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Il ruolo dell'attivita' fisica nella malattia di Parkinson

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Academic year: 2021

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INDICE

– introduzione

– CAPITOLO 1: cenni di anatomia sul sistema nervoso 1.1 sistema nervoso centrale

1.2 midollo spinale 1.3 nervi spinali 1.4 encefalo 1.5 cervelletto 1.6 diencefalo 1.7 telencefalo

1.8 funzioni cognitive superiori BIBLIOGRAFIA

– CAPITOLO 2: la plasticità 2.1 plasticità neuromuscolare

ambiente esercizio fisico

esercizio fisico e plasticità della giunzione neuromuscolare plasticità dei motoneuroni nell'esercizio fisico

2.2 plasticità della corteccia cerebrale ambiente

esercizio fisico

2.3plasticità del cervelletto ambiente

esercizio fisico BIBLIOGRAFIA

– CAPITOLO 3: la malattia di Parkinson 3.1 storia della malattia di Parkinson

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3.2 epidemiologia della MP 3.3 eziologia

3.4 fattori di rischio e fattori di protezione

3.5 modificazioni anatomo-patologiche e biochimiche 3.6 sintomi motori e sintomi non motori del Parkinson 3.7 diagnosi della MP e diagnosi differenziale della MP 3.8 decorso nalturale

BIBLIOGRAFIA

– CAPITOLO 4: benefici dell'attività fisica

4.1 evidenze scientifiche dell'attività fisica della Malattia di Parkinson BIBLIOGRAFIA

– CAPITOLO 5: terapia fisica

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Se si riuscisse a dare a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico avremmo trovato la strada per la salute” [Ippocrate]

INTRODUZIONE

La malattia di Parkinson è una malattia neurovegetativa, ad evoluzione lenta ma progressiva, con esordio tra i 50 e i 70 anni d’età che colpisce più i maschi delle femmine e porta ad una invalidità importante in grado di compromettere le normali attività di vita quotidiana.

Generalmente è definita anche come morbo di Parkinson, semplicemente Parkinson, Parkinsonismo idiopatico, parkinsonismo primario, sindrome ipocinetica rigida o paralisi agitante.

È risaputo che la malattia è determinata da un substrato genetico sul quale vanno ad agire molti fattori di varia natura. Alla base della malattia vi è una degenerazione a livello dei Gangli della base, in particolare dei circuiti dopaminergici nigrostriatali, è causata infatti dalla degenerazione progressiva dei neuroni della sostanza nigra, di conseguenza si ha un'inevitabile riduzione della produzione di dopamina,

indispensabile per la funzione di controllo sui movimenti muscolari, tutto ciò provoca un’ipoattivazione della via diretta e la costante attivazione della via indiretta: il

risultato di tali alterazioni sono la bradicinesia e l’acinesia.

Inizialmente la patologia era stata definita “paralisi agitante” in quanto erano presi in considerazione i sintomi più eclatanti quali il tremore e la riduzione della forza

muscolare; con l’approfondimento dello studio di questa malattia ci si è resi conto che i primi segni rilevabili nei malati sono la rigidità e la lentezza dei movimenti.

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Negli ultimi anni, grazie ad un sensibile aumento della vita media nei paesi più sviluppati, assistiamo anche a un incremento significativo dell'incidenza delle affezioni croniche tra cui proprio la MP. Per definizione quando si parla di malattia cronica si intende uno "Stato che rappresenta l'esito del processo morboso di

evoluzione lenta e di lunga durata. Tale stato generalmente, è accompagnato da isolamento, anonimato, disinteresse, assenza di iniziativa, inerzia e ricorso sistematico ad automatismi. La cronicità è indotta proprio dall'evoluzione della malattia ..." (Lupano P. Dizionario delle professioni infermieristiche. Torino: UTET 1997; 120)

Al di là del significato letterario è indubbio che ogni condizione cronica possa intaccare diversi aspetti della vita di un individuo come la sfera sociale, economica, familiare, culturale, lavorativa determinando una riduzione importante della qualità della vita. Sulla base di questo, data l'inguaribilità completa della patologia,

l'obiettivo primario sarà quello di garantire la migliore qualità di vita, limitando qualsiasi tipo di complicanza, attraverso la progettazione, la conduzione e la gestione di attività motorie di prevenzione e adattate a persone fisicamente meno abili; così da acquisire competenze avanzate nell’ambito delle attività motorie cercando nuovi indirizzi per lo sviluppo di metodiche specifiche per il recupero e il miglioramento dell’efficienza fisica nelle diverse età, sfruttando i processi di plasticità cerebrale, intesi come la grande capacità del sistema nervoso di modificare il proprio assetto in relazione a stimoli esterni specifici.

Capitolo 1

Cenni di anatomia del Sistema Nervoso

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altamente specializzato nell'elaborazione di segnali bioelettrici. L’elaborazione di tali segnali permette di controllare e di comandare l’intero organismo, coordinando tra di loro tutti gli altri sistemi permettendo il regolare svolgimento della vita.

Riceve gli stimoli dall’ambiente esterno e da quello interno, li analizza e gli elabora in modo da poter produrre una risposta adeguata e coordinata con gli organi effettori.

1.1 Sistema Nervoso Centrale

Il Sistema Nervoso Centrale è definito come l’insieme delle formazioni nervose contenute all’interno della cavità cranica e del canale vertebrale, è costituito dall’encefalo e dal midol-lo spinale.

Una ulteriore suddivisione caratterizza nello specifico le varie formazioni del SNC, il midol-lo spinale accolto nel canale vertebrale prosegue cranialmente con il tronco encefalico a sua volta suddivisibile in ponte, bulbo e mesencefalo; proseguendo per gradi e riferendoci alla vita embrionale, le parti dorsali del bulbo e del ponte, danno origine al cervelletto, mentre la parte dorsale del mesencefalo da origine alla lamina quadrigemina; questi vengono definiti, insieme al telencefalo (emisferi cerebrali), centri soprassiali. Il telencefalo si sviluppa a par-tire dalla porzione più cefalica del primitivo tubo neurale, è caratterizzato da due emisferi cerebrali. Nella parte centrale del telencefalo, rimane compresa una parte che dalle caratteri-stiche sia soprassiali sia assiali, questa porzione è detta diencefalo.

1.2. Midollo spinale:

Accolto nel canale vertebrale è in diretta continuazione con l’encefalo, lungo

mediamente 44 cm, giunge fino all’altezza del corpo della seconda vertebra lombare. Attraverso il grande foro occipitale, il MS si continua cranialmente con il midollo allungato (porzione più caudale dell’encefalo), inferiormente il MS si restringe nel cono midollare, da cui apice deriva il filum terminale, esile legamento fibroso costituitosi dalla fusione delle tre meningi che si salda alla faccia posteriore del

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coccige mediante il legamento coccigeo. Tale legamento, insieme alla continuazione craniale con il midollo allungato, diventano impor-tanti mezzi di fissità per il midollo spinale.

All’interno del canale vertebrale il MS è ricoperto dalla protezione di tre lamine connettivali concentriche, le meningi spinali; quella a più stretto contatto con il MS è la pia madre, più esternamente troviamo l’aracnoide e dura madre, tra pia madre e aracnoide troviamo uno spazio detto spazio sub-aracnoideo dove troviamo il liquido cefalorachidiano, tra aracnoide e dura madre c’è uno spazio detto infradurale.

Il MS morfologicamente presenta due importanti rigonfiamenti, cervicale che si estende fino a C1 C2-C1, quello lombare si estende da T9 a L1, questi due

rigonfiamenti sono dovuti alla presenza di fibre nervose deputate all’innervazione degli arti, rispettivamente superiori e in-feriori.

Il MS è caratterizzato da solchi longitudinali che lo percorrono per tutta la sua lunghezza, i solchi presenti lateralmente rappresentano l’origine apparente dei nervi spinali, le radici an-teriori (funzione motoria) dei nervi spinali sono caratterizzate da neuroni provenienti da neuroni effettori del MS destinati a innervare i muscoli

scheletrici (motoneuroni somatici) o la muscolatura liscia e le ghiandole (neuroni visceroeffettori). Le radici posteriori (funzione sensitiva)sono invece costituite da assoni provenienti dai neuroni pseudounipolari posizio-nati nei gan-gli spinali e diretti al MS, da cui partono le informazioni sensitive raccolte in periferia .

La struttura del Midollo Spinale è caratterizzata da sostanza grigia disposta al centro , circondata dalla sostanza bianca in posizione periferica; centralmente il MS è

percorso da un canale detto canale ependimale che si proseguirà nel tronco encefalico per aprirsi nella cavità del quarto ventricolo, all’interno di questo canale è presente il liquor.

La sostanza grigia risulta costituita da colonne di neuroni, mentre la sostanza bianca è caratterizzata da fasci di fibre nervose, prevalentemente mieliniche, che trasportano l’informazione in salita o in discesa.

Se sezioniamo trasversalmente il MS notiamo una tipica forma ad “H” della sostanza grigia dove le sue “ali o braccia” formano le corna anteriori e posteriori, in questa

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sostanza troviamo neuroni raggruppati per la maggior parte in nuclei, che si differenziano in nuclei somatomotori e nuclei visceroeffettori, nuclei sensitivi e nuclei associativi.

I nuclei somatomotori contengono i motoneuroni, contenuti nella testa delle corna anteriori, forniscono fibre per la muscolatura striata scheletrica; si distinguono in motoneuroni α (innervano le fibre striate dei muscoli scheletrici) e motoneuroni ϒ (innervano i fusi neuromuscolari).

I nuclei visceroeffettori contengono i neuroni effettori viscerali e si trovano nella base delle corna anteriori, sono detti anche neuroni pregangliari perché mandano le loro fibre pregangliari ai gangli periferici da cui originano le fibre post-gangliari dirette alla muscolatura involontaria.

I nuclei associativi comprendono i neuroni funicolari dell’apparato intersegmentale, alcuni di loro inviano fibre che attraversano la commessura del MS, sono perciò chiamati neuroni commessurali della sostanza grigia.

I nuclei sensitivi sono composti dai neuroni funicolari dell’apparato di connessione e costituiscono i nuclei sensitivi della sostanza grigia, localizzati nel corno posteriore. La sostanza bianca è suddivisa in tre cordoni, rispettivamente in posizione anteriore (vie motrici effettrici), posteriore (vie sensitive) e laterale (entrambe i fasci);

all’interno di ogni cordone si possono individuare fibre mieliniche a decorso orizzontale e altre a decorso verti-cale.

Le fibre orizzontali, che decorrono nelle radici dei nervi spinali, sono fibre radicolari anteriori o posteriori, mentre quelle che si portano nella metà controlaterale del midollo spinale attraversano la commessura bianca e prendono il nome di fibre commessurali.

Le fibra a decorso verticale sono invece le funicolari , originate sia dai neuroni

funicolari che dalla sostanza grigia del midollo spinale, che da neuroni extramidollari.

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Ogni nervo spinale risulta dall’unione di una radice anteriore motrice e una posteriore sensitiva. Ogni nervo presenta un’origine apparente e una reale. Le radici anteriori hanno la loro origine apparente nel solco anterolaterale del midollo spinale e l’origine reale nel corno anteriore della sostanza grigia del midollo spinale. Essa risulta

costituita dalle fibre motrici somatiche, provenienti dai motoneuroni e dirette alla muscolatura scheletrica volontaria e dalle fibre effettrici viscerali, provenienti dai neuroni visceroeffettori che sono dirette ai gangli del sistema nervoso simpatico, dai quali nasceranno fibre post-gangliari dirette alla muscolatura involontaria.

La radice posteriore ha la sua origine apparente nel solco posterolaterale e l’origine reale nei gangli spinali, situati su ciascuna radice posteriore, quindi fuori dal midollo spinale. Essa è a sua volta costituita da fibre provenienti dai neuroni gangliari

pseudounipolari a T, provvisti di un prolungamento periferico e di un prolungamento centrale.

Il tratto periferico, una volta uscito dal ganglio, prosegue nel nervo spinale e

raggiunge i recettori periferici, mentre il tratto centrale (costituito dall’assone) entra nel midollo spinale per andare a costituire i fasci ascendenti del midollo spinale.

1.4. Encefalo :

E' costituito dal tronco encefalico, dal cervelletto e dal cervello propriamente detto. Tronco encefalico : costituito dal Bulbo (o midollo allungato), dal Ponte e dal Mesencefalo.

È localizzato tra il midollo spinale, rispetto al quale si continua inferiormente ed il ponte. Si pone all’altezza del grande foro occipitale, rostralmente si continua con il diencefalo, mentre dorsalmente con il quarto ventricolo e il cervelletto, che si connette al tronco encefalico mediane i peduncoli cerebellari.

Bulbo: è la diretta continuazione del midollo spinale, separato dal ponte per mezzo dell’incisura ventrale detta solco bulbopontino, si caratterizza nella sua superficie ventrale per la presenza delle piramidi bulbari (costituite da fasci di fibre piramidali

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che portano impulsi motori somatici ai motoneuroni del TE e del MS), la quale parte caudale, è a sua volta caratterizzata dalla decussazione delle piramidi, dove circa l’80% delle fibre passa da destra verso sinistra e viceversa. Questa decussazione è importante dal punto di vista funzionale poiché lesioni al di sopra dell’incrocio, causano paralisi nell’emilato opposto del corpo, mentre lesione al di sotto della decussazione causano paralisi omolaterale.

È presente una protuberanza ovoidale sulla superficie laterale detta oliva bulbare, la quale racchiude un gruppo di neuroni importanti per la connessione con il cervelletto (nucleo olivare inferiore), l’importanza del nucleo olivare inferiore è legata alla coordinazione dei movimenti e la perdita dei suoi neuroni determina patologie degenerative del SNC dette atassie, caratterizzate appunto da disturbi della coordinazione dei movimenti.

Nel Bulbo si assiste a un cambiamento progressivo nella disposizione della sostanza grigia e della sostanza bianca; a partire dal bulbo si conserva una struttura simile a quella del MS, mentre la parte restante ha una morfologia nettamente diversa. Infatti, procedendo cranialmente, si assiste a un progressivo attraversamento di fibre

mieliniche nei confronti della sostanza grigia, che causano uno scompaginamento della sua struttura. In rapporto con i nervi spinali troviamo anche i nuclei propri del Tronco Encefalico, che fungono da stazioni e sono intercalati nelle vie ascendenti sensitive e discendenti effettrici, indipensabili per le connessioni con le altre parti del SNC.

Ponte : presenta una faccia ventrale a forma di ponte con una depressione mediana detta solco basilare, che accoglie l’omonima arteria, dorsalmente il ponte si continua nei peduncoli cerebellari medi, via di passaggio per le fibre afferenti ed efferenti dal cervelletto.

Possiamo individuare due porzioni: un piede e un tegmento.

Nella parte di Ponte chiamata piede sono presenti i nuclei basilari del ponte o nuclei pontini, importanti per le loro connessioni che ricevono da vaste aree della corteccia cerebrale (fibre corticopontine) ed efferenti verso il cervelletto (fibre

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pontocerebellari), che lo raggiungono tramite fibre che prendono il nome di fibre muscoidi. Nel piede ci sono anche le fibre corticospinali, che insieme alle fibre

corticonucleari dirette ai nuclei somatomotori del TE costituiscono la via piramidale a proposito del bulbo del MS.

Nella parte di ponte restante e chiamata tegmento troviamo i nuclei cocleari ventrali, che ricevono impulsi uditivi dal nervo acustico.

Mesencefalo : formazione più craniale del TE, la sua superficie ventro-laterale presenta i peduncoli cerebrali, separati sulla linea mediana dalla fossa

interpeduncolare, nella cui porzione rostrale si trova un area detta sostanza perforata posteriore, per la presenza di piccoli vasi che la attraversano. La superficie laterale è delimitata dal decorso del tratto ottico: un fascio di fibre nervose che fa parte delle vie ottiche. La superficie dorsale del mesencefalo presenta quattro protuberanze rotondeggianti, due tubercoli quadrigemelli superiori e due inferiori, che nel loro insieme formano la lamina quadrigemina (tetto ottico). Il tubercolo superiore è una stazione delle vie ottiche ed è connesso con il diencefalo, mentre il tubercolo

inferiore è una stazione delle vie acustiche ed è connesso con un altro nucleo del diencefalo. Importante funzione di connessione del mesencefalo è quella della connessione interna tra il quarto ventricolo e il terzo ventricolo, per mezzo dell’acquedotto mesencefalico di Silvio.

Il tegmento mesencefalico è caratterizzato dal nucleo rosso, localizzato nella porzione rostrale del mesencefalo, dorsalmente alla sostanza nera. Esso riceve impulsi dal cervelletto (fibre cerebellorubre), tramite fibre che decorrono nel peduncolo

cerebellare superiore ed è inoltre collegato sia con il talamo che con le corna anteriori del midollo cervicale, tramite il fascicolo rubrospinale, intervenendo nella

regolazione degli automatismi motori.

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Organo considerato fondamentale per la sua regolazione del tono muscolare e per la pianificazione e coordinazione dei movimenti, è tuttavia diventato sempre più

evidente il suo ruolo nella realizzazione di importanti processi cognitivi, grazie alle sue numerose connessioni con il telencefalo.

È situato dorsalmente al TE al quale è collegato tramite i peduncoli cerebellari, situato inferiormente ai poli occipitali degli emisferi cerebrali, si presenta in forma ovoidale a maggior asse trasversale, schiacciato sull’asse verticale. La faccia superiore presenta sulla linea mediana un rilievo che prende il nome di verme superiore, la faccia inferiore è interrotta da una profonda incisura chiamata verme inferiore in continuità con il verme superiore, mentre le due masse cerebellari che stanno ai lati del verme costituiscono gli emisferi cerebellari. La superfcie del cervelletto è attraversata da solchi più o meno profondi che distinuguono il cervelletto in lamine, lamelle e solchi; in particolar modo grazie ai solchi più

profondi individuamo il lobo posteriore, il lobo anteriore ed il lobo flocculonodulare che rappresenta la parte più antica del cervelletto.

Il cervelletto è costituito da sostanza grigia stratificata in superficie a formare una corteccia, mentre internamente è formata da sostanza bianca, che va a formare il centro midollare dove troviamo i nuclei propri del cervelletto: per ogni emisfero in senso prossimo-distale ritroviamo il nucleo del tetto (o del fastigio), i nuclei globosi, il nucleo emboliforme ed infine il nucleo dentato.

La corteccia cerebellare presenta si presenta stratificata e la sua composizione prevede dalla periferia veso l'interno:

1. Strato molecolare: costituito dalle cellule dei canestri e dalle cellule stellate che sono cellule proprie di questo strato, dall'arborizzazione delle cellule del Purkinje, dalle fibre parallele

2. Strato delle cellule di Purkinje: costituito della cellule del Purkinje, dalle fibre rampicanti

3. Strato dei granuli: costituito dalle cellule del Golgi, dalle cellule dei granuli, dalle fibre muscoidi e dall'assone delle cellule del Purkinje

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La corteccia cerebellare comprende due tipi di fibre afferenti eccitatorie, le fibre rampicanti e le fibre muscoidi; le fibre rampicanti sono fibre eccitatorie che originano dal nucleo olivare inferiore e raggiungono il cervelletto tramite il fascio

olivocerebellare. Ciascuna fibra del fascio olivocerebellare da origine mediamente a 10 fibre rampicanti che salgono nello strato dei granuli spesso vicine al pirenoforo delle cellule del Purkinje poi, giunte a livello dei dendriti delle cellule del Purkinje si arborizzano a formano numerose sinapsi con le loro spine dendritiche.

Le fibre muscoidi originano dai fasci spinocerebellari, trigeminocerebellari,

reticolocerebellari e pontocerebellari. Nella sostanza bianca emettono numerosi rami collaterali che si portano all'interno di diverse lamelle, ciascuno di essi possiede numerose terminazioni a grappolo dette rosette di fibre muscoidi, che formano sinapsi con le cellule dei granuli nello strato dei granuli formando i glomeruli cerebellari.

Tra tutte le cellule presenti a livello della corteccia cerebellare sicuramente quelle che risultano essere più importanti sono le cellule del Purkinje, dal momento che sono le uniche fibre che escono dalla corteccia cerebellare e per questo motivo rappresentano e costituiscono l'unico sistema efferente della corteccia cerebellare, a differenza delle altre che svolgono un ruolo puramente associativo, ed è proprio a livello delle cellule del Purkinje che possiamo apprezzare gli adattamenti indotti da diversi fattori, tra cui l'esercizio fisico, che sfruttano la caratteristica di plasticità del SNC.

Queste cellule non sono altro che grossi neuroni il cui corpo è situato nell'omonimo strato. Sono disposte ad intervalli piuttosto regolari al suo interno e possiedono un albero dendritico fittamente arborizzato che prende origine da uno o due dendriti primari e che si porta fino allo strato molecolare, dove contrae migliaia di sinapsi per mezzo di numerose spine dendritiche con le fibre parallele delle cellule dei granuli. I dendriti delle cellule di Purkinje contraggono sinapsi mediante spine dendritiche più tozze con le fibre rampicanti. Ricevono sinapsi inibitorie dalle cellule stellate, dalle cellule a canestro e da rami ricorrenti di assoni di altre cellule del Purkinje. Gli assoni delle cellule di Purkinje originano dal loro lato basale e si dirigono verso lo strato dei

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granuli per poi penetrare nella sostanza bianca. Contraggono sinapsi assoassoniche con le cellule a canestro. Ciascun assone emette rami ricorrenti che formano sinapsi con le cellule a canestro (assosomatiche), le cellule di Golgi (assosomatiche o assoassoniche) e altre cellule di Purkinje (assodendritiche o assoassoniche). Il resto dell'assone si ricopre di guaina mielinica nella sostanza bianca e poi si ramifica diffusamente dirigendosi verso i nuclei del cervelletto o i nuclei vestibolari.

1.6. Diencefalo :

Insieme al telencefalo costituisce il cervello propriamente detto, situato al centro dei due emisferi cerebrali che lo avvolgono quasi interamente.

All’interno del diencefalo si trova il terzo ventricolo, una fessura sagittale che lo divide in due metà simmetriche. Il limite di demarcazione tra diencefalo e telencefalo è costituito da un piano passante per il forame di comunicazione tra il terzo ventricolo e i ventricoli laterali degli emisferi cerebrali (forame interventricolare di Monrò). Caratterizzato da numerose formazioni nucleari, il diencefalo contribuisce e partecipa a numerose funzioni. Il talamo, che costituisce i 4/5 del diencefalo, è la stazione dove tutte le vie sensitive (tranne quella olfattiva e quella ottica) si interrompono prima di raggiungere la corteccia cerebrale. Le fibre che dal talamo si portano alle varie aree telencefaliche (proiezioni talamo-corticali), sono necessarie per regolare lo stato di attività elettrica cerebrale misurabile con l’elettroencefalogramma e quindi

nell’attivare uno stato di veglia o di sonno. La parte ventrale del diencefalo è caratterizzata dalla presenza dell’ipotalamo, che regola le ghiandole endocrine (tramite l’ipofisi a cui è strettamente legato), dell’equilibrio idrosalino, della pressione arteriosa, della temperatura corporea e di molte altre funzioni della vita vegetativa che nell’insieme garantiscono l’omeostasi dell’organismo. Può inoltre intervenire anche nel controllo delle attività motorie involontarie; è capace di regolare l’attività del Sistema Nervoso Simpatico con particolare importanza nell’attivazione

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del nucleo ipotalamico anteriore. Un’altra funzione importante dell’ipotalamo è quella per il controllo dell’alimentazione

Nel complesso le formazioni nucleari del diencefalo non si limitano solo al talamo e all’ipotalamo, ma possiamo apprezzare anche l’epitalamo, il metatalamo (formato dai corpi geneticolati mediali e laterali che sono formazioni nucleari intercalate lungo le vie ottiche e acustiche) e il subtalamo (stazione delle vie motrici extrapiramidali); fanno parte rispettivamente dell’ipotalamo e dell’epitalamo, due formazioni endocrine dette neuroipofisi ed epifisi.

1.7. Telencefalo:

E' formato in gran parte dai due emisferi cerebrali, è costituito dalla corteccia cerebrale o telencefalica, al di sotto della quale si trova il centro semiovale formato da sostanza bianca nella quale sono compresi i nuclei della base, indispensabili per l’esecuzione dei movimenti volontari. In profondità è presente in ogni emisfero un ventricolo laterale contenente liquido cefalorachidiano.

La superficie è caratterizzata da solchi e scissure, le prime sono incisure di scarsa profondità che delimitano aree dette circonvoluzioni cerebrali, le seconde sono incisure più profonde che segnano il confine tra ampie aree emisferiche detti lobi (frontale, parietale, temporale, occipitale, dell’Insula e limbico).

La corteccia cerebrale può essere suddivisa tenendo in considerazione diversi punti di vista. In particolar modo possiamo tenere in considerazione un aspetto filogenetico individuando tre tipi di corteccia:

– Archipallium o Archicortex (formazione più antica)

– Paleopallium o Paleocortex ( sviluppatasi in tempi intermedi)

– Neopallium o Neocortex (porzione di corteccia più recente e tipica degli organismi più evoluti).

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anche qui ben tre tipi di corteccia:

– Allocortex ( tre strati costituiti dal solito tipo di cellula nervosa ) – Mesocortex ( tre/quattro strati costituiti da diversi tipi di cellula ) – Isocortex ( sei strati differenti tra loro );

ed è proprio quest'ultima a generare maggiore in teresse; in particolar modo dallo strato più superficiale e quello più profondo ritroviamo:

1. Strato plessiforme o molecolare

2. Strato delle piccole cellule piramidali (strato granulare esterno)

3. Strato delle medie e grandi cellule piramidali (strato piramidale esterno) 4. Strato granulare interno

5. Strato delle cellule piramidali giganti (strato piramidale interno) 6. Strato delle cellule polimorfe o fusiformi

Si possono inoltre riconoscere 3 aree cerebrali alle quali sono state associate determinate caratteristiche funzionali:

1. Aree sensitive e motorie primarie 2. Aree sensitive e motorie secondarie 3. Aree associative

Nelle aree sensitive primarie ha luogo la percezione cosciente degli stimoli elementari, in altre si proiettano le vie specifiche (ottiche, acustiche, gustative, olfattive). L’area sensitiva primaria più estesa è quella per la sensibilità somatica generale (corteccia somatosensoriale), localizzata nella circonvoluzione postcentrale del lobo parietale. In essa è possibile riconoscere una rappresentazione somatotopica della periferia, ovvero la sensibilità somatica di varie parti del corpo viene

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(Humunculus Sensitivus).

La corteccia motoria primaria, svolge un ruolo nell’esecuzione dei movimenti

volontari ed è prevalentemente localizzata nella circonvoluzione precentrale del lobo frontale.

L’area visiva primaria, permette il riconoscimento degli oggetti percepiti visivamente; l’area acustica primaria interviene nella percezione discriminativa e cosciente dei suoni; l’area olfattiva è l’unica area che non riceve afferenze talamiche.

Ci sono anche aree sensitive secondarie, implicate nella codifica e decodifica degli stimoli sensitivi, permettendo il loro riconoscimento in seguito all’attribuzione di un significato allo stimolo sulla base dell’esperienza (lesioni di queste aree non

interferiscono con la percezione degli stimoli, ma compromettono la capacità di riconoscere il significato).

Possiamo trovare anche aree dette pre-motorie, che producono un effetto motorio grossolano che coinvolge contemporaneamente vari segmenti corporei.

La somma delle varie aree sensitive e motorie primarie e secondarie costituisce meno della metà della superficie corticale totale.

La restante superficie costituisce l’insieme delle aree associative, delle quali se ne distinguono tre: area associativa sensitiva (Area di Wernicke); area associativa motoria; area associativa limbica.

L’area di Wernicke è indispensabile per la memorizzazione e la comprensione del significato delle parole in relazione al bagaglio culturale dell’individuo, se questa area venisse lesa, il soggetto sarebbe in gradi di emettere parole ma queste

risulterebbero sconnesse rispetto al contesto della comunicazione stessa.

L’area associativa motoria è indispensabile per la programmazione dei movimenti, per la formulazione del pensiero astratto e più in generale per la formulazione delle attività cognitive superiori. In questa area si trova l’area di Broca, importante per l’esecuzione motoria del linguaggio, scritto e parlato, se questa area venisse lesa, il soggetto non sarebbe più in grado di palrare, ma sarebbe comunque in grado di comprendere quanto gli viene detto.

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quelli dovuti alla lesione dell’area di Wernicke sono detti afasie senso-riali.

BIBLIOGRAFIA

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- Gesi M., Ferrucci M., Ghelarducci G., Anatomia del corpo umano. Volume II° , Ed. C.L.D. Libri s.r.l 2007; Pag. 224-228, 230-239, 242-246

- Glauco Ambrosi, Dario Cantino, Paolo Castano, Silvia Correr, Loredana D'Este, Rosario F. Donato, Giuseppe Familiari, Francesco Fornai, Massimo Gulisano, Annalisa Iannello,

Ludovico Magaudda, Maria F. Marcello, Alberto M. Martelli, Paolo Pacini, Mario Rende, Pellegrino Rossi, Chiarella Sforza, Carlo Tacchetti, Roberto Toni, Giovanni Zummo. Anatomia dell’Uomo (Edi. Ermes) Pag. 317-321, 325, 333-338, 342-366

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- Pasqualino A, Panattoni GL. Anatomia Umana. UTET 2002

Capitolo 2

La Plasticità

Per plasticità cerebrale si intende la capacità dell’encefalo di modificarsi rispetto agli stimoli esterni. Il primo ad utilizzare il termine plasticità fu lo psichiatra italiano Ernesto Lugano nel 1906, a proposito della trasmissione sinaptica. Successivamente Ramon Y Cajal avanza l’ipotesi dell’esistenza della plasticità neuronale (1933). Sono gli studi di Donald Hebb intorno al 1950 che iniziano a parlare estesamente della plasticità: “Le connessioni corticali sono rafforzate e modellate dall’esperienza” (Hebb 49): Use Dependt Plasticità of the Nervous System.

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molteplici effetti sul cervello, incluso un aumento del numero delle connessioni cerebrali (Bennet 64; Rosenzweig 66; Volkmar 72; Globus 73…). Le capacità adattive delle unità neuronali in contesti di apprendimento associativo sono state postulate nel 1949 da Hebb: quando un assone della cellula A (la cellula

presinaptica) prende

parte ripetitivamente nel processo di eccitamento della cellula B (la cellula postsinaptica), qualche cambiamento strutturale o metabolico subentra in una o entrambe le cellule in modo che l’efficienza di A, come cellula eccitatrice di B, aumenti. Un ulteriore contributo di Hebb alla teoria connessionista e alle

neuroscienze computazionali è stata quella di espandere la sua regola a gruppi di neuroni: eccitandosi insieme questi formano raggruppamenti cellulari associativi. Secondo il pensiero di Hebb l’attività cognitiva è determinata dall’attivazione sequenziale di questi insiemi.

Oltre al rafforzamento dei contatti tra neuroni individuali, gli input sensoriali, le esperienze, l’allenamento e le stesse lesioni cerebrali modificano le aree di

rappresentazione corticale o “mappe corticali” (Jenkins 90). La riorganizzazione delle mappe corticali avviene mediante: la plasticità sinaptica, il numero ed il turnover delle spine dendritiche nelle connessioni corticali orizzontali (Buonomano 98; Hickmott 02).

Processi di plasticità e riorganizzazione delle mappe corticali avvengono nei tumori cerebrali (Seitz 95), nell’emisferectomia, nella SLA, e nella poliomielite di vecchia data e nell’amputazione (Brasil-Neto 93).

Gli studi hanno anche dimostrato riorganizzazione di mappe corticali e plasticità uso-dipendente nell’acquisizione di abilità motorie (Pascual-Leone 96; Pearce 00), con l’aumento dell’attività motoria e del feedback sensitivo dalla mano (Pascual-Leone 93; Nudo 96), quale risultato di una stimolazione sensitiva a breve termine della mano (Hamdy 98). Infine, dopo fisioterapia e “constrained-induced movement therapy” in pazienti dopo stroke (Liepert 98, 00, 01). Questi studi non stabiliscono che la plasticità osservata correla con un miglioramento documentabile dopo terapia, ma mostrano comunque che modificazioni della organizzazione corticale possono

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accompagnare gli interventi terapeutici che aumentano la funzione motoria (Hamdy 98). I neurotrasmettitori rilasciati dai sistemi modulatori diffusi che originano in strutture sottocorticali e inviano lunghe proiezioni assonali alla corteccia possono modificare la soglia per la plasticità sinaptica attività-dipendente. I meccanismi molecolari della plasticità sono complessi e probabilmente variano nelle diverse regioni cerebrali (Hickmott 02).

L’Abituazione rappresenta una delle più semplici forme di plasticità già descritte da Sherrington. L’abituazione si evidenzia con un decremento della risposta a ripetuti stimoli positivi. Per quanto attiene il movimento, acquisizione di abilità motorie, ma non esercizi di allenamento per sviluppare la forza, inducono una riorganizzazione corticale (Remple 01). Gli esercizi inducono processi di angiogenesi ma non

modificano la rappresentazione dei movimenti in corteccia (Kleim 02). La

sinaptogenesi corticale e la riorganizzazione della mappa corticale avvengono durante la fase tardiva dell’acquisizione di abilità motorie e non nella precoce. La

sinaptogenesi precede la riorganizzazione della mappa. È stato così proposto che queste modificazioni plastiche non contribuiscono alla acquisizione delle capacità motorie, ma ne rappresentano il consolidamento. (Kleim 04).

2.1 Plasticità neuro-muscolare

La plasticità muscolare ha inizio nel muscolo e nella giunzione

neuro-muscolare estendendosi poi all’interno del midollo spinale e del tronco encefalico fino a comprendere i centri superiori come il cervelletto, gangli della base, corteccia cerebrale e strutture non principalmente coinvolte nella funzione motoria, come l’ippocampo.

La plasticità del sistema nervoso dell’adulto consiste nella capacità, da parte del neurone, di modificare ed alterare il meccanismo di trasmissione e traduzione dei pattern di eccitazione in potenziale d’azione fino all’organo bersaglio, con il conseguente miglioramento della prestazione. La medesima cosa avviene nel muscolo, dove a seconda del tipo di esperienza, si verificano tutta una serie di

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cambiamenti morfologici, meccanici, funzionali e metabolici.

Diversi saranno i fattori che permetteranno modifiche plastiche tra cui sicuramente l'ambiente circostante in cui il soggetto cresce e si relaziona, ma anche l'esercizio fisico.

Ambiente

E' dimostrato che le altitudini giocano un ruolo fondamentale nella plasticità muscolare in particolare determinando adattamenti a livello cardio-circolatorio , cardio-vascolare e respiratorio. Basti pensare ad esempio al fenotipo di adattamento di tutti gli individui che trascorrono lunghi periodi ad alte quote: si va incontro ad una riduzione della massa muscolare per la promozione dell’attività anaerobica e di un più serrato controllo metabolico, allo scopo di preservare la carica energetica nella situazione di minore disponibilità d’ossigeno (Flueck, 2009)

Esercizio fisico

L'esercizio fisico rappresenta il fattore più importatnte e significativo negli adattamenti plastici, attraverso la sua specifica influenza sulla velocità di sintesi (trascrizione) e la degradazione dei transcritti genetici, finalizzata all'adeguamento della funzione muscolare alle alterazioni della domanda (Mercier et al., 1999; Flueck, 2006).

Le modifiche plastiche le riscontriamo sia a livello ultrastrutturale della cellula e della funzione metabolica (basti pensare a come allenamenti di forza possano determinare cambiamenti nella frazione del volume miofibrillare rispetto a quella mitocondriale e all’attività biochimica); ma anche a livello delle proteine contrattili di actina, miosina, tropomiosina e troponina (infatti un training di durata prolungata è in grado di trasformare le fibre di tipo 2 in fibre di tipo 1).

Possiamo quindi affermare che la modalità di distribuzione del tipo di fibre negli atleti professionisti sembra essere determinata non solo da fattori ereditari ma anche da fattori ambientali (Howald, 1982); questo aspetto è facilmente riscontrabile negli sport, dove lo specifico adattamentodel tessuto muscolare dopo training negli atleti

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porta a straordinarie modificazoni fenotipiche che massimizzano la performance di quel determinato tessuto.

La plasticità del muscolo scheletrico è facilmente riscontrabile nella sua specificità alla risposta adattiva ad un dato stimolo, dove il carico e il numero delle contrazioni giocano un ruolo fondamentale. Un esercizio molto ripetitivo e a basso carico, comporta una differenziazione delle fibre muscolari verso un fenotipo resistente alla fatica (permette di mantenere un alto numero di contrazioni lente). Viceversa

allenamenti ad alto grado di carico provocano ipertrofia delle fibre per far si che la forza aumenti.

Un allenamento di resistenza per un un periodo da settimane a mesi ha dimostrato provocare il cambiamento delle fibre 2b in fibre 2a, cioè un passaggio da un fenotipo veloce ad uno più lento attraverso uno scambio di componenti dei sarcomeri, con un'alta densità di volume mitocondriale, aumentando la capillarizzazione, riducendo l’attività di alcuni enzimi glicolitici (lattato-deidrogenasi) e un marcato aumento dei livelli degli enzimi mitocondriali respiratori. Questo insieme di modificazioni

contribuiscono a ottimizzare lo stato di rilascio dei substrati e la capacità respiratoria, aumentando la captazione dell’ossigeno sistemico e i parametri contrattili durante le frequenti lente contrazioni di resistenza. (Flueck, 2006)

Una modificazione ben visibile nei muscoli che possiamo invece riscontrare in un training di forza, è di un aumento volumetrico e ipertrofico delle fibre muscolari, questo dovuto dal fatto che la forza generata dal muscolo dipende dalla grandezza e dalla quantità di fibre contrattili, ipertrofismo dei grandi vasi e aumento della

capillarizzazione (Sjodin et Al.,1976; Apple e Rogers, 1986; Denis et Al., 1986) Nel cambiamento delle fibre muscolari sembrano intervenire fattori neurali dovuti all’incremento della comunicazione nervosa espressa come capacità di attivazione, reclutamento o frequenza di accensione dell’unità motoria e fattori muscolari, dovuti dall’aumentata area e massa muscolare per l’ampia crescita della sintesi proteica (Narici et Al., 2004)

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La giunzione neuromuscolare dei mammiferi subisce un rimodellamento morfologico e fisiologico continuo, per permettere l’adattamento, l’aumento o una diminuzione dell’uso.

Una aumentata o ridotta attività sinaptica mioneurale, caratterizza modificazioni morfologiche che portano ad un potenziamento o a un decremento della trasmissione neuromuscolare, incidendo così sulla prestazione (deschenes et Al., 1994; Wilson e Deschenes, 2005)

Diversi studi hanno dimostrato che un esercizio fisico protratto per diverse settimane, sarebbe in grado di alterare l’architettura della giunzione neuro-muscolare

(dimensione dell’area pre e post sinaptica, lunghezza del terminale nervoso, distribuzione delle vescicole sinaptiche e dei recettori, ramificazioni terminali

nervosi); questi cambiamenti cono supportati da un aumento della sintesi proteica e del trasporto assonale veloce di proteine, alcune delle quali con funzioni trofiche. Esercizi ad elevata intensità, rispetto ad esercizi di lieve intensità, provocano un aumento maggiore sia del numero di recettori dell’acetilcolina che di vescicole contenenti il neurotrasmettitore.

Studi condotti da Desauliners e colleghi, hanno dedotto che a seguito dell’esercizio fisico cronico, si ha un aumento del 20% del numero di recettori per l’acetilcolina (nAChR) a livello della placca motoria, parallelamente all’aumento delle dimensioni dei terminali nervosi. L’aumento del numero di recettori può significare un aumento dell’area della placca motoria che deve accoglierli (Desaulnier et Al., 1998).

La plasticità dei motoneuroni nell’esercizio fisico

Possiamo apprezzare anche un conseguente combiamento morfologico a livello dei motoneuroni α parallelo ad un cambiamento funzionale: ad esempio il passaggio da motoneurone veloce a motoneurone lento, in concomitanza con un cambiamento delle fibre muscolari causato da un esercizio fisico intenso e duraturo, è associato anche ad una diminuzione delle dimensioni del soma, un aumentato numero di dendriti e una diminuzione del diametro dell’assone del nervo periferico; come ben sappiamo la grandezza del diamentro è inversamente proporzionale alla velocità di

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conduzione: maggiore sarà il diametro minore sarà la velocità dell'impulso e

viceversa, minore sarà il diametro e maggiore invece sarà la velocità di conduzione. (Anderson e Edstrom, 1957; Roy et Al., 1975)

È stato visto che i cambiamenti delle dimensioni dei neuroni dipendono dalla durata, dall’intensità e dal tipo di stimolazione che ricevono; la durata determina la direzione del cambiamento delle dimensioni neuronali : breve stimolazioni provocano un

aumento del volume del nucleo (attività motoria lieve) e del citoplasma dei motoneuroni (stimolazione ortodromica); stimolazioni durature (attività motoria intensa) provocano una diminuzione delle dimensioni sia nucleari che

citoplasmatiche.

L’intensità della stimolazione determina la grandezza di questi cambiamenti, mentre il tipo di stimolazione determina i pattern di cambiamenti del volume neuronale.

2.2. Plasticità della corteccia motoria

La plasticità a questo livello è particolarmente evidente a livello della corteccia motoria primaria (M1), adibita al controllo dell’esecuzione dei movimenti e corrispondente all’area 4 di Brodmann.

La plasticità della M1 dipende dall’integrità della forza delle connessioni orizzontali che l’attraversano e specialmente di quelle più superficiali appartenenti agli strati 2 e 3 e di quelle più profonde dello strato 5.

Studi ipotizzano che un training di lungo termine, provochi nella M1, il reclutamento di unità aggiuntive a livello di questa sezione corticale; è ciò determinerebbe una differente rappresentazione della sequenza motoria (Kleim et Al., 2004)

si ritiene che i cambiamenti delle rappresentazioni motorie delle varie parti corporee dopo esecuzione motorie siano ascrivibili a mutamenti morfologiche del neuropilo, legati a processi di divergenza di sinapsi già esistenti e alla disinibizione di sinapsi inibitorie locali che scoprono connessioni eccitatorie latenti; questo porterebbe alla

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creazione di nuove sinapsi, più in particolare tra spine dendritiche e terminazioni neuritiche (aumento arborizzazione dendritica, spinogenesi e sinaptogenesi)

provocano un potenziamento delle connessioni intracorticali con un incremento della trasmissione neurale di base, favorendo così anche modificazioni funzionali (Kleim et Al., 2002)

Ambiente

Uno studio su primati e roditori ha evidenziato che i soggetti che possono giovare di ambienti arricchiti nei quali crescere e relazionarsi, presentano modificazioni

strutturali e di conseguenza funzionali a livello della corteccia non riscontrabili invece in individui vissuti in ambienti meno stimolanti.

Ad esempio è stato possibile indviduare un significativo aumento del numero di ramificazioni dei dendriti basilari delle cellule piramidali dello strato 3 in varie aree corticali e specialmente nella corteccia motoria primaria M1; di conseguenza è apprezzabile una crescita del peso e dello spessore della corteccia, un aumento della densità e del numero delle spine dendritiche per neurone delle cellule piramidali, quindi della densità e del numero di sinapsi per neurone e della quantità delle cellule gliali e del volume capillare (Butler e Wolf, 2007)

Esercizio Fisico

L’esercizio fisico provoca l’ipertrofia dell’albero dendritico delle cellule piramidali degli strati 2, 3 e 5, con un conseguente aumento dello spessore corticale in

quest’area e con un incremento della densità e del numero di sinapsi per neurone nello strato 5 della stessa.

Studi su scimmie adulte, hanno dimostrato che l’esercizio fisico sottoforma di training motorio duraturo, provoca cambiamenti della disposizione topografica dell’architettura su mappe bidimensionali della corteccia motoria primaria M1, smontando la sua staticità con una caratteristica fortemente rimodellabile tramite l’esperienza mutata nel tempo; questa non staticità della mappa topografica, si

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conferma tramite lo spostamento dei confini tra le diverse aree motorie.

Da questi studi si evince anche che la corteccia motoria sia adibita al controllo del movimento e non della forza con cui lo si svolge anche se non se ne esclude una complicità.

Scoperta estremamente importante nel nostro campo di lavoro, è quella che riguarda la tipologia di training da svolgere per indurre queste forme di plasticità nella

corteccia motoria; queste non avvengono dopo semplice attività fisica, seppur duratura e ripetitiva, ma solo in caso in cui ci sia anche un processo di

apprendimento. I tempi di modifica morfologica hanno evidenziato che avviene prima la trasformazione con sinaptogenesi e dopo la riorganizzazione topografica. I fenomeni di plasticità strutturale di formazione di nuovi elementi e di

riassemblamento topografico delle mappe motorie della corteccia motoria adulta, avvengono in fase tardiva e non precocemente, nel corso di un allenamento costante e prolungato di gesti motori.

L’apprendimento di nuovi comportamenti procedurali e motori è di per se una forma di adattamento, che può a sua volta cambiare e adattarsi; si suddivide in un primo stadio veloce, in cui si verifica miglioramento della prestazione in un'unica sessione di allenamento e in una lenta fase successiva che si estende per varie sessioni di training, in cui possono aversi ulteriori avanzamenti della performance,

comprendente una tappa di consolidamento dell’abilità motoria, una tappa di automatizzazione e una tappa di ritenzione (tappa in cui una abilità può essere

rimessa in pratica facilmente anche dopo lunghi periodi senza essere stata praticata). Diversi hanno provato che la plasticità dovuta dall’esperienza non trasforma solo gli elementi nervosi ma anche cellule gliali e capillari, infatti la plasmabilità capillare è una caratteristica generale dei sistemi motori del sistema nervoso in risposta

all’esercizio fisico, aumentando così anche la possibilità di lavoro.

Esperimenti sui roditori hanno dimostrato che con esercizio prolungato, di circa trenta giorni, sia sufficiente a determinare angiogenesi, con aumento della perfusione capillare o del volume sanguigno.

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perdurante di circuiti preesistenti e quindi ad una pratica motoria, rappresenterebbe un differente ulteriore tipo di adattamento cerebrale alle esigenze esterne, proprio del solo esercizio fisico ripetitivo, ma anche delle fasi iniziali di quello sottintendente un processo di acquisizione dell’abilità motoria, il quale darà poi anche luogo alla

creazione di nuovi circuiti neurali. È stato conseguentemente visto, che la

riorganizzazione corticale, localizzata nelle regioni coinvolte nella realizzazione dell’abilità pratica, perdura anche in assenza di un esercizio perpetrato.

2.3 Plasticità del cervelletto

E' ormai noto che il cervelletto è in grado di andare incontro a cambiamenti plastici se questo viene adeguatamente stimolato (Anderson et Al., 1996).

La zona privilegiatamente indagata per la valutazione della modellabilità del

cervelletto è stata quella del lobulo paramediano, attivata durante i movimenti degli arti impegnati sia nell'allenamento acrobatico sia in altre forme di allenamento, e punto di convergenza dei segnali somatosensoriali e propriocettivi (Anderson et Al., 1996).

Principalmente possiamo apprezzare i vari adattamenti dell'organo, in relazione agli stimoli ricevuti, a livello delle cellule del Purkinje, questo perchè sono le sole forme di cellule nervose in grado di inviare il proprio assone al di fuori della corteccia cerebellare e per questo rappresentano l'unico sistema efferente del cervelletto, a differenza delle altre che rimangono all'interno della sostanza grigia e costituiscono quindi un sistema di comunicazione associandosi tra loro.

Ambiente

E' stato condotto un esperimento nel quale tre gruppi di primati, scimmie Macaca Fascicularis, durante il periodo di sviluppo, venivano inserite in ambienti differenti per 6 mesi e poi paragonate tra loro con lo scopo di registrare possibile modifiche di adattamento plastico cerebellare: un primo gruppo lasciato vivere in un ambiente

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socialmente libero e stimolante, un secondo gruppo a cui era consentita maggiore libertà ma comunque controllata e riconducibile a periodi giornalieri ber scanditi di interazione collettiva, ed un terzo ed ultimo gruppo costretto a vivere in isolamento. In particolare è stato dimostrato che il primo gruppo in particolare, ma anche il secondo seppur in quantità più contenute, presentavano modifiche interessanti quali un maggiore diamentro del soma ed una maggiore e più densa ramificazione

dendritica delle cellule del Purkinje, a differenza del terzo gruppo che non pesentava niente di tutto ciò (Floeter e Greenough, 1979)

Esercizio Fisico

Studi su roditori hanno dimostrato che l'esercizio fisico durante lo sviluppo induce nel cervelletto un aumento delle dimensioni dell'albero dendritico, un aumento della lunghezza dei rami ed un aumento della densità e del numero delle spine sull'albero dendritico delle cellule del Purkinje, accompagnati da un selettivo aumento dello spessore dello strato molecolare in confronto agli animali inattivi (Pysh e Weiss, 1979).

Altri esperimenti hanno poi dimostrato anche la possibilità di un alto grado di plasticità del cervelletto dopo attività fisica anche nell'adulto; ma le modifiche

adattative non risultano essere le medesime, in particolare si registrano anche ingenti alterazioni strutturali che riguardano un rimodellamento delle strutture che prelude alla creazione di nuove sinapsi (Kleim et Al., 1998a).

L'esercizio fisico può quindi indurre nel soggetto modifiche, ma quale tipo di esercizio fisico permette di ottenere i migliori benefici? Alcuni studi hanno dimostrato che un'attività fisica aerobica determina sì delle modifiche, ma

prevalentemente (se non unicamente) sulla base dell'angiogenesi, quindi porta ad una maggiore densità del letto capillare; mentre un esercizio acrobatico, che stimola quindi l'individuo alla ricerca costante dell'equilibrio e del mantenimento della postura, determina i maggiori adattamenti plastici a livello del cervelletto, questo perchè, come ben sappiamo, il ruolo di quest'organo è quello di coordinare e regolare il movimento volontario e non, coordinandosi con l'apparato vestibolare, il midollo

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spinale e la corteccia cerebrale stessa (Black et al., 1990)

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Capitolo 3

La Malattia di Parkinson

3.1 storia della Malattia di Parkinson

Nel 1817 James Parkinson, medico inglese vissuto fra il XVIII e il XIX secolo, fu il primo a pubblicare una accurata descrizione della malattia in un libro dal titolo An Essay on Shaking Palsy. Esaminando alcuni pazienti che presentavano tremori a riposo, postura flessa, passo strisciante e retropulsione,

Parkinson constatò che i sintomi peggioravano progressivamente sino al decesso per complicanze dovute all’immobilità. Dato che il tremore era presente quando gli arti erano a riposo, egli definì la malattia “paralisi agitante”, riferendo il termine paralisi alla scarsità del movimento e agitante al tremore.

Sebbene Parkinson non avesse individuato le anomalie del tono muscolare, le alterazioni cognitive, la rigidità e la bradicinesia, la descrizione che egli fece della malattia e che riportiamo in traduzione qui di seguito è estremamente accurata e valida ancor oggi:

“Movimento tremulo involontario, con diminuita forza muscolare nelle parti non in movimento e, anche quando sostenuto, con una propensione a piegare il tronco in avanti e a passare dal camminare al correre, mentre la sensibilità e l’intelligenza rimangono intatte. […] Le dita non possono essere disposte nella direzione voluta, né rivolte con sicurezza ad una qualsivoglia giuntura decisa. Preso in questo vortice tormentoso il paziente ricorre al camminare, ma con il progredire della malattia la propensione a piegarsi in avanti diventa invincibile.”

(32)

Prima di lui, tuttavia, altri autori avevano variamente descritto i sintomi tipici del Parkinson. Già nel “papiro di Ebers” (XVII dinastia, 1552 a.C.), ad esempio, insieme alla prima comparsa della parola “cervello”, si parla anche di “tremito delle dita”, mentre scrive riguardo al “tremor dei nervi” Aulo Cornelio Celso nel I secolo d.C. L’illustre Galeno distingue nel II secolo d.C. due tipi di tremore, palmos e tromos e parla di “σκελоτύρβη” nel significato letterale di “paralisi delle gambe”, termine ripreso poi dai medici del Seicento con un’accezione più ampia. Nel 1768, Boissier de Sauvages descrive per la prima volta il “disturbo paralitico dell’andatura

caratterizzato da fretta” con il nome di scelotyrbe festinans distinguendone ben cinque forme tra cui le due forme nosografiche principali: la scelotyrbe corea Viti (la corea di Sydenham) e la scelotyrbe festinans, dal latino festinare, che Gaubius (1705 1780), quasi un secolo prima di Parkinson, aveva così descritto: “Avvengono casi in cui i muscoli, debitamente eccitati dagli impulsi della volontà, precorrono, con agilità non richiesta e con un impeto impossibile a reprimersi, la mente restia.”. Il termine greco per questo sintomo fu ripreso nel 1873 da Trousseau che insieme a Charcot ampliò le osservazioni cliniche descrivendo la rigidità, la particolare

andatura “festinante” e il progressivo rallentamento nella esecuzione dei movimenti ripetitivi.

Fu proprio nel 1887 Charcot a dare alla malattia il nome col quale la conosciamo (1890). Egli aggiunse alla descrizione originale di Parkinson altri sintomi: la rigidità muscolare, la micrografia, l’ipomimia, le alterazioni sensoriali e fornì inoltre una descrizione più chiara di molti sintomi, in particolare del tremore e delle alterazioni dei riflessi posturali.

A differenza del suo collega, Charcot non identifica alcuna lesione organica specifica, ritenendo si tratti di una nevrosi scatenata da eventi psichicamente traumatici,

un’ipotesi non avvalorata dagli studi dei clinici che lo seguirono.

Dopo di lui nel 1895 E. Brissaud studia gli aspetti oculari della malattia di Parkinson, descrive in dettaglio le alterazioni della parola e alcuni sintomi psichici. W. R.

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tremore.

Nel 1912 F. Lewy identifica le inclusioni nel citoplasma neuronale che da lui prendono il nome.

Nel 1919 C. Tretiakov e von Economo giunsero, per vie diverse, a riscontrare gravi danni a carico della substantia nigra in molti soggetti morti di encefalite letargica che avevano manifestato gravi sintomi parkinsoniani. L’anno dopo in Inghilterra

Greenfield ad altri anatomopatologi dimostrarono danni simili in pazienti con la malattia di Parkinson. Sempre nello stesso anno Oscar e Cecile Vogt ipotizzarono che si sarebbe potuto trovare una cura specifica per la malattia identificando e

somministrando l’elemento chimico mancante.

Nel 1925 Wilson aggiunge al quadro sintomatico della malattia l’acinesia e con le parole riportate qui di seguito manifesta il suo scetticismo riguardo alla possibilità di compensare il danno neuronale con il substrato chimico mancante: “la paralisi agitante sembra al momento la malattia incurabile per eccellenza; l’antidoto alla ‘morte locale’ di sistemi di cellule e fibre sarebbe cosa tanto fantomatica quanto l’elisir di lunga vita. E’ peggio che inutile dare al parkinsoniano qualsiasi genere di tonico nervoso per stimolare le sue cellule in disfacimento; si dovrebbe piuttosto cercare un qualche tipo di nutrimento prontamente assimilabile, nella speranza di poter fornire dall’esterno ciò che la cellula non può ottenere dall’interno”.

Nel primo dopoguerra, in seguito ad una grande pandemia di encefalite letargica, i cui sopravvissuti presentavano manifestazioni parkinsoniane, Cohort teorizza come tutta la malattia di Parkinson. Fosse causata dall’encefalite e che la malattia sarebbe perciò scomparsa negli anni ’80 (www.memory.edu-Historical Perspectives of Medical Discoveries Student Presentations)

Tra il 1960 e il 1961 H. Ehringer e O. Hornykiewicz (1960) a Vienna, A. Barbeau a Montreal, separatamente dimostrano l’esistenza di una notevole riduzione del contenuto di dopamina e del suo catabolita acido omovanillico (HVA) nel corpo striato in casi di malattia di Parkinson.

Nel 1962 W. Birkmayer, O. Hornykiewicz e A. Barbeau scoprono

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somministrarla ai pazienti con risultati incoraggianti ma non conclusivi.

Le terapie del passato erano state caratterizzate da un lungo elenco di rimedi tra cui: Sali di metalli pesanti, purganti, fave del calabra, cicuta, segalecornuta, stricnina, lecitina, fosforo, misure narcotiche (cannabis, oppio, arsenico), estratti ghiandolari (paratiroide, tiroide, ipofisi), terapie fisiche (poltrona sussultante, casco vibrante, bagno tiepido, massaggi, applicazioni fredde, elettroterapia).

Era stato proprio da uno di questi rimedi, che Torquato Torquati, un farmacologo di Sassari, tra il 1912 ed il 1913, incuriosito dalla colorazione nerastra che compare nelle fave qualche giorno dopo la raccolta, estrasse una sostanza contenente azoto che rispondeva ai reattivi per la pirocatechina. Nei laboratori farmaceutici Roche di

Basilea, Markus Guggenheim, stava studiando da tempo le “amine proteinogene”, sostanze che non derivano da proteine, ma da composti biologici più semplici, come gli aminoacidi.

Incuriosito dai dati di Torquati, ne replicò il lavoro e riuscì ad identificare per primo la LDopa.

Infine nel 1967, dopo altri anni di ardue ricerche, Cotzias, definito da alcuni pazienti “il messia chimico (Sacks)” in quanto apriva prospettive inaspettate di cura per i malati di Parkinson, in un noto lavoro, introduceva il trattamento con L-Dopa per os a dosi elevate, anche se con notevoli effetti collaterali (Cotzias et al., 1967;1969)

suscitando fortissima e immediata eco nel mondo della neurologia.

Grazie alle osservazioni cliniche di tutti questi autori, e di altri non citati, abbiamo oggi una descrizione della malattia che, a quasi due secoli dalla sua elaborazione, richiede pochissime aggiunte.

3.2 Epidemiologia

La malattia di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più comune dopo la malattia di Alzheimer. È una delle principali cause di invalidità neurologica negli

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individui di età superiore ai 60 anni.

La prevalenza della malattia di Parkinson nei paesi industrializzati è stimata intorno allo 0, 3% della popolazione globale e circa intorno al 1% della popolazione oltre i 60 anni (Rajput AH, 1992; de Rijk MC, 2000). In Italia la prevalenza varia tra i 95 e 199/100.000 nei diversi studi (Granieri et al.,1990; Chiò et al., 1998), con una crescita progressiva al di sopra dei 50 anni. Si può ritenere che attualmente siano presenti in Italia circa 100.000 parkinsoniani. Si calcola che ogni anno compaia un nuovo caso ogni 4000 abitanti e, se riferito a soggetti che hanno superato i 50 anni d’età, un nuovo caso ogni 1000. Tutte le etnie si possono ammalare, la frequenza della malattia diminuisce, però, in Cina e in Africa rispetto alle nazioni occidentali. Non esisterebbero differenze significative di prevalenza nei due sessi, sebbene alcuni studi indichino una lieve prevalenza maschile (Baldereschi M, 2000; Lai BC, 2003). L’età più colpita è tra l’inizio e la metà dei 60 anni (Inzelberg R, 2002); relativamente rari (circa il 5-10%) sono i casi colpiti prima dei 40 anni (Golbe LI, 1991).

La storia naturale della malattia individua una fase presintomatica ed una sintomatica. Quest’ultima corrisponde all’evoluzione progressiva dell’handicap motorio descritta in cinque stadi di invalidità crescente da Hoehn e Yahr nel 1967 (Hoehn et al.1967). La prima invece è un concetto apparso più di recente, in particolare con il contributo degli studi PET, che, sulla base del deficit di captazione striatale di fluorodopa in soggetti asintomatici e con estrapolazione da valutazioni longitudinali, ha stimato la durata media di tale fase a circa sette anni, durante i quali si verificherebbe

l’accelerazione del processo fisiologico di degenerazione dei neuroni dopaminergici.

3.3 Eziologia

Le cause della MP non sono ancora note. Sembra che vi siano molteplici elementi che concorrono al suo sviluppo. La maggior parte delle persone presenta una condizione idiopatica (ovvero con nessuna causa specifica ben nota). Una piccola percentuale di casi, tuttavia, può essere attribuita a fattori genetici conosciuti. La malattia di

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Parkinson è stata tradizionalmente considerata una malattia non genetica, tuttavia è presente un 15% circa di casi in cui gli individui affetti dalla malattia di Parkinson hanno un parente anch'esso malato. È stato dimostrato in modo definitivo che le mutazioni in geni specifici possono essere causa della malattia. Tra i geni individuati i più importanti sono alfa-sinucleina (PARK 1/PARK 4), parkina (PARK 2), PINK1 (PARK 6), DJ-1 (PARK 7), LRRK2 (PARK 8) e la glucocerebrosidasi GBA.

3.4 Fattori di rischio e protezione

Molti fattori di rischio e molti fattori protettivi sono stati proposti, ma nessuno è stato ancora definitivamente individuato da prove certe: dal momento che i risultati degli studi epidemiologici che sono stati condotti per verificare la relazione tra un dato fattore e la malattia di Parkinson, spesso sono apparsi contraddittori. Tuttavia, le correlazioni più frequentemente proposte per aumentare il rischio di sviluppo della MP, sono quelle in cui viene coinvolta l'esposizione ai pesticidi; di fatto iniezioni della neurotossina MPTP sintetica producono una serie di sintomi simili a quelli della malattia di Parkinson, essi possono essere bloccati interrompendo l'assunzione di tale sostanza. L'osservazione di questo fenomeno ha portato a teorizzare che l'esposizione ad alcune tossine ambientali può aumentare il rischio di sviluppare la condizione. Le tossine che sono state correlate alla malattia e ritenute in grado di aumentare del doppio il rischio di soffrirne, comprendono alcuni pesticidi quali il rotenone e il paraquat e erbicidi.

Anche l'esposizione ai metalli pesanti è stata proposta come fattore di rischio per la malattia, attraverso il loro possibile accumulo nella substantia nigra.

Alcuni studi hanno messo in correlazione ripetuti traumi cranici e la malattia. Non a caso si sospetta che i pugili professionisti, a seguito dei violenti colpi alla testa,

possano sviluppare una sindrome di Parkinson di carattere progressivo (prendiamo ad esempio Cassius Clay).

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