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Le misure cautelari nel processo agli enti. Il difficile bilanciamento tra esigenze di effettività e tutela delle garanzie

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea magistrale in Giurisprudenza

Le misure cautelari nel processo agli enti.

Il difficile bilanciamento tra esigenze di effettività e

tutela delle garanzie

Il Candidato

Il Relatore

Diana Cavaliere

Prof.ssa Benedetta Galgani

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Indice

Introduzione 1

I. Il sistema sanzionatorio 25

1. Lineamenti generali 25

2. La sanzione amministrativa pecuniaria 35

3. Le sanzioni interdittive 44

3.1. I presupposti applicativi 53

3.2. I termini di durata e l’applicazione delle sanzioni in via definitiva 64

3.3. I criteri di scelta 68

3.4. I casi di esonero (rinvio) 72

3.5. L’inosservanza delle misure e delle sanzioni interdittive 73

3.6. Il concorso di sanzioni 74

4. Il commissariamento giudiziale 74

5. Le confische 90

5.1. La confisca ex art. 19 91

5.1.1. La nozione di profitto confiscabile 96

5.1.2. Le clausole di riserva 111

5.1.3. La confisca diretta e la confisca di valore 116

5.2. La confisca ex art. 6 comma 5 121

5.3. La confisca ex art. 15 comma 4 126

5.4. La confisca ex art. 17 128

5.5. La confisca ex art. 23 comma 2 128

6. La pubblicazione della sentenza di condanna 129

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7.2. L’esonero dalle sanzioni interdittive 135

7.3. La conversione delle sanzioni interdittive in sanzione pecuniaria 142

7.4. La sospensione del processo 147

7.5. Il ruolo delle condotte riparatorie in fase cautelare 149

7.6. Osservazioni conclusive 166

II. Le misure cautelari interdittive 173

1. «L’applicazione quale misura cautelare di una delle sanzioni interdittive» 174

2. Le condizioni oggettive di applicabilità 188

2.1. «Un limite intrinseco» 188

2.2. I gravi indizi di responsabilità dell’ente 197

2.3. Il pericolo di reiterazione dell’illecito 210

3. Il procedimento applicativo 222

3.1. L’iniziativa cautelare 222

3.2. Il giudice competente 224

3.3. L’udienza camerale e il contraddittorio anticipato 226

3.4. I criteri di scelta delle misure 239

3.5. Il commissariamento cautelare 249

3.6. L’ordinanza cautelare 254

4. Gli adempimenti esecutivi (cenni) 272

5. La sospensione, la revoca e la sostituzione 274

6. Le cause estintive 275

7. Le impugnazioni 282

(4)

2. Il sequestro preventivo 296

2.1. L’ambito di operatività. Un solo sequestro per tante confische 296

2.2. La vexata quaestio dei presupposti applicativi 298

2.3. L’oggetto del sequestro 330

2.3.1. La nozione di prezzo o profitto (rinvio) 330

2.3.2. L’individuazione e la stima dei beni di valore equivalente 334

2.3.3. L’operatività delle clausole di salvaguardia in favore dei terzi e

del danneggiato 342

2.4. L’illecito plurisoggettivo e i rapporti tra ente e persona fisica nel

sequestro preventivo per equivalente. La controversa applicabilità del principio solidaristico

344

2.5. Il procedimento applicativo 357

2.6. La revoca e le altre cause estintive 363

2.7. L’esecuzione 365

2.8. Il regime delle impugnazioni. Questioni in tema di rappresentanza

dell’ente nel processo 367

3. Il sequestro conservativo 385 3.1. I presupposti 387 3.2. Il procedimento 388 3.3. Le cause di estinzione 389 3.4. Le impugnazioni 390 Bibliografia 393

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INTRODUZIONE

Con il decreto legislativo n. 231 del 2001 entrava a far parte del nostro ordinamento una tanto innovativa quanto complessa disciplina relativa alla responsabilità da reato degli enti, con la quale si estendeva il perimetro applicativo della responsabilità penale, fino ad allora riservato alle sole persone fisiche, anche ai soggetti collettivi – enti forniti di personalità giuridica, società,

associazioni prive di personalità giuridica1 , per lungo tempo collocati al

riparo del principio espresso dal brocardo “societas delinquere non potest”2.

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1 Destinatari della disciplina sono gli enti forniti di personalità giuridica, le società e le

associazioni prive di personalità giuridica (art. 1 comma 2), con esclusione di Stato, enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici ed enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale, es. partiti e sindacati (art. 3), mentre sull’applicabilità della normativa anche alle imprese individuali - rispetto alle quali vi è il rischio di una duplicazione della sanzione - non si registra un orientamento giurisprudenziale uniforme. È bene ricordare che la disciplina è dettata principalmente in funzione di contrasto degli enti per i quali l’attività illecita si colloca in via occasionale all’interno di un’attività lecita. Solo marginalmente il decreto si occupa, invece, delle cd. imprese intrinsecamente illecite, ossia di quelle imprese che si servono dello schermo societario per perseguire, in via esclusiva o prevalente, la commissione di reati (ad es., le società il cui unico fine è quello di riciclare proventi illeciti).

2 In precedenza, nel caso di reato penale commesso da una persona fisica nell’ambito

dell’attività di impresa, la responsabilità dell’ente − ai sensi degli artt. 196 e 197 c.p. − era configurata come sussidiaria e qualificava quest’ultimo come semplice obbligato civile e non come imputato. Per una ricostruzione del dibattito circa le ritenute pregiudiziali di matrice

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Alle origini del provvedimento si collocavano le spinte esercitate sul piano sovranazionale in favore di un’azione comune di contrasto alla corruzione dei «pubblici ufficiali stranieri»: si riteneva, infatti, che soltanto in presenza di una disciplina uniforme all’interno del mercato unico si potesse costruire un solido argine al dilagare del fenomeno e ai relativi effetti distorsivi della libera concorrenza3.

Dalla necessità di attuare taluni trattati diretti alla lotta contro la corruzione transnazionale e sopranazionale nasceva, dunque, la l. 29 settembre 2000, n. 300, recante «Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica», cui sarebbe seguita, a poco meno di un anno di distanza, il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 2314.

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costituzionale al riconoscimento di una responsabilità propriamente penale in capo ai soggetti collettivi si veda, ex multis, lo studio di Posteraro.

3 Sull’argomento, ci sia permesso di rinviare ai numerosi contributi sul tema contenuti in Del

Vecchio – Severino (a cura di), Il contrasto alla corruzione nel diritto interno e nel diritto internazionale, CEDAM, 2014.

4 In particolare, con la legge n. 300/2000 il Parlamento ratificava ed eseguiva i seguenti Atti

internazionali elaborati sulla base dell’art. K. 3 del Trattato sull’Unione Europea:

a) la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (Bruxelles, 26 luglio 1995);

b) il primo Protocollo (Dublino, 27 settembre 1996);

c) il Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale di detta Convenzione e della annessa dichiarazione da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee (Bruxelles, 29 novembre 1996);

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Il raggio di azione della disciplina, originariamente limitato a un nucleo assi ristretto di reati in grado di innescare la responsabilità dell’ente – principalmente i delitti di indebita percezione di erogazioni, truffa ai danni dello Stato o di un ente pubblico o per il perseguimento di erogazioni pubbliche (art. 24), concussione e corruzione (art. 25) – è stato poi progressivamente esteso, in favore di una più ampia azione di contrasto alla criminalità d’impresa. All’originario nucleo si sono aggiunti sempre nuovi reati-presupposto, tra i quali figurano, ad esempio, i reati societari (art. 25 ter, inserito dal d.lgs. 61/2002), gli abusi di mercato (art. 25 sexies, introdotto dalla legge comunitaria 18 aprile 2005, n. 62), e i reati ambientali (art. 25 undecies, introdotto dalla l. 121/2011 e sostituito dalla l. 68/2015), ma anche una serie di delitti il cui legame con la criminalità d’impresa o la criminalità del profitto appare assai labile se non inesistente (si pensi, per tutte, alle pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili ex art. 25 quater 1, introdotto dalla l. 7/2006)5.

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d) la Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea (Bruxelles, 26 maggio 1997);

e) la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso (Parigi, 17 dicembre 1997).

Quest’ultima, in particolare, all’art. 2, imponeva agli Stati aderenti di assumere «le misure necessarie conformemente ai propri principi giuridici a stabilire la responsabilità delle persone giuridiche» per i reati evocati nella stessa convenzione.

5 Ex multis, Camaldo, pp. 1303-1305; Manna, Controversie, pp. 169-170 («il legislatore, nei

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Le ultime giunte al catalogo risalgono solo a poche settimane fa, prima con la riforma del codice antimafia (art. 30 comma 4, l. 17 ottobre 2017, n. 161), che ha modificato l’art. 25 duodecies introducendo i delitti di procurato ingresso illecito e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 del T.U. immigrazione, poi con la Legge Europea 2017 del 20 novembre scorso, che all’art. 5 ha disposto l’introduzione dell’art. 25 terdecies («Razzismo e xenofobia»), relativo ai delitti di cui all’art. 3, comma 3 bis della l. 654/1975, così come modificata dalla stessa Legge Europea.

Restano, invece, ancora (inspiegabilmente) esclusi dal catalogo i reati tributari.

Nell’ambito della complessa disciplina messa a punto dal legislatore, che la dottrina ha non a torto designato come un vero e proprio microcodice, a una prima parte dedicata alle norme di carattere sostanziale (artt. 1-33), che s’impernia essenzialmente sui criteri di imputazione della responsabilità !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

soprattutto con la funzione originaria della responsabilità dell’ente [...] di rivolgersi alla c.d. criminalità del profitto. Il legislatore, al contrario, ha inserito nell’ambito dei reati-presupposto fattispecie le più diverse, che sovente nulla hanno a che vedere con la criminalità d’impresa, e quindi, con la criminalità del profitto […]. Intendiamo riferirci, in primo luogo, ai delitti di criminalità organizzata (art. 24 ter) ed, in secondo luogo, alla falsità in monete ed in carte di pubblico credito (art. 25 bis) etc., nonché ai delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 25 quater), le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art. 25 quater1), i delitti contro la personalità individuale (art. 25 quinquies) […] è pur vero […] che l’inserimento fra i reati-presupposto sovente è avvenuto a causa dell’adempimento […] di precisi obblighi di carattere comunitario, ma ciò non toglie che […] è errato il collocamento nel “sottosistema” relativo alla responsabilità da reato dell’ente»); Varraso, Il procedimento, p. 27.

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dell’ente e sul sistema sanzionatorio, oltre che sul citato catalogo dei reati-presupposto, segue una seconda parte dedicata analiticamente al processo

contra societatem (capo III, artt. 34-82) con norme in materia di soggetti,

giurisdizione e competenza, prove, misure cautelari, indagini preliminari e udienza preliminare, procedimenti speciali, giudizio, impugnazioni ed esecuzione: un vero e proprio rito speciale, riservato ai soggetti collettivi, e con regole sue proprie (si pensi, per tutte, alla procedura di archiviazione demandata direttamente al p.m., senza previo controllo giurisdizionale), che è tuttavia pur sempre incardinato nel processo penale6.

Nella Relazione di accompagnamento al decreto (d’ora in avanti:

Relazione) la scelta del Governo di «privilegiare il procedimento penale come

luogo di accertamento e di applicazione delle sanzioni» era motivata con la «necessità di coniugare le esigenze di effettività e di garanzia dell’intero sistema». Il procedimento penale – si osservava – per un verso è provvisto di strumenti di accertamento più incisivi e penetranti rispetto ai poteri istruttori riconosciuti alla pubblica amministrazione nel modello procedimentale !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

6 Nonostante la responsabilità degli enti sia formalmente qualificata come “amministrativa” e a

partire dall’art. 1 comma 1 del decreto il legislatore qualifichi sempre come “amministrativi” la responsabilità, gli illeciti e le sanzioni, il potere di cognizione dell’illecito è stato affidato agli organi della giurisdizione penale (sulla – assai dibattuta - questione della natura della responsabilità dell’ente non è possibile soffermarsi oltre in questa sede). La competenza è regolata all’art. 36, e appartiene al giudice penale competente per il reato presupposto commesso dalla persona fisica: posto che l’illecito amministrativo è stato costruito come fattispecie complessa che presuppone l’esistenza di un fatto di reato, la competenza è stata attribuita allo stesso giudice cui appartiene la cognizione di quest’ultimo.

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delineato nella legge n. 689 del 1981, risultando dunque più efficace ai fini dell’accertamento dell’illecito, e per l’altro offre garanzie maggiori, che appare quanto mai opportuno in considerazione della «natura penale-amministrativa degli illeciti dell’ente». Da un lato, dunque, il procedimento penale dava accesso a una serie di efficaci strumenti di accertamento e di coazione, dall’altro forniva maggiori guarentigie all’ente in funzione di un’effettiva partecipazione e difesa nel processo; coerentemente con quest’ultima finalità, si estendevano al soggetto collettivo le stesse facoltà e garanzie che spettano all’indagato e all’imputato nell’ambito del processo penale.

Il raccordo con il processo penale è garantito da due disposizioni centrali, collocate – in posizione liminare – in apertura del libro III: gli artt. 34 e 35, a norma dei quali, rispettivamente, per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi si osservano – oltre alle norme del decreto – le disposizioni del codice di procedura penale e le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del c.p.p. (art. 34), e all’ente si applicano le disposizioni processuali relative all’imputato (art. 35); in entrambi i casi, a condizione di compatibilità.

È da notare, dunque, che nell’individuare le fonti della disciplina del procedimento, il legislatore delegato non si è limitato – come invece sembrava richiedere la legge di delega (art. 11, lett. q) – a un mero rinvio alla disciplina codicistica7, ma, ha messo a punto un sistema autonomo, destinato a integrarsi

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7 In base alla citata direttiva, «per il procedimento di accertamento della responsabilità si

applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale,!assicurando l’effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale». Si è

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solo in via sussidiaria (ossia solo in caso di evidente vuoto dispositivo, non colmabile neanche mediante una interpretazione sistematica delle norme del decreto), e previa verifica di compatibilità, con le norme codicistiche8, secondo

un meccanismo analogo a quello predisposto per i procedimenti di competenza del tribunale in composizione monocratica (art. 549 c.p.p.) o per quelli davanti al giudice di pace (art. 2 comma 1, d.lgs. 274/2000).

Ebbene, nell’ambito del «procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative» – come testimoniato anche dall’assoluta centralità del tema nella giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità degli enti – è indubbio che la fase cautelare costituisca uno degli snodi cruciali9, in cui la dialettica tra le «esigenze di effettività e di garanzia»10

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sostenuta, a tale proposito, l’illegittimità dell’art. 34 per eccesso di delega; tuttavia la questione, sollevata davanti ai giudici di merito (Trib. Milano, 18 dicembre 2008, Barachini, consultabile in www.penalecontemporaneo.it; si trattava del cd. caso Parmalat), è stata ritenuta infondata. D’altronde – si è osservato in dottrina - è lo stesso criterio direttivo citato – nel richiedere che sia assicurata «l’effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento penale» a rendere necessaria l’introduzione di una disciplina autonoma, che, pur mantenendo quale modello di riferimento la normativa generale contenuta nel codice di procedura penale, si adatti alle peculiari esigenze della persona giuridica quale soggetto processuale passivo (Moscarini, p. 158).

8 È da rimarcare che il meccanismo di etero-integrazione opera con riferimento alla sola

disciplina processuale e non anche a quella sostanziale.

9 Illustra in sintesi gli orientamenti della Cassazione in materia Di Geronimo, La responsabilità

da reato, p. 146, secondo cui la giurisprudenza di legittimità si è per anni incentrata quasi esclusivamente sui profili cautelari, in particolar modo su quelli concernenti il sequestro, oltre che sulla partecipazione dell’ente al procedimento e (a seguito dell’estensione della responsabilità degli enti ai reati di omicidio e lesioni colpose gravi o gravissime commesse con

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che il legislatore ha inteso assicurare affidando il procedimento contra societatem alla cognizione del giudice penale si fa particolarmente critica, anticipandosi in questa fase – in veste, appunto, di misure cautelari – l’applicazione di sanzioni assai incisive e tali da poter compromettere l’esistenza stessa dell’ente, ben prima che si sia giunti a un accertamento pieno della responsabilità.

Nel caso, poi, delle cautele interdittive (una delle due tipologie di cautele previste, accanto a quelle reali), lungi dal costruire figure specifiche, l’art. 45 prevede sic et simpliciter l’applicazione «quale misura cautelare» di una delle sanzioni interdittive individuate dall’art. 9 comma 2, ponendo una completa identità tra sanzioni irrogabili in sede di condanna e misure esperibili in fase cautelare: una sovrapposizione che è parsa di dubbia tenuta costituzionale per contrasto con il canone della presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2), «il cui contenuto minimo, indiscusso, è il divieto di esecuzione anticipata della sanzione»11.

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violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro di cui all’art. 25 septies, introdotto dalla l. 123/2007 e sostituito dal d.lgs. 81/2008) - sull’adeguamento dei criteri di imputazione oggettiva dell’interesse e del vantaggio a fattispecie di reato colpose. Solo in anni recentissimi (dal 2016, in particolare), si è cominciato a registrare un relativo ampliamento delle questioni sottoposte all’attenzione della Corte anche ad ambiti diversi, quali la prescrizione, l’autonomia della responsabilità dell’ente e il regime delle vicende modificative, a testimonianza – a detta dell’Autore - del «progressivo diffondersi di una disciplina che, soprattutto nei primi anni conseguenti alla sua introduzione, ha avuto un’obiettiva difficoltà nell’affermarsi quale uno dei principali cardini del sistema penale» (ivi, p. 147).

10 Relazione.

11 G. Illuminati, Presunzione di non colpevolezza, in Enc. giur. Treccani, vol. XXIV, Roma, 1991, p.

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«La delicatezza di questi congegni “anticipatori”» è ancora maggiore se si considerano le peculiarità del procedimento applicativo delle misure cautelari (interdittive) nel sistema della responsabilità degli enti, in cui l’ordinanza del giudice è preceduta da un contraddittorio tra le parti in piena regola (art. 47). Ferma restando la formale vigenza del principio della impermeabilità dell’accertamento di merito rispetto alla vicenda cautelare, è evidente come il

decisum cautelare non possa che assumere un peso diverso nell’economia del

processo, tanto «da incanalare spesso le scelte dell’imputato verso riti alternativi»12.

Ma la fase cautelare è anche la «sede privilegiata»13 in cui il soggetto

collettivo può cogliere le occasioni di riparazione offerte dal sistema: «proprio in questo frangente, la persona giuridica ha la prima – e spesso decisiva –

chance per discolparsi completamente, oppure per attenuare la propria

posizione nel processo»14, avvalendosi dei meccanismi premiali messi a

disposizione dell’ente indagato o imputato, che tuttavia – come vedremo – rischiano di entrare in collisione con il principio della presunzione di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

12 Renzetti, p. 85 e p. 94: «Il tema [dei rapporti tra giudizio cautelare e decisione definitiva]

sembra destinato ad acquisire contorni ancora più delicati nel contesto oggetto di studio. Sorge, infatti, spontaneo domandarsi quale influenza sia suscettibile di esercitare sul giudizio definitivo un provvedimento cautelare emanato dopo lo svolgimento di un regolare contraddittorio; dopo che all’ente imputato è stata riconosciuta la possibilità di discolparsi con tutti i mezzi a sua disposizione; dopo che un giudice ha ritenuto inefficaci i modelli organizzativi eventualmente adottati».

13 Ivi, p. 85. 14 Ivi, pp. 87-88.

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innocenza, laddove inducono (o costringono) il soggetto collettivo a riparare le conseguenze di un illecito prima ancora che questo sia stato definitivamente accertato.

Ed è dunque alla disciplina della fase cautelare, ai suoi profili problematici e ai suoi nodi irrisolti che è dedicato il presente lavoro.

Stante lo stretto collegamento sussistente tra cautele e sanzioni, si è scelto di dare avvio all’indagine attraverso una ricognizione dell’«arsenale sanzionatorio» predisposto dal legislatore delegato in cui, accanto alla sanzione pecuniaria e alla pubblicazione della sentenza di condanna, spiccano – per la particolare capacità di contrasto nei confronti della criminalità d’impresa – le sanzioni interdittive e la confisca anche per equivalente (quest’ultima, ormai divenuta strumento di punta nel contrasto alla criminalità del profitto sia sul piano interno sia su quello sovranazionale).

Nel delineare i profili di tale articolato strumentario si sono anticipate alcune delle questioni di maggior rilievo, che investono in pari misura tanto la fase sanzionatoria quanto la fase cautelare: ad esempio, la definizione dei confini semantici della nozione di «profitto di rilevante entità», da cui discende l’applicazione delle sanzioni e delle misure interdittive, ovvero la corretta individuazione dei presupposti per la nomina del commissario giudiziale e l’estensione dei relativi poteri. Si ha inoltre, qui, un primo saggio della varietà e complessità degli interrogativi che gravitano attorno al sequestro e confisca:

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dalla delimitazione dell’area del profitto confiscabile, alla tutela del danneggiato e dei terzi, ai presupposti per procedere alla confisca di valore.

Nel secondo capitolo, dedicato alle cautele interdittive, si sono affrontati alcuni profili specificamente attinenti alla fase cautelare, e che discendono dalla diretta filiazione tra misure interdittive e omologhe sanzioni, quali le incertezze sul piano applicativo (se sia possibile una declinazione cautelare delle sanzioni che hanno effetti permanenti sulla vita dell’ente) e i riflessi sulla ricostruzione delle relative condizioni oggettive di applicabilità.

Si sono poi indagate, seppure senza pretesa di esaustività, alcune delle possibili forme di interazione tra l’azione cautelare a carico del presunto autore del reato e quella a carico dell’ente che si ritiene ne abbia tratto profitto, soffermandosi, in particolare, sulla legittimità dell’ordinanza cautelare la cui motivazione rinvii per relationem al provvedimento adottato nei confronti della persona fisica.

Si è analizzato, inoltre, il ruolo centrale dell’udienza ex art. 47, in cui trova spazio un (inedito) contraddittorio tra le parti antecedente alla decisione cautelare, nel tentativo di evidenziarne non soltanto le molteplici funzioni (eccedenti la mera espressione delle istanze difensive dell’indagato), ma anche le criticità in termini di effettività del diritto di difesa tecnica e personale (il riferimento è alla deducibilità del legittimo impedimento del difensore o dell’ente a comparire all’udienza).

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Nel terzo e ultimo capitolo, infine, si sono ripercorse alcune criticità della disciplina del sequestro preventivo, nelle quali si annida il rischio di un ampliamento indiscriminato dell’ambito di applicazione della misura: dalla controversa definizione dei presupposti applicativi della cautela (a monte del quale si colloca il nodo, tuttora irrisolto, relativo all’interpretazione in chiave unitaria, o meno, del sistema delle cautele), alla delimitazione dell’area del profitto sequestrabile, fino ad arrivare a questioni più specificamente attinenti al sequestro per equivalente (quando può dirsi impossibile l’apprensione diretta del prezzo o del profitto; a chi spetta l’individuazione e la stima dei beni di valore equivalente, come inquadrare l’ipotesi di “illecito plurisoggettivo” e i rapporti tra ente e persona fisica autrice del reato presupposto).

Alcuni degli spunti critici emersi nel corso dell’analisi – in particolare, l’auspicata rimozione dei privilegi accordati a istituti di credito, intermediari finanziari, imprese di assicurazione e riassicurazione sotto forma di esonero dalle cautele interdittive e del commissariamento giudiziale, e la riconfigurazione dei presupposti applicativi del sequestro preventivo a fini di confisca in termini più coerenti con la natura e con la funzione dell’istituto nell’ambito del processo agli enti – sono oggetto di progetti di riforma attualmente pendenti in Parlamento.

Un ultimo aspetto sul quale si è soffermata l’analisi, e che riguarda sia specificamente la fase cautelare, sia più in generale l’assetto messo in piedi dal legislatore del 2001, consiste nella spiccata caratterizzazione del procedimento

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in senso special preventivo, e nella contestuale valorizzazione di modelli compensativi dell’offesa. Più che all’accertamento dell’ipotesi accusatoria e alla conseguente irrogazione di una sanzione, il procedimento pare, infatti, orientato a favorire il recupero dell’ente alla legalità e a promuovere il ripristino delle condizioni antecedenti all’illecito. Tali finalità sono perseguite mediante una tecnica (il cd. carrot and stick approach) che combina alla minaccia di pesanti interventi di natura afflittiva, benefici sul piano cautelare e sanzionatorio per gli enti che adottino tempestivamente modelli di organizzazione e gestione in grado di neutralizzare il rischio di reiterazione dell’illecito, e pongano in essere ben precise condotte di natura riparativa e risarcitoria.

Attorno a tali meccanismi premiali sono sorti, tuttavia, due ordini di interrogativi, il primo attinente alla compatibilità costituzionale di tali congegni, per contrasto con il principio di non colpevolezza (il riferimento, è, in particolare, all’anticipazione del momento premiale alla fase cautelare, fondata su un apprezzamento meramente sommario della colpevolezza: pur di sottrarsi alle conseguenze potenzialmente esiziali dell’interdizione «l’ente è costretto […] a porre in essere le condotte riparatorie»15, sebbene in assenza di

un accertamento pieno della propria responsabilità nell’illecito; su tale aspetto ci si è soffermati nei paragrafi conclusivi del capitolo I); il secondo, invece, relativo alla reale efficacia del sistema: ci si è domandati, cioè, se la previsione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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di tali meccanismi processuali non abbia finito paradossalmente per disincentivare l’adozione dei modelli organizzativi da parte delle imprese. Ci sia consentito formulare qui di seguito qualche considerazione sul quest’ultimo profilo, ancora poco esplorato e senz’altro foriero di significative innovazioni della disciplina.

Teoricamente, il “sistema 231” dovrebbe incoraggiare l’implementazione dei modelli di organizzazione e gestione ante delictum, dal momento che – in caso di commissione di un reato da parte di un dipendente dell’impresa o di un soggetto apicale – la dimostrata adozione di un modello efficace è in grado di porre l’ente al riparo dalle responsabilità derivanti da reato e dalle relative conseguenze sul piano sanzionatorio.

È evidente però che tale incentivo può funzionare correttamente soltanto laddove il deterrente costituisca una reale minaccia e, contemporaneamente, l’impegno richiesto all’impresa nell’adozione e attuazione dei modelli (attività i cui costi sono tutt’altro che indifferenti) abbia buone probabilità di raggiungere l’effetto sperato, ossia di esimere l’ente da ogni responsabilità. Di qui, evidentemente, il rilievo centrale che assume la verifica di idoneità dei modelli preesistenti al reato da parte del giudice penale16.

Ora, se alla circostanza che in quasi tutti i processi per illeciti amministrativi celebrati finora i modelli adottati ante delictum sono stati giudicati

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inidonei17, si aggiunge che l’adozione dei modelli ex post di fatto neutralizza la

risposta sanzionatoria da parte dell’ordinamento, si comprende perché le società preferiscano correre il rischio che sia commesso un reato, per poi dotarsi di un modello a procedimento inoltrato18.

Ebbene, questa conclusione è confermata da una recente indagine “sul campo” promossa da Confindustria in collaborazione con Tim19. Ciò che

emerge è che, a distanza di sedici anni dall’entrata in vigore della normativa, perdura una scarsa attitudine delle imprese, soprattutto medio-piccole, a dotarsi di modelli ex ante. Su un campione di 45 PMI, soltanto 16 (pari al 36%) hanno adottato un modello organizzativo. Di queste, soltanto il 12,5% nei primi sei anni di efficacia del decreto; mentre la metà dei modelli è stata !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

17 Ciò, si può ipotizzare, o per le obiettive difficoltà di costruire un modello efficace, o perché

finora non è stato profuso sufficiente impegno in tal senso da parte delle imprese, o, infine, perché sono le modalità stesse di valutazione ad essere inadeguate. Su quest’ultimo presupposto si fondava il progetto di riforma presentato dal Ministro della Giustizia Alfano in occasione del convegno organizzato dall’associazione AREL (www.arel.it) tenutosi a Roma il 7 luglio 2010, il quale prevedeva, oltre all’inversione dell’onere della prova attualmente previsto per i reati commessi da soggetti in posizione apicale, l’introduzione di un meccanismo di “certificazione” dell’idoneità del modello ad opera di soggetti inseriti in un apposito elenco dei soggetti abilitati, sia pubblici che privati, che avrebbe dovuto garantire all’ente in possesso di un modello certificato sia l’esonero dall’applicazione delle misure cautelari interdittive, sia – a determinate condizioni - l’esclusione della responsabilità.

18 Fidelbo – Ruggiero, p. 12.

19 Indagine modelli 231, pp. 6-7. L’indagine, che risale all’aprile di quest’anno, era finalizzata a

verificare la diffusione dei modelli di organizzazione e di gestione nelle piccole e medie imprese anche ai fini della prevenzione di fenomeni corruttivi. I risultati sono di indubbio interesse, seppure frutto di un campione obiettivamente molto (troppo) ristretto.

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introdotta tra il 2008 e il 2013, vale a dire dopo l’ingresso degli illeciti in materia di salute e sicurezza sul lavoro tra i reati che possono determinare la responsabilità dell’ente, a testimonianza che solo in presenza di reati ritenuti fisiologici per un’impresa, e per i quali è alta la probabilità di coinvolgimento in un procedimento penale, la valutazione costi/benefici si risolve a favore dell’introduzione dei modelli20. Peraltro, in larga parte dei casi esaminati, il

modello difettava di un elemento essenziale perché lo stesso fosse considerato idoneo in un eventuale procedimento penale, ossia un sistema disciplinare finalizzato a sanzionare le eventuali violazioni del modello medesimo.

Tra le ragioni addotte dalle imprese per giustificare la mancata adozione di presidi preventivi, vi è – oltre alla complessità della normativa e agli oneri organizzativi ritenuti eccessivi – proprio lo scarso riconoscimento dell’idoneità

dei modelli in sede processuale21.

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20 «Da questo dato sembra […] lecito desumere che il motore fondamentale per l’adozione di

un modello di organizzazione e di gestione non è tanto la gravità del reato presupposto» (e quindi della relativa sanzione), «quanto la percezione del concreto rischio di apertura di un procedimento penale a carico dell’impresa. Detto altrimenti, il rischio penale – anche solo in termini di apertura di una indagine – connesso ad un infortunio sul lavoro è stato considerato elevato e fisiologico per un’impresa, mentre ad ogni evidenza il diverso rischio, ad esempio, del coinvolgimento in procedimenti penali per fatti corruttivi è stato vissuto da molte piccole imprese come remoto o trascurabile, e comunque tale da non giustificare i costi connessi all’adozione ed attuazione di un modello organizzativo. In questa prospettiva, è opinione di chi scrive che un altro potente incentivo all’adozione di modelli organizzativi sarebbe l’estensione della responsabilità dell’ente ai reati tributari» (Vizzardi).

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Per far fronte a tali criticità, sono state formulate in tempi recenti alcune soluzioni alternative all’attuale sistema, a partire dall’introduzione di forme di premialità processuale collegate all’attività di self-reporting (ossia di auto-denuncia degli illeciti da parte delle stesse imprese), ispirate all’esperienza nord americana.

Si tratterebbe, cioè, di ricompensare con la non punibilità l’impresa che comunichi tempestivamente gli illeciti scoperti e aiuti l’autorità giudiziaria nella ricostruzione dei fatti e nell’individuazione dei responsabili, ad esempio, condividendo i risultati delle indagini interne.

Sulla base dell’attuale assetto della disciplina, l’auto-denuncia dovrebbe già, teoricamente, risultare utile all’ente, influendo positivamente sulla valutazione di adeguatezza dei modelli implementati ante delictum; tuttavia, – in mancanza di certezze circa la valenza premiale di una simile iniziativa – le

aziende tendono, del tutto comprensibilmente, a prendere in considerazione più i concreti, e certi, effetti pregiudizievoli della denuncia, ossia il coinvolgimento dell’impresa in un procedimento penale, che gli eventuali, e incerti, benefici.

A tale proposito si è osservato che «la mancata introduzione di una tale previsione ha probabilmente già oggi un effetto criminogeno, rendendo

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sempre più impenetrabile e “nera” la (tradizionalmente) altissima cifra oscura dei delitti dell’economia»»22.

Altri autori, invece, scettici sulla possibilità di introdurre tali meccanismi23,

hanno proposto di incrementare quelli che già oggi consentono il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

22 Vizzardi – Santa Maria. Su tale aspetto si è soffermata anche l’indagine già citata in

precedenza. Alla domanda circa l’eventuale comportamento dell’impresa se scoprisse che un dipendente ha commesso un reato presupposto che ha comportato vantaggi per l’impresa stessa (ad esempio ha ottenuto un appalto mediante pratiche corruttive), metà del campione ha risposto che denuncerebbe il responsabile, mentre un quinto si limiterebbe ad applicare una sanzione disciplinare. A fronte di una possibile richiesta indebita di denaro da parte di un pubblico ufficiale, il 64% delle imprese ha risposto che rifiuterebbe la richiesta, mentre soltanto il 27% denuncerebbe l’accaduto all’autorità giudiziaria. Da tali dati si è dedotto «che vi è una larga parte delle imprese che, alla possibile evidenza di pratiche o richieste illecite, non contempla l’idea di presentare una denuncia, verosimilmente per il timore che la stessa impresa, soprattutto in presenza di reati già commessi, possa essere coinvolta nel procedimento penale avviato su iniziativa della stessa società, ottenendo pertanto più svantaggi che vantaggi dell’iniziativa giudiziaria» (Vizzardi). Si potrebbe osservare, tuttavia, che trattandosi di pratiche corruttive, è possibile che le imprese siano indotte a non sporgere denuncia anche dalla consapevolezza del carattere “sistemico” della corruzione, per cui la denuncia potrebbe finire per produrre conseguenze negative sull’ente stesso anche in quanto operatore economico attivo nel mercato.

23 In particolare Fidelbo - Ruggiero, pp. 15-17, avanzano numerose perplessità sull’efficacia di

tali meccanismi. Una prima riflessione riguarda il tipo di vantaggio da riconoscere all’ente quale conseguenza della collaborazione processuale. Posto che i collaboratori - persone fisiche beneficiano di una mera attenuazione della risposta sanzionatoria, e non dell’esclusione della responsabilità, se si optasse per quest’ultima si verrebbero a creare dei profili di frizione con il principio costituzionale di uguaglianza; né, a parere degli autori, si può obiettare che un’analoga impunità è stata riconosciuta, in talune circostanze, anche alle persone fisiche, poiché ciò è avvenuto nel contesto di una normativa emergenziale - quella contro il terrorismo interno – che poneva in campo mezzi straordinari e risposte eccezionali, destinate a cadere quando l’emergenza fosse venuta meno. In secondo luogo, osservando l’esperienza

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ravvedimento dell’ente mediante l’introduzione di nuovi istituti, in grado di rivitalizzare la vocazione special preventiva del sistema. Esclusa la possibilità di prevedere l’adozione di un modello ex post come causa di archiviazione o di emissione di una sentenza di non luogo a procedere, in quanto produrrebbe lo stesso effetto-boomerang visto in precedenza, di disincentivo all’adozione di modelli ante delictum, si è saggiata la praticabilità nel processo agli enti della sospensione con messa alla prova, recentemente esportata – per effetto della l. 67/2014 – dal procedimento minorile a quello ordinario degli adulti.

L’istituto, disciplinato all’art. 168 bis c.p, prevede – come è noto – la

possibilità che, in ipotesi di reato di gravità medio-bassa e per soggetti che non abbiano già manifestato un’attitudine a delinquere, il procedimento possa essere sospeso (per non più di una sola volta) per consentire all’indagato o all’imputato di impegnarsi in un programma di reinserimento sociale, da !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

statunitense in cui tali forme di premialità sono operative da tempo, emerge come spesso puntare sull’autodenuncia si sia tradotto nella semplice ricerca di un «capro espiatorio»: tra le condizioni necessarie perché il prosecutor rinunci a perseguire la società, vi è infatti la collaborazione dell’ente nell’attività di accertamento dei reati e di individuazione delle responsabilità individuali; inoltre, tale “scambio” in tanto è possibile in quanto oltreoceano vige il principio di discrezionalità dell’azione penale, che da noi è costituzionalmente escluso. Si osserva, infine, come il numero di condanne degli individui imputati di corporate crimes non soltanto sia insignificante, ma abbia riguardato quasi sempre dipendenti di seconda linea e quasi mai i rappresentanti del management, dimostrando la scarsa propensione dei “colletti bianchi” a colpire sé stessi pur di salvare le società in cui operano. In sintesi, concludono gli autori, «il rischio sarebbe di non punire le società e, alla fine, di non riuscire a punire nemmeno le persone fisiche» (ivi, p. 17).

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eseguire insieme a condotte riparatorie e restitutorie, ivi compreso il risarcimento del danno e, ove possibile, la mediazione con la persona offesa. Se la probation si conclude positivamente, il reato è estinto; diversamente, il procedimento riprende.

L’idea formulata da alcuni autori24 è quella di concedere anche all’impresa

– non necessariamente nelle sole ipotesi di minore gravità, ma anche per reati più gravi, rispetto ai quali l’esigenza special-preventiva è maggiore – un’analoga «via di fuga dalla condanna»25, offrendole la possibilità di rimediare

alle carenze organizzative che hanno reso possibile il reato, nelle specifiche ipotesi in cui, pur avendo adottato un modello organizzativo ante delictum, questo sia risultato inidoneo. In tal modo, cioè condizionando il beneficio all’esistenza di un modello ante delictum che non sia meramente di facciata, si eviterebbero le ricadute negative in termini di deresponsabilizzazione dell’ente, cui si è accennato in precedenza con riferimento alle attuali premialità processuali (legate all’adozione di modelli ex post). L’istanza dell’ente di messa alla prova sospenderebbe il procedimento e, in caso di esito positivo della

probation (cioè laddove l’impresa realizzi le condotte riparatorie e risarcitorie di

cui all’art. 17 e corregga il modello organizzativo inidoneo), vi sarebbe l’estinzione dell’illecito amministrativo.

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24 Si vedano in particolare i contributi in tal senso di Fidelbo – Ruggiero (p. 18 ss.) e di

Riccardi – Chilosi.

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«Oggi abbiamo solo due alternative: adozione di un modello ex ante, ritenuto idoneo, che può escludere la responsabilità dell’ente; adozione di un modello post factum che, se valutato positivamente, anche a seguito delle condotte riparatorie, non esclude la responsabilità, ma determina solo un sollievo sanzionatorio per l’ente […] Di fatto ciò comporta che allo stato, in astratto, non si registra alcuna differenza tra le imprese che non abbiano un modello, quelle che abbiano un modello di pura facciata e quelle che siano invece dotate di un modello non fittizio, ma in ogni caso giudicato inadeguato […]: in tutti e tre i casi, un’inversione di tendenza postuma potrebbe, al più, attenuare il provvedimento di condanna. L’ipotesi delineata consentirebbe, invece, di premiare con l’estinzione dell’illecito amministrativo anche una correzione successiva di un modello preesistente giudicato inidoneo»26.

Dopo aver analizzato le caratteristiche che tale istituto dovrebbe concretamente assumere sul piano processuale e averne valutato la compatibilità con gli altri meccanismi premiali già previsti, si conclude che la messa alla prova non soltanto andrebbe a incrementare le opzioni a disposizione delle società, ben armonizzandosi con quelle già contemplate (un meccanismo simile è, del resto, già previsto all’art. 49, che disciplina la sospensione delle misure cautelari), ma consentirebbe di «perseguire più incisivamente la finalità di ridurre il rischio di commissione degli illeciti, incoraggiando, ancora una volta, le società a dotarsi di modelli idonei»27.

Quanto, invece, alla sospensione condizionale della pena di cui al comma 2 bis dell’art. 275, nonostante in dottrina si sia suggerita la possibilità di estendere tale istituto anche al processo agli enti – seppure senza che sia stata !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

26 Ivi, p. 23. 27 Ivi, p. 25.

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ancora articolata una compiuta proposta in tal senso – la giurisprudenza ha concluso – come si vedrà oltre – per l’incompatibilità dell’istituto, essenzialmente in quanto ritenuto superfluo rispetto agli istituti con funzione special preventiva già previsti dal decreto.

Un ultimo cenno, prima di concludere, spetta alla recente “riforma Orlando”. Come è noto, con l’art. 1, co. 1, l. 23 giugno 2017, n. 103) è stato introdotto l’art. 162-ter c.p., che prevede una nuova causa estintiva del reato per condotte riparatorie per le ipotesi di reato perseguibile a querela rimettibile, la cui pena edittale non sia superiore nel massimo a quattro anni di pena detentiva. L’obiettivo – come si legge nella Relazione al testo originario della legge, è quello di «deflazionare il numero di procedimenti penali e comunque realizzare una rapida definizione degli stessi, determinando effetti di risparmio in termini di spese processuali e di impiego di risorse umane».

Ebbene, correttamente in dottrina ci si è domandati se tale causa estintiva esplichi i suoi effetti soltanto nei riguardi dell’indagato/imputato persona fisica ovvero anche nei riguardi dell’indagato/imputato persona giuridica, nelle (rarissime) ipotesi in cui il reato perseguibile a querela rientri nel novero dei reati-presupposto da cui scaturisce la responsabilità amministrativa dell’ente28.

Sebbene in astratto si potrebbe concludere che – coerentemente con la dichiarata finalità di economia processuale – la condotta riparatoria dovrebbe produrre i suoi effetti estintivi erga omnes, tale soluzione si scontra con il dettato !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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dell’art. 8 del decreto, in base al quale «la responsabilità dell’ente sussiste anche quando […] il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia». Pertanto, per effetto del citato principio di «autonomia della responsabilità dell’ente» (così, la rubrica del citato art. 8), resta ferma la procedibilità nei confronti dell’ente; la condotta riparatoria tenuta dalla persona fisica29 – ove concorra a

integrare i requisiti richiesti dall’art. 17 – potrà eventualmente giovare all’ente soltanto in termini di attenuazione della risposta sanzionatoria (riduzione della sanzione pecuniaria e disapplicazione della sanzione interdittiva). La soluzione sarebbe stata diametralmente diversa se il legislatore avesse optato, invece che per una causa estintiva del reato, per una causa di non punibilità: non essendo quest’ultima menzionata nell’art. 8, il procedimento a carico dell’ente avrebbe seguito le sorti del procedimento penale a carico della persona fisica.

Gli articoli menzionati nel testo senza altra indicazione, o seguiti dalla indicazione “decreto”, si riferiscono al d.lgs. 231/2001.

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29 Consistente nella riparazione integrale del danno mediante restituzioni o risarcimento e, ove

possibile, nell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

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CAPITOLO I.IL SISTEMA SANZIONATORIO

1. Lineamenti generali

Il regime sanzionatorio predisposto dal legislatore del 2001 per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato è disciplinato al Capo I del d.lgs. 231, Sezione II («Sanzioni in generale»), artt. 9-23, e regolato da principi generali che si ispirano alle garanzie previste per le sanzioni penali1. Primo fra questi, il

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1 Cfr. Posteraro, p. 84. Indipendentemente da come si intenda risolvere la vexata quaestio della

natura della responsabilità degli enti (se amministrativa, come sembrerebbe ricavarsi – ad esempio – dai numerosi indici testuali contenuti nel decreto; se penale, come afferma in modo pressoché unanime la dottrina, o, infine, se appartenente a una sorta di tertium genus, ossia a una forma ibrida di responsabilità che assommerebbe caratteristiche dell’una e dell’altra, come per prima ha sostenuto la stessa Relazione), il richiamo di alcuni dei fondamentali principi costituzionali in materia penale appare, in ogni caso, come una scelta «pressoché necessitata» (Presutti – Bernasconi, p. 28) in considerazione della natura penalistica delle sanzioni previste a carico degli enti. Osserva Renzetti, pp. 49-50, seppure con riferimento alle garanzie di tipo processuale: «Togliere all’impresa la libertà di movimento nel mercato […] è una situazione che ben può essere assimilata all’applicazione della pena detentiva. Tutte le sanzioni interdittive configurate dal d.lgs. […] incidono – in modo più o meno intenso – su un bene della persona giuridica equiparabile alla libertà personale. […] Peraltro, anche le sanzioni pecuniarie sono suscettibili di compromettere l’esistenza dell’ente, sì da poter essere assimilate esse stesse, per gravità, alle pene detentive. Di qui la necessità di corredare il procedimento che conduce all’applicazione di tali sanzioni di tutte le garanzie apprestate per il processo penale, senza alcuna modulazione del loro contenuto». L’osservazione è valida anche per

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principio di legalità e i suoi corollari, quali la riserva di legge (le sanzioni devono essere espressamente previste dalla legge), il divieto di retroattività (la norma incriminatrice deve essere entrata in vigore prima della commissione del fatto) e i canoni di determinatezza e tassatività (sono applicabili le sole sanzioni indicate dalla legge), ricavabili dall’art. 2 del decreto, cui seguono, all’art. 3, rubricato «Successioni di leggi», i principi tra loro speculari di irretroattività della legge più sfavorevole e di retroattività della legge più favorevole. Il dispositivo dei due articoli riproduce quasi testualmente, seppure con i dovuti adattamenti2, il contenuto degli artt. 1 e 2 (commi 1-5) del codice

penale e si richiama – con riferimento al principio di legalità – al fondamentale precetto costituzionale di cui all’art. 25 comma 2 Cost.

Collocato in apertura della Sezione seconda sotto la rubrica “Sanzioni amministrative”, l’art. 9 comma 1 detta il catalogo delle «sanzioni per gli illeciti

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quanto riguarda i principi fondamentali in ambito penale. In argomento, v. Presutti – Bernasconi, pp. 26-32 e, in particolare, sul principio di legalità e in materia di successioni di leggi, pp. 41-43.

2 Ad esempio, con riferimento alla retroattività della abolitio criminis, si prevede - accanto

all’ipotesi “classica” della sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice dalla quale discende la responsabilità dell’ente - anche il caso in cui, ferma restando la rilevanza penale del fatto, una legge posteriore escluda la responsabilità amministrativa dell’ente in precedenza connessa a quella fattispecie; tale regola si applica anche in caso di sopravvenuta depenalizzazione (ivi, p. 43).

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amministrativi dipendenti da reato», in cui figurano, formalmente a parità di rango3:

a. la sanzione pecuniaria; b. le sanzioni interdittive; c. la confisca;

d. la pubblicazione della sentenza,

cui segue, al comma successivo, l’indicazione delle singole sanzioni interdittive applicabili, secondo una scala di afflittività decrescente4.

Il catalogo riproduce quanto prescritto del legislatore delegato all’art. 11 comma 1 alle lettere g, i e l, con la sola eccezione della «chiusura anche temporanea dello stabilimento o della sede commerciale», che pure figurava al

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3 L’art. 9 non introduce un’espressa gerarchia tra le sanzioni: da ciò si ricava, secondo

l’interpretazione prevalente, che anche la confisca e le misure interdittive assurgono a sanzioni principali al pari della “storica” sanzione pecuniaria; v. Cerqua – Fondaroli, p. 253; Presutti – Bernasconi, p. 181. Solo con riferimento alla pubblicazione della sentenza di condanna, nel silenzio della legge, la dottrina maggioritaria opta per un’interpretazione in termini di sanzione accessoria (v. infra, cap. I, § 6.). Sul dibattito circa la natura giuridica delle sanzioni interdittive, v. Panasiti, Art. 13, pp. 296-297.

4 Le fonti alle quali il legislatore si è ispirato nella definizione del sistema punitivo in esame

sono da individuarsi principalmente nel Secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee (Secondo Protocollo PIF) adottato a Bruxelles il 19 luglio 1997 (in particolare, l’art. 4) e nella raccomandazione n.r. (88) 18 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adottata il 20 ottobre 1988 (in particolare, il § 7); v. in argomento Cerqua – Fondaroli, pp. 239-240.

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n. 1 della lett. l tra le sanzioni interdittive5: esclusione motivata nella Relazione

ministeriale (d’ora in poi: Relazione) dalla scelta del Governo di attuare la delega limitatamente ai reati che formano oggetto delle Convenzioni PIF e OCSE e rispetto ai quali l’interdizione in questione appariva «sostanzialmente incompatibile». «La chiusura dello stabilimento o della sede commerciale, infatti, è una sanzione tipicamente orientata a fronteggiare […] quegli illeciti che si situano nel cono d’ombra del rischio di impresa: si pensi ai reati in materia ambientale, all’omicidio o alle lesioni derivanti dalla violazione di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero ai reati connessi allo svolgimento di attività pericolose»: reati che, in sede di attuazione della l. delega, il Governo aveva scelto di non ricomprendere nel novero dei reati-presupposto, limitando questi ultimi alle sole fattispecie in cui più tipicamente si esprime la criminalità del profitto6. Sennonché, il successivo ampliamento

dei reati presupposto anche a quelli originariamente estromessi avrebbe !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

5 Ivi, p. 241. La chiusura temporanea dello stabilimento o dell’esercizio in cui il fatto è stato

commesso era sanzione già presente nell’ordinamento interno. È prevista, infatti, dall’art 517 bis c.p. - in alternativa alla revoca della licenza, dell’autorizzazione o dell’analogo provvedimento amministrativo che consente lo svolgimento dell’attività commerciale – per l’ipotesi in cui i reati ex artt. 515, 516 e 517 (rispettivamente: frode nell’esercizio del commercio, vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine e vendita di prodotti industriali con segni mendaci) abbiano ad oggetto alimenti o bevande la cui denominazione di origine o geografica o le cui specificità sono protette dalle norme vigenti, e il fatto sia di particolare gravità o vi sia recidiva specifica.

6 «Per fronteggiare la criminalità del profitto, e dunque i reati che formano oggetto delle

Convenzioni, sono sufficienti le altre sanzioni interdittive […], che meglio si adattano a colpire illeciti che, di regola, vengono consumati nel contesto di attività decisionali o negoziali e non già meramente esecutive» (Relazione).

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dovuto suggerire, a rigore, una parallela integrazione dell’elenco delle sanzioni, allo stato non ancora avvenuta.

Nel solco del criterio direttivo inscritto all’art. 11 comma 1 lett. f della l. delega, che imponeva la previsione di «sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive» nei confronti dei soggetti destinatari della disciplina (con formula analoga a quella utilizzata all’art. 3 comma 2 della Convenzione OCSE del 1997 sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, di cui la l. delega costituisce, appunto, attuazione7), il legislatore del 2001 ha messo a punto un

«arsenale sanzionatorio» notevolmente efficace, che assomma alla varietà degli strumenti posti a disposizione dell’Autorità giudiziaria, una loro significativa e «apprezzabile articolazione progressiva»8.

Nella Relazione si fa riferimento a un «sistema essenzialmente binario» in grado di «coniuga[re] “il passato” e “il presente” delle sanzioni amministrative»: lo scopo è mettere in rilievo la giustapposizione, accanto alla tradizionale sanzione pecuniaria «derivata dal paradigma fiscale e incentrata sulla monetizzazione dell’illecito», delle più moderne sanzioni interdittive, dal contenuto incapacitante», le quali, «ancora relegate in posizione di retroguardia

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7 Art. 3 comma 2: «Nel caso in cui, secondo il sistema giuridico di una Parte, la responsabilità

penale non è applicabile alle persone giuridiche, la Parte in questione deve assicurare che le persone giuridiche siano passibili di sanzioni non penali efficaci, proporzionate e dissuasive, incluse le sanzioni pecuniarie, in caso di corruzione di pubblico ufficiale straniero».

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nel contesto del modello […] codificato dalla legge 689/1981, […] si sono via via fatte largo nella tutela delle attività economiche».

In realtà il sistema punitivo si presenta ben altrimenti complesso, e vede affiancarsi a due sanzioni principali generali e indefettibili – la sanzione pecuniaria (art. 10) e la confisca del prezzo e del profitto del reato (art. 19) –, ulteriori sanzioni principali, questa volta speciali (previste solo in relazione a certi specifici illeciti), che si sommano alle precedenti nei soli casi di particolare gravità, ossia le sanzioni interdittive (art. 13), peraltro applicabili congiuntamente per rafforzarne l’efficacia, alle quali – ad aggravare ulteriormente il carico sanzionatorio – può cumularsi in via accessoria la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18). Sono infine previste peculiari sanzioni “sostitutive”, che in presenza di determinate condizioni subentrano alla sanzione originariamente applicata: il riferimento è, in particolare, al commissariamento (art. 15) e alla sanzione pecuniaria risultante dalla conversione della sanzione interdittiva (art. 78).

La diversa natura degli strumenti contemplati consente, per un verso, di colpire l’ente sotto una molteplicità di aspetti: con riguardo al suo patrimonio (sanzioni pecuniarie e confisca), alla sua attività (sanzioni interdittive e commissariamento giudiziale) e alla reputazione di cui gode sul mercato (pubblicazione della sentenza di condanna)9; e, per l’altro, anche in virtù delle

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9 Cerqua – Fondaroli, p. 243 e Presutti – Bernasconi, p. 180. Con la precisazione che – come

si vedrà meglio in seguito – anche le cautele reali di fatto possono produrre effetti paralizzanti sull’attività dell’ente paragonabili a quelli generati dalle sanzioni interdittive.

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particolari tecniche di commisurazione delle sanzioni – di adattare la risposta

sanzionatoria alla diversa gravità degli illeciti commessi nonché alle diverse realtà economiche coinvolte nella commissione del fatto di reato. Un dato importante, se si considera che sotto la medesima scure sanzionatoria – tolte le imprese individuali – possono cadere enti di dimensioni assai diverse tra loro10.

È parsa molto opportuna, in particolare, la scelta del legislatore di introdurre sanzioni interdittive che manifestano, anche in ragione della loro possibile anticipazione in fase cautelare, una concreta forza dissuasiva rispetto alla commissione degli illeciti11, da affiancare alla sanzione pecuniaria, poco

idonea – di per sé – a contrastare adeguatamente la criminalità d’impresa.

Benché per legge debba essere raccordata alle dimensioni economiche e patrimoniali dell’ente esattamente allo scopo di garantirne la massima efficacia (art. 11 comma 2), la sanzione pecuniaria costituisce pur sempre un “costo”

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10 Ma da ultimo, nella direzione di un’estensione dei soggetti destinatari della disciplina anche

alle imprese individuali, si veda Cass. Pen., Sez. VI, 25 luglio 2017- dep. 25 ottobre 2017, n. 49056, in www.rivista231.it, secondo cui «se […] il presupposto indefettibile per l’applicazione del diritto sanzionatorio degli enti è l’esistenza di un “soggetto di diritto meta individuale” (Sez. 6, n. 18941 del 03/03/2004, Soc. Ribera, Rv. 228833), quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici, è certamente ascrivibile al novero dei destinatari del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 anche la società unipersonale, in quanto soggetto di diritto distinto dalla persona fisica che ne detiene le quote».!

11 Sulla spiccata connotazione in senso special preventivo delle sanzioni incapacitanti, v.

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che l’impresa può scaricare sul consumatore o neutralizzare, ad esempio, attraverso la creazione di fondi rischi o la stipula di polizze assicurative12.

Altrettanto importante – nonostante la scarsa attenzione che le è riservata

all’interno della Relazione – è la confisca obbligatoria del prezzo e del profitto

del reato (e – a fortiori – il corrispondente sequestro preventivo che mira ad

anticiparne precauzionalmente gli effetti). Eletta dal legislatore a sanzione principale nella convinzione che l’ablazione del vantaggio economico tratto dalla consumazione del reato rappresentasse uno snodo cruciale ai fini dell’effettività del nuovo modello punitivo, la confisca ha conquistato nel tempo – come dimostra la prassi applicativa – un ruolo centrale nel contrasto

alla criminalità d’impresa13.

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12 Già nella Relazione si sottolineava «l’opportunità politico-criminale della loro previsione […]:

la sanzione pecuniaria non deve infatti rappresentare l’unica arma da utilizzare contro la criminalità d’impresa, atteso che per quanto possa essere adeguata al patrimonio dell’ente, finirà comunque per essere annoverata tra i “rischi patrimoniali” inerenti alla gestione». Sul punto, ex multis, Cerqua – Fondaroli, p. 244; Panasiti, Art. 13, p. 303; Posteraro, p. 86 e Varraso, Il procedimento, p. 81.

13 Bassi, Il profitto confiscabile, p. 55; Riverditi, La confisca, p. 72; Varraso, Il procedimento, p. 83; v.

anche Pistorelli, p. 273: «I rigorosi presupposti che condizionano l’irrogazione delle sanzioni interdittive e la tutto sommato limitata efficacia dissuasiva di quelle pecuniarie (la cui contenuta entità appare facilmente metabolizzabile come un costo gestione, soprattutto dalle imprese di una certa dimensione) hanno immediatamente rivelato come la confisca del profitto, “promossa” dal d.lgs. n. 231/2001 a sanzione principale, costituisca la preoccupazione principale degli enti nei cui confronti sia stata aperta una indagine».

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Ciò, peraltro, in linea con la tendenza in atto sia nel nostro ordinamento, sia sul piano sovranazionale14,a fare della confisca e del sequestro le armi di

punta nel contrasto alla criminalità del profitto, stante la capacità di tali strumenti di perseguire e annullare i vantaggi di natura economica e patrimoniale derivanti dai reati15, rendendo così diseconomiche (e dunque,

meno “attraenti” per forme di criminalità il cui movente essenziale è il profitto16) eventuali condotte illecite. In tale ambito, la confisca per

equivalente costituisce uno strumento particolarmente incisivo, consentendo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

14 «La confisca del profitto è considerata misura particolarmente adatta ad essere applicata

all’impresa che svolge un’attività a livello sovranazionale» (Varraso, Il procedimento, p. 101), come traspare già dalla raccomandazione n. (88) 18 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, dal Protocollo della Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 19 giugno 1997 e dalla stessa Convenzione O.C.S.E. del 1997, che all’art. 3 comma 3 prevedeva l’obbligo in capo alle parti contraenti di adottare le misure necessarie affinché il prezzo e il profitto derivanti dalla corruzione di un pubblico ufficiale straniero fossero assoggettati a sequestro e a confisca, anche per equivalente. Sulla «dimensione transnazionale della confisca» v. anche Epidendio, pp. 23 ss. [nota da espandere].

15 Varraso, Il procedimento, p. 101.

16 In argomento, v. Epidendio, pp. 403-411, secondo il quale mentre sul piano della selezione

degli illeciti correttamente operano valutazioni di tipo assiologico, quando si tratta di selezionare gli strumenti di reazione non può non tenersi conto della logica cui rispondono i comportamenti illeciti. Il “valore aggiunto” della confisca è dato dal fatto che si utilizza la logica economica (quantitativa, basata sul calcolo di ricavi, costi e profitti) e non quella giuridica (qualitativa, basata sulla valutazione etico-politica degli interessi in gioco) come strumento di repressione della criminalità d’impresa: «le ragioni del successo della confisca […] sono [...] connesse: ad un maggiore effetto di prevenzione generale e speciale ottenibile attraverso l’ablazione patrimoniale in relazione a crimini a movente economico» oltre che «alla relativa semplicità dei presupposti applicativi e alla maggiore facilità di assolvere il conseguente onere probatorio, rispetto ad altri istituti, fatti oggetto di maggiori garanzie» (p. 405).

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di aggredire denaro, beni e altre utilità nella disponibilità dell’ente a prescindere dal loro collegamento con il reato; tuttavia è proprio qui, come si vedrà meglio nel terzo capitolo, con riferimento al sequestro preventivo finalizzato alla confisca di valore, che per effetto dell’alleggerimento probatorio di cui beneficia la pubblica accusa, si annidano i rischi maggiori di un indebolimento delle garanzie che spettano all’ente sottoposto a procedimento.

Eppure, – ed è questo forse uno dei tratti più peculiari del sistema messo a punto con il d.lgs. 231/2001 – il legislatore non si è affidato al solo arsenale sanzionatorio per perseguire i propri obiettivi di prevenzione generale e speciale. Attraverso una variegata gamma di meccanismi premiali, che associano a condotte riparatorie, risarcitorie e riorganizzative benefici consistenti sul piano delle sanzioni e delle cautele (secondo il cosiddetto carrot

and stick approach), il legislatore ha inteso, da un lato, favorire l’immediata

compensazione dell’offesa prodotta dalla condotta illecita, e, dall’altro, incidere materialmente sulla struttura organizzativa dell’impresa per rimuovere i fattori di rischio che hanno consentito il verificarsi delle violazioni. «Si profila, dunque, una linea di politica sanzionatoria che non mira ad una punizione indiscriminata e indefettibile, ma che, per contro, punta dichiaratamente a privilegiare una dimensione che salvaguardi la prevenzione del rischio di

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