Fiumi danteschi
Dal «fiume bello e corrente e chiarissimo» al
«lume in forma di rivera»
1di Donato Pirovano
Nel paragrafo nono della Vita nuova Dante racconta di una sua caval-cata extra moenia durante la quale ha una visione di Amore (V.n., ix 1-4):
«Appresso la morte di questa donna alquanti die avvenne cosa per la qua-le me convenne partire de la sopradetta cittade ed ire verso quelqua-le parti dov’iera la gentile donna ch’era stata mia difesa, avvegna che non tanto fosse lontano il termine del mio andare quanto ell’era. E tutto ch’io fossi a la compagnia di molti quanto a la vista, l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che ’l cuor sentia, però ch’io mi dilungava da la mia beatitudine. E però lo dolcissimo signore, il qual mi segnoreggiava per la vertù de la gentilissima donna, ne la mia imaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vil drappi. Elli mi parea sbigottito e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo qual sen gìa lungo questo cammino là ov’io era».
Questo innominato fiume – presente nel testo narrativo ma non nel sonetto Cavalcando l’altr’ier per un cammino – profila lo spazio mentale dell’incontro con Amore. Egli sembra «sbigottito» e il suo turbamento 1 Ho scelto di pubblicare una versione molto vicina all’esposizione orale della relazione
tenuta nell’ambito della giornata di studi Visioni della natura in Dante e nella letteratura medievale (Università di Roma “Tor Vergata”, 15 marzo 2019), limitandomi ad aggiungere le indicazioni bibliografiche relative alle citazioni presenti nel testo. Una versione più ampia di questa relazione è stata pubblicata in Rivista di Letteratura Italiana, 2, 2020, pp. 21-37. Per il testo della Vita nuova ho seguito quello da me curato nell’ambito della NECOD (Salerno Editrice, Roma 2015). Per la Commedia ho seguito: Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 2018.
traspare anche dai suoi occhi sfuggenti, per lo più rivolti a terra, se non che talvolta si volgono a un fiume, che scorreva di lato la via, «bello e corrente e chiarissimo», con «trinomio ascendente, da bisillabo piano a quadrisillabo sdrucciolo» 2. Questo fiume innominato potrebbe essere
l’Arno, in virtù dell’aggettivo «bello», come poi in Inf., xxiii 95: «so-vra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa».
Anche nell’altra, e ultima, uscita di Dante dalla città, narrata in V.n., xix 1, il protagonista passa «per un cammino lungo lo quale sen gìa un rivo chiaro molto», cosicché i due episodi ambientati fuori Firenze si possono riconoscere uniti da una medesima traccia fluviale:
«Avvenne poi che passando per un cammino lungo lo quale sen gìa un rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, ched io incominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia ched io facesse, sed io non parlassi a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentile e che non sono pure femine».
Un’aura di sacralità avvolge il momento iniziale della nuova poesia, visto che in questo paragrafo Dante ci racconterà la genesi di Donne
ch’avete intelletto d’amore. Siamo eccezionalmente fuori Firenze. La
notazione spaziale – una strada che costeggia un limpidissimo fiume – ricorda quella di V.n., ix 4, che come abbiamo visto poco fa è l’altro episodio eccentrico nello spazio fiorentinocentrico della Vita nuova. Alcuni importanti commentatori del libello come Alessandro D’An-cona, Tommaso Casini e Giovanni Melodia 3, notando la differenza tra
«fiume» e «rivo», escludono che possa trattarsi del medesimo corso d’acqua, ma l’uguaglianza dell’espressione – qui: «cammino lungo lo quale sen gìa un rivo chiaro molto», in V.n., ix 4: «un fiume [...] chia-rissimo, lo qual sen gìa lungo questo cammino» – e l’intercambiabilità dei due termini rivo/fiume nel lessico dantesco fanno propendere per lo stesso ambiente.
Credo anch’io, inoltre, con Guglielmo Gorni e Giuliano Tanturli, che questo fiume possa essere l’Arno, mentre per altri esegeti come per
2 Dante Alighieri, Vita nova, a cura di G. Gorni, Einaudi, Torino 1996, p. 46.
3 Rispettivamente: La Vita Nuova di Dante Alighieri, illustrata con note e preceduta da
uno studio su Beatrice per A. D’Ancona [...], 2a ed. notevolmente accresciuta [...], Libreria
Galileo già Nistri, Pisa 1884 (i ed. Nistri, Pisa 1872), con note siglate di G. Carducci e testo a cura di P. Rajna, p. 134; La Vita nuova di Dante Alighieri, con introduzione, commento e glossario di T. Casini, Sansoni, Firenze 1885, p. 83; La Vita nuova di Dante Alighieri, con introduzione commento e glossario di G. Melodia, Vallardi, Milano 1905, p. 121.
esempio Domenico De Robertis e Manuela Colombo non è possibile né necessario identificarlo 4.
Seguendo idealmente la presenza dell’Arno entriamo nella
Comme-dia per leggere Inf., xxx 58-69: «“O voi che sanz’ alcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo”, diss’ elli a noi, “guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo”; io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli, e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.
Li ruscelletti che d’i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’ io nel volto mi discarno».
Siamo nell’ultima delle dieci Malebolge. Dante scorge un dannato che a causa della pancia gonfia e del collo magro sarebbe stato simile a un liuto se solo non avesse avuto le gambe. L’idropisia, che rende spropor-zionato quel corpo, smagrendo il viso e gonfiando il ventre, gli fa tenere le labbra aperte. Ha un gran bisogno di bere, anche una sola goccia d’acqua, e questa impellenza è accentuata dall’immagine – fissa davanti agli occhi della sua anima – dei ruscelletti che dai verdi colli del Casen-tino scendono in Arno: l’ardente ricordo di quell’acqua fresca accresce la sua sete molto più della malattia che gli scarnifica il viso. Eppure Maestro Adamo sarebbe stato disposto a scambiare tutta l’acqua della Fonte Branda – la celebre fontana di Siena – se avesse potuto vedere qui nell’inferno l’anima dannata dei conti Guidi di Romena, coloro che l’avevano istigato a falsificare il fiorino d’oro, e dunque a commettere quella colpa per cui ha meritato quella terribile pena eterna. Maestro Adamo non beve e non berrà.
Un altro personaggio che non beve – di più, che non ha mai lo sti-molo della sete – è chi compie il viaggio. il realismo dantesco sopravvi-4 Rispettivamente: Gorni, Vita nova, ed. cit., p. 91; G. Tanturli, L’immagine topografica di Firenze nella poesia di Dante, in Dante. Da Firenze all’aldilà. Atti del terzo Seminario dantesco internazionale (Firenze, 9-11 giugno 2000), a cura di M. Picone, Cesati, Firenze 2001, pp. 263-73; Dante Alighieri, Opere minori, parte i [Vita nuova (pp. 3-247), Rime (pp. 249-552), Il Fiore e il Detto d’Amore (pp. 553-827)], a cura di D. De Robertis-G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1984, pp. 114-15;Dante Alighieri, Vita Nuova, Premessa di M. Corti, introduzione e cura di M. Colombo, Feltrinelli, Milano 1993, p. 97.
ve nonostante la marcata infrazione alla verosimiglianza e a una logica narrativa elementare: immaginare un vivo nei tre regni d’oltretomba che non ha bisogno per una intera settimana di mangiare e di bere. Eppure di calorie ne ha spese molte, soprattutto quando è costretto ad arrampicarsi per l’erta montagna, alta più di ogni altra, e in alcuni punti tanto ripida da richiedere quasi accorgimenti da free climber. in realtà non è propriamente corretto affermare che il pellegrino oltremondano non beve mai. infatti, Dante beve l’acqua dei fiumi del paradiso terre-stre, Lete ed Eunoè, ma quelle due bevute sono più liturgiche che fisi-che, e così l’immersione nei due rivi è più rituale che igienica: sia come sia, dopo tanta fatica e – immaginiamo noi – tanto sudore (e non solo di paura), sale puro e disposto alle stelle.
Aridità e arsura non sono tuttavia dominanti nell’aldilà. Anzi è l’ac-qua ad avere un ruolo fondamentale e perfino strutturale. Che l’acl’ac-qua sia importante nel racconto del viaggio oltremondano lo segnala già la prima similitudine introdotta nel poema, la quale è tolta dal campo semantico del mare (Inf., i 19-27):
«Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva».
Al principio del mattino di quel venerdì santo del 1300, Dante riesce a uscire dalla selva in cui si era trovato ex abrupto smarrito. La paura che aveva pervaso il lago del suo cuore – secondo la medicina medievale la concava cavità cardiaca (ed è una felice metafora acquatica che anticipa la similitudine) – si placa. Davanti a sé c’è un colle vestito di sole. Si volge, però, indietro a guardare con meraviglia e timore il rischioso e terrificante luogo da cui è fuoriuscito. E lo fa con lo stato d’animo del naufrago scampato al pelago dove l’acqua è stata perigliosa. Mentre immagina di vedere quel mare, Dante personaggio ha ancora il respiro affannoso per la fatica e per la paura.
Chi conosce tutta la storia del poema, però, a questo punto, forse, può per contrasto sovrapporre allo sguardo di questo naufrago soprav-vissuto un altro sguardo, quello di colui che è stato non a torto
rico-nosciuto come una sorta di alter ego oppositivo del pellegrino Dan-te: Ulisse, richiamato dalla parola rima «passo» (v. 26) che si ritroverà nell’«alto passo» di Inf., xxVi 132. Anche l’eroe greco si mise per l’al-to mare aperl’al-to e, al termine di una straordinaria navigazione senza scali durata cinque lunghi mesi, giunse a una montagna, così alta che non ne aveva mai vista una eguale. Alla riva di quel monte, tuttavia, non giunse mai, e, mentre la sua nave si inabissava, il suo sguardo ebbe una dram-matica prospettiva verticale, dal fondo verso la superficie: «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (Inf., xxVi 142). Al chiudersi di quelle acque, si spegne la voce della fiamma antica, e anche il canto di Dante autore si interrompe in un assordante silenzio.
il parallelo per contrasto con Ulisse è oltremodo palese, quando Dan-te arriverà via Dan-terra in quegli sDan-tessi luoghi australi (Purg., i 130-132):
«Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo che di tornar sia poscia esperto»
dove si noti tra l’altro la ripresa, in posizione forte, della parola rima «esperto», come voleva divenire Ulisse: «del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» (Inf., xxVi 98-99). Non si può dimenticare, allora, che sotto questo «suol marino» (Purg., ii 15), a non molte brac-cia di mare di distanza da questa stessa spiaggia deserta, dove ora si trova Dante, è sepolto il «legno» di colui che con una «orazion piccio-la» (Inf., xxVi 122) convinse i compagni a seguirlo nel «mondo sanza gente» (Inf., xxVi 117), cosicché «volta nostra poppa nel mattino, / de’ remi facemmo ali al folle volo» (Inf., xxVi 124-125).
Ma torniamo all’inizio del poema per ammirare un’altra pregevole similitudine acquatica, sebbene su di essa si sia a lungo esercitata, e non sempre proficuamente, l’acribìa dei commentatori (Inf., ii 103-108):
«Disse: – Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quei che t’amò tanto, ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pièta del suo pianto, non vedi tu la morte ch’el combatte su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? –».
Siamo nel cosiddetto “prologo in cielo”, simultaneo al “prologo in ter-ra”: ciò che avvenne nell’empireo non è raccontato direttamente dall’io narrante, bensì rivelato in un secondo tempo da Virgilio. Chi parla qui
è Lucia che sta convincendo Beatrice ad accorrere in soccorso di Dan-te. All’invito della santa siracusana, Beatrice scenderà – lei donna beata – fino all’inferno, vero atto dell’amore discendente di impronta divina.
Che cos’è «la fiumana ove ’l mar non ha vanto»? Non è ovviamente un vero fiume nei pressi della selva e del colle o addirittura l’Arno o l’Acheronte, come qualcuno ha creduto, oppure Oceano 5, e non ha
solo valore allegorico, anzi l’espressione è efficace per ciò che il lettore riesce a immaginare pensando a questo scontro di acque. Con le parole di Antonino Pagliaro:
«si tratta palesemente di una similitudine assai bella, tratta dalla esperienza della navigazione fluviale, la quale rende in modo perfetto lo stato di impe-dimento e di pericolo del viandante, fermo e travagliato tra il minaccioso avanzare della lupa e l’angosciosa prospettiva della terribile selva: egli è nella medesima situazione di chi, su una fragile imbarcazione trasportata da una fiumana, si trova nel punto in cui questa s’incontra con il mare; le onde fanno contrasto alla corrente, senza riuscire a vincerla (il mar non ha
vanto), sì che, preso nel gorgo, il navigante si trova in pericolo mortale» 6. La «fiumana ove ’l mar non ha vanto» non fa parte dell’idrografia in-fernale, ma in qualche modo l’anticipa, nel senso che i fiumi sono ele-mento notabile del paesaggio del primo regno oltremondano: un fiume – più che una porta – ne fissa il confine, quel limite che non potranno mai varcare gli sciagurati «che mai non fur vivi» (Inf., iii 64), i pusil-lanimi che hanno ben potuto superare l’uscio sempre aperto, ma che sono costretti in eterno a restare lì, di qua dal primo fiume, in perenne corsa senza meta dietro una insegna, nudi, punti da vespe e mosconi, mentre il sangue mischiato a lacrime, che riga il loro volto, precipita ai loro piedi ed è succhiato da vermi schifosi. i cieli li rifiutano. Nemmeno l’inferno li accoglie. E dunque stanno in quella terra di mezzo, discosti dalla triste sponda dell’Acheronte.
Se l’Acheronte delimita l’inferno, nel baratro si incontrano altri tre fiumi, nell’ordine Stige, Flegetonte e Cocito. Dante ricava questi nomi dai suoi autori prediletti – non solo dal suo maestro e dal suo autore, 5 Cfr. l’ipotesi di Giuliano Tanturli, che interpreta, sulla scorta di isidoro da Siviglia e dei
lessicografi medievali, la fiumana come ‘Oceano’, stabilendo un rapporto con «la tentazione d’Ulisse d’andare a esplorare l’ignoto» (G. Tanturli, Dante e Ulisse, in Medioevo e Rinascimento, xxxiV, 2013, pp. 1-19, a p. 3; cfr. anche id., Inferno II, in Lectura Dantis Bononiensis, vol. i, a cura di E. Pasquini e C. Galli, Bononia University Press, Bologna 2011, pp. 41-58).
6 A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla ‘Divina Commedia’, D’Anna,
ma anche da Stazio, Ovidio, ecc. – tuttavia nei loro libri vi trovava accenni, schizzi, abbozzi, a volte confusi e persino contraddittori. Fu, dunque, lui a disciplinare quella materia fluida e caotica, incanalando le acque tartaree in un preciso sistema idrografico, che è al contempo elemento geografico e strumento di pena 7.
i fiumi infernali, infatti, provengono da una stessa sorgente e scor-rono ora visibili ora invisibili (in alcuni punti con probabile percorso sotterraneo) per tutta la voragine. Quando Dante nel suo cammino li incrocia, ne mette in luce l’individualità. Si è già avuto modo di rileva-re che l’Acheronte è il passaggio obbligato per entrarileva-re nell’inferno; il lurido e paludoso Stige, in cui sono immersi gli iracondi, è il fiume che circonda, e che dunque occorre attraversare, per approdare alla città di Dite; il Flegetonte – fiume di sangue bollente, strumento di pena per i violenti contro il prossimo – attraversa tutto il cerchio dei violenti, per poi precipitare fra il settimo e l’ottavo cerchio con una cascata che ricorda quella dei Romiti presso San Benedetto dell’Alpe, formata dal torrente Acquacheta; il Cocito, dimora di pena eterna dei traditori, ha le acque ghiacciate per il ventilare di Lucifero, «lo ’mperador del dolo-roso regno» (Inf., xxxiV 28).
A rimarcare l’individualità dei fiumi infernali contribuisce anche il modo del loro attraversamento da parte di Dante e Virgilio, che risulta sempre diverso. Per intervento della grazia divina, fisicamente annun-ciata da un forte terremoto e da un vento che produce un lampo ver-miglio, Dante vivo passa l’Acheronte; sulla barca di Flegiàs attraversa lo Stige; sulla groppa di Nesso guada il Flegetonte e poi sulle spallacce di Gerione lo vede precipitare di sotto e lo descrive, in ripresa aerea come su di un drone, mentre scende giù, in un movimento che non è propriamente un volo (il mostro non ha ali) ma un lento affondare in una atmosfera umbratile e acquatica 8; a piedi percorre il Cocito, tra
l’altro mai scivolando, anzi mostrando una certa abilità da campione di pattinaggio su ghiaccio quando senza cadere inciampa nel viso di Bocca degli Abati e poi si piega per prendergli la collottola.
i fiumi infernali nel loro complesso fanno parte, tuttavia, di un uni-co bacino idrografiuni-co. La loro origine è spiegata da Virgilio, quando
7 Cfr. E. Ciafardini, L’Idrografia dell’Inferno e del Purgatorio Dantesco, Tipografia degli
Artigianelli, Napoli 1922, p. 15; G. Di Pino, Le valenze del fiume nella ‘Divina Commedia’, in Studi Danteschi, Lxiii, 1991, pp. 127-39.
8 Cfr. M. Corrado, Canto XVII. «Omai si scende per sì fatte scale». Il volo di Gerione e di Dante, in Lectura Dantis Romana, Cento canti per cento anni. 1. Inferno i. Canti I-XVII, a cura
Dante ne ha già oltrepassati tre (Inf., xiV 94-120): «“in mezzo mar siede un paese guasto”,
diss’ elli allora, “che s’appella Creta, sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.
Una montagna v’è che già fu lieta d’acqua e di fronde, che si chiamò ida; or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver’ Dammiata e Roma guarda come süo speglio.
La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e ’l petto, poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che ’l destro piede è terra cotta: e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta d’una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, fóran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia: fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin, là dove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta”».
Dante plasma la plastica immagine mescolando elementi biblici – su tutti la statua apparsa in sogno a Nabucodònosor di cui si parla nel libro del profeta Daniele (cfr. Dan., 2 31-45) –, classici e medievali. in una caverna del monte ida nell’isola di Creta si trova la gigantesca statua di un veglio, con le spalle rivolte a est («Damietta» è una città portuale egiziana sul delta del Nilo) e gli occhi a Roma: ha la testa d’oro puro, le braccia e il petto d’argento, il resto di ferro tranne il piede d’appoggio destro che è di terracotta. Tutte le parti del corpo, salvo la testa, hanno una fessura che versa lacrime, le quali, riunite insieme, forano la pietra su cui si sorregge e scendono di roccia in roccia nel baratro infernale, dove formano nell’ordine Acheronte, Stige e Flegetonte, e poi precipi-tano per uno stretto canale fino al Cocito, che si presenta non più come
un fiume ma come un lago («stagno», v. 119) sempre però di forma anulare come tutti gli altri, perché in mezzo c’è il mostruoso Lucifero.
Prescindendo qui dalla complessa interpretazione allegorica del-la potente immagine del Veglio di Creta, «le acque dei fiumi pro-dotte dalla statua attraversano tutto l’inferno e lo rappresentano per intero con una simbologia, nella quale il fatto fisico delle lacrime è senz’altro l’amarissima fenomenica metafora di quello straziato e col-pevole paesaggio umano. Tale il senso di alcune interpretazioni dei primi commentatori che vedono la genesi e la successione dei fiumi come storia anche psicologica del peccatore che, precipitando sulle rive d’Acheronte e raggiungendo il suo luogo di pena, subisce quelle sconcertanti trasformazioni interiori e fisiche che ne fanno un dan-nato eternamente destidan-nato a sentire la violenza delle lacrime versate per i mali commessi e destinato a versarne ancora come segno tangi-bile della sua pena» 9.
Però non tutte le acque che scorrono nell’inferno provengono dal Veglio di Creta, perché ci sono due vistose eccezioni: il «bel fiumicello» (Inf., iV 108) che difende il nobile castello del limbo e che la schiera di poeti guada «come terra dura» (Inf., iV 109) e il ruscelletto che attraversa la natural burella, che scende fino al centro della Terra «per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, / col corso ch’elli avvolge, e poco pende», (Inf., xxxiV 131-132): esso proviene evidentemente dalla montagna del purgatorio e fende la roccia procedendo con leggera pendenza. È proprio questo filo d’acqua che guiderà Dante e Virgilio per un «cammino ascoso» (Inf., xxxiV 133), finché da un pertugio si spalancherà finalmente alla loro vista il cielo stellato.
il sistema idrografico del purgatorio non interseca quello dell’in-ferno e, infatti, il ruscelletto che scorre nella «natural burella» (Inf., xxxiV 98) è davvero «cieco fiume» (Purg., i 40), non solo perché nascosto sotto terra, ma anche perché a fondo cieco, senza possibilità di lambire il ghiaccio inferiore del Cocito.
il vasto mare aperto dell’emisfero «sanza gente» (Inf., xxVi 117) isola la montagna del purgatorio rendendola inaccessibile ai vivi: lo sanno bene, come abbiamo visto, Ulisse e i suoi compagni. Dobbiamo ovviamente immaginare che quella montagna fosse lì dal principio del tempo, essendo determinata dalla caduta di Lucifero quando la terra inorridita si ritirò al suo precipitare. Ma la rotta notturna della antica 9 P. Mazzamuto, Fiumi dell’Inferno e del Purgatorio (s.v. Fiume), in Enciclopedia Dantesca,
«prora» (Inf., xxVi 141) greca pare determinata, più che da una pre-cisa meta, dal desiderio di una sfida cosmica: e quella montagna rimane per quei marinai «bruna / per la distanza» (Inf., xxVi 133-134). Per evidente contrasto, la prima luce del nuovo giorno – ed è la Pasqua del Signore dell’anno di grazia 1300 – accoglie Dante e Virgilio che giun-gono via terra sull’isola australe, e dalla spiaggia vedono l’arrivo delle anime destinate alla salvezza. Nel suo intrecciarsi di elementi fisici e metafisici, nel suo risalto di colori che si stagliano nello sfondo pastello del cielo, la scena è alquanto suggestiva (Purg., ii 13-51):
«Ed ecco, qual, sol presso del mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia giù nel ponente sovra ’l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia. Dal qual com’ io un poco ebbi ritratto l’occhio, per domandar lo duca mio, rividi ’l più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario un non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscìo.
Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: “Fa’, fa’ che le ginocchia cali! Ecco l’angel di Dio: piega le mani! Omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo che l’ali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo, trattando l’aere con l’etterne penne, che non si mutan come mortal pelo”.
Poi, come più e più verso noi venne l’uccel divino, più chiaro appariva: per che l’occhio da presso no ’l sostenne,
ma chinai ’l giuso; e quei sen venne a riva con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva. Da poppa stava il celestial nocchiero, tal che parea beato per iscripto;
‘In exitu Isräel de Aegypto’ cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto. Poi fece il segno lor di santa croce: ond’ ei si gittar tutti in su la piaggia, ed el sen gì, come venne, veloce».
La narrazione è rigorosamente condotta secondo il punto di vista di Dante, che guarda dalla spiaggia verso il mare. Sarà, dunque, un per-sonaggio, l’amico Casella, a completare poco dopo questo racconto, illustrando il punto d’imbarco (Purg., ii 100-105):
«Ond’ io, ch’era ora a la marina vòlto dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto. A quella foce ha elli or dritta l’ala, però che sempre quivi si ricoglie qual verso Acheronte non si cala».
L’ultimo verso accende la memoria del lettore sulle già dette parole di Caronte (Inf., iii 91-93):
«Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: più lieve legno convien che ti porti».
Un «più lieve legno» non ha portato fino a qui Dante, ma c’è da credere che lo porterà cosicché le parole del vecchio, bianco per canuto pelo, si colorano di profezia circa la possibile e futura salvezza del pellegrino oltremondano.
Guardando l’ultimo tratto di crociera con gli occhi di Dante, il let-tore del poema può, però, individuare diversi elementi sovrapponibili, per eguaglianza e per differenza, tra la nave di Caron demonio e il «va-sello snelletto e leggero» (Purg., ii 41) del celestial nocchiero. il con-fronto sarebbe lungo e, dunque, mi limito qui a segnalare solo il gioco dei colori rosso-bianco, il remo (presente e assente), la posizione delle anime (in piedi e sedute) ecc.; e non si deve trascurare nell’analisi il raf-finato gioco di rimanti, come «pelo:cielo», tra l’altro con altri possibili e suggestivi richiami con la genesi stessa della montagna, dove è presente l’intera serie rimica (cfr. Inf., xxxiV 118-126: corsivi miei):
«Qui è da man, quando di là è sera: e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim’ era.
Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l’emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch’appar di qua, e su ricorse».
Ma un altro parallelismo, sempre nell’àmbito della dialettica uguaglian-za/differenza, si può riconoscere con il già più volte ricordato viaggio ulissiaco, visto che le rotte sono simili fin dal punto di imbarco, se pen-siamo che l’eroe greco parte da Gaeta, dunque poco sotto «la marina [...] dove l’acqua di Tevero s’insala» (Purg., ii 100-101). Ad autorizzare l’accostamento, già evidente di per sé per l’analogia delle situazioni, concorre anche l’espressione «marin suolo» di Inf., xxVi 129, che ri-torna a elementi invertiti, e dunque a chiasmo, qui a Purg., ii 15: «suol marino» 10.
Non si deve poi dimenticare che lo stesso racconto del poeta è me-taforicamente una navigazione, come è espresso enfaticamente
nell’in-cipit della nuova cantica (Purg., i 1-6): «Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno».
Bisogna anche riconoscere, inoltre, che questo secondo regno dove l’u-mano spirito si purga è una notevole novità al principio del 1300, se – come ha dimostrato Jacques Le Goff in un celebre studio – la genesi del purgatorio va collocata nel periodo a cavallo tra xii e xiii secolo, e se solo nel 1274 esso come realtà ultraterrena è stabilmente posseduta dall’ortodossia cattolica 11. Era però idea acquisita teologicamente, ma
non geograficamente.
10 Cfr. P. Stoppelli, Canto II. Il canto di Casella: seduzione estetica e valori etici, in Lectura
Dantis Romana, Cento canti per cento anni. II. Purgatorio. 1. Canti i-xvii, a cura di E. Malato e
A. Mazzucchi, Salerno Editrice, Roma 2014, pp. 48-64, alle pp. 49-50.
ignota alla Bibbia e in assenza di una precisa tradizione figurati-va e letteraria condivisa, la sede del secondo regno oltremondano non poteva che essere variabile: chi lo immaginava in irlanda nel pozzo di San Patrizio, chi dentro l’Etna, chi nell’aria, chi nella zona torrida. Oc-corre prendere atto che a fissare stabilmente le coordinate spaziali del purgatorio fu la Divina Commedia, e da essa dipenderà l’iconografia successiva, come dimostra, per esempio, il dipinto di Domenico da Mi-chelino che nel 1465, in occasione del secondo centenario della nascita di Dante, fu esposto nel Duomo di Firenze.
Se l’immenso mare australe circonda la montagna, essa è però po-vera d’acqua – fioca eccezione è il «liquor chiaro», ‘l’acqua limpida’ (Purg., xxii 137) che irrora l’albero strumento di pena dei golosi – e solo sulla sua cima, cioè nel paradiso terreste, troviamo un bacino flu-viale. Nella divina foresta spessa e viva, infatti, scorrono il Lete e l’Eu-noè, rispettivamente il fiume che genera l’oblio del male e il fiume che ravviva il ricordo del bene compiuto in vita, con – forse – un ricordo di un passo di isidoro di Siviglia (Etym., xiii 13 3), in cui si dice che «in Boeotia duo fontes; alter memoriam, alter oblivionem adfert», ‘in Beo-zia vi erano due fonti; l’una risveglia la memoria, l’altra arreca l’oblio’: Lete ed Eunoè sono, dunque, acque lustrali che agiscono entrambe sulla memoria dell’anima che ha concluso il periodo dell’espiazione ed è pronta ad ascendere al cielo. Come nell’inferno, il fiume è, pertanto, strumento della giustizia divina più che elemento geografico.
Per questo valore liturgico e sacramentale (forse battesimo e cre-sima), il «fiume sacro» (Purg., xxxi 1) Lete e la «santissima onda» (Purg., xxxiii 142) dell’Eunoè non nascono da una sorgente naturale,
ma da una fonte divina, e perciò la portata del loro corso non è discon-tinua come quella dei fiumi della Terra, soggetti alle condizioni atmo-sferiche, ma piena e costante, perché regolata dalla volontà di Dio. Con le parole di Matelda (Purg., xxViii 121-133):
«L’acqua che vedi non surge di vena che ristori vapor che gel converta, come fiume ch’acquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa, che tanto dal voler di Dio riprende, quant’ ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtù discende che toglie altrui memoria del peccato; da l’altra d’ogne ben fatto la rende.
Eünoè si chiama: e non adopra se quinci e quindi pria non è gustato.
A tutti altri sapori esto è di sopra».
Dante, pertanto, modifica la geografia biblica, secondo cui nell’Eden scorre un fiume che poi si divide in quattro corsi: il Pison, il Gihon, il Tigri e l’Eufrate (Gen., 2, 8-14):
«Plantaverat autem Dominus Deus paradisum voluptatis a principio, in quo posuit hominem quem formaverat. Produxitque Dominus Deus de humo omne lignum pulchrum visu, et ad vescendum suave lignum etiam vitae in medio paradisi, lignumque scientiae boni et mali. Et fluvius egre-diebatur de loco voluptatis ad irrigandum paradisum, qui inde dividitur in quatuor capita. Nomen uni Phison: ipse est qui circuit omnem terram Hevilath, ubi nascitur aurum: et aurum terrae illius optimum est; ibi inve-nitur bdellium, et lapis onychinus. Et nomen fluvii secundi Gehon; ipse est qui circumit omnem terram Aethiopiae. Nomen vero fluminis tertii, Tigris: ipse vadit contra Assyrios. Fluvius autem quartus, ipse est Euphrates». «Poi in principio il Signore Dio piantò un giardino di delizia, e vi col-locò l’uomo che aveva plasmato. il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva dal luogo di delizia per irrigare il giardino, poi di lì si divideva in quattro corsi. il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intor-no a tutto il paese di Avìla, dove nasce l’oro; e l’oro di quella terra è ottimo; qui si trova anche la resina odorosa e la pietra d’ònice. il secondo fiume si chiama Gihon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre verso gli Assiri. il quarto fiume è l’Eufrate».
Rispetto al racconto del libro del Genesi si inseriscono nella geografia dantesca altri elementi, primo di tutti il Lete, rivo dei Campi Elisii vir-giliani, cosicché nel paradiso terrestre si chiude il pentabacino fluviale della poesia classica, dopo i quattro fatti fluire nella voragine infernale. Al Lete si unisce – per scherzo si potrebbe dire sesto tra cotante acque – l’inedito Eunoè, ignoto alla tradizione e il cui nome – foggiato sul tipo di quello di uno dei fiumi biblici, l’Eufrate, e avvalendosi dell’ausilio offerto dai lessici medievali e con i pochi brandelli di grecità di cui egli disponeva – ha anch’esso radice greca, εὐ - νούς, nel senso di “memoria del bene” o, più letteralmente, di “buona mente”.
Un po’ frastornato dall’acqua del Lete, Dante sembra aver dimenti-cato la spiegazione di Matelda quando dinanzi a sé gli era parso vedere
l’Eufrate e il Tigri «uscir d’una fontana, / e, quasi amici, dipartirsi pi-gri» (Purg., xxxiii 113-114). il ritorno, però in una metafora, di due dei fiumi dell’Eden biblico con in filigrana il ricordo di Boezio – «Ti-gris et Euphrates uno se fonte resolvunt et mox abiunctis dissociatur aquis», ‘il Tigri e l’Eufrate insieme rampollano da un’unica fonte, e poi disgiunte l’acque van per diversa fonte’ (Cons. Phil., v m. 1 vv. 3-4) –
sembra un indizio che vuole suggerire al lettore la filigrana biblica 12.
Va però riconosciuto, con Charles Singleton, che i due fiumi del pa-radiso terrestre dantesco, per la loro specifica funzione di purificazione dal peccato, non potevano avere alcun rapporto con i quattro fiumi dell’Eden biblico, dimora dell’uomo prima del peccato originale 13.
Sorprendentemente l’acqua, ma nella forma di acqua di luce, la si ritroverà nell’empireo, il cielo di Dio e dei beati, che Dante rappresenta fuori dai confini dello spazio e del tempo (Par., xxx 38-42):
«ricominciò: “Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore”».
Dante e Beatrice hanno lasciato il cielo Cristallino (il «maggior corpo») che abbraccia l’intero cosmo e sono giunti al cielo incorporeo che è pura luce, non luce sensibile ma spirituale, che si sostanzia d’amore, l’amore del vero bene, pervaso di letizia, una letizia che trascende ogni dolcezza. Sono versi straordinari, tra i più intensi e belli della Divina
Commedia. È la prova suprema dell’ingegno e della poesia di Dante:
immaginare un luogo senza coordinate spazio-temporali.
La fantasia supera se stessa, eppure anche nei canti dell’empireo la poesia si colora ancora di immagini sensibili e familiari: un fiume di luce che scorre tra due rive fiorite, faville vive che si muovono tra acqua e fiori e che sembrano inebriarsi dei loro profumi, un lago di luce, una schiera di api che s’infiora, una candida rosa. Dante, novello san Paolo, recuperata e potenziata la vista, vede come prima immagine paradisia-ca un fiume di luce (Par., xxx 61-69):
12 Cfr. E. Ciafardini, L’Idrografia, cit., pp. 46-47.
13 Cfr. V. Russo, Eunoè, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. ii, pp. 765-766, a p. 766; e
soprattutto Ch.S. Singleton, Rimpianto per l’Eden e Il ritorno all’Eden: Fiumi, ninfe e stelle in ibidem, La poesia della ‘Divina Commedia’, il Mulino, Bologna 1999, alle pp. 291-309 e 311-336.
«e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge, e s’una intrava, un’altra n’uscia fori».
il fiume di luce scorre tra due rive meravigliosamente dipinte di fiori; dal fiume zampillano cristalli di luce che si posano sui fiori come rubini incastonati nell’oro; poi come inebriati dal profumo si reimmer-gono nel meraviglioso gorgo di luce: se un cristallo vi si tuffa, un altro ne esce. Beatrice spiega che il fiume e i topazi (angeli) ch’entrano ed escono e i fiori (beati) – ma «’l rider de l’erbe» (Par., xxx 77) è bel-lissima immagine intraducibile – sono «umbriferi prefazi» (Par., xxx 78), ‘prefigurazioni o adombramenti’ della verità. E mentre gli occhi di Dante (per sineddoche «la gronda / de le palpebre mie»: Par., xxx 88-89) bevono quell’acqua – nella potente sinestesia finalmente si sazia la sete del pellegrino – il fiume assume forma circolare: «di sua lunghezza divenuta tonda» (Par., xxx 90). La dimensione del lago di luce è im-mensa, così che la sua circonferenza sarebbe una cintura troppo larga perfino per il sole (Par., xxx 103-105):
«È si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura».
E come il pendio di un colle ornato di verde e di fiori si specchia nelle acque trasparenti collocate ai suoi piedi, così la candida rosa dei beati si specchia nel disco di luce (Par., xxx 109-117):
«E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie!»
il fiume di luce, dunque, si è trasformato in un lago, ai piedi di un anfi-teatro i cui spalti sono delicati petali di candida rosa. La vista di Dante non si smarrisce nella vasta profondità di quel mirabile spettacolo, per-ché nell’empireo le leggi naturali, il vicino e il lontano, non contano.
Con un po’ di fantasia potremmo immaginare che quel fiume e lago di luce, fuori dallo spazio e dal tempo, si increspino.
Con un po’ di fantasia – e con gli occhi potenziati dalle conquiste della scienza – potremmo immaginare che l’incresparsi di quel fiume e lago di luce sia la curvatura dello spaziotempo che si propaga come un’onda 14. Gli astrofisici la chiamano onda gravitazionale.
Donato Pirovano
SOMMARiO
L’articolo si sofferma sui fiumi dell’aldilà. Essi sono innanzitutto elemento notabile del paesaggio infernale e, infatti, nella prima cantica Dante disciplina una materia fluida e caotica, ereditata dai suoi prediletti autori classici, incanalando le acque tartaree in un preciso sistema idrografico, che è al contempo elemento geografico e strumento di pena. La montagna del purgatorio è povera d’acque tranne che sulla cima, dove Dante si confronta, e si distanzia, dalla geografia del Genesi biblico. Sorprendente, però, è la presenza di una luce in forma di fiume nell’empireo, che Dante immagina fuori dallo spazio e dal tempo.
SUMMARY
The essay focuses on the rivers of the afterlife. in the Hell they are an important ele-ment of the infernal landscape, but also an instruele-ment of punishele-ment. The mountain of Purgatory is poor in water except on the top, where Dante distances himself from the geography of biblical Genesis. Finally, it is surprising the presence of a light in the form of a river in the Empyrean, which Dante imagines outside of space and time.
14 Cfr. A. Ferrari, Oltre quanto vede l’occhio: il dinamico universo dell’astrofisica delle alte energie, in I Mercoledì dell’Accademia delle Scienze di Torino - Quaderni, xxViii, 2017, pp. 45-57, a p. 45: «Recentemente una nuova finestra osservativa si è aperta con lo sviluppo degli esperimenti per la rivelazione di onde gravitazionali come increspature dello spazio-tempo».