizione giuridica dello straniero7.

La prima disciplina avente carattere organico, anche se dettata anch’essa da ragioni emergenziali, è rappresentata dalla c.d. legge Martelli, legge 28 febbraio 1990, n. 39, che convertiva il decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, che conteneva norme in materia sia di rifugiati sia di immigrazione.

A questo riguardo, la legge Martelli ha introdotto concetti e meccanismi che costituiscono la base dell’attuale legislazione in materia, operando in maniera sia preventiva sia repressiva.

Da una parte, si disponeva la programmazione in materia di flussi di ingresso degli immigrati “economici” alla luce delle necessità statali, mediante il rilascio di un apposito permesso di soggiorno da parte della questura o del commissariato di P.S. competente.

Dall’altra, era prevista la regolarizzazione degli stranieri già presenti sul territorio e alcune timide norme sulla integrazione di questi ultimi. Per altro verso ancora, la legge conteneva disposizioni di carattere penale e disciplinava per la prima volta la procedura di espulsione degli stranieri socialmente pericolosi oppure irregolari, su decreto motivato del Prefetto, cui gli stranieri dovevano ottemperare entro 15 giorni, pena l’accompagnamento coatto alla frontiera.

Negli anni seguenti vengono adottati alcuni provvedimenti di carattere parziale: il c.d. decreto Conso del 1993 (decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito nella legge 12 agosto 1993, n. 296)

7 http://briguglio.frascati.enea.it/immigrazione-e-asilo/archivi-mensili.html: tutta la normativa e in materia di immigrazione ed asilo disposta in ordine cronologico.

(19)

18

introduceva nuovi reati degli stranieri e modificava la disciplina dell’espulsione, e i c.d. decreti Dini del 1995-1996 (decreti legge mai convertiti in legge) prevedevano una nuova forma di espulsione come misura preventiva, accompagnata dalla possibilità di stabilire l’obbligo di dimora dello straniero da allontanare.

Nella seconda metà degli anni Novanta, in un’ ottica di superamento della logica dell’emergenza e di stabilire un quadro di carattere generale, viene approvata la c.d. la legge 6 marzo 1998, n. 40, chiamata legge Turco-Napolitano, che aveva come obiettivi quelli di programmare gli ingressi regolari, stabilire percorsi di integrazione degli stranieri regolarmente residenti sul territorio dello Stato e contrastare l’immigrazione irregolare.

La legge 40/1998 era divisa in sette titoli, dedicati: 1) ai principi normativi,

2) all’ingresso, soggiorno, respingimento ed espulsioni, 3) all’ingresso per lavoro,

4) alla famiglia e ai minori,

5) ai diritti di cittadinanza (intesi come diritti civili), 6) ai cittadini UE,

7) alle disposizioni finali.

La legge Turco-Napolitano conteneva una delega al Governo per l’emanazione di un decreto legislativo contenente il testo unico delle disposizioni concernenti gli stranieri, che riunisse le norme della legge in questione e altre disposizioni precedenti.

L’esercizio di siffatta delega ha portato all’approvazione del Testo unico sull’immigrazione del 1998 (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), tuttora in

(20)

19

vigore anche se più volte modificato. Esso è integrato da un regolamento di attuazione (d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394)8.

Il Testo Unico si compone di 49 articoli ed è suddiviso in sei titoli relativi a:

1) Principi generali,

2) Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato,

3) Disciplina del lavoro,

4) Diritto all’unità familiare e alla tutela dei minori,

5) Disposizioni in materia sanitaria, di istruzione, alloggio, partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale,

6) Norme finali.

Considerato l’argomento e gli obbiettivi del mio lavoro di tesi ritengo utile l’approfondimento del titolo 4, relativo al diritto all’unità familiare e alla tutela dei minori, e di alcuni punti del titolo 5, relativo alle disposizioni in materia sanitaria, di istruzione, alloggio, partecipazione alla vita pubblica e integrazione sociale.

Diritto all’unità familiare:

I cittadini stranieri che possiedono una carta di soggiorno o un permesso della durata di almeno un anno possono chiedere il ricongiungimento familiare con il coniuge legalmente convivente, con

1 8 http://www.anolf.it/attualita.htm: elenco completo delle circolari emanate in materia di immigrazione

(21)

20

i figli minori a carico, anche affidati o adottati o nati fuori del matrimonio, con i genitori a carico, e con i parenti entro il terzo grado a carico, inabili al lavoro.

La durata del permesso di soggiorno per motivi familiari è la stessa del permesso di soggiorno del familiare ricongiunto in Italia ed è rinnovabile alla data della sua scadenza.

Altri Diritti:

Ad ogni straniero presente sul territorio dello Stato, anche se privo di documenti, sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana.

Lo straniero regolarmente soggiornante gode inoltre dei medesimi diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano.

Diritto alla salute

La legge 40/98 ha reso obbligatoria (e gratuita, in quanto fiscalizzata) l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale di tutti gli stranieri che abbiano un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, per motivi familiari, per richiesta asilo, per attesa adozione e per acquisto di cittadinanza.

Gli stranieri con altri tipi di permesso, ad esempio per motivi di studio, sono comunque tenuti ad attivare un’assicurazione, anche tramite l’iscrizione volontaria al SSN.

(22)

21

Lo straniero iscritto al SSN ha parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani.

Le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o essenziali, anche continuative, sono comunque assicurate a tutti gli stranieri, anche se non sono in regola con il permesso di soggiorno.

In particolare sono garantite le prestazioni per la tutela della gravidanza e della maternità, allo stesso modo delle alle cittadine italiane, la tutela della salute del minore, le vaccinazione, la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive.

Diritto dei minori allo studio

Tutti i minori stranieri che non abbiano superato l' età di 15 anni, sia regolari che irregolari, hanno diritto all' istruzione (scuola dell' obbligo), ad accedere ai servizi educativi e a partecipare alla vita della comunità scolastica.

Istruzione scolastica per gli adulti

Anche agli stranieri adulti regolarmente presenti in Italia, viene garantita l' istruzione scolastica, potendo frequentare i seguenti corsi:

-corsi di alfabetizzazione nelle scuole elementari e medie per conseguire il titolo di studio della scuola dell' obbligo

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22

-corsi di integrazione degli studi fatti nel Paese di provenienza per ottenere il titolo della scuola dell' obbligo o il diploma di scuola secondaria superiore

- corsi di lingua italiana

-corsi di formazione professionali.

Diritto alla difesa

Ad ogni cittadino straniero sono garantiti gli stessi diritti alla difesa dei cittadini italiani.

I cittadini stranieri, indagati o imputati, che non hanno un reddito sufficiente per pagarsi un avvocato, né in Italia né all' estero, hanno diritto al gratuito patrocinio9.

9

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23

1.2.1 Dalle norme alle politiche sociali: tra teoria e prassi

“Stato, regioni, autonomie locali, in collaborazione con le

associazioni del settore e con le autorità dei paesi di origine, favoriscono l'integrazione dei cittadini stranieri che si trovano regolarmente in Italia (articolo 42 del Testo unico immigrazione) attraverso programmi che: prevedono l'informazione sui diritti e opportunità di integrazione oppure reinserimento nei paesi di provenienza; promuovono la formazione linguistica, civica e professionale; favoriscono l'ingresso nel mondo del lavoro”10.

Per un periodo abbastanza lungo in Italia le policy sull’immigrazione non si sono spinte oltre alle questioni del controllo degli ingressi e della sicurezza.

E anche quando si è arrivati ad un interesse pubblico delle istituzioni verso il tema dell’integrazione, con la legge del 1998, varie debolezze istituzionali e politiche hanno comportato l’assenza o l’inefficacia di una strategia nazionale in materia.

A differenza di molti altri Paesi europei, in Italia è mancato un modello nazionale omogeneo di inclusione sociale degli immigrati. A questo proposito il sociologo Maurizio Ambrosini11 parla di un “modello implicito” di inclusione degli immigrati nel nostro paese, connotato dal frequente ricorso a pratiche e politiche informali, solitamente parziali e che cavalcano le emergenze; mentre le politiche ufficiali tardano a essere formulate e in ogni caso ancora faticano a trovare una loro coerenza e lungimiranza.

10 http://www.interno.gov.it 11

M. Ambrosini, La fatica di integrarsi. Immigrazione e lavoro in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001

(25)

24

Fino all’approvazione di indicazioni legislative in materia, arrivata con la legge del 1998 le regioni e gli enti locali hanno spesso agito in maniera informale, in assenza peraltro di risorse finanziarie specifiche.

Il tempismo e il dinamismo con cui il terzo settore ha gestito un grande numero di emergenze, legate per esempio alla prima accoglienza, in qualche caso ha finito per colmare le lacune degli attori pubblici.

Per le regioni e gli enti locali uscire da un’impostazione del tema immigrazione legato all’emergenza è stato un processo complesso e lento: il fatto che in molti territori l’immigrazione si fosse appunto imposta sulla scena pubblica come un’emergenza ha innescato un processo di dipendenza dal percorso già intrapreso (path

dependency) riguardo a come definire questo tema e quindi

intervenire su di esso.

Quando si parla di politiche per gli immigrati, tra l’altro, è anche importante distinguere tra gli interventi universalisti collegati all’accesso ai servizi di welfare, che hanno come destinatari tutti i residenti, immigrati inclusi, e le politiche di integrazione dedicate. Queste ultime si riferiscono al target specifico degli stranieri e puntano a colmare il divario tra i servizi esistenti e le possibilità concrete di usufruirne.

Due sono gli strumenti di intervento che, a partire dal 2005, hanno creato una certa convergenza tra le politiche locali, anche se attuate da maggioranze con diverse colorazioni politiche:

1. I corsi di lingua per stranieri

(26)

25

Un ulteriore strumento, che tuttavia è ancora in fase poco più che ideale, riguarda le azioni di contrasto alle discriminazioni.12

I corsi di lingua rappresentano di gran lunga lo strumento più diffuso nei vari territori, e lo erano anche prima dell’introduzione dell’accordo di integrazione (2009) che li ha resi obbligatori.

All’impegno dell’attore pubblico si è affiancato anche quello dell’associazionismo e del volontariato; un impegno necessario viste le grosse lacune lasciate dalle politiche e sicuramente lodevole, ma non sempre qualificato.

Per quanto riguarda i mediatori culturali, che hanno favorito l’integrazione soprattutto nelle regioni settentrionali, essi sono collocati in particolare nelle strutture sanitarie e nelle scuole; in Italia se ne contano alcune migliaia, in genere alle dipendenze di cooperative sociali.

Entrando più nel dettaglio, la legge di riforma dell’assistenza sociale ha istituito i Piani sociali di zona come modalità ordinaria per programmare e implementare le politiche sociali di competenza locale, incluse le misure di integrazione.

Gli enti locali, insieme ad altri attori pubblici e privati del territorio, hanno acquisito pertanto notevoli poteri di formulazione delle politiche anche rispetto all’ente regionale, che rimane comunque il referente finale dei vari piani di zona.

Andrea Stuppini, rappresentante delle regioni nel comitato tecnico

nazionale sull’immigrazione, rileva peraltro una certa

disorganizzazione nelle elaborazioni progettuali locali, soprattutto nei primi anni di applicazione dello strumento dei Piani di zona, e

12 A. Stuppini, Tra centro e periferia: le politiche locali per l’integrazione, in Stranieri e

disuguali. Le disuguaglianze nei diritti e nelle condizioni di vita degli immigrati, a cura di C.

(27)

26

sottolinea che a questo risultato ha concorso probabilmente anche la mancanza di continuità della programmazione nazionale, poiché dopo il 2001, e fino al 2010, non c’è più traccia del piano triennale previsto dalla Turco-Napolitano.

Per quanto riguarda invece la riforma costituzionale del 2001, la conseguenza più significativa dell’appropriazione da parte delle regioni delle politiche di integrazione è stata la soppressione del Fondo per le politiche migratorie, che è confluito all’interno del Fondo nazionale delle politiche sociali (istituito dalla 328/00 ) senza vincolo di destinazione da parte delle regioni e senza quindi alcun obbligo di programmazione in materia.

Le regioni pertanto hanno ricevuto completa autonomia nello stabilire le priorità di politica sociale e possono decidere se e come portare avanti interventi a favore degli immigrati13.

La drastica riduzione del Fondo nazionale delle politiche sociali a partire dal 2005, e ancora di più dal 2007, ha costituito il vero nodo problematico, nonché il vincolo principale rispetto al mantenimento di politiche ad hoc per gli immigrati, tanto che solo nove regioni hanno continuato a portare avanti per tutto il decennio una programmazione regolare in materia14.

A differenza delle politiche di controllo migratorio e di gestione dei flussi, la tematica specifica dell’integrazione è stata tuttavia a lungo ignorata dal livello nazionale di governo, o oggetto di normative vaghe non corredate da risorse economiche che ne permettessero l’implementazione.

13

http://www.treccani.it/enciclopedia/le-politiche-per-l-integrazione-degli-immigrati-tra-retoriche-e-realta_%28L%27Italia-e-le-sue-Regioni%29/

14 F. Campomori, T. Caponio, Le politiche di integrazione per gli immigrati, in Tra l’incudine

e il martello. Regioni e nuovi rischi sociali in tempi di crisi, a cura di V. Fargion, E. Gualmini,

(28)

27

Lo stile di policy italiano in materia di integrazione degli immigrati si è insomma contraddistinto per essere contingente e basato su risposte poco lungimiranti alle emergenze che di volta in volta si sono presentate15.

15

http://www.treccani.it/enciclopedia/le-politiche-per-l-integrazione-degli-immigrati-tra-retoriche-e-realta_%28L%27Italia-e-le-sue-Regioni%29/

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28 1.3 La sfida della Multiculturalita’

“Il multiculturalismo sottolinea che è pienamente legittimo per vari gruppi etnici e altri gruppi ascritti avere valori ed orientamenti completamente differenti se non addirittura contraddittori16”.

P.M.Blau

Prima di passare al tema specifico della sfida della multiculturalità, argomento di questo paragrafo, ritengo sia utile chiarire, partendo da questa affermazione di Blau, la differenza terminologica tra “multiculturalità” e “multiculturalismo”.

L’autore chiarisce come il “multiculturalismo” si propone essenzialmente come una cultura della differenza, come un progetto più che come una descrizione di una realtà di fatto, implicando quindi preliminarmente un giudizio di valore sulla multiculturalità.

Quest’ultimo termine sta invece ad indicare una situazione, pur non essendo privo di implicazioni valutative, e come tale la definizione non comprende affatto che la caratteristica essenziale di tale società sia voluta, accettata o perlomeno tollerata.

Sembra dunque di avere tracciato una linea di confine tra oggetto dello studio e soluzione possibile del problema.

Il problema multiculturale coinvolge inevitabilmente la questione dell’identità, della sua costruzione e del suo mantenimento, del rapporto tra identità collettive e del rapporto tra identità individuale ed

1. 16 P.M.Blau, I paradossi del multiculturalismo, in “Rassegna italiana di sociologia” n. 1

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29

identità collettive: nella sua essenza, infatti, la multiculturalità consiste nella coesistenza di una molteplicità di identità culturali diverse, quindi di una molteplicità di identità costruite sulla condivisione tra i membri del gruppo o della “comunità” di valori, standard normativi, convinzioni morali, stili di vita, apparato simbolico e comunicativo e interessi.

Si deve tenere sempre presente che per ogni soggetto che opera in un sistema sociale, l’identità è il risultato di un continuo confronto con gli altri, che porta l’individuo a costruire una rappresentazione di se stesso; poiché tale processo si compie attraverso la relazione con gli altri, vi è una continua interazione tra la costruzione della propria identità, compiuta dal soggetto in prima persona, e il riconoscimento di tale identità da parte degli altri individui.

Fondamentale è ricordare che la costruzione dell’identità di un individuo non avviene mai all’interno di un vuoto sociale, ma in un preciso contesto sociale e spaziale, di cui fa parte anche la città con i simboli che le sono connessi.

Durante la vita, attraverso i processi di socializzazione, fin dall’infanzia, l’individuo interiorizza i caratteri simbolici legati al contesto urbano di residenza e in parallelo si determina un processo di identificazione affettiva con la città, il quartiere o con ambiti ancor più limitati.

L’identità collettiva, nel suo riconoscere se stesso come appartenente ad un’identità, percepisce l’esistenza di identità altre, e quindi la sua alterità rispetto ad altre identità, la sua differenza rispetto gli altri. Come tale, l’incontro tra identità diverse e la percezione dell’altro-da-se porta inscritto nel proprio “codice genetico” la possibilità della chiusura verso l’altro e del rifiuto dell’altro in quanto tale.

(31)

30

La sfida multiculturale, quindi, si presenta con diverse facce, tra loro strettamente collegate: da un lato si configura come problema della convivenza di una molteplicità di orientamenti ed identità culturali estremamente differenziata, dall’altra si configura come problema del rapporto tra identità di gruppi ristretti e una identità collettiva più vasta, quella della società in cui si trova ad interagire; in questa interazione, l’individuo è il punto centrale: è attraverso questo che le identità diverse entrano in relazione, è nella partecipazione dell’individuo da una parte all’identità di gruppo e dall’altra alla vita della società che le identità si confrontano e si scontrano.

La teoria sociologica classica , da Weber a Durkheim, legge la modernizzazione in termini di erosione dei vincoli comunitari, di affermazione di modelli universalistici o che tali pretendono di essere, di razionalizzazione crescente, di individualismo, si afferma nelle società occidentali, producendo effetti contrastanti.

Infatti è nello stesso “modernismo” che si celano i principi della sua crisi: alle identità forti “premoderne” sostituisce altre identità forti, quali la nazione o la classe, che, nascendo da presupposti apparentemente “razionali” si rivestiranno ben presto di “irrazionalità” a partire dal XIX secolo; soprattutto la nazione verrà presto associata a miti più tradizionali quali il sangue ed il suolo, o la religione.

Il modernismo sottovaluta il bisogno psicologico esistenziale di identità dell’individuo, che gli consentano di dare un senso alla propria esistenza, o al limite legge l’identità come uno strumento funzionale al mantenimento di una data struttura sociale.

Un testo chiave che affronta le alternative teorico-normative con cui governare la babele multiculturale del mondo contemporaneo, all’interno del dibattito politico americano, è il libro “Multiculturalismo”, del 1994, che vede, nella prima parte, interventi del filosofo canadese Charles Taylor (1992) e nella seconda parte, un’argomentata replica di Jurgen Habermas (1994).

(32)

31

Esso consente di lanciare uno sguardo retrospettivo al modo in cui all’avvio dei cruciali anni novanta viene letta la questione dell’omogeneità culturale.

Il confronto tra Taylor e Habermas tocca temi importanti, tra cui quello dei diritti collettivi ed individuali in relazione al tema della identità.

La questione è se sia lecito, per un gruppo specifico, identificare dei valori e comportamenti caratterizzanti e richiederne il rispetto, ovvero se questo compia una violenza alla libertà individuale.

Per avviare la sua discussione Taylor parte dal sottolineare che nell‘epoca moderna, per la prima volta, si inizia a riflettere sull’identità.

Questo effetto viene fatto risalire a due cause:

1. Il crollo delle gerarchie sociali, che costituivano un tempo la base dell’onore. A questo principio centrale dell’esistenza, oggi si sostituisce il valore della dignità.

2. Di conseguenza, l’idea che gli individui sono dotati di una propria voce morale.

Il riferimento classico è a Rousseau, ognuno ha un suo modo di essere uomo, e tende a voler essere fedele a se stesso.

Si tratta di un potente ideale morale, che implica anche il fatto che il modello al quale conformare la propria vita è rintracciabile solo in se stessi, non in un modello esterno.

Questo stesso concetto di autenticità si applica per Herder sia alla persona sia ai popoli.

Questa è, per Taylor, “l’idea seminale del nazionalismo moderno, sia nella forma benigna sia in quella maligna”.

(33)

32

L’autenticità è sempre dialogica, e dipende in modo cruciale dalle relazioni con gli altri, nasce riconoscendosi vicendevolmente, come eguali sotto il profilo della dignità.

Nella sfera pubblica la politica dell’eguale riconoscimento articola allora una forma di universalismo che implica “l’egualizzazione dei diritti e dei titoli”.

Ma contemporaneamente, dalla stessa radice nasce anche la nozione di identità che porta a dover riconoscere anche le differenze, ciò ad una “politica della differenza”.

Noi ci riconosciamo, in altre parole, sia per la pari dignità , intesa come un set universale di diritti, sia per l’identità irripetibile che ciascuno, individuo o gruppo, ha il dovere di ricercare.

(34)

33

Questo è il punto in cui si divaricano le posizioni con Habermas (e con quelle liberali in generale17):

“l’idea di base è che proprio questa differenza è stata ignorata, trascurata, assimilata a un’identità dominante o maggioritaria. E tale assimilazione è peccato capitale contro l’ideale dell’autenticità”

C’è una esigenza universale a prendere atto delle specificità. Di dare uguale valore sia alle potenzialità degli esseri umani, sia “verso ciò che essi hanno ricavato, di fatto, da questa

potenzialità

Qui si divarica un conflitto tra due modi di articolare lo stesso ideale: -Uno, considera che il rispetto è dovuto per ciò che gli umani hanno di uguale.

-L’altro per le loro peculiarità.

L’enfasi dei liberali sulla dimensione individuale e quella dei comunitaristi su quella della comunità, negli ultimi anni pare scontrarsi con una realtà sociale che rende entrambe le dimensioni problematiche più che risolutive.

17 Secondo le posizioni assimilabili al pensiero liberale, la politica si deve fondare sull’universalismo delle norme giuridiche e dunque deve rimanere neutrale rispetto alle varie concezioni etiche a prescindere dalla diversità culturale. Con una formula molto sintetica si può affermare che i liberali sostenevano la priorità del giusto sul bene. Per i comunitaristi, invece, la politica si fonda sulla differenza dei valori etici. Conseguentemente, nel primo modello esistono soltanto diritti giuridici, nel secondo invece esistono anche diritti culturali collettivi da far valere in sede politica.

(35)

34

Will Kymlicka cerca di tradurre un nuovo concetto di cittadinanza che superi le politiche comunitariste proposte da Taylor e interpreti la questione di diritti sociali collettivi e individuali secondo il pensiero liberale e quello comunitarista.

Egli sostiene che le richieste di diritti differenziati presentati dalle minoranze sono pienamente compatibili con i principi fondamentali dei teorici liberali, i quali mettono al centro delle loro dottrine i principi delle libertà individuali come forma di coesione e di giustizia sociale18.

La sua analisi presuppone che ormai viviamo in società sempre più differenziate, nelle quali minoranze e maggioranze si fronteggiano sul campo del diritto e del riconoscimento.

Kymlicka tenta di distinguere il problema multiculturale come un insieme di differenze culturali, per ciascuna una sfida propria.

Nel loro insieme queste sfide vengono analizzate e differenziate in due gruppi:

- Nel primo troviamo le minoranze nazionali che appartengono a culture differenziate che vengono integrate nella cultura maggioritaria a seguito di movimenti politici, attualmente in molti stati moderni esistono delle minoranze che esprimono grammatiche di vita diverse ma sono state assorbite dallo stato ospitante attraverso due processi: con la forza ( guerre, colonizzazioni) o volontariamente. - Nel secondo gruppo abbiamo le comunità etniche culturalmente diverse che emergono in seguito ai movimenti migratori.

Questi due modelli pluralistici costituiscono la base fondamentale della teoria multiculturalista.

(36)

35

Kymliacka utilizza il concetto di cultura, intesa come un insieme di consuetudini, usi e costumi tipici di ogni società:

“Cultura è sinonimo di nazione o popolo, cioè disegna una comunità intergenerazionale, che occupa un determinato territorio e una lingua ma anche una storia.

Uno stato è multiculturale se i suoi membri appartengono a diverse nazioni e se questo fatto costituisce un elemento importante dell’identità personale e della vita politica”

Egli esclude gli stili di vita, i movimenti sociali e le associazioni di volontariato, centrali invece per esempio nel pensiero di Habermas ( come i movimenti delle donne per il riconoscimento) sul tema del riconoscimento culturale19.

Uno dei referenti più presenti nel dibattito sulla società e la politica tardo moderna, il sociologo contemporaneo Zygmunt Bauman ha sottolineato infatti sia la condizione di grande precarietà della figura individuale e della sua capacità di scelta nel mondo tardo-moderno sia il declino della comunità, inteso come fenomeno che si autoalimenta: una volta decollato ci sono sempre meno stimoli a fermare la disintegrazione dei legami umani e cercare modi di tornare a unire quanto era stato spezzato; la condizione di individui che combattono da soli può essere dolorosa e poco attraente, ma un

19 S. Hasanaj, Multiculturalismo versus interculturalismo. Quale modello per l’integrazione?, Arnus university books, edizione II Campano, collana di laboratorio di ricerca sociale 5, febbraio 2018

(37)

36

impegno all’azione comune sembra destinato ad arrecare più danni che vantaggi20

La crisi contemporanea mette le sue radici: si sviluppa sempre di più la globalizzazione dell’economia e inizia, in un certo senso, la rivoluzione della comunicazione che caratterizza il panorama contemporaneo, due processi che superano ampiamente le capacità di controllo e di comprensione degli individui e che li proiettano in uno spazio comunicativo ed interattivo radicalmente diverso non solo dalle società tradizionali, ma dalle stesse società di pochi decenni addietro.

La complessità diventa così l’aspetto caratterizzante le società contemporanee: gli scambi intensi di merci, persone e soprattutto di informazioni, di beni culturali prodotti dalla stessa società postindustriale, l’aumento delle capacità di comunicare, l’esistenza di una varietà potenzialmente immensa di orientamenti culturali e di possibilità di scelta, la possibilità di rivendicare il diritto alla propria diversità, alla propria differenza, costituiscono l’essenza stessa della struttura sociale.

La sfida della multiculturalità si presenta oggi qualitativamente diversa dalle precedenti, più complessa perché inserita in una realtà estremamente più differenziata anche rispetto alle società industriali classiche, e se riflettiamo un attimo quanto detto precedentemente a proposito della identità, possiamo capire perché tale problema sia oggi così rilevante.

Nei fatti, l’aumentata complessità non elimina il bisogno della ricerca di una dimensione collettiva nell’individuo, ovvero il bisogno di costruirsi una identità in relazione a “qualcosa” di più “grande”, più

20

Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000 e Z. Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna, 2002.

(38)

37

ampio del proprio orizzonte individuale: anzi, di fronte ad una complessità che può effettivamente lasciare “spaesati”, confusi, tale ricerca acquista un nuovo valore, ma può anche portare ad esiti assolutamente imprevedibili.

Come ha ampiamente dimostrato P.A.Taguieff nel suo “La forza del

pregiudizio”, l’esaltazione della differenza come valore assoluto da

una parte può si essere a fondamento di una teoria “antirazzista” che si oppone alla “omologazione universalista”, ma dall’altra può essere il supporto di una teoria dell’esclusione dell’altro-da-se, di una “razzistizzazione” del diverso, in una sorta di “biologizzazione” delle differenze culturali, e quindi della conseguente “messa ai margini”, o ancora meglio “espulsione”, del “corpo estraneo” dal proprio “spazio comunitario”.

“Il problema apre la strada all’esame di un altro aspetto della “sfida multiculturale”: quanto sono compatibili la configurazione complessa e multiculturale delle società contemporanee e le strutture politico-istituzionali delle stesse società? Visto da un’altra angolatura, l’attuale società democratica quanta complessità può effettivamente sopportare?”21

I nostri Stati si fondano su un processo storico, culturale e politico ben preciso e, come molti eventi hanno dimostrato, non facilmente “replicabile”: fondamentale in tale processo è il concetto di

cittadinanza nel senso moderno del termine. Seppur scaturita

essenzialmente dall’Illuminismo, e quindi sulla primazia dell’individuo come essere razionale e non per le sue caratteristiche ascrittive, si è arricchita nel tempo fondendosi con le idee di nazione e di

appartenenza.

21

(39)

38

“Di fatto, quindi, la nascita ed il consolidamento degli “Stati nazionali”, e la loro produzione giuridica ed “istituzionale” in senso lato, si basano su identità collettive forti o presunte tali, e questo “marchio di origine” segna la loro crisi.

Il processo di “decadimento” si evidenzia già agli inizi del secolo con il crollo degli stati liberali sotto i colpi dei movimenti autoritari, ma la crescita della complessità sociale e politica acquista dimensioni veramente critiche negli anni Settanta, tanto da far ipotizzare una nuova stagione di “crisi della democrazia”.

Il problema anche venti anni fa era l’incapacità di gestire le trasformazioni economiche e sociali sempre più rapide, e rispondere all’emersione dei cosiddetti “nuovi bisogni”: gli stati contemporanei, mantenutisi da allora, seppur con “qualche” modifica, mostrano oggi ancora una volta tutti i loro limiti strutturali.

Scavalcati da processi economici e migratori ormai fuori dal loro controllo, investiti dalla crisi dello stesso concetto di “frontiera”, in un mondo diviso geo-politicamente in grandi aree composte da “regioni” non più delimitabili in modo “classico”, messi in crisi al loro interno dall’esplosione delle rivendicazioni localistiche e micronazionalistche, si dimostrano assolutamente incapaci di gestire il problema della multiculturalità e della presenza sul proprio territorio di identità culturali “forti”, portatrici di nuovi bisogni e dotati di propri retroterra giuridici non compatibili con gli ordinamenti esistenti.

Il problema delle minoranze è l’aspetto più evidente di tale crisi, e rischia di mandare in tilt le istituzioni classiche.

Di fronte a questo fenomeno, anche gli stessi cittadini si pongono in maniera critica, spesso esasperando il problema connesso dell’”ordine pubblico” o “rigettando” completamente il rapporto con l’altro.

(40)

39

In questo caso è effettivamente difficile potere indicare una via di uscita”22.

In un certo senso si ripropone un problema connaturato alla stessa democrazia, che consiste nel domandarsi se può una democrazia tollerare l’esistenza di movimenti o tendenze antidemocratiche23

.

Al di fuori delle logiche liberali e comunitariste, di cui abbiamo ampiamente discusso sopra, si colloca il pensiero di un altro importante studioso e intellettuale, che ha guardato con grande sensibilità al tema del multiculturalismo e alle condizioni di convivenza socio-politica della società contemporanea: Alain Touraine.

Egli è molto critico sia rispetto all’interpretazione liberale che a quella comunitarista nei riguardi del multiculturalismo; sia l’una che l’altra interpretazione possono condurre, a suo avviso, ad una visione distorta della realtà sociale: la prospettiva liberale riduce la società alla logica del mercato e del profitto, quella comunitarista, invece, riduce la società alla logica identitaria.

La sua prospettiva, quindi, consiste nell’affrontare la condizione della società multiculturale affermando che possiamo vivere insieme con le nostre diversità solo se ci riconosciamo reciprocamente come Soggetti. Per Soggetto egli intende non una riflessione dell’individuo su sé stesso o l’immagine ideale di sé tracciata nell’intimità, ma azione e lavoro.

Per questo la Soggettività di cui egli parla s’individua solo all’interno dei movimenti sociali.

22 www.ariannaeditrice.it

(41)

40

Il multiculturalismo non deve essere quindi inteso nè come una frammentazione illimitata dello spazio culturale, né come una sorta di

melting pot culturale su scala mondiale.

“La democrazia deve essere definita come la politica del Soggetto. Essa consiste nel riconoscere l’Altro come Soggetto, vale a dire come un agente responsabile della combinazione tra razionalità ed identità - al pari di tutti gli attori sociali personali o collettivi - la cui libertà d’inventare una particolare combinazione è sia un diritto fondamentale che il principio più importante d’organizzazione della vita sociale.”

(A.Touraine)24

Quello del multiculturalismo è un tema che assume implicazioni interpretative piuttosto ampie dal punto di vista epistemologico. Parlare di multiculturalismo non significa solo dover analizzare il concetto da un punto di vista teorico-sociologico e il fenomeno nel suo manifestarsi nella società contemporanea: significa anche porsi complesse domande relative alla sfera giuridica, alla definizione delle strutture istituzionali e politiche e anche alle rappresentazioni cognitive che individui e gruppi danno della realtà che vivono.

Senza chiarire l’articolazione e i reciproci legami di tutti questi elementi, l’approccio al dibattito multiculturalista rischia di trasformarsi in una mera speculazione filosofica, densa delle convinzioni radicate a livello sociale e culturale25.

24

A.Touraine, La democrazia come politica del Soggetto, 1997. 25 www.dialetticaefilosofia.it

(42)

41

La mancanza di reali politiche per l’integrazione e la contemporanea necessità di confrontarsi con le sfide poste dalle minoranze etniche e le tendenze migratorie attuali e future, fanno dell’Italia un interessante laboratorio per l’elaborazione almeno sul piano teorico, di un modello di integrazione innovativo, basato sul riconoscimento ed il rispetto della diversità.

Il rischio è però che l’immigrazione nel nostro paese cresca ad un ritmo molto più veloce della nostra capacità di inquadrare, analizzare e trovare risposte efficaci a fronteggiare il fenomeno.26

(43)

42 1.3.1 Il pregiudizio tra natura e cultura

Quella della multiculturalità è una sfida che riguarda oggi tutto l’occidente che mette sotto pressione i paradigmi di razionalità ed i nostri reticoli interpretativi che spesso si dimostrano inadeguati alla problematicità connessa a questa situazione.

Geerz27, a riguardo, ricorre alla categoria della differente nazionalità nel sottolineare i legami di appartenenza che concorrono a definire l’identità dell’individuo.

Ha introdotto il concetto di “identità primordiali”, con questo concetto si intende una forma d’attaccamento ad una realtà sociale, vissuta come legata alla propria dimensione esistenziale: il parlare una determinata lingua, l’essere nato in un determinato luogo, il professare una religione piuttosto che un’altra.

Si tratta di un concetto interessante ma non privo di limiti, infatti risulta disattento alle dinamiche di ridefinizione del proprio sé che avvengono a contatto con culture diverse.

Nonostante queste problematicità il concetto esprime con chiarezza il senso di appartenenza e il bisogno di riconoscimento della propria cultura.

(44)

43

Un’altra affermazione emblematica che descrive il senso d’appartenenza alla propria cultura appartiene allo storico greco Erodoto:

“se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo avere bene considerato, ognuno sceglierebbe le proprie.

A tal punto ciascuno è di gran lunga convinto le sue proprie usanze siano le migliori di tutte”

È a partire da questo che si costituiscono le immagini simboliche dell’altro, pertanto le relazioni tra “noi” percepiti come appartenenti ad una stessa cultura, e gli “altri”, definiscono il campo dei rapporti multiculturali.

Tuttavia se è vero che non esistono individui formati senza vincoli di appartenenza culturale, è anche vero che nella società globale non esistono individui interamente nutriti di valori ereditati.

L’afflusso e lo stanziamento di popolazioni straniere in un territorio ripropone il difficile rapporto con la diversità, generando diffidenza e meccanismo di esclusione che nelle manifestazioni più estreme possono sfociare in razzismo.

Tali atteggiamenti possono essere prevenuti ed eliminati attraverso interventi sociali ed educativi, partendo dall’individuazione e della conoscenza dei meccanismi che li originano.

1)La diffidenza e la paura nei confronti del diverso sono state interpretate nella prospettiva evoluzionista come un primitivo istinto volto a salvaguardare il gruppo d'appartenenza ed il successo riproduttivo all’interno di questo.

(45)

44

Se nelle specie animali l’unitarietà del gruppo è data dalla consanguineità per l’uomo questa viene sostituita da elementi che appartengono alla sfera culturale.

La cultura, peculiarità dell’essere umano, fa si che la tendenza a favorire coloro che condividono il proprio patrimonio genetico sia trasferita ad un livello più esteso, quello dell’appartenenza, che permette di poter distinguere i nemici.

2)Nel 1936 l’antropologo Raplh Linton28

osserva che così come un

abitante delle profondità marine non ha consapevolezza

dell’elemento acqua, così l’uomo nel corso della sua storia ha avuto solo una vaga e superficiale conoscenza dell’esistenza della cultura, nella quale è immerso, per questo motivogli esseri umani sviluppano naturalmente la tendenza a giudicare le culture altre secondo i criteri che sono specifici della propria, sviluppando atteggiamenti definibili come etnocentrici.

3)La mente viene bombardata costantemente da un’enorme quantità di informazioni, che non possono essere analizzate e memorizzate singolarmente, pertanto la mente utilizza strategie per organizzarle, raggruppandole in insiemi omogenei, attraverso la categorizzazione. In questo meccanismo ha luogo anche la accentuazione percettiva, processo che opera sopravvalutando gli aspetti comuni e sottovalutando le differenze.

Questo avviene quotidianamente, anche all’interno di un gruppo omogeneo culturalmente, ma è più evidente nelle percezioni sociali in contesti multiculturali, dove i diversi da noi vengono percepiti come categorie sociali piuttosto che come individui singoli.

Individui appartenenti a gruppi diversi sono assimilati nelle caratteristiche fisiche psicologiche e comportamentali, tanto più in

(46)

45

maniera marcata quanto più l’out- group risulti differente e lontano per cultura ed etnia.

4)Gordon Allport nel 1954 pubblicò l’articolo “la natura del pregiudizio”29 in cui, oltre ad esporre le sue teorie sulla natura del

pregiudizio, appunto, sollecitava delle scelte politiche al fine di eliminarlo dando anche indicazioni pratiche per ottenere risultati soddisfacenti.

Le ipotesi di Allport , confermate in larga parte dalla ricerca sul campo, si basavano sul fatto che il contatto intergruppi ha un ruolo determinante nel diminuire l’ignoranza riguardo il gruppo esterno, favorendo la rimozione del pregiudizio:

- Conoscere e comprendere l’altro modifica gli atteggiamenti nei confronti dell’out-group

- Fornire informazioni sul gruppo esterno, migliorerebbe le percezioni, poiché è proprio la non conoscenza il fattore scatenante del pregiudizio.

- Scoprire una somiglianza tra i gruppi favorisce l’attrazione tra i rispettivi membri30.

29

G. Allport, La natura del pregiudizio, La nuova Italia, Firenze 1974

30 P. D’Ignazi e R. Persi , Migrazione femminile, discriminazione e integrazione , collana di sociologia Franco Angeli, Milano, 2004

(47)

46

1.4 Teorie della migrazione e apporti della femminizzazione delle migrazioni all’approccio transnazionale

Non si può prescindere, studiando ed analizzando i processi migratori, nel loro dinamismo, dal chiedersi quali siano i motivi che inducono un individuo a spostarsi.

Al riguardo si sono confrontate due grandi prospettive sociologiche: quella macrosociologica, detta anche strutturalista, che fa risalire la causa delle migrazioni a forze esterne che possono essere forze di natura politica, economica o anche culturale.

La prospettiva macrosociologica al contrario, parte dall’individuo e lo considera un attore razionale e attivo nel processo decisionale, con l’obbiettivo di massimizzare il proprio benessere31.

Andiamo ad analizzare nello specifico le due prospettive:

LA PROSPETTIVA MACROSOCIOLOGICA, si basa sulla

distinzione tra:

- Push factors: fattori interni alla società di origine che spingono la popolazione a emigrare (cattive condizioni di vita, povertà, ecc.) - Pull factors: fattori interni alla società di destinazione, di solito quelle più sviluppate, che attraggono nuovi migranti, perchè in grado di offrire migliori condizioni di vita, maggiori opportunità lavorative o maggiore sicurezza.

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