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Il fascismo nei "Quaderni del carcere" di Antonio Gramsci

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e forme del sapere Corso di Storia e civiltà

Tesi di Laurea Magistrale a.a. 2012/2013

L’analisi del fascismo nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci

Relatore: Prof. Franco ANDREUCCI Correlatore: Prof. Michele BATTINI Candidato: Pietro VIOLANTE

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Indice

Introduzione 4

I. Il fascismo negli scritti precarcerari 13

L’ascesa del fascismo 13

La crisi Matteotti 27

Le Tesi di Lione 39

II. Il fascismo nei Quaderni:

«‘tradurre’ in linguaggio teorico gli elementi della vita storica» 48

Filosofia della praxis e teoria della traducibilità dei linguaggi 48

Il fascismo e il programma dei Quaderni 65

Rapporti di forza e guerra di posizione 72

Burocrazia 81

Cesarismo 84

Corporativismo 87

Dalla rivoluzione permanente all’egemonia civile 89

III.Fascismo e progetto totalitario: interpretazioni a confronto 93

Il fenomeno fascista: le interpretazioni dei contemporanei 93

L’analisi di Gramsci: due punti di forza 109

Prospettiva internazionale e rivoluzione passiva:

il principio dell’analisi differenziata 111

Il progetto totalitario 114

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L’analisi del fascismo nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci

Introduzione

[…] è oggi relativamente facile rilevare i limiti e gli errori dell’atteggiamento che ebbero verso il fascismo sia la classe dirigente liberale, sia i partiti di massa (socialisti e popolari) sia i comunisti. Per valutare giustamente questi limiti e questi errori, in sede storiografica è però necessario domandarsi anche, al di là della sostanza, quale era allora l’apparenza del fascismo, cosa cioè esso apparisse ai suoi contemporanei, che idea essi ne avessero e dove credessero sarebbe sboccato.1

Prima di immergersi nello studio dell’analisi gramsciana del fascismo, è utile inquadrare i testi in questione nella situazione intellettuale e pratica in cui furono redatti. Non si ripercorrerà tutta la vicenda dell’arresto e della lunga prigionia di Antonio Gramsci, su cui esistono già ampie e dettagliate ricostruzioni,2 ma si cercheranno le ragioni più profonde che spingono il prigioniero del fascismo a continuare la lotta attraverso un’instancabile opera di ricerca intellettuale. Se si comprenderanno quelle ragioni, si potranno tracciare le linee guida dei Quaderni, tentando di ricostruire l’intima organicità di un testo apparentemente frammentario.

Recentemente Luciano Canfora ha accennato in modo essenziale alla parabola intellettuale di Gramsci, o meglio agli eventi storici che l’hanno informata: egli «investe tutto se stesso nella politica mentre sembra avviarsi ormai la marcia trionfale della rivoluzione – di quella rivoluzione socialista ‘mondiale’ come risposta dei popoli al conflitto interimperialistico, sulla quale aveva scelto di investire tutte le sue energie intellettuali e pratiche –, e muore mentre il fascismo appare vincente ovunque».3 Gli eventi cardinali della

sua esperienza politica si possono dunque collocare sulla traiettoria di ascesa e declino del movimento operaio europeo e sulla traiettoria opposta dei movimenti di reazione sinteticamente raccolti sotto la definizione di fascismo. Innanzitutto l’Ottobre 1917, data                                                                                                                

1 Renzo De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Bari 1969, p. 139.

2 Si veda, da ultimo, Giuseppe Vacca,Vita e pensieri di Antonio Gramsci 1926-1937, Einaudi, Torino 2012. Ma

rimane sempre un ottimo punto di riferimento la prefazione di Valentino Gerratana ai Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975.

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epocale verso la realizzazione di un nuovo tipo di società; e contemporaneamente la Grande guerra, che definitivamente rende le grandi masse protagoniste attive della storia mondiale; poi i tentativi insurrezionali in altre parti d’Europa e il Biennio rosso in Italia. La reazione padronale e i compromessi accettati dal Partito socialista; la scissione di Livorno; nello stesso torno di anni la fondazione dei Fasci di combattimento e poi del Partito nazionale fascista; l’ascesa del fascismo e la rapida e progressiva cancellazione di tutte le conquiste politiche e organizzative che la classe operaia ha raggiunto negli anni precedenti, fino alla messa fuori legge dei movimenti di opposizione e all’arresto o all’eliminazione dei loro leader, fra cui Gramsci, arrestato l’8 novembre 1926.

Quando è messo nelle condizioni di cominciare a scrivere alcuni appunti, un paio d’anni più tardi, nella mente del comunista sardo c’è già un quadro d’analisi articolato sul significato storico dell’ascesa del fascismo e del suo trionfo. Le due traiettorie cui si è accennato si incrociano formando la traccia nascosta dei Quaderni. Da un lato Gramsci ricerca i motivi della sconfitta della classe operaia, dall’altro quelli dell’ascesa del fascismo come forma peculiare della reazione borghese. La lettura di Canfora si può ben accostare, quindi, a quella proposta più di sessant’anni addietro da Togliatti, secondo cui «Una domanda non formulata ci accompagna, se sappiamo leggere, quaderno per quaderno, pagina per pagina: – come questo è stato possibile; come questo potrà venir meno?».4 Si tratta, infatti, di una ricerca finalizzata alla lotta, una continuazione della lotta contro il fascismo e, ormai in un orizzonte più lontano, per l’avvento della società socialista. Ma si parlerà più avanti del carattere operativo della ricerca dei Quaderni; per ora è l’ampiezza dell’analisi che importa. Gramsci, a differenza di altri pensatori contemporanei e anche in contraddizione con la linea ufficiale dell’Internazionale comunista, si rende conto della profondità con cui il fascismo si radica nella società italiana ed europea. Così la sua analisi non si limita a studiare il fenomeno nelle sue manifestazioni dal 1919 in avanti, ma ne ricerca le cause complesse in tutto il percorso di evoluzione compiuto dalla società moderna nel corso del secolo XIX e nei primi decenni del XX. E non è tutto. I Quaderni si possono leggere sì come «un grande libro di storia», ma allo stesso tempo come «un libro sulla storia, sul suo significato e sulla sua logica, sui suoi rapporti con la filosofia (la riflessione teorica) e la politica (la prassi rivoluzionaria)».5 Dunque storia, filosofia e politica si intrecciano nello studio dei modi di

evoluzione della società borghese. L’orizzonte della ricerca, che emerge qua e là in modo esplicito, ma che percorre in modo implicito tutte le rubriche dei Quaderni, è duplice: comprendere le forme in cui la società capitalista riesce ancora a mantenersi in vita e a                                                                                                                

4 Palmiro Togliatti, Gramsci, a cura di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 101.

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riprodurre i propri meccanismi di dominio economico, sociale e politico; e, dall’altro lato, delineare i percorsi possibili del passaggio a un nuovo tipo di società.

Uno dei primi assunti del pensiero gramsciano è che i rivolgimenti politici devono prendere le mosse dalla consapevolezza dello svolgimento storico dei rapporti di forza nella società. E questo non soltanto per una ragione «filologica» di corretta interpretazione degli eventi passati e previsione di quelli futuri, ma anche per una caratteristica specifica delle società moderne, e cioè che in esse «l’‘individuo’ storico-politico non è l’individuo ‘biologico’ ma il gruppo sociale».6 Nel mondo moderno, gli attori che si incontrano e

scontrano sulla scena della storia non sono gli individui, ma i gruppi sociali. Il loro ruolo può essere attivo o passivo. Il processo con cui un gruppo sociale assume un ruolo attivo nello svolgersi degli eventi storici è il processo di formazione di una volontà collettiva. Formandosi una volontà collettiva, il gruppo sociale si unisce e prende coscienza della propria unità e della propria esistenza come singolo soggetto di storia. Comunque si collochi nel gioco dei rapporti di forza, per essere o divenire soggetto storico, il gruppo sociale dovrà dunque sviluppare un linguaggio e un’identità condivisa. Gramsci indica questa assunzione di consapevolezza collettiva come «coscienza operosa della necessità storica».7 Operosa, perché oltre a essere una modificazione della percezione è allo stesso tempo, proprio in quanto autocoscienza e quindi nuovo livello di soggettività, una modificazione reale dei rapporti di forza.

L’opera di Gramsci, in una prospettiva ampia che comprende tutto il suo percorso intellettuale e non soltanto la ricerca dei Quaderni, mira a favorire la formazione di una volontà collettiva presso la classe operaia italiana. Egli individua il maggiore limite storico delle classi dirigenti italiane nella mancata formazione di una «volontà collettiva nazionale-popolare». Di conseguenza agisce perché tale unità sia raggiunta in una prospettiva di rivolgimento sociale, cioè assumendo come nucleo attivo della nuova soggettività la classe operaia, che emancipandosi dallo sfruttamento capitalista traghetterà tutta la società italiana verso un nuovo ordinamento economico e politico. L’obiettivo ultimo è la fondazione di un nuovo tipo di Stato, e il partito della classe operaia, il Partito comunista, è l’organismo che nelle proprie idee, nella propria azione e nella propria organizzazione prefigura tale Stato. In questo processo, il compito dell’«intellettuale organico», del singolo uomo di partito e del gruppo che dirige il partito e la classe in genere, è di «‘tradurre’ in linguaggio teorico gli elementi della vita storica»,8 cioè di rendere intelligibile la situazione storica presente, o in                                                                                                                

6 Quaderni del carcere, op. cit., p. 690. 7 Ivi, p. 1559.

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altri termini di individuare i rapporti di forza che intercorrono fra i gruppi sociali. Questi rapporti seguono delle dinamiche che hanno tempi diversi e spesso non coincidono con l’equilibrio di forze apparente.

Dopo aver tracciato, nella prima parte del presente lavoro, una ricostruzione sintetica dell’analisi gramsciana del fascismo negli scritti precarcerari, nella seconda parte si cerca di capire innanzitutto cosa intenda Gramsci per «tradurre», come operi tale meccanismo di traduzione e che posto assuma nella sua visione complessiva dello sviluppo storico. Questo studio preliminare fornisce gli strumenti teorici necessari per ricostruire l’analisi gramsciana dei rapporti di forza nel periodo di consolidamento del regime fascista, a cavallo fra gli anni Venti e Trenta. La ricerca riguarda dunque l’analisi gramsciana del fascismo, ma ci sono delle domande più profonde sottese a questa indagine, cui non si pretende di trovare risposte compiute e definitive ma che è comunque bene esplicitare. Esse concernono le specificità nazionali della storia d’Italia, non soltanto in epoca fascista. Sono indagate tali specificità e si vede fino a che punto rispettano meccanismi ricorrenti di conservazione-alterazione dei rapporti di forza e degli equilibri di potere; quando e perché, viceversa, la storia d’Italia ha seguito una traccia propria, singolare nel contesto delle interconnessioni economiche mondiali dell’epoca. Oggetto della ricerca sono le note dei Quaderni. Sono riportati dei brani e attraverso il commento di tali brani si cerca di ricostruire il filo logico dell’analisi gramsciana, partendo dalla formulazione dei principali strumenti categoriali, fino a vedere cos’è per Gramsci il fascismo come fenomeno complessivo e quali sono gli elementi che lo caratterizzano. Le note presentate non rispettano dunque un ordine strettamente cronologico, né l’ordine in cui sono stati raccolti i quaderni per le varie edizioni. Si è preferito seguire un discorso, sempre rispettando e facendo riferimento alla realtà materiale del testo, nel tentativo di rendere un’organicità di pensiero che risulta evidente in seguito a uno studio approfondito dei Quaderni, ma che la forma di note frammentarie non rende agevole da cogliere se non si operano connessioni che vanno al di là della divisione in quaderni e paragrafi con cui le note sono giunte a noi. La terza parte del lavoro è dedicata al confronto dell’analisi gramsciana del fascismo con le maggiori interpretazioni del fenomeno. A una sintetica esposizione di tali interpretazioni, segono due approfondimenti su aspetti metodologici e lessicali dell’approccio gramsciano allo studio del fascismo; in particolare è analizzato l’uso che fa Gramsci dell’aggettivo totalitario.

La ricerca si sviluppa dunque su un doppio binario. Per gli scritti precarcerari è messo in evidenza soprattutto lo sviluppo cronologico della lettura gramsciana del fascismo. Sono individuate alcune fasi distinte, scandite da passaggi più o meno graduali; dagli articoli di

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commento sui sommovimenti piccolo-borghesi del dopoguerra, apparsi sulla stampa socialista torinese, all’interpretazione del fascismo formulata nelle Tesi di Lione. Per i Quaderni, invece, si traccia un’esposizione tematica, che dia ragione dell’interesse sia storico sia filosofico di alcuni concetti collegati all’analisi del fascismo. Partendo dalla teoria della traducibilità dei linguaggi scientifici, si vedono i principali elementi filosofici che caratterizzano il marxismo di Gramsci come «filosofia della praxis». Le considerazioni sul rapporto dialettico di teoria e prassi conducono alla trattazione della concezione gramsciana dello sviluppo storico, e in particolare alla sua idea di crisi della società capitalista. Ricercando le ragioni di questa crisi e analizzandone gli sviluppi, egli perviene all’elaborazione del modello interpretativo della «rivoluzione passiva». Tale modello è il frutto maturo di una serie di riflessioni avviate fin dagli anni della guerra sulla crisi delle classi dirigenti dell’Italia liberale. Infine, sono isolati tre aspetti peculiari del fenomeno italiano del fascismo: la funzione della burocrazia, la forma cesaristica e il carattere ideologico del corporativismo. La scelta dei testi dipende principalmente dal tipo di discorso che si vuole seguire, anche a costo di saltare da un quaderno all’altro per non perdere il filo logico di riflessioni che Gramsci prende e interrompe più e più volte. Tuttavia, si vedono in maggiore dettaglio alcuni punti particolari, alcune note che trovano una sistemazione compiuta, assumendo quasi la forma di brevi saggi. In particolare quelle sui rapporti di forza contenute nel Quaderno 13 e alcune note su Croce e il fascismo nei Quaderni 8 e 10.

Nella parte finale della tesi i due metodi di analisi, quello cronologico e quello tematico, sono sovrapposti; dapprima tornando a trattare dello sviluppo cronologico del metodo dell’«analisi differenziata», e poi soffermandosi su alcuni aspetti che distinguono l’analisi gramsciana del carattere totalitario del fascismo dalle descrizioni contemporanee dei regimi a partito unico e dalle successive teorie del totalitarismo.

Ora, per ottenere un quadro più fedele della trattazione dei Quaderni, sarà necessario occuparsi brevemente della partizione interna della ricerca condotta in carcere. Più avanti saranno analizzati in dettaglio i programmi di lavoro stesi da Gramsci in alcune lettere alla cognata Tania e all’inizio del primo quaderno. Qui è soprattutto interessante vedere, nello sviluppo effettivo di tali programmi, per che via emerga la riflessione sul concetto principale dell’interpretazione gramsciana del fascismo, la «rivoluzione passiva».9 Essa compare nel

Quaderno 1 dapprima come «rivoluzione senza rivoluzione», riferita al Risorgimento italiano.                                                                                                                

9 Sullo sviluppo della categoria di «rivoluzione passiva» si è seguita la ricostruzione di Luisa Mangoni, La

genesi delle categorie storico-politiche nei «Quaderni del carcere», in «Studi Storici», n. 3, 1987, pp. 565-579. La Mangoni si rifà a sua volta, per le questioni filologiche di datazione dei singoli quaderni, al lavoro ormai classico di Gianni Francioni, L’officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni del carcere», Bibliopolis, Napoli 1984.

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Contemporaneamente Gramsci, a cavallo fra il 1929 e il 1930, comincia a occuparsi di altre questioni apparentemente scollegate fra loro: l’idea hegeliana di partiti politici e associazioni come trama privata dello Stato, una lettura di Machiavelli che procede per metafore e «paragoni ellittici» fra la storia d’Italia e degli altri paesi europei, la Restaurazione come conseguenza diretta della Rivoluzione francese. Gramsci comincia a cogliere l’ambivalenza del concetto di rivoluzione passiva, che oltre a essere uno strumento di comprensione storica, può diventare anche una formula ideologica volta alla creazione di consenso passivo; in questo secondo senso Benedetto Croce sarebbe il maggiore ideologo della rivoluzione passiva in Italia.

Nell’estate del 1930 Gramsci lavora contemporaneamente a tre quaderni: il Quaderno 2, una raccolta di promemoria; il Quaderno 3, in cui le note sono raccolte in rubriche già presenti nel Quaderno 1 e in alcune rubriche nuove, come quella di Passato e presente, sulle debolezze teoriche e gli errori tattici della sinistra nel dopoguerra; il Quaderno 4, in cui scompaiono le raccolte di dati sconnessi e comincia a delinearsi uno schema di lavoro definito. Nel Quaderno 4 si trova il primo gruppo consistente di note sugli intellettuali, e vengono tracciate relazioni più chiare fra i vari aspetti dell’anali della storia e della filosofia italiane. Nel corso del 1932 compaiono, nel Quaderno 8, nuclei tematici consolidati che andranno a costituire gli argomenti monografici dei Quaderni 10, 11 e 13: i «punti per un saggio su Croce», gli appunti per «un’introduzione allo studio della filosofia» e le note su Machiavelli e il moderno Principe. In questa fase «sono ormai definiti i riferimenti essenziali della riflessione gramsciana, fondati su un tessuto di esemplificazioni storiche (il Risorgimento come caso specifico dell’età della Restaurazione), sul ripensamento del marxismo come introduzione allo studio della filosofia e rifiuto della sua riduzione a sociologia, su Machiavelli come tentativo di rielaborazione degli spunti già variamente presenti nei Quaderni in vista di una scienza della politica storicamente fondata».10

La rivoluzione passiva, dall’analisi del Risorgimento e dell’età della Restaurazione è trasposta all’interpretazione del fascismo; ma il concetto ha un’articolazione del tutto nuova, è il punto d’incontro e lo strumento di lettura di due fenomeni distinti. Da una parte lo scontro tra forze sociali irriducibili, scatenato nel dopoguerra dai rivolgimenti bellici e soprattutto dalla spinta della Rivoluzione russa; dall’altra lo scontro interno alle classi dominanti per il rinnovamento del sistema economico e l’introduzione di elementi di piano come riflesso del peso internazionale dell’americanismo. L’esito della coincidenza di questi due conflitti è la soluzione cesaristica come forma peculiare di rivoluzione passiva. Ma Gramsci si accorge dei                                                                                                                

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rischi concreti insiti in questo tipo di interpretazione. Fare della rivoluzione passiva una formula di scienza politica, significa negare la possibilità di un evento autenticamente rivoluzionario, significa il passaggio definitivo a una fase irreversibile di «guerra di posizione». Nel Quaderno 15, redatto nel corso del 1933, tali riflessioni giungono a completa maturazione: Gramsci riconosce il nodo centrale della questione nei «rapporti tra condizioni oggettive e condizioni soggettive dell’evento storico».11 Guai a negare l’esistenza di una dialettica fra questi due fattori, e ad abbandonarsi alle leggi sociologiche di tipo deterministico.

L’esperienza su cui si basa la filosofia della praxis non può essere schematizzata; essa è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità il cui studio può dar luogo alla nascita della «filologia» come metodo dell’erudizione nell’accertamento dei fatti particolari e alla nascita della filosofia intesa come metodologia generale della storia.12

L’unico modo certo per analizzare la realtà in divenire è il metodo «filologico» dell’«accertamento dei fatti particolari». La filosofia è quell’insieme di conoscenze metodologiche che permettono di ricostruire meglio la realtà storica, e quindi di comprendere il suo sviluppo e i tracciati che hanno generato una situazione presente. Non esistono principi assoluti applicabili indiscriminatamente a una situazione qualsiasi a prescindere dalla conoscenza dei processi storici che l’hanno determinata. Gramsci lo nota in particolare criticando l’utilizzo sociologico a fini politici delle leggi statistiche.

[…] l’estensione della legge statistica alla scienza e all’arte politica può avere conseguenze molto gravi in quanto si assume per costruire prospettive e programmi d’azione; se nelle scienze naturali la legge può solo determinare spropositi e strafalcioni […], nella scienza e nell’arte politica può avere come risultato delle vere catastrofi, i cui danni «secchi» non potranno mai essere risarciti. Infatti nella politica l’assunzione della legge statistica come legge essenziale, fatalmente operante, non è solo errore scientifico, ma diventa errore pratico in atto; essa inoltre favorisce la pigrizia mentale e la superficialità programmatica. È da osservare che l’azione

                                                                                                               

11 Quaderni del carcere, op. cit., p. 1781. 12 Ivi, pp. 1428-1429.

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politica tende appunto a far uscire le moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la legge dei grandi numeri […].13

La legge statistica applicata alla politica, non solo è rischiosa perché imprecisa, ma è dannosa perché superficiale e astrattamente automatica. Essa non comporta lo studio approfondito di una situazione, ma la misurazione passiva di certe sue caratteristiche estrinseche. Questo tipo di approccio è del tutto contrario al principio fondamentale della politica moderna, che è quello della partecipazione attiva delle masse alla vita collettiva. Più le masse sono attive e più si costituiscono in soggettività collettiva, meno la «legge dei gradi numeri» sarà affidabile.

Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale […] diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione sorretta dalla identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fallace – che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza –, ma avviene da parte dell’organismo collettivo per «compartecipazione attiva e consapevole», per «con-passionalità», per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di «filologia vivente».14

La casualità e la meccanicità dei comportamenti di massa, che forse possono essere misurate dalle rilevazioni statistiche con un grado accettabile di approssimazione, lasciano il posto a un processo «consapevole e critico» di determinazione dei comportamenti collettivi. Ora le leggi sociologiche non possono più sopperire alla mancanza di legami reali fra le masse e i gruppi dominanti. L’unico metodo di comunicazione fra l’azione collettiva della massa e la pianificazione politica dei capi è l’«esperienza dei particolari immediati», la «filologia vivente», ovvero, in altre parole, la compenetrazione organica fra governati e governanti.

È il caso di ritornare brevemente sulla rubrica Passato e presente, sulle esperienze del movimento operaio. Sempre nel Quaderno 15, Gramsci giunge a un primo epilogo del suo studio sulle questioni metodologiche della scienza politica moderna. Tale epilogo è incentrato sulla categoria di rivoluzione passiva, che come si è visto è un po’ il paradigma della                                                                                                                

13 Ivi, pp. 1429-1430. 14 Ibid.

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ricostruzione gramsciana delle vicende storiche del mondo moderno. Gramsci si sofferma sulla natura da attribuire al concetto, evidenziando i pericoli insiti nell’adozione di un modello esplicativo sempre valido.

Passato e presente. Epilogo primo. L’argomento della «rivoluzione

passiva» come interpretazione dell’età del Risorgimento e di ogni epoca complessa di rivolgimenti storici. Utilità e pericoli di tale argomento. Pericolo di disfattismo storico, cioè di indifferentismo, perché l’impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo, ecc.; ma la concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente. Dunque non teoria della «rivoluzione passiva» come programma, come fu nei liberali italiani del Risorgimento, ma come criterio di interpretazione in assenza di altri elementi attivi in modo dominante. (Quindi lotta contro il morfinismo politico che esala da Croce e dal suo storicismo).15

L’antidoto al rischio di «disfattismo storico», cioè al rischio che il modello della rivoluzione passiva e l’inevitabilità della sua reiterazione possano costituire una barriera per l’azione rivoluzionaria, è una concezione dialettica di tale modello. Esisterà sempre un rapporto dialettico tra «condizioni oggettive e condizioni soggettive dell’evento storico». Ci sarà sempre spazio per l’intervento attivo di una soggettività collettiva: anche le condizioni oggettive sono oggettive relativamente, e cioè in relazione alla formazione o meno di una volontà collettiva che abbia la decisione e la forza per agire su di esse e renderle operanti. Oggettive non è sinonimo di necessarie, ma piuttosto di reali, concrete. La rivoluzione passiva è il criterio di interpretazione di una situazione oggettiva, valido «in assenza di altri elementi attivi in modo dominante». Ma tali elementi possono sempre essere raccolti e organizzati; la loro azione deve essere pianificata secondo un programma che critichi le condizioni oggettive e riconosca l’equilibrio delle forze in gioco. L’ipotesi interpretativa della rivoluzione passiva può essere tenuta in considerazione come contributo a tale ricerca.

                                                                                                               

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I

Il fascismo negli scritti precarcerari

L’ascesa del fascismo

Non è possibile studiare il fascismo nei Quaderni senza collegarlo allo sviluppo del pensiero e dell’azione di Gramsci nel periodo precarcerario. Anche prima dell’arresto, infatti, la sua attività politica fu fortemente caratterizzata dall’analisi e dallo scontro diretto con il fascismo, fin dall’emergere di questo come movimento nel 1919. A ciò va aggiunto che gli elementi più originali della lettura gramsciana del fascismo, sia in una fase iniziale sia con il precipitare della situazione e il ribaltamento delle forze in campo, e persino nei Quaderni, affondano le radici nell’analisi della crisi della società italiana che Gramsci va formulando fin dagli anni della guerra. Tale analisi procede di pari passo con l’evoluzione delle sue posizioni nel panorama politico nazionale e internazionale e con la formazione del nucleo dirigente del Partito comunista. Nei paragrafi che seguono, si ripercorreranno quindi sinteticamente i passaggi fondamentali di questo percorso, collegando le fasi della lotta politica ai diversi momenti dell’interpretazione.

Per il periodo precarcerario è valida l’affermazione di Enzo Santarelli, che potrebbe apparire invece restrittiva per gli scritti del carcere: «Gramsci non si è mai posto ex professo un’indagine sulla tematica del fascismo che fosse, per così dire, scorporata dalle finalità più generali – teoriche e pratiche – che via via si propose. Da ciò differenze qualitative non lievi nei diversi materiali affidati alla nostra comprensione».16 Le posizioni di Gramsci fino al 1926 sono affidate a due tipi di documento: una miriade di articoli di giornale, firmati e non, e, dalla fondazione del Partito comunista d’Italia nel gennaio 1921, relazioni e mozioni per l’attività del partito e degli organismi politici collegati, primo fra tutti l’Internazionale comunista. Un primo accurato studio dell’evolversi di queste posizioni fu quello proposto da Santarelli nel luogo già citato. Egli formulò una scansione che appare logica ed evidente, distinguendo un prima e un dopo separati dalla nascita del fascismo come movimento e, in secondo luogo, dalla fondazione del Pcd’I, che sarebbe quindi l’esito finale di una fase di passaggio e l’approdo definitivo a una visione più compiuta della situazione italiana. Individuò dunque una fase iniziale «prefascista» in cui Gramsci riconosce e illustra diversi aspetti della crisi della classe dirigente nazionale, di cui la guerra e i suoi esiti sono insieme                                                                                                                

16 Introduzione di Enzo Santarelli ad Antonio Gramsci, Sul fascismo, a cura di Enzo Santarelli, Editori Riuniti,

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conseguenza e causa aggravante. Proprio grazie alla consapevolezza della portata storica di tale crisi, in una fase successiva Gramsci, che ora opera al vertice del neonato Partito comunista, affronta con decisione l’emergere del movimento fascista riconoscendone subito tutta la pericolosità; e negli anni seguenti entra in aspra polemica con l’atteggiamento compromissorio e in certi casi accomodante del socialismo cosiddetto «opportunista».

Questa scansione temporale, se appare la più naturale dal momento che l’analisi del fascismo comincia ovviamente con l’emergere del movimento fascista, mette tuttavia in risalto soltanto elementi estrinseci all’evoluzione del pensiero di Gramsci. Sembra più feconda la divisone proposta da Simona Colarizi, che del resto si giova di una notevole mole di scritti venuti alla luce dopo lo studio di Santarelli, nonché dei trentacinque anni di critica gramsciana che passano fra i saggi dell’uno e dell’altra. Secondo Colarizi,17 il punto di svolta da evidenziare è la crisi scatenata dal delitto Matteotti. Con il 1919, anno di fondazione del movimento fascista, non ci fu, in effetti, un mutamento sostanziale dei temi messi maggiormente in luce da Gramsci nei suoi interventi. E lo stesso si può dire per il 1921, anno di fondazione del Pcd’I. Fino al 1921 e oltre, l’analisi di Gramsci non si discosta dall’opinione della maggior parte degli altri osservatori marxisti: il fascismo è una forma della dittatura borghese, strumento delle vecchie classi dominanti, privo di un’autonoma dimensione innovativa e privo di un’ideologia coerente. Allo stesso tempo, però, Gramsci è acuto e originale nel considerare la base sociale del fascismo e i fenomeni sociali e politici che con la guerra e i disordini e le incertezze che l’hanno seguita hanno gettato tutta una parte della piccola borghesia italiana fra le braccia del fascismo. Questi due elementi, la visione marxista del fascismo come dittatura di classe e l’attenzione alla rapida e continua ridefinizione dei raggruppamenti sociali e politici, si fondono in un’analisi più matura soltanto nel corso del 1924, quando Gramsci, come molti altri, è costretto a ravvedersi sull’importanza del fenomeno fascista, trovandosi di fronte a una successione rapidissima che dalla presa del potere nel 1922 passa per la riforma elettorale del 1923 e le elezioni dell’aprile 1924, e giunge al culmine con l’uccisione dell’onorevole Giacomo Matteotti.

Si è scelto, dunque, di seguire tale scansione: si vedrà innanzitutto quali sono gli elementi principali e quelli più originali del pensiero di Gramsci negli anni della sua formazione intellettuale e politica, della costituzione del gruppo dirigente comunista e dell’ascesa del fascismo; poi si vedrà come questi elementi sono messi a frutto nella definizione di una posizione più coerente nel corso della crisi del 1924; infine, una sezione                                                                                                                

17 Simona Colarizi, Gramsci e il fascismo, in Gramsci nel suo tempo, a cura di Francesco Giasi, Carocci, Roma

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distinta sarà dedicata agli scritti più importanti del 1925 e del 1926, quando si vanno delineando i capisaldi dell’interpretazione che Gramsci svilupperà poi nei Quaderni.

Come ha messo in luce Leonardo Rapone in un suo recente lavoro,18 quelli dal 1914 al 1919 sono anni fondamentali per la formazione politica di Gramsci. Per ciò che riguarda la storia europea non è il caso di richiamare i grandi eventi che si susseguono in questo breve torno di tempo, primi fra tutti la Grande guerra e la Rivoluzione russa. Ciò che importa è rilevare che essi sono percepiti e vissuti come cruciali dal giovane Gramsci, che nell’aprile del 1919, volgendosi indietro, nota: «cinque anni non sono stati cinque secoli di storia?».19 In

tutto il periodo si possono scorgere dei caratteri di unitarietà dal punto di vista delle vicissitudini personali; innanzitutto l’attività giornalistica, che egli intraprende via via con sempre maggior impegno e partecipazione, fino a farne la sua occupazione principale: dai primi interventi sulla stampa socialista torinese nel 1914, agli incarichi politici che assume a partire dal 1917, fino all’inizio del movimento consiliare, che proietta interamente la sua esperienza verso la prospettiva rivoluzionaria. Si può tracciare uno sviluppo interno di tale parabola che, come sintetizza il titolo dell’opera di Rapone, porta Gramsci «dal socialismo al comunismo», ossia dall’attività giornalistica negli organi della sezione torinese del Partito socialista italiano all’attività politica in aperta rottura con quel partito e con lo sguardo già rivolto all’Internazionale comunista. Altrettanto importante è la proiezione di tale periodo formativo su tutta l’attività successiva del dirigente comunista. Ne sia dimostrazione il fatto che alcuni dei motivi allora sviluppati ritorneranno costantemente, arricchiti e approfonditi, nelle pagine dei Quaderni. Grande attenzione va data alle relazioni che intercorrono fra il processo di formazione del suo pensiero e il contesto culturale e politico dell’Italia e dell’Europa dell’epoca: egli visse con un coinvolgimento totale i moti culturali del tempo, e in questo senso è fondamentale notare la sua appartenenza profonda a una “generazione” intesa come esperienza spirituale piuttosto che in senso meramente cronologico.

È da ricondurre a quest’appartenenza generazionale, e quindi al diffuso rifiuto degli atteggiamenti politici di attendismo propri del giolittismo da una parte e del socialismo riformista dall’altra, il primo intervento pubblico di rilievo di Gramsci. Si tratta di un articolo scritto a difesa della svolta interventista dell’allora socialista Mussolini. È bene fare chiarezza su questo punto, non tanto per mettere in luce una posizione giovanile di Gramsci nei confronti di colui che sarà il duce del fascismo, quanto per mostrare l’infondatezza delle                                                                                                                

18 Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo

(1914-1919), Carocci, Roma 2011.

19 Profumi di rose, «Avanti!», 10 aprile 1919, edizione piemontese; ora in Antonio Gramsci, Sotto la mole.

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ipotesi di quanti, dall’ascesa del fascismo fino a oggi, fra avversari politici e critici detrattori, hanno cercato di collegare tale presa di posizione a successivi presunti avvicinamenti fra Gramsci e Mussolini. Il «caso Mussolini» si scatena in seguito al «voltafaccia» annunciato sulle colonne dell’«Avanti!» del 18 ottobre 1914 nel celebre articolo intitolato Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante.20 L’articolo suscita grande scandalo e una serie di rivolgimenti interni al Partito socialista, di cui Mussolini è all’epoca uno dei dirigenti più in vista, e segna l’avvio del processo che in rapidissima successione lo porta ad abbandonare il giornale, il partito e infine il movimento operaio, per varcare a grandi passi la distanza che lo separa dall’opposto schieramento politico. Il clima che agita il socialismo italiano di fronte agli avvenimenti bellici è davvero incandescente: tutti i maggiori leader nazionali del partito esprimono in quest’occasione i loro giudizi, per lo più di denuncia, sulla nuova posizione mussoliniana. Nei giorni immediatamente successivi al famoso articolo, si levano a censurare la svolta di Mussolini la penna di Treves e quella di Bordiga, da punti di vista contrapposti che esprimono le due anime del partito, quella riformista e quella massimalista. Il dibattito si allarga subito oltre i confini della stampa socialista, approdando sulle pagine del «Corriere della Sera», con l’articolo di Claudio Treves del 23 ottobre 1914,21 e poi anche sui giornali torinesi, con le voci deluse e spaesate di Ottavio Pastore e Angelo Tasca,22 che in precedenza avevano riposto grande fiducia nell’energica guida mussoliniana.

Gramsci interviene nel dibattito sul settimanale torinese «Il Grido del popolo» il 31 ottobre 1914 con l’articolo Neutralità attiva ed operante,23 il cui titolo riprende alla lettera l’espressione mussoliniana. Nel suo intervento avanza un’interpretazione positiva delle parole di Mussolini, accogliendone favorevolmente, pur con qualche riserva riguardo alla chiarezza e alla coerenza dell’esposizione, l’abbandono della «neutralità assoluta», che anche secondo lui appiattisce le posizioni del proletariato su quelle delle frange moderatamente riformiste del Partito socialista e della borghesia in genere. In sintesi, le ragioni addotte per sostenere la validità di quella svolta sono riconducibili al rifiuto della passività del proletariato: Gramsci, ancora fiducioso nei confronti di Mussolini, accoglie il suo invito, ritenendo che il proletariato debba svolgere un ruolo attivo e forzare la classe dirigente borghese ad assumersi le proprie responsabilità. A quel punto, l’intervento dello Stato borghese non sarebbe coinciso con                                                                                                                

20 Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, in «Avanti!», 18 ottobre 1914; ora in Opera omnia

di Benito Mussolini, a cura di Edoardo Susmel e Duilio Susmel, La Fenice, Firenze 1953, pp. 393-403.

21 La neutralità socialista, in «Corriere della Sera», 23 ottobre 1914; cit. in Leonardo Rapone, Cinque anni che

paiono secoli, op. cit., p. 17.

22 Ottavio Pastore, La nostra posizione, in «Il Grido del popolo», 17 ottobre 1914; e Angelo Tasca, Il mito della

guerra, in «Il Grido del popolo», 24 ottobre 1914; entrambi citt. in Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli, op. cit., p. 13.

23 Neutralità attiva ed operante, in «Il Grido del popolo», 31 ottobre 1914; ora in Antonio Gramsci, Cronache

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quello del proletariato, che avrebbe mantenuto un’opposizione di classe alla guerra. Così sarebbero emerse con forza da un lato la distinzione degli schieramenti di classe, dall’altro l’insufficienza della classe dirigente a far fronte agli eventi catastrofici della guerra, con un conseguente avanzamento delle posizioni proletarie e socialiste. Tali tesi, non ancora ben articolate rispetto alla successiva produzione giornalistica di Gramsci, sono comunque un primo segnale della sua volontà di critica verso il riformismo italiano. Per Rapone, quest’articolo di Gramsci, ben inserito nel suo contesto storico, «dà testimonianza di uno stato d’animo lacerato, non di un plausibile disegno politico»,24 e segna l’inizio del percorso

travagliato che lo porterà a criticare dalle fondamenta l’atteggiamento del socialismo riformista italiano, costituendo «l’aspetto visibile di un più esteso e prolungato disagio».25 L’approdo di questo itinerario sarà il movimento comunista internazionale e infine la scissione del 1921. Una vicenda lontana «secoli» dalla situazione del 1914.

Gramsci, nel suo articolo sul «Grido del popolo», critica la «neutralità assoluta» perché considera il dibattito sull’entrata in guerra un momento fondamentale nel processo di assunzione di un ruolo di primo piano da parte delle classi lavoratrici. In una situazione in cui «ciascuno deve assumere le proprie responsabilità», scrive, la «neutralità assoluta» è una formula che «ha solo valore per i riformisti, che dicono di non voler giocare terni secchi (ma lasciano che gli altri li giochino e li guadagnino) e vorrebbero che il proletariato assistesse da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé e preparano loro la piattaforma per la lotta di classe». Gli anni della guerra rappresenteranno davvero, per molti aspetti, l’ingresso violento e tragico delle masse nella storia europea, e tutta l’attività successiva di Gramsci punterà all’affermazione, da parte del proletariato, di un ruolo fondamentale, accolto su di sé in modo attivo e consapevole. Il dibattito sulla neutralità, che nel Partito socialista rappresenta una riflessione sul modo più opportuno di svolgere quel ruolo, prefigura quindi i temi della                                                                                                                

24 Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli, op. cit., p. 31.

25 Ivi, p. 37. La scelta di Rapone di affrontare il problema del rapporto con Mussolini proprio nel prologo della

sua opera è interessante sotto diversi aspetti, anche per le reazioni che ha suscitato. Essa ha infatti fornito lo spunto a recensioni dai toni più o meno velatamente “scandalistici”, che a volte hanno avuto l’effetto di favorire la diffusione di false credenze nei lettori meno attenti ed esperti. L’oggetto dello scandalo è costituito dal supposto avvicinamento di Gramsci a Mussolini contestualmente alla svolta interventista di quest’ultimo. Su tale supposizione diversi avversari politici (già all’epoca dei fatti) e studiosi (fino a oggi) hanno costruito un ventaglio di ipotesi su altri “avvicinamenti” fra i due personaggi (da una ventilata collaborazione di Gramsci al «Popolo d’Italia» di Mussolini fino a una presunta richiesta di grazia durante gli anni del carcere), nell’intento più o meno esplicito di screditare di volta in volta Gramsci stesso, Togliatti o il Partito comunista. Non si può certo dire che Rapone assecondi tali derive interpretative; è anzi chiarissimo nella loro stroncatura: «Quello della possibile vicinanza – scrive Rapone – tra le posizioni di Mussolini e di Gramsci al punto iniziale di un cammino che condurrà l’uno ad assumere il ruolo del carnefice, l’altro a subire la parte della vittima, è un tipico tema destinato ad alimentare controversie per l’interferenza di fattori extrascientifici, come la riluttanza ad accettare l’ipotesi di una contaminazione o, al contrario, il godimento compiaciuto all’idea di una possibile confusione dei valori» (ivi, p. 16).

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svolta politica ed esistenziale di Gramsci «dal socialismo al comunismo», cioè alla lotta attiva e attuale per la rivoluzione comunista. Il primo momento in cui egli avverte l’impellenza di quella svolta è in occasione del dibattito scatenato dall’articolo di Mussolini.

Nel corso del 1915, forse a causa della posizione isolata assunta all’interno di tale dibattito, Gramsci praticamente scompare dalla scena politica torinese. Vi rientra gradualmente con articoli di vario carattere sui giornali socialisti locali, mentre il dissenso con gli altri membri della sezione torinese sembra ricucito, tanto che nel febbraio 1917 attende da solo alla redazione del numero unico del foglio di propaganda ed educazione socialista «La Città futura».26 Qui compare per la prima volta un problema che ritornerà in seguito in diverse

occasioni e che costituisce un filo rosso della riflessione giovanile, ma non solo, di Gramsci: il problema dell’ordine in un quadro di azione politica socialista. Nella «Città futura» il tema è analizzato in particolare a proposito del rapporto che intercorre tra disciplina e libertà. In una stessa pagina di quella pubblicazione, Gramsci affronta la questione in due articoli: il primo intitolato appunto Disciplina e libertà, brevissimo, in cui chiama i giovani socialisti a un’assunzione di responsabilità, notando che «disciplinarsi», partecipando attivamente delle responsabilità collettive di un gruppo politicamente influente, significa «rendersi indipendenti e liberi»; il secondo, intitolato semplicemente La disciplina, in cui oppone all’autoritarismo meccanico della disciplina borghese l’autonomia e la spontaneità di quella socialista. Vi si legge che «chi è socialista o vuole diventarlo non ubbidisce: comanda a se stesso, impone una regola di vita ai suoi capricci, alle sue velleità incomposte. Sarebbe strano che mentre troppo spesso si ubbidisce senza fiatare a una disciplina che non si comprende e non si sente, non si riesca a operare secondo una linea di condotta che noi stessi contribuiamo a tracciare e a mantenere rigidamente coerente. Poiché è questo il carattere delle discipline autonome: essere la vita stessa, il pensiero stesso di chi le osserva».

Dopo i moti dell’agosto 1917 e l’arresto di buona parte del gruppo dirigente della sezione socialista di Torino, sembra che Gramsci, in via ufficiosa, ne assuma per un certo periodo la segreteria. Ad ogni modo, nel gennaio 1918 il suo nome non figura tra quelli dei nuovi membri della Commissione esecutiva della sezione, e nei mesi successivi egli si dedica completamente all’attività giornalistica su un doppio registro di commento dei fatti di cronaca, dalle pagine dell’«Avanti!» torinese, e di analisi più approfondita ed educazione socialista, sul «Grido del popolo». Il 1° maggio 1919 esce il primo numero dell’«Ordine nuovo» settimanale, rivista con cui Gramsci, insieme ad altri giovani socialisti torinesi, comincia a tracciare un percorso originale non più allineato rispetto alle direttive politiche del                                                                                                                

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partito. Il 21 giugno 1919 la linea della rivista è definita con maggior chiarezza e consapevolezza nell’articolo intitolato Democrazia operaia,27 che è il prodromo teorico dell’adesione di quel gruppo di giovani al movimento dei consigli di fabbrica. Anche se quella nuova linea politica sarà condotta fino al 1921 in seno alla sezione torinese del Partito socialista, in realtà la frattura è ormai insanabile e la prospettiva è già quella del movimento comunista internazionale. Tre sono i “miti negativi” attorno a cui ruotano le critiche di Gramsci: democrazia, giacobinismo e massoneria. Sempre rispetto al socialismo italiano, il giovane leader assume due posizioni di principio ben definite: da una parte l’intransigenza contrapposta agli atteggiamenti riformistici, in aperta polemica con Treves e Turati; dall’altra un indirizzo prevalentemente culturale e di elevazione e organizzazione intellettuale dei lavoratori, che lo vede schierarsi sia contro tendenze nazionali, come la linea oltranzista di Bordiga, sia contro elementi della stessa sezione torinese del Partito socialista. Alcuni dei temi che emergono con maggiore evidenza negli scritti di questo periodo, come l’organizzazione della cultura e la costruzione dell’«individuo collettivo», saranno ampiamente approfonditi nei Quaderni.

Ma i motivi principali di ispirazione per gli articoli di Gramsci sull’«Ordine nuovo» sono gli eventi rivoluzionari di cui giungono notizie da diverse parti d’Europa. Gramsci traccia continui paralleli fra la Rivoluzione russa, gli eventi rivoluzionari del 1919 in Germania, Austria e Ungheria, e i problemi della rivoluzione da costruirsi in Italia. È qui che comincia a emergere, nel pensiero gramsciano, una prima visione dello «Stato nuovo». La riflessione sullo Stato è centrale nel suo percorso politico, e lo conduce a valutare con nuova consapevolezza gli eventi storici della Rivoluzione d’ottobre e le basi teoriche del marxismo, informando l’avvio di un’attività politica pienamente matura. «Lo Stato socialista», afferma Gramsci nel già citato articolo sulla Democrazia operaia, «esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata». L’obiettivo dichiarato è quello di organizzare, coordinare e potenziare quegli istituti in funzione di un’ascesa al potere stabile e duratura, che sarà realizzata in un prossimo futuro. L’articolo prosegue con una breve descrizione di tali organismi, principalmente le commissioni interne di officina per l’inquadramento dei lavoratori e i comitati rionali per l’inquadramento di tutta la cittadinanza; si auspica una collaborazione attiva con analoghe organizzazioni contadine e si torna a propugnare la necessità di avviare la costituzione di un ordinamento statale di tipo nuovo: «la soluzione concreta e integrale dei problemi di vita socialista può essere data solo dalla pratica comunista: la discussione in comune, che modifica simpaticamente le coscienze unificandole                                                                                                                

27 Democrazia operaia, in «l’Ordine nuovo», 21 giugno 1919; ora in Antonio Gramsci, L’Ordine nuovo.

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e colmandole di entusiasmo operoso. Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria. La formula ‘dittatura del proletariato’ deve finire di essere solo una formula, un’occasione per sfoggiare fraseologia rivoluzionaria. Chi vuole il fine, deve anche volere i mezzi. La dittatura del proletariato è l’instaurazione di un nuovo Stato». Infine, si invitano i comunisti italiani a «far tesoro dell’esperienza russa», richiamando l’intensa opera di organizzazione dei bolscevichi nella diffusione della parola d’ordine «tutto il potere ai Soviet».

Se a metà del 1919 l’attività giornalistica di Gramsci è già proiettata completamente nell’orizzonte dell’organizzazione attiva delle masse operaie, ed egli avanza già ipotesi sui modi, i tempi e i soggetti dell’azione rivoluzionaria, negli anni precedenti essa si concentra prevalentemente sulla critica della società esistente, assumendo per lo più i toni della polemica. Due sono i filoni maggiori di tale critica: il carattere degli italiani in rapporto al sistema di governo giolittiano e gli atteggiamenti politici e della stampa di fronte alla guerra. Sotto accusa è innanzitutto la borghesia italiana, di cui Gramsci censura l’inadeguatezza storica e morale, rivelata una volta di più dai tentennamenti e dall’indecisione manifestati nell’ora della deflagrazione bellica. Ma il problema è più profondo, radicato nello sviluppo storico dei ceti borghesi della penisola: essi hanno dimostrato l’incapacità di svolgere il ruolo che una società industriale richiederebbe, e la loro inadeguatezza è lampante nel confronto con i loro corrispettivi europei, specialmente inglesi e tedeschi. La critica si allarga spesso agli italiani in genere, investendo la loro dimensione morale: il fatto che si siano affermate ampie classi improduttive e parassitarie, e che queste siano addirittura alla guida politica del paese, sembra legato anche alla mancanza di «carattere» degli italiani, che si lasciano trascinare invece dal «sentimento» instabile ed effimero, rapido a nascere e rapido a morire. Sempre per quest’ordine di ragioni, l’Italia abbonda di «chiacchieroni», dando i natali a pochissime personalità davvero geniali e a moltissimi inetti incapaci all’azione, nella totale assenza di un’ampia massa di spiriti onesti seppure mediocri, che lavorino quotidianamente per un elevamento generale della moralità nazionale.

Critiche di questo tipo sono ancora una volta da ricondursi all’appartenenza di Gramsci a una determinata “generazione”, nel senso in cui si è già utilizzato tale termine. Il giovane socialista è infatti pienamente coinvolto nel turbinio di idee e passioni proprie di quella generazione di intellettuali che si formano in Italia e in Europa nel primo decennio del secolo. «Espressione di una generazione intellettuale venuta all’impegno civile anche per il bisogno di fare tabula rasa delle forme che avevano assunto la vita sociale e i costumi nazionali sotto la pressione della politica egemone nel primo decennio del secolo, Gramsci

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non ne rappresenta certo la parte maggioritaria, che concepì l’intervento in guerra come la rivoluzione antigiolittiana in atto e finì poi, anche se non tutta, per guardare al fascismo come artefice della rigenerazione nazionale; ma il percorso che conduce Gramsci ad abbracciare un progetto rivoluzionario di ben altro genere ha come punto di avvio quell’opposizione originaria, che lascerà una traccia anche sul cammino successivo».28 Gramsci vive da protagonista, attraverso l’attività giornalistica, il delinearsi della frattura che divide nettamente quella generazione sulla posizione da adottare nei confronti della guerra. Si tratta dunque di configurare la propria assunzione di responsabilità nel modo più coerente rispetto agli ideali culturali, politici e anche filosofici propugnati negli anni precedenti: «ciascuno deve assumere le proprie responsabilità», scrive il giovane studente socialista nel già citato articolo sulla Neutralità attiva ed operante. E i primi che stentano ad assumersele, secondo Gramsci, sono i borghesi e i riformisti; gli uni perché restii a portare alle estreme conseguenze la logica della concorrenza capitalistica fra le economie degli Stati, gli altri perché appiattiti su una posizione nazionale piuttosto che assertori di uno schieramento di classe.

Accanto all’adesione a certe polemiche culturali e politiche del suo tempo, sussistono tuttavia anche importanti elementi di originalità. Labriola, Croce e Gentile, Sorel e Bergson, Smiles e Baden-Powell, insieme a tanti altri pensatori dell’epoca, fanno tutti «parte del vasto complesso di suggestioni intellettuali che Gramsci ha assorbito e con le quali si è confrontato negli anni giovanili e che ha ricondotto a quella sintesi originale, non riducibile ad alcuna delle diverse fonti di influenza, che è il vero statuto del suo socialismo fino alla conclusione della guerra. Gramsci, da socialista, non è stato soreliano o sindacalista, proprio come non è stato idealista o liberista».29 L’elemento che forse compare più spesso, che assume la posizione più centrale e subisce lo sviluppo più profondo fra le molteplici componenti del socialismo giovanile di Gramsci, è l’ordine.

Si è già parlato degli articoli della «Città futura» su Disciplina e Disciplina e libertà. Sempre sulle pagine di quel numero unico del febbraio 1917 ne compare anche uno piuttosto lungo dal titolo Tre principii, tre ordini, in cui emerge l’idea di un «ordine nuovo» da opporre all’ordine borghese. Il tema tornerà con frequenza. Gramsci vi dedica un intervento sull’«Avanti!» torinese del 17 luglio 1918: Il disordine.30 Fra questi due articoli è già

intercorso un primo mutamento di prospettiva: nel 1917 sono accostati due ordini, uno passato e presente da rigettare e uno futuro da preferirsi; nel 1918, invece, non esiste più un ordine                                                                                                                

28 Leonardo Rapone, Cinque anni che paiono secoli, op. cit., p. 187. 29 Ivi, p. 342-343.

30 Il disordine, in «Avanti!», pagina torinese, 17 luglio 1918; ora in Antonio Gramsci, Il nostro Marx.

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borghese, ma soltanto «disordine», esploso e resosi manifesto negli anni della guerra, che sarà superato solo con l’instaurazione di un ordine di tipo completamente nuovo, l’unico ormai possibile. Intanto, di fronte alle notizie, dalla Russia, di una stabilizzazione del regime rivoluzionario, l’ordine ricompare in senso positivo nella compagine delle realtà politiche presenti: l’«ordine nuovo» esiste, è l’ordine comunista della Russia sovietica, attuale e attualizzabile anche nel resto d’Europa. Così la questione diventa sempre più importante, fino a costituire il nucleo centrale attorno a cui nel 1919 si costruisce la linea politica della rivista «l’Ordine nuovo».

Per approfondire il discorso, la questione dell’ordine, e dello sviluppo di questo concetto nel pensiero di Gramsci, deve essere messa in relazione con la questione dello Stato, i cui termini sono in un certo senso ribaltati fra il 1914 e il 1919, con il passaggio dall’antistatalismo libertario dei primi scritti a una completa rivalutazione dell’organismo statale, soprattutto alla luce degli sviluppi politici della Russia socialista. Si potrebbe dunque riassumere tale mutamento di prospettiva in tre fasi, scandite dagli eventi storici che intercorrono fra le due opposte concezioni dello Stato. Prima della guerra le polemiche gramsciane si concentrano sullo Stato italiano come struttura portante del sistema politico giolittiano; con la guerra, lo Stato liberale in genere mostra in tutta Europa i suoi limiti intrinseci, rendendo palese, almeno agli occhi dei socialisti rivoluzionari, il suo declino imminente; infine, dopo la Rivoluzione russa, il problema si afferma in tutt’altri termini, poiché il nuovo Stato «soviettista» emerge come unica espressione realizzata del potere del proletariato. Tuttavia, i fattori che determinano quella svolta nel pensiero di Gramsci sono almeno tre, non riconducibili unicamente ai fatti della Russia. In primo luogo interviene sicuramente l’adesione alla linea dell’Internazionale, che certo deriva in gran parte dalle istanze politiche dello Stato sovietico (senza dimenticare che Gramsci è sicuramente molto influenzato dal lavoro di Lenin nella direzione e organizzazione delle masse russe). In secondo luogo lo impressionano fortemente le «rivoluzioni» europee del 1919: i moti guidati dai rispettivi partiti comunisti in Germania, Austria e Ungheria. Infine, fondamentali come stimolo allo sviluppo delle riflessioni gramsciane all’inizio del 1919, sono le nuove forme organizzative che il movimento operaio va assumendo anche in Italia, in particolare con il movimento dei consigli di fabbrica nelle officine metallurgiche torinesi. Essi, agli occhi di Gramsci e di molti altri, sia fra chi li appoggia o li osserva con interesse, sia fra chi li teme e vi si oppone duramente, appaiono come le prime cellule di un nuovo sistema statale di tipo sovietico.

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Così, riaffiorando in senso positivo e propositivo il problema dello Stato, riemergono sotto una nuova luce due riflessioni iniziate nella «Città futura», quella sul «nuovo ordine» e quella sulla mobilitazione delle masse (la «formazione di una volontà collettiva nazionale popolare» su cui Gramsci tornerà con rinnovata consapevolezza negli scritti carcerari). Si potrebbe leggere questa parabola storico-politica come la risposta di Gramsci e di tutto il movimento operaio, italiano ed europeo, agli arretramenti politici, sociali ed economici subiti nel periodo della guerra e dei provvedimenti di emergenza: è l’inizio del periodo che in Italia passerà alla storia come Biennio rosso. Per quanto riguarda le nuove proposte gramsciane, si può individuare nel concetto di disciplina il filo conduttore del passaggio dall’idea di ordine che informa la «Città futura» a quella propugnata nell’«Ordine nuovo». L’obiettivo ultimo resta quello della costruzione di una società collettivista e del superamento dello Stato; ma nel 1919 si delinea la certezza che dopo la rivoluzione sia necessario un momento di passaggio in cui il potere del proletariato conservi i caratteri e le strutture tipiche della forma Stato. Sia per strappare il potere ai ceti borghesi, nel momento della mobilitazione, sia per mantenere saldo l’organismo statale, nel momento successivo alla conquista, elemento fondamentale deve essere la disciplina. Si tratta tuttavia di una disciplina di segno inverso rispetto a quella imposta dalle autorità borghesi, poiché deriva da un’autorità di tipo contrario: dall’autorità che discende dalla partecipazione, non imposta dagli organi repressivi della dittatura di una minoranza oligarchica. La partecipazione è il nodo fondamentale del problema e Gramsci, nei suoi articoli sull’«Ordine nuovo», ne descrive minutamente il funzionamento all’interno del processo decisionale. Negli organi del nuovo Stato, e negli organi che nella realtà italiana rappresentano «in potenza» il nuovo organismo statale, cioè i consigli, ogni risoluzione dovrà essere discussa collettivamente fino all’esaurimento delle obiezioni e finché la collettività non costituirà un unico corpo con un’unica volontà. Cosicché la disciplina seguirà naturalmente, come adesione e adattamento totale a una decisione alla cui formazione si è partecipato personalmente.

Nel 1919, dunque, Gramsci perviene alla formulazione di una linea politica affatto distinta da quella del Partito socialista, che tenterà di imprimere al movimento operaio italiano dapprima con la promozione dei consigli di fabbrica dalle pagine dell’«Ordine nuovo», e poi, nel gennaio 1921, con la fondazione del Partito comunista d’Italia. Nelle riflessioni di quel periodo, le questioni fra loro inscindibili dell’ordine, dell’armonia e dell’individuo collettivo, di cui qui si è analizzata in particolare la prima, sono gli elementi fondamentali di questa concezione originale del socialismo, che continuerà a svilupparsi in modo sempre più articolato nella vicenda politica e intellettuale degli anni successivi.

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Se da un lato il discorso sul «nuovo ordine» riguarda l’edificazione di un nuovo tipo di società ed è quindi un argomento interno alle discussioni e alle polemiche sul futuro del socialismo, dall’altro lato esso agisce in modo incisivo sulla definizione della crisi che investe la società italiana. Per Gramsci l’elemento determinante di tale crisi è la disgregazione di un ordine, e specificamente dell’ordine borghese: «La distruzione dello Stato, la fine della legge, la dissoluzione della società in cui si riassume la situazione politica odierna che cosa sono se non la fine della borghesia come classe di governo, come classe capace di garantire un ordine, di creare e mantenere uno Stato?».31 L’analisi del fascismo, in questa fase, si lega

inscindibilmente con l’indagine condotta da Gramsci sulla «dissoluzione» dell’ordine borghese, e vi si lega in modo subordinato. Il fascismo, infatti, non è una causa scatenante della crisi; ne è invece la più vivida espressione. È emblematico che nella primavera del 1921, col dilagare della violenza squadrista, l’«Ordine nuovo» intitoli «La morte dello Stato liberale» la rubrica dedicata alla cronaca degli attacchi fascisti. Le vere cause della crisi sono da ricercare nei meccanismi di funzionamento della macchina statale e a un livello più profondo nei comportamenti di lungo periodo delle classi al potere: in definitiva, nella ridefinizione dei rapporti e degli equilibri che intercorrono fra le due entità, in realtà non chiaramente distinte, che vengono definite Stato e società civile.

La crisi è una crisi di autorità, dovuta innanzitutto allo sviluppo sorprendente, subito dopo la guerra, delle organizzazioni di classe dei lavoratori. Il portato del dilagare di tali organizzazioni e della conflittualità da esse generata è la riduzione della funzione di governo della borghesia al solo momento della forza. Questa situazione, secondo Gramsci, risulta evidente dalla formazione dei blocchi elettorali nella primavera del 1921: il blocco elettorale è la rappresentazione lampante dello schieramento di classe. Parallelamente Gramsci si concentra sul collegamento fra le classi effettivamente al potere e quegli ampi strati di piccola borghesia che si associano a esse nel tentativo di resistere alla soppressione dei propri privilegi e di una propria presunta posizione di prestigio. L’esito finale di questo avvicinamento fra classi dominanti e piccola borghesia, espressione interscambiabile in Gramsci con quella di «ceti medi», è il passaggio di quest’ultima nelle file dello squadrismo, visto come «tentativo dei ceti medi di resistere alla proletarizzazione, che è portato fatale dello sviluppo storico del capitalismo».32 Questa lettura della crisi e degli schieramenti di

classe che essa tende a consolidare, matura nel corso degli anni, a partire dalle prime osservazioni che Gramsci fa riguardo ai movimenti degli ex combattenti e in particolare al                                                                                                                

31 Fascismo giornalistico, in «l’Ordine nuovo», 13 maggio 1921; ora in Antonio Gramsci, Socialismo e

fascismo. L’Ordine nuovo. 1921-1922, Einaudi, Torino 1970, pp. 156-159.

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