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Valutazione dei livelli circolanti di betatrofina in bambini e adolescenti sani, con diabete mellito tipo 1 o con eccesso ponderale.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN PEDIATRIA

Valutazione dei livelli circolanti di betatrofina in bambini ed adolescenti sani,

con diabete mellito tipo 1 o con eccesso ponderale.

Relatore

Chiar. mo Prof. Giovanni FEDERICO

Candidato

Dott.ssa Emioli RANDAZZO

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2

INDICE

RIASSUNTO ... 3

INTRODUZIONE ... 5

Il diabete mellito: generalità ... 5

Il diabete mellito tipo 1: epidemiologia ... 7

Il diabete mellito tipo 1: eziopatogenesi ... 8

Il diabete mellito tipo 1: presentazione clinica ... 11

Il diabete mellito tipo 1: gestione terapeutica ... 112

Obesità: generalità ... 14

Betatrofina: generalità ... 17

SCOPI DELLO STUDIO ... 21

MATERIALI E METODI ... 222

Caratteristiche dei partecipanti allo studio ... 222

Protocollo di studio ... 244 Analisi statistica ... 246 RISULTATI ... 27 DISCUSSIONE ... 31 CONCLUSIONI ... 36 BIBLIOGRAFIA ... 37

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RIASSUNTO

Introduzione. Recentemente è stato osservato, su modelli animali, che la betatrofina agisca

come un potente fattore mitogeno sulle beta cellule pancreatiche: se questo si rivelasse vero anche nell’uomo, essa costituirebbe un nuovo target in grado di stimolare la rigenerazione endogena della beta cellule, permettendo un significativo avanzamento nella terapia dei pazienti affetti da diabete mellito. Inoltre, sempre su modelli animali, è stato evidenziato che la betatrofina sia strettamente collegata ai livelli circolanti di trigliceridi: in particolare i topi con una iperespressione di betatrofina presentavano livelli circolanti di trigliceridi incrementati, portando numerosi autori a concludere che l’inibizione della betatrofina potrebbe essere una strategia terapeutica per la dislipidemia attraverso la riduzione dei trigliceridi plasmatici, costituendo un potenziale target per farmaci utilizzabili sia per la dislipidemia che per il diabete.

Ad oggi, esistono pochi studi al riguardo in età evolutiva. Lo scopo del presente lavoro è stato quello di valutare il comportamento dei livelli circolanti di betatrofina in bambini e adolescenti con DM1 all’esordio clinico della malattia, con obesità, oltre che in soggetti sani di controllo, paragonabili per età e sesso.

Materiali e metodi. Sono stati reclutati 47 soggetti in età evolutiva (età media 10,2 4,2

anni) suddivisi in 3 gruppi: un gruppo di soggetti con DM1, un gruppo con obesità e un gruppo di soggetti sani paragonabili per età e sesso. Tutti i partecipanti allo studio sono stati sottoposti, presso la Sezione di Diabetologia Pediatrica della U.O. Pediatria Universitaria del Dipartimento Materno-Infantile dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, alla valutazione auxologica e della composizione corporea con bioimpedenziometria. In tutti è

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4 stato eseguito un prelievo ematico per il dosaggio della betatrofina. Nei soggetti con DM1 sono inoltre stati valutati i livelli circolanti di HbA1c e peptide C, mentre in quelli con obesità è stata dosata la glicemia e l’insulinemia.

Risultati. I livelli di betatrofina sono risultati significativamente aumentati nei pazienti affetti

da DM1 (p= 0,047) e in quelli con obesità (p=0,0035), rispetto ai controlli sani. Nei soggetti con DM1 è stata osservata una correlazione inversa e statisticamente significativa tra i livelli circolanti di betatrofina e quelli di peptide C (r2= -0,25; p=0,02). Nei soggetti obesi i livelli circolanti di betatrofina correlavano in modo diretto e statisticamente significativo con l’insulinemia (r2= 0,38; p=0,01) e l’HOMA-IR (r2= 0,36; p= 0,02).

Conclusioni. I dati del presente lavoro di tesi mostrano un diverso comportamento dei livelli

circolanti di betatrofina nei pazienti con DM1 e obesità rispetto ai controlli. La correlazione inversa, statisticamente significativa, tra betatrofina e peptide C osservata nei pazienti con DM1 all’esordio, potrebbe suggerire un ruolo di questo fattore nel preservare la massa betacellulare residua. La correlazione diretta, statisticamente significativa, tra betatrofina e insulinemia e HOMA-IR, osservata nei pazienti con obesità, potrebbe suggerire che questo sia un peptide prodotto in risposta allo stato d’insulinoresistenza, che possa anche rappresentare un biomarcatore precoce d’insulinoresistenza.

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INTRODUZIONE

Il diabete mellito: generalità

Il termine diabete mellito descrive una serie di disordini metabolici caratterizzati da iperglicemia cronica che derivano da un difetto di secrezione e/o di azione dell’insulina. L’inadeguata secrezione di insulina e/o la resistenza dei tessuti all’azione dell’ormone determinano una profonda alterazione del metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e delle proteine (1).

Il diabete mellito viene classificato in 4 categorie:

 diabete mellito tipo 1 (causato dalla distruzione delle beta cellule pancreatiche con conseguente deficit completo nella produzione di insulina);

 diabete mellito tipo 2 (causato dalla combinazione tra un progressivo difetto nella secrezione di insulina ed una resistenza dei tessuti all’insulina stessa);

 diabete gestazionale (che insorge nel secondo o terzo trimestre di gravidanza in assenza di precedente diagnosi di diabete);

 diabete mellito da altre cause specifiche (MODY, patologie esocrine del pancreas, diabete iatrogeno) (2).

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6 I criteri diagnostici del diabete mellito, universalmente accettati, si basano sul dosaggio del glucosio ematico e sulla presenza o assenza di sintomi. La diagnosi di diabete pertanto può essere posta nelle seguenti condizioni:

 presenza dei sintomi classici del diabete e di una glicemia random > 200 mg/dl; oppure

 glicemia a digiuno > 126 mg/dl; oppure

 glicemia 2 ore dopo il carico glucidico in corso di OGTT > 200 mg/dl; oppure

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Il diabete mellito tipo 1: epidemiologia

Nei paesi occidentali il diabete mellito tipo 1 (DM1) costituisce il 90% dei casi di diabete con esordio in età pediatrica; si calcola che nel mondo vi siano circa 500.000 soggetti affetti con una incidenza di circa 80.000 casi/ anno nella fascia di età compresa da 0 a 14 anni. L’incidenza e la prevalenza della malattia variano in base alle zone geografiche: in particolare i valori più alti si registrano in Finlandia (> 60 nuovi casi su 100.000/anno) ed in Sardegna (40 nuovi casi su 100.000/anno), mentre i valori più bassi in Giappone (2.37/100.000 anno) ed in Cina, dove si osserva una incidenza di circa 1.09 casi su 100.000/anno anche se il trend sembra essere in notevole aumento. Il motivo di queste grandi differenze rimane ancora poco chiaro anche se si ipotizza che i fattori ambientali abbiano un ruolo chiave come trigger di malattia su diversi substrati genetici. Discussa è anche la stagionalità della insorgenza della malattia: benché tutti gli autori siano concordi nel segnalare cluster stagionali di esordio, secondo alcuni il picco è invernale mentre secondo altri è in primavera/estate. Per quanto riguarda la distribuzione fra i sessi è da notare come, contrariamente alle altre patologie autoimmuni che colpiscono prevalentemente le femmine, nel DM1 non sembra esserci una sostanziale differenza di incidenza tra i generi (1,3).

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Il diabete mellito tipo 1: eziopatogenesi

Il DM1 è definito come una sindrome clinica ad eziologia multifattoriale ed a patogenesi autoimmune; è caratterizzato da una distruzione immunomediata delle beta cellule pancreatiche che, nel tempo, conduce ad un parziale, o più spesso totale, deficit di secrezione di insulina. Nella maggior parte dei casi si tratta di un processo autoimmune rivolto contro le beta cellule che diventa clinicamente sintomatico quando circa il 90% delle stesse sono distrutte (DM1A); nei casi in cui vi sia un quadro clinico suggestivo di diabete tipo 1 ma non è possibile documentare la presenza di anticorpi specifici si parla di DM1B o idiopatico.

L’eziologia è sicuramente multifattoriale ma il ruolo specifico della suscettibilità genetica, dei fattori ambientali e della reattività del sistema immune che sottintendono al processo patogenetico alla base del DM1 rimangono tutt’oggi poco chiari.

La suscettibilità individuale allo sviluppo del diabete mellito tipo 1 è stata associata a numerosi geni con più di 60 loci a rischio identificati fino ad ora. Gli aplotipi che correlano con un elevato rischio di sviluppare il DM1 nella nostra popolazione sono:

 HLA DR3- DQA1 0501- DQB1 0201

 HLA DR4- DQA1 0301- DQB1 0302

Per gli individui eterozigoti per i due aplotipi HLA ad alto rischio (DR3/4) l’Odd Ratio per lo sviluppo di DM1 è di 30, tuttavia meno del 10% dei soggetti predisposti geneticamente sviluppa la malattia il che evidenzia il ruolo chiave dei fattori ambientali nell’eziopatogenesi della patologia.

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9 I fattori ambientali triggers che inducono la distruzione delle beta cellule pancreatiche innescando la risposta autoimmune rimangono ancora sconosciuti anche se alcune infezioni virali (CMV, EBV, Coxsakievirus B4, Enterovirus e Rosolia) sono state ripetutamente imputate come fattori scatenanti. Tra i fattori di rischio chiamati in causa ci sono inoltre l’introduzione precoce nella dieta di caseina, di insulina bovina e di glutine mentre l’allattamento materno esclusivo e prolungato, l’esposizione ad acidi grassi Omega 3 e l’assunzione di vitamina D potrebbero avere un ruolo protettivo (1,4).

L’interazione tra trigger ambientali e uno specifico pattern genetico determina l’attivazione del sistema immunitario contro le beta cellule pancreatiche. In particolare le insule pancreatiche vengono infiltrate da linfociti T CD4+ - CD8, linfociti B, macrofagi e cellule natural killer (insulite) con conseguente distruzione delle cellule con un meccanismo di tipo apoptotico. Con il passare del tempo quindi il numero delle beta cellule si riduce progressivamente fino a che il pancreas non riesce più a secernere una quantità adeguata di insulina con conseguente esordio clinico della malattia diabetica (5,6,7).

L’attivazione del sistema immunitario verso le insule pancreatiche è testimoniata dalla comparsa in circolo di autoanticorpi anche se la loro presenza non è un criterio diagnostico per sé. Gli autoanticorpi associati al DM1 sono:

 IAA (anticorpi anti insulina)

 GAD (anticorpi anti glucosaminidasi)

 IA2 (anticorpi anti antigeni della tirosinchinasi)

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10  ZnT8 (anticorpi anti trasportatore n. 8 dello zinco).

La comparsa di questi anticorpi non è segno di malattia attiva e può precedere di alcuni mesi, fino a molti anni, l’esordio clinico di questa. Il DM1 evolve in diverse fasi: una fase preclinica (può durare da alcuni mesi fino ad anni ed è caratterizzata dalla presenza in circolo degli autoanticorpi specifici), una fase di presentazione clinica, una fase di parziale remissione clinica (detta di luna di miele che riguarda l’80% dei soggetti affetti e che comincia alcune settimane dopo l’inizio della terapia con insulina e può durare variabilmente da alcuni mesi fino ad anni) ed una fase cronica di dipendenza dall’insulina esogena (4).

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Il diabete mellito tipo 1: presentazione clinica

I sintomi classici di esordio del diabete si manifestano quando circa il 90% delle beta cellule sono state distrutte e tipicamente sono: poliuria, polidipsia, nicturia, enuresi, polifagia e perdita di peso; quando il glucosio ematico supera i valori di 180 mg/dl si ha glicosuria e diuresi osmotica. In caso di ritardo nella diagnosi e nel trattamento si ha la progressione del quadro clinico fino alla chetoacidosi diabetica (DKA) che nel 20-40% dei casi è presente all’esordio. La DKA è una sindrome metabolica causata dal deficit dei livelli circolanti di insulina insieme all’incremento dei livelli circolanti degli ormoni controinsulari (le catecolamine, il glucagone, il cortisolo e l’ormone della crescita). La combinazione di questi due ordini di fattori determina uno stato catabolico con incremento della produzione di glucosio da parte del fegato e dei reni (glicogenolisi e gluconeogenesi); il simultaneo alterato utilizzo del glucosio circolante da parte dei tessuti ha come conseguenza l’iperglicemia e iperosmolarità. Lo sbilanciamento fra produzione di insulina e di ormoni controinsulari determina inoltre un incremento della lipolisi e della chetogenesi con conseguente chetonemia ed acidosi metabolica.

La DKA clinicamente si manifesta con disidratazione, tachipnea, respiro di Kussmaul, nausea, vomito, dolore addominale, alterazione del sensorio, shock fino al coma chetoacidosico con serio pericolo per la vita del paziente (8).

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Il diabete mellito tipo 1: gestione terapeutica

I cardini della terapia del DM1 sono: la terapia insulinica sostitutiva, una corretta e bilanciata alimentazione e l’attività fisica. Per quanto riguarda la terapia insulinica, si utilizzano insuline analoghe a quelle umane che vengono somministrate per via sottocutanea nell’ambito di un regime bolus oppure in infusione continua mediante microinfusore. Il regime basal-bolus prevede la somministrazione di un analogo ad azione lenta (generalmente una volta al giorno) al fine di mantenere l’omeostasi della glicemia nell’arco delle 24 ore, e di un analogo ad azione ultra rapida prima dei pasti principali o anche tra un pasto e l’altro, al fine di mantenere i valori glicemici in target controllando le fluttuazioni glicemiche post prandiali. L’obiettivo di questo schema terapeutico è mimare il più possibile la secrezione fisiologica di insulina da parte delle beta cellule per garantire un buon controllo metabolico in modo tale da ridurre il rischio di complicanze acute (ipoglicemia e chetoacidosi) e complicanze a lungo termine microvascolari (retinopatia, nefropatia, neuropatia) e macrovascolari (patologia cardiovascolare e cerebrovascolare). Per quanto riguarda l’alimentazione, è importante educare i pazienti affetti da DM1 a distribuire in modo equilibrato i macronutrienti nell’ambito dei pasti (i carboidrati devono costituire circa il 50-55% dell’energia, i lipidi il 30-35% e le proteine il 15-20%) ed a somministrarsi una dose di insulina che sia adeguata alla quota di carboidrati assunti, proponendo un regime terapeutico flessibile e personalizzabile sulla base delle abitudini alimentari (9). Per quanto riguarda l’esercizio fisico, infine, è importante incoraggiare i bambini e gli adolescenti a praticarlo in modo costante e regolare al fine di controllare il peso corporeo, migliorare il controllo glicometabolico e ridurre il rischio cardiovascolare. Anche in questo caso la terapia insulinica andrà modulata sulla base del tipo di attività svolta (aerobica e/o anaerobica), sull’intensità e sulla durata al fine di

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13 personalizzare il regime terapeutico e ridurre al minimo ipoglicemie e/o iperglicemie post esercizio(10).

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Obesità: generalità

L’obesità è una condizione multifattoriale caratterizzata da un eccesso di massa grassa o adiposità. La prevalenza mondiale dell’obesità in età pediatrica è incrementata notevolmente al punto che la WHO parla di “epidemia globale”: in particolare negli Stati Uniti l’incidenza dell’obesità nella popolazione pediatrica è passata da meno del 5% a circa il 20% negli ultimi 30 anni, tanto che 1/4 dei bambini sono sovrappeso o obesi. Basandosi su dati del 2010, in Italia 1.100.000 bambini tra i 6 e gli 11 anni sono sovrappeso o obesi. Il principale fattore predittivo dell'obesità in età adulta è la presenza di obesità durante l'infanzia. Inoltre gli adulti obesi, che erano obesi da bambini, hanno una prognosi peggiore in termini di sviluppare le complicanze rispetto a quelli che lo sono diventati successivamente. Circa 1/3 dei bambini in età prescolare obesi diventeranno obesi da adulti, come il 50% di quelli in età scolare ed il 70% degli adolescenti. L'obesità si definisce sulla base del BMI, in particolare bambini ed adolescenti con un BMI compreso tra 85° e 95° percentile per età e sesso sono considerati sovrappeso, mentre quelli con un BMI maggiore del 95° percentile sono considerati obesi. L’obesità deriva da un intake energetico che eccede la spesa energetica ed è correlato all'assunzione di cibo, all'esercizio fisico, all'acquisizione di peso durante l'infanzia, a fattori metabolici, ormonali, genetici ed ambientali. La patogenesi è complessa e non del tutto chiara ma è una sindrome multifattoriale che deriva sostanzialmente dall’interazione tra fattori ambientali (alimentazione non corretta e/o ridotta attività fisica) e una predisposizione individuale influenzata da fattori genetici ed epigenetici.

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15 Da un punto di vista eziologico l'obesità può essere primitiva nel 95% dei casi oppure secondaria a cause organiche nel 5% quali:

 endocrinopatie (ipotiroidismo, deficit di GH, sindrome di Cushing);

 sindromi gentiche (Prader Willi, Laurence Moon-Biedl, mutazioni di singoli geni);

 patologie del sistema nervoso centrale (tumori/lesioni ipotalamici).

Essa si associa ad un aumentato rischio di sviluppare complicanze croniche quali l’ipertensione, la dislipidemia, il diabete mellito tipo 2, complicanze cardiovascolari, asma, apnee notturne, osteoartriti e tumori in età adulta. L’insulinoresistenza (IR) è il comune denominatore delle complicanze metaboliche e cardiovascolari dell’obesità. La sindrome metabolica (SM) è un cluster di anomalie metaboliche quali ipertensione arteriosa, dislipidemia e ridotta tolleranza glucidica associata ad un incremento del rischio cardiovascolare e di diabete mellito tipo 2. La SM è presente nel 20-40% dei bambini obesi. Nella patogenesi della sindrome metabolica sono implicati principalmente obesità e disordini del tessuto adiposo ed insulinoresistenza. L’ipotesi più accreditata vede l’IR come elemento fondamentale nello sviluppo di tale sindrome. Il contributo maggiore alla genesi dell’IR è dato da un eccesso di acidi grassi liberi circolanti (NEFA) i quali vengono ossidati nel fegato e nel tessuto muscolare con aumento della produzione cellulare di Acetil-CoA che, a livello epatico stimola la gluconeogenesi e, a livello muscolare, inibisce l’ossidazione. Nel fegato si ha inoltre un incremento della produzione di trigliceridi e di VLDL con incremento delle LDL circolanti che sono maggiormente aterogene e suscettibili all’ossidazione, con contemporanea riduzione delle HDL. Inoltre in condizioni di obesità ed IR il tessuto adiposo secerne elevati livelli di citochine proinfiammatorie quali IL 6, TNF alfa, resistina e bassi livelli di adiponectina. Quest’ultima agisce riducendo la sintesi lipidica e la produzione di glucosio

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16 da parte del fegato determinando una riduzione degli acidi grassi liberi e del glucosio ematico, mentre sul muscolo aumenta l’ossidazione dei grassi e quindi il consumo di energia. Tali azioni risultano sovvertite in condizioni di ridotta produzione di adiponectina. L’incremento sia dei NEFA che delle citochine proinfiammatorie causa un incremento nella produzione epatica di glucosio, di VLDL e di fibrinogeno. Tutti questi meccanismi biochimici stanno alla base delle alterazioni metaboliche tipiche dell’obesità e chiariscono lo stato infiammatorio alla base di essa (11,12).

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Betatrofina: generalità

Gli individui affetti da diabete mellito nel mondo sono ormai vicini ai 400 milioni e la stima è che raggiungano i 600 milioni entro il 2035 (13). Il comune denominatore nella patogenesi sia del DM1 sia del DM2 è la perdita di parte della massa beta cellulare funzionante: la riduzione di essa conduce ad un deficit insulinico assoluto (DM1) o relativo (DM2) ed a iperglicemia (14). All’esordio del DM1 generalmente il numero delle beta cellule è ridotto del 20-40% rispetto al normale e continua a decrescere nel tempo. Nella maggior parte dei pazienti persiste una riserva funzionante per un periodo variabile da settimane a molti anni. Questo suggerisce la possibilità che le beta cellule nei pazienti con DM1 si rinnovino o che esista un pool resistente all’attacco autoimmune. E’ stato osservato che la proliferazione delle beta cellule umane inizia subito dopo la nascita, continua con un alto tasso durante il primo anno di vita per poi declinare rapidamente durante l’infanzia e approssimarsi allo zero in età adulta (15). Il meccanismo genetico che controlla la proliferazione delle beta cellule non è completamente chiaro. Ciononostante alcuni autori hanno osservato che CDK6 e le cicline D1/D2 ne promuovono la proliferazione; altri invece hanno identificato i fattori di trascrizione E2F1/2 come essenziali per il processo di replicazione. Inoltre il glucosio, la prolattina, il GLP-1 e l’acido gamma-aminobutirrico avrebbero un effetto mitogeno sulle beta cellule umane, ma i meccanismi rimangono poco chiari (15,16). Trovare un ormone o un farmaco che, inducendo la proliferazione delle beta cellule, ne possa ristabilire la massa funzionante, desta grosso interesse come nuova frontiera terapeutica del diabete mellito.

La betatrofina, anche conosciuta come RIFL (reefeding-induced fat and liver protein) o ANGPTL8 (angiopoietin-like protein 8) o lipasina, appartiene alla famiglia delle angiopoietine, è una proteina costituita da 198 amminoacidi e presenta una struttura secondaria costituita da 2 alfa eliche. Il gene

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18 che codifica per questa proteina è C19orf80 e mappa sul cromosoma 19p13.2. Nel topo è espressa nel fegato e nel tessuto adiposo, mentre nell’uomo è espressa esclusivamente nel fegato. La sua espressione sembra essere regolata sia da fattori nutrizionali (è indotta da una alimentazione ad alto contenuto di grassi e ridotta dal digiuno) sia dalla temperatura (ne aumenta l’espressione l’ambiente freddo) (15). Altri fattori che modulano l’espressione della betatrofina sono: l’insulina, che ne induce l’espressione a livello degli adipociti durante la lipogenesi, l’irisina e la triiodotironina. L'irisina è un peptide codificato dal gene FNDC5N nel muscolo scheletrico in risposta all'esercizio fisico. Tale proteina è espressa dal tessuto adiposo bianco e bruno dove incrementa i livelli delle proteine UCP1 e regola sempre a questo livello la termogenesi e il consumo energetico. Inoltre si è visto che l’irisina migliora l'insulinoresistenza e promuove la perdita di peso. E' stato infatti osservato che nei soggetti con DM2 i livelli di irisina sono ridotti. Inoltre alcuni studi su modelli animali dimostrerebbero che essa promuove la proliferazione delle beta cellule e inibisce l'apoptosi cellulare anche se i meccanismi attraverso i quali esplica tale azione sono ancora poco chiari. Un link tra l’irisina e la betatrofina è stato recentemente descritto negli adipociti dei modelli animali dove si è evidenziato come l'irisina incrementi l'espressione dell'mRNA della betatrofina (17,18,19). Nell’uomo la triiodotironina (T3) induce l’espressione dell’ANGPTL8 attraverso la formazione di un eterodimero tra il recettore THR alfa e beta e il recettore RXR (20). Il nome betatrofina gli è stato attribuito da Yi et al. che hanno studiato il suo effetto sulle beta cellule pancreatiche di modelli animali. In particolare, hanno trattato dei topi con un antagonista del recettore dell’insulina (S961) per una settimana in modo da indurre ridotta tolleranza glucidica ed iperinsulinemia. Concomitantemente hanno osservato un incremento dose dipendente della proliferazione betacellulare. Dopo aver interrotto la terapia con S961, hanno osservato che la proliferazione cellulare è tornata ai livelli iniziali. Attraverso la real-time PCR, hanno trovato che l’espressione del mRNA della betatrofina era aumentata da 4 a 6 volte rispettivamente nel tessuto adiposo bianco e nel fegato degli animali trattati con S961 sia obesi, che diabetici che in gravidanza. Al contrario non hanno osservato alcun incremento nell’espressione della betatrofina in topi che avevano subito una perdita acuta della massa betacellulare a causa della

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19 tossina difterica. Questo studio ha indotto Yi et al. a concludere che in modelli animali l’ormone betatrofina, prodotto prevalentemente dal fegato e dal tessuto adiposo in condizioni di insulinoresistenza, agisca come un potente fattore mitogeno sulle beta cellule (16). Basandosi su questi risultati sembrerebbe che essa di per sè non induca insulinoresistenza ma agisca come risposta all’insulinoresistenza attraverso un meccanismo di feedback positivo, per incrementare la massa betacellulare al fine di mantenere l’omeostasi glucidica. Per ciò, se questo si rivelasse vero anche nell’uomo, essa costituirebbe un nuovo target in grado di stimolare la rigenerazione endogena della beta cellule, costituendo un significativo avanzamento nella terapia dei pazienti affetti da diabete mellito (14). Il ruolo della betatrofina è tutt’oggi controverso. Studi successivi effettuati da Gromada et al. su modelli animali hanno dimostrato che la betatrofina non sembrerebbe determinare una sostanziale proliferazione delle beta cellule ma che, piuttosto, sembrerebbe determinare una proliferazione di cellule ematopoietiche CD45+ tra le insule, che potrebbero essere state erroneamente confuse e conteggiate come beta cellule pancreatiche. Inoltre è stato osservato che diversi laboratori utilizzano metodi differenti per l’identificazione delle beta cellule e ciò determinerebbe una variabile quantificazione della proliferazione delle beta cellule stesse, suggerendo la necessità di standardizzare la metodologia di misura e rendendo i risultati precedenti poco attendibili (21). Studi successivi effettuati sull’uomo hanno dato risultati contrastanti. In particolare, i livelli di betatrofina circolante in pazienti adulti affetti da DM1 e DM2 rimane poco chiaro: la maggior parte degli studi comunque evidenzia un incremento della stessa in soggetti affetti da DM1 e DM2 (22,23,24). Una teoria che può spiegare questa discrepanza nei livelli sierici di betatrofina tra studi diversi ce la fornisce Fu et al. Questi autori hanno dimostrato che la maggior parte della betatrofina in circolo non presenta la porzione N terminale. In questo modo utilizzando kit ELISA diversi, alcuni dei quali riconoscono la porzione N terminale mentre altri quella C terminale, sono giunti alla conclusione che la betatrofina nativa potrebbe subire in circolo un clivaggio proteolitico con perdita della porzione C terminale per cui, alla luce di questa evidenza, il dosaggio della betrofina sierica potrebbe essere influenzato dal tipo di kit utilizzato (25). Allo stato attuale,

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20 esistono in letteratura pochi studi che indaghino i cambiamenti dei livelli di betatrofina durante lo sviluppo in bambini ed adolescenti sani, obesi o insulinoresistenti. Parecchi studi inoltre, hanno dimostrato il ruolo dell’ANGPTL8 nel metabolismo lipidico: essa, attraverso l’inibizione della LPL, regolerebbe i livelli plasmatici di trigliceridi e colesterolo. La LPL è un enzima che regola l’omeostasi lipidica idrolizzando i trigliceridi provenienti dalle lipoproteine VLDL e di produrre acidi grassi e glicerolo per il successivo uptake da parte dei tessuti periferici (20). In modelli animali è stato osservato come la betatrofina sia strettamente collegata ai livelli circolanti di trigliceridi, in particolare è stato evidenziato che i topi privi di betatrofina presentavano livelli sierici significativamente più bassi di trigliceridi e NEFA rispetto a topi normali di controllo, mentre i topi che presentavano una iperespressione della betatrofina stessa mostravano livelli incrementati di trigliceridi (26). La riduzione dei livelli sierici di trigliceridi veniva osservata nei topi privi di espressione di betatrofina anche dopo la rialimentazione: essi presentavano una induzione dell’attività lipasica a livello plasmatico in associazione ad un ridotto uptake delle VLDL a livello del tessuto adiposo bianco dopo rialimentazione con conseguente riduzione dei livelli di trigliceridi plasmatici (17). Numerosi studi dimostrano che l’inibizione della ANGPTL8 potrebbe essere una strategia terapeutica per la dislipidemia attraverso la riduzione dei trigliceridi plasmatici, costituendo un potenziale target per farmaci utilizzabili sia per la dislipemia che per il diabete.

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SCOPI DELLO STUDIO

L’interesse scientifico nei confronti del ruolo della betatrofina come potenziale target farmacologico nella gestione terapeutica del diabete mellito e della dislipidemia è andato aumentando negli ultimi anni. Sebbene si trovino in letteratura alcuni lavori eseguiti su pazienti adulti affetti da DM1 o DM2 o obesità, gli studi riguardanti nello specifico il DM1 in età pediatrica sono ad oggi limitati. Lo scopo di questo studio è stato quello di paragonare l’andamento dei livelli circolanti di betatrofina tra bambini ed adolescenti:

- con DM1 all’esordio clinico della malattia

- con obesità

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MATERIALI E METODI

Caratteristiche dei partecipanti allo studio

Lo studio ha riguardato 47 soggetti in età evolutiva con DM1, con obesità e un gruppo di soggetti sani paragonabili per età e sesso, con età media di 10,2 ±4,2 anni, 25 maschi e 22 femmine, reclutati presso la U.O. Pediatria Universitaria, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana.

In particolare, sono stati arruolati nello studio bambini ed adolescenti che rientravano nei seguenti criteri di inclusione:

 Bambini e adolescenti sani di età compresa tra 3 e 17 anni (9,9 ± 4,7), 11 maschi e 3 femmine, con una statura SDS di - 0,3 ± 1,2 ed un BMI SDS di 0,1 ± 1,3 (tabella 1).

 Bambini ed adolescenti affetti da DM1 all’esordio clinico della malattia, di età compresa tra 2 e 16 anni (9,3 ± 4,9), 10 maschi e 9 femmine, con una statura SDS di 0,2 ± 1,2 ed un BMI SDS di -0,2 ± 1,1. La diagnosi di DM1A risultava, in base alle linee guida dell’ISPAD 2014, dal riscontro di positività per i markers autoanticorpali specifici (IA-2, GAD ricercati tramite radioimmunoassay), associato a HbA1c> 6,5 % oppure a valori glicemici pari o superiori a 126 mg/dl a digiuno, oppure in seguito a un episodio di chetoacidosi diabetica. L’HbA1c media era di 11,5 ± 2,3 (tabella 2).

 Bambini ed adolescenti obesi, di età compresa tra 9 e 17 (11,7 ± 2,5), 5 maschi e 9 femmine, con una statura SDS di 1,1 ± 1,0 e un BMI SDS di 2,9 ± 0,4 (tabella 3).

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23 Tutti i partecipanti allo studio e i loro genitori sono stati informati accuratamente sulle procedure e gli scopi dello studio e hanno rilasciato il loro consenso informato alla raccolta e all’utilizzo dei dati.

Tabella 2. Caratteristiche del gruppo di partecipanti allo studio:

DM1.

Numero partecipanti

19

Sesso (M/F)

10/9

Età media ± DS (anni)

9,3 ± 4,9

Statura SDS ± DS

0,2 ± 1,2

BMI SDS ± DS

- 0,2 ± 1,1

CV ± DS (cm)

60,75 ± 8,5

CF ± DS (cm)

71 ± 13,6

Massa magra ± DS (kg)

29,8 ± 15,4

Massa grassa ± DS (kg)

6,2 ± 3,1

HbA1c % ± DS

11,5 ± 2,3

Tabella 3. Caratteristiche del gruppo di partecipanti allo studio:

obesi

Numero partecipanti

14

Sesso (M/F)

5/9

Età media ± DS (anni)

11,7± 2,5

Statura SDS ± DS

1,17 ± 1,09

BMI SDS ± DS

2,9 ± 0,4

CV ± DS (cm)

90,4 ± 11,1

CF ± DS (cm)

102,8 ± 11,4

Massa magra ± DS (kg)

47,7 ± 12,5

Massa grassa ± DS (kg)

38,3 ± 5,2

HOMA IR ± DS

3,7 ± 1,4

(24)

24

Protocollo di studio

Tutti i partecipanti allo studio sono stati sottoposti, presso la Sezione di Diabetologia Pediatrica della U.O. Pediatria Universitaria del Dipartimento Materno-Infantile dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, alla misurazione dell’altezza, della composizione corporea con bioimpedenziometria e all’esecuzione di un prelievo ematico.

L’analisi bicompartimentale della composizione corporea è stata eseguita con bilancia impedenziometrica (Tanita BC-420MA) ottenendo i valori di massa grassa, massa magra e BMI.

Nei soggetti affetti da DM1 campioni di sangue periferico sono stati analizzati con metodiche standard per stabilire i livelli circolanti di HbA1c, insulinemia, glicemia, peptide C, anticorpi anti IA2, anticorpi anti GAD.

Nei soggetti con obesità, i campioni di sangue periferico sono stati analizzati con metodiche standard per valutare i livelli circolanti di insulinemia e glicemia.

I livelli circolanti di betatrofina sono stati valutati in tutti i soggetti che hanno partecipato allo studio. Il dosaggio è stato eseguito presso il Laboratorio della U.O. Malattie Metaboliche e Diabetologia del Dipartimento Specialità Mediche dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, con metodica immunoenzimatica [Betatrophin (139-198) (Human) Enzyme Immunoassay Kit, Phoenix Pharmaceutical Inc., U.S.A.]. In breve, 50 l di campione sono stati incubati, a 4°C per 16 – 24 ore, con un anticorpo anti-betatrofina, diretto contro la regione peptidica compresa tra i residui aminoacidici 139-198, per consentire il legame del complesso anticorpo-betatrofina all’anticorpo secondario adeso alle pareti di una piastra a

(25)

25 96 pozzetti. È stata, quindi, aggiunta betatrofina biotilinata. Dopo un’incubazione a temperatura ambiente per 2 ore, è stato effettuato un lavaggio per eliminare la betatrofina in eccesso, ed è stata aggiunta streptavidina coniugata con perossidasi. La piastra di dosaggio è stata incubata a temperatura ambiente per 1 ora. Dopo una serie di lavaggi, è stato aggiunto TMB (3,3',5,5'-tetrametilbenzidina) come substrato e la piastra è stata incubata per 1 ora a temperatura ambiente. La rezione è stata, quindi, interrotta con HCl 2N e la colorazione dei singoli pozzetti è stata letta con uno spettrofotometro con assorbanza a 450 nm. Interpolando i valori ottenuti dai singoli pozzetti con la curva standard, costruita utilizzando concentrazioni note di betatrofina, sono stati calcolati i risultati espressi in ng/ml.

(26)

26

Analisi statistica

I risultati sono espressi come media ± DS. Dopo aver verificato la distribuzione normale dei vari parametri, i confronti tra medie sono stati effettuati con il test ANOVA. La presenza di una differenza significativa tra le medie dei vari parametri studiati è stata analizzata con il test t di Student.

La relazione tra variabili è stata calcolata con il metodo della stima bivariata.

E’ stato considerato significativo un valore di p<0,05. L’analisi statistica è stata elaborata utilizzando il software JMP versione 12 (SAS Institute Inc, Cary, NC, USA).

(27)

27

RISULTATI

La tabella n. 4 riassume il comportamento dei livelli circolanti di alcuni analiti valutati nei tre gruppi di soggetti esaminati. Come atteso, la glicemia è risultata significativamente maggiore nei soggetti con DM1 rispetto agli obesi.

Tabella 4. Livelli circolanti di alcuni analiti valutati nei tre gruppi di soggetti.

DM1 Obesi Controlli p

Glicemia (mg/dL) 152,6 ± 22,5 79,7 ± 7,5 n.d. < 0.0001

Insulinemia (mUI/ml) n.d. 19 ± 6,7 n.d.

Peptide C (ng/mL) 0,5 ± 0,2 n.d. n.d.

La figura n. 1 mostra il comportamento dei livelli circolanti di betatrofina nei tre gruppi di soggetti. Come si può osservare, i livelli circolanti di betatrofina sono risultati significativamente maggiori nei soggetti con DM1 e in quelli con obesità, rispetto ai controlli sani.

p ₌ 0,047

Figura 1. ANOVA dei livelli circolanti di betatrofina osservati in ciascun gruppo esaminato.

p ₌ 0,047

(28)

28 La presenza di eventuali relazioni tra livelli circolanti di betatrofina e altre variabili sia antropometriche sia bioimpedenziometriche e di laboratorio è stata inizialmente valutata eseguendo un’analisi statistica multivariata prendendo in esame tutta la popolazione arruolata. I livelli circolanti di betatrofina sono stati considerati come variabile dipendente, mentre i dati antropometrici e la composizione corporea come variabili indipendenti.

La tabella 5 riassume i risultati di quest’analisi. In particolare, è stato possibile osservare la presenza di una correlazione positiva, statisticamente significativa, tra i livelli sierici di betatrofina e il BMI SDS, la CV, la CF e la percentuale di massa grassa.

A contrario, non è stato possibile dimostrare la presenza di un’analoga correlazione tra i livelli circolanti del peptide con l’età, con la massa magra e con la statura SDS.

Tabella 5. Analisi multivariata dei livelli circolanti di betatrofina e di

alcune variabili antropometriche e bioimpedenziometriche

Variabile dipendente

Variabile indipendente

p

Betatrofina Età 0,62 Statura SDS 0,1 BMI SDS 0,03 CV 0,02 CF 0,04 Massa grassa 0,05 Massa magra 0,13

E’stata, quindi, eseguita un’analisi statistica multivariata mettendo a confronto i livelli sierici di betatrofina con i valori di peptide C, di insulinemia e di HOMA IR.

Come si può osservare nella figura n. 2, nel gruppo dei soggetti con DM1 è stato possibile osservare una correlazione inversa, statisticamente significativa, tra livelli circolanti di betatrofina e peptide C.

(29)

29

Figura 2. Stima bivariata di betatrofina e peptide C in gruppo di pazienti con DM1.

Le figure nn. 3 e 4 mostrano la presenza di una correlazione diretta, statisticamente significativa, tra livelli sierici di betatrofina e insulinemia e HOMA IR nei pazienti con obesità.

Figura 3. Stima bivariata di betatrofina e insulinemia in gruppo di pazienti obesi.

r2= - 0,25

p = 0,02

r2= 0,38

(30)

30

Figura 4. Stima bivariata di betatrofina e HOMA IR in gruppo di pazienti obesi.

r2= 0,36 p = 0,02

(31)

31

DISCUSSIONE

Con il presente lavoro di tesi abbiamo voluto analizzare l’andamento dei livelli circolanti della betatrofina in una popolazione di età pediatrica costituita da soggetti sani, soggetti affetti da DM1 e obesi. Abbiamo inoltre confrontato i valori circolanti di betatrofina con parametri auxologici e di laboratorio nella popolazione oggetto dello studio e nei vari sottogruppi sia per individuare eventuali variazioni tra i gruppi sia per caratterizzarne meglio il significato clinico-funzionale.

Il possibile ruolo, a tutt’oggi non ancora ben definito, della betatrofina come fattore con azione stimolante sulla proliferazione delle beta cellule pancreatiche, è oggetto di grande interesse in quanto, se questo si confermasse, potrebbe costituire un importante strumento nella terapia del diabete mellito.

I dati sul comportamento della betatrofina, presenti nella letteratura scientifica, riguardano prevalentemente la popolazione adulta. La scarsità di lavori scientifici che riguardano l’età pediatrica, rende di difficile interpretazione e mal confrontabili i risultati ottenuti nel presente lavoro di tesi. In letteratura esistono pochi dati sull’andamento dei livelli circolanti di betatrofina durante le fasi di sviluppo che caratterizzano l’età evolutiva. Questa carenza è ancora più evidente se si considerano determinate condizioni come l’eccesso ponderale e il diabete mellito.

Ad oggi, in letteratura sono presenti 12 studi nei quali è stata indagata una eventuale relazione tra i livelli circolanti di betatrofina e alcuni parametri antropometrici e di laboratorio in pazienti non diabetici adulti (22,23,24,27,28,29,30,31,32,33,34,35). Complessivamente emerge che i livelli circolanti di betatrofina in soggetti adulti, sani e non

(32)

32 in sovrappeso, sono positivamente associati all’età mentre non è stata osservata alcuna relazione con i valori di glicemia a digiuno, di HbA1c, con il profilo lipidico e il loro BMI. Alcuni autori, analizzando una popolazione di bambini ed adolescenti sani, hanno riportato che i livelli di betatrofina risultavano maggiori nei soggetti con età > 8 anni rispetto a quelli con età < 8 anni. Inoltre, gli stessi autori, hanno messo in evidenza livelli circolanti del peptide più alti nei maschi rispetto alle femmine, a parità di BMI (36). A questo proposito, gli autori hanno concluso che questo comportamento della betatrofina potrebbe essere correlato al diverso assetto endocrino, espressione dei vari stadi dello sviluppo puberale. I livelli più alti di betatrofina osservati in gravidanza sostengono questa ipotesi (16).

Nel presente studio, al contrario, non è stato possibile osservare alcuna correlazione significativa tra i livelli circolanti di betatrofina e l’età di tutti i soggetti esaminati (p = 0,6).

In contrasto con quanto osservato nei modelli animali sottoposti ad una perdita acuta di beta cellule, indotta in vitro dalla tossina difterica (16), nella maggior parte degli studi riportati in letteratura, i livelli di betatrofina, in soggetti adulti affetti da DM1 e DM2, sono risultati più elevati rispetto a soggetti sani, paragonabili per età e sesso. Il motivo per cui aumenta la secrezione di questo ormone non è stato ancora chiarito. Poiché nei modelli animali studiati l’induzione dell’insulinoresistenza stimola, attraverso un meccanismo di feedback positivo, il fegato e il tessuto adiposo a secernere il peptide, è possibile che ciò accada anche nei pazienti affetti da DM2, una condizione notoriamente caratterizzata da insulinoresistenza. Più complesso è cercare di chiarire il meccanismo che induce l’aumento dei livelli circolanti di betatrofina nel pazienti con DM1. A tale proposito, una possibile spiegazione riportata da alcuni autori è che anche nelle persone con DM1 nel tempo si vada sviluppando una condizione d’insulinoresistenza. Anche la non fisiologicità della terapia

(33)

33 insulinica (ad es. la modalità di somministrazione), con l’uso di dosi potenzialmente superiori rispetto a quelle sostitutive e l’eventuale sviluppo di anticorpi anti-insulina, potrebbero contribuire a indurre questo meccanismo. E’ stato, inoltre, osservato, che i livelli circolanti di betatrofina non correlavano positivamente né con quelli di HbA1c, né con quelli di peptide C, escludendo un’eventuale associazione sia con il livello di controllo metabolico sia con una residua funzione betacellulare (22). Contrariamente a questi dati, il presente lavoro di tesi ha messo in evidenza la presenza di una relazione statisticamente significativa ed inversa tra i livelli circolanti di betatrofina e quelli di peptide C. L’apparente contrasto con i dati della letteratura potrebbe risiedere nel periodo della storia della malattia in cui i due peptidi sono stati dosati. Nei lavori riportati in letteratura i loro livelli plasmatici sono stati valutati tra 11 mesi e 19 anni dall’esordio clinico del DM1. Nei nostri pazienti, come sopra riportato, il dosaggio è stato eseguito a breve distanza (4,15 ± 1,4) dall’esordio clinico, quando era presente un certo grado di attività residua betacellulare. Quindi, la presenza della relazione inversa tra un marcatore della massa betacellulare residua funzionante come il peptide C e la betatrofina suggerisce che la perdita delle beta cellule possa, con modalità ancora da chiarire, innescare un feedback per la produzione di betatrofina stessa nel tentativo di preservare massa betacellulare suggerendo, in tal modo, il suo potenziale ruolo descritto nel modello animale.

Il presente lavoro di tesi ha messo in evidenza, come già osservato, la presenza di livelli plasmatici di betatrofina significativamente più alti nei soggetti obesi rispetto a quelli riscontrati nei controlli sani (v. figura 1), in accordo con quanto già osservato in alcuni studi eseguiti in soggetti adulti obesi (27,28,29). Questa osservazione è in parziale contrasto con i dati riportati dall’unico lavoro eseguito su una casistica pediatrica che ha preso in esame il comportamento dei livelli circolanti di betatrofina in bambini e adolescenti in sovrappeso o

(34)

34 obesi e in soggetti sani (36). Suddividendo il gruppo di obesi in due sottogruppi, in base alla presenza di insulinoresistenza, gli autori hanno potuto dimostrare che i soggetti obesi con insulinoresistenza avevano livelli circolanti di betatrofina significativamente più alti della controparte non insulinoresistente. Tale differenza significativa era, tuttavia, persa quando i valori ottenuti nei soggetti sani erano confrontati con quelli osservati nei soggetti obesi, indipendentemente dalla presenza dell’insulinoresistenza. Su questo aspetto, gli autori hanno concluso che i livelli circolanti di betatrofina potrebbero rappresentare un indice precoce di insulinoresistenza nell’obesità pediatrica.

Il parziale contrasto tra i dati del presente studio e quelli del lavoro di Wu et al (36) potrebbe essere, in parte, dovuto alla diversa etnia della casistica, all’ampiezza maggiore della popolazione esaminata e al diverso rapporto tra obesi insulinoresistenti/non insulinoresistenti (37.5%/62.5%) rispetto a quello del presente studio (32.4%/67.6%). A supporto del diverso comportamento dei livelli plasmatici di betatrofina tra obesi e soggetti sani, osservato nel presente lavoro di tesi, è necessario anche considerare la correlazione diretta, statisticamente significativa riscontrata tra il peptide e i valori di insulinemia e HOMA-IR. Allo stesso modo, è stata osservata una correlazione diretta, statisticamente significativa, tra i livelli circolanti di betatrofina, massa grassa % e BMI in tutta la popolazione studiata. Questi dati rinforzerebbero il concetto che probabimente, attraverso meccanismi ancora non del tutto chiariti, l’insulinoresistenza stimolerebbe il fegato, attraverso un meccanismo di retrocontrollo positivo, a secernere betatrofina.

Limiti dello studio

Il presente studio di tesi ha alcuni limiti. Il limite principale è rappresentato dal fatto che il numero di soggetti esaminati per ogni singola condizione, inclusi i soggetti sani, è limitato

(35)

35 generando una maggiore dispersione statistica dei dati ottenuti. A tale proposito, questo studio potrà essere proseguito aumentando la casistica in toto. La prosecuzione dello studio permetterà anche di valutare il comportamento dei livelli circolanti di betatrofina nel tempo, nel singolo paziente. Questo aspetto può avere rilevanza proprio nei soggetti con DM1A e in quelli con obesità, consentendo di caratterizzare meglio il ruolo della betatrofina in tali condizioni.

Un altro aspetto è rappresentato dal fatto che non è stato studiato l’assetto lipidico dei soggetti arruolati che, come precedentemente riportato, può essere influenzato dai livelli di betatrofina.

(36)

36

CONCLUSIONI

Lo scopo del presente lavoro di tesi è stato la ricerca di relazioni, ancora non del tutto chiarite, tra i livelli circolanti di betatrofina e parametri auxologici e laboratoristici in bambini ed adolescenti sani, affetti da DM1 e obesità. La letteratura a cui abbiamo potuto fare riferimento è esigua e nella maggior parte dei casi si riferisce ad una popolazione di adulti. Dai nostri dati complessivamente emerge che i livelli sierici di betatrofina si modificano in alcune condizioni come il DM1A e l’obesità, anche se non stato ancora del tutto chiarito quali sono i fattori che determinano queste modificazioni e quale sia la funzione di tale peptide in tali condizioni.

La correlazione inversa e statisticamente significativa tra betatrofina e peptide C, osservata nei pazienti con DM1 all’esordio, potrebbe suggerire un ruolo della betatrofina nel preservare la massa betacellulare residua.

La correlazione diretta, statisticamente significativa, tra betatrofina ed insulinemia e HOMA-IR osservata nei pazienti con obesità, potrebbe suggerire la betratrofina come un peptide prodotto in risposta allo stato di insulinoresistenza, presente in questi soggetti, per prevenire la disfunzione beta cellulare, potendo anche rappresentare biomarcatore precoce di insulinoresistenza.

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