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<Per quanto al bello ei sia cieco e restio> Vittorio Alfieri: l'uomo e il poeta a contatto con le arti figurative

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Academic year: 2021

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(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

«Per quanto al bello ei sia cieco e restìo»

Vittorio Alfieri:

l’uomo e il poeta a contatto con le arti figurative

CANDIDATO

RELATORE

Arianna Andreani

Chiar.mo Prof. Marcello Ciccuto

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Vinicio Pacca

(2)

«Per quanto al bello ei sia cieco e restìo»

Vittorio Alfieri:

(3)

«La pittura è una poesia muta e la poesia, una pittura parlante»

(4)

Indice

Premessa

Introduzione

1

Un secolo di transizione: il Settecento tra cambiamenti, innovazioni e Rivoluzione 1

I. Alfieri e il suo tempo

3

I.I Dal Rococò al Neoclassicismo: il panorama artistico-culturale al tempo dell’Alfieri 3

I.II Vittorio Alfieri e lo Stato Sabaudo 8

I.III L’ “arte trasmessa”: luoghi e figure di rilievo nell’esperienza artistica dell’Alfieri 11

I. III.I Spiritualità e pittura: Tommaso Valperga da Caluso 11

I. III.II Vittorio Alfieri «pittor-poeta»: il carteggio con Ranieri de’ Calzabigi 15

I. III.III La pittura senese e Francesco Gori Gandellini 24

I. III.IV Corrispondenze oscure: l’amicizia con François-Xavier Fabre 27

I. III.V Alfieri e i viaggi, un percorso a ritroso: dal sublime paesaggistico al culto degli antichi 36

II. Per un’estetica alfieriana del bello

44

II.I Torquato Tasso magister del “meraviglioso pittorico” 44

II. II L’Accademia dell’Arcadia e il principio dell’ut pictura 49

II.III Parola e immagine nell’estetica di Burke e Lessing 54

II.IV La letteratura come unica vera arte 56

(5)

III. Vittorio Alfieri pittore tragico

64

III.I Il teatro e le arti figurative 64

III.II La tragedia alfieriana e la pittura storica di Sette e Ottocento 66

III.III Parola e gesto: il teatro alfieriano come tableau vivant 78

Conclusioni

81

Appendice

82

(6)

Premessa

«E dico da prima che la parola stile, ch’ella saviamente assomiglia al colorito in pittura, abbraccia però tante cose nell’arte dello scrivere, che a tutte ristringere in una, si può francamente asserire, che libro di poesia senza stile, non è libro; mentre forse quadro senza colori può in certa maniera esser quadro1

Accostare Vittorio Alfieri alle arti figurative non è per niente un’impresa facile ed è forte la tentazione di far piacere per forza a questo autore, così tanto complesso, la pittura. Chi ha letto la Vita sa che all’Alfieri dell’arte pittorica interessava ben poco e che, anzi, tutta l’opera stessa è un lungo percorso per innalzare e nobilitare un’altra arte, quella letteraria. L’autobiografia si configura, in effetti, come un viaggio introspettivo per scovare dentro di sé il perfetto poeta, che si concluderà con il raggiungimento di un agognato traguardo e cioè entrare a far parte del circolo dei più grandi poeti mai esistiti. Certamente l’enfasi con cui l’astigiano insiste nella Vita riguardo il disinteresse per l’arte, fa anche parte di quella finzione autoriale che regge l’impianto narrativo dell’opera stessa. Ma, se rivolgiamo lo sguardo all’esistenza reale dell’autore, questa tesi viene ampliamente supportata: in tutte le sue abitazioni sono stati rinvenuti pochissimi esemplari artistici, quasi nessun quadro; tra quelli ritrovati la maggior parte era di proprietà della contessa d’Albany o, più semplicemente, doni che lei stessa aveva fatto all’amato poeta. L’interesse dell’Alfieri verte per lo più attorno ad oggetti di uso quotidiano e personale come, ad esempio, bastoni da passeggio, spadini, carrozze e tutto ciò che si confaceva alla perfetta vita di un nobile settecentesco. Nella disputa intellettuale che l’Alfieri ebbe con l’amico Ranieri de’ Calzabigi, e su cui mi soffermerò particolarmente all’interno di questo lavoro, emerge perfettamente l’idea che l’autore aveva delle arti figurative: indubbiamente, opere di menti eccelse, degne di lode e riconoscimenti, ma completamente lontane dall’unica vera arte che era disposto a perseguire e cioè la letteratura. Quando il livornese espone al suo interlocutore la possibile strada da intraprendere nella creazione della perfetta tragedia contemporanea, coniando l’espressione di «pittor poeta» e l’idea della rappresentazione «per quadri», sta suggerendo un percorso lontano anni luce dalla concezione tragica dell’autore. L’Alfieri, nonostante le sue opere siano, per certi aspetti, delle “pitture su pagina”, vuole soltanto sentir parlare di scrittura e, con una lapidaria domanda retorica («ma le parole si vedono elle, o si ascoltano?»), chiarisce immediatamente quale sia la sua idea in fatto di stile tragico: pulito, scarno, privo di eccessivi decorativismi formali.

1 V. Alfieri, Risposta dell’autore a Ranieri de’ Calzabigi, in V. Alfieri, Tragedie, Volume I, a cura di Nicola Bruscoli,

(7)

Sono tutti elementi, questi, che hanno portato i critici letterari alfieriani (in particolar modo Di Benedetto2) ad

accostare la sua poetica alla corrente artistica del Neoclassicismo. Ancora una volta, dunque, l’autore viene inserito all’interno di un contesto figurativo.

In questo lavoro, perciò, cercherò di esplorare in che modo l’Alfieri si confrontò con l’arte, sia come uomo sia come poeta, in un percorso che prenderà avvio dal contesto politico e culturale in cui si trovò a vivere, facendo particolare riferimento alla condizione sociale nobiliare, che influenzò inevitabilmente la sua visione del mondo; mi soffermerò, poi, su tutte quelle esperienze, su tutti quei fecondi contatti intellettuali, che contribuirono ad avvicinare un Alfieri chiuso e restìo al senso del bello, al mondo dell’arte; mi addentrerò, successivamente, nella parte più teorica di questo studio, cercando di analizzare il pensiero critico dell’autore, attraverso le coordinate di due dei più grandi pensatori a lui contemporanei nel campo dell’estetica e dell’arte; concluderò prendendo in esame alcune delle più importanti opere teatrali dell’Alfieri, perché è impensabile, se non addirittura impossibile, tralasciare il mondo del teatro, nell’intenzione di trovare un punto di contatto tra questo autore e le arti figurative.

(8)

1

Introduzione

Un secolo di transizione: il Settecento tra cambiamenti, innovazioni e Rivoluzione

Il Settecento fu un vero e proprio “secolo di transizione”, caratterizzato da eventi tumultuosi e mutamenti significativi, che ebbero come diretta conseguenza il passaggio da un mondo ritenuto ormai “vecchio” e “sorpassato” ad uno totalmente nuovo. Un periodo che vide il crollo di tutti quei capisaldi, politici, economici, sociali ma anche di pensiero, che avevano dominato la scena del panorama culturale precedente, lasciando il posto, sul finire del secolo, ad uno degli eventi più significati della storia moderna: il passaggio da una società comandata e organizzata dai ceti più ricchi, ad una in cui il ceto borghese acquisì sempre più potere. Non per niente l’Ottocento sarà il “secolo borghese” per eccellenza, che vedrà la nascita della classe operaia, dell’industria e del capitalismo. Sullo scenario settecentesco, poi, ebbero luogo tre grandi rivoluzioni: la Rivoluzione Americana, la Rivoluzione Industriale e la Rivoluzione Francese. Ed è proprio la classe borghese che, stanca di sottostare alle leggi e alle decisioni dell’aristocrazia, tentò di diffondere i propri ideali, rendendo così possibile il cambiamento rivoluzionario, teso proprio all’eliminazione e allo sradicamento dei vecchi sistemi. In tutti gli scenari coinvolti da sommosse e atti rivoltosi, infatti, è facile individuare la volontà di un popolo stanco e costantemente vessato dai soprusi delle classi più ricche: si pensi all’America dove, nel 1773, i coloni si ribellarono alla corona inglese a causa delle ingenti tasse e gettarono in mare un intero carico di tè; o ancora, all’Inghilterra, in cui gli operai organizzarono violente rivolte a causa della disoccupazione derivata dall’impiego delle macchine nelle fabbriche; e infine, caso forse più emblematico, alla rivolta del Terzo Stato francese che, nel 1789, si riunì autonomamente in un’Assemblea Nazionale Costituente, col fine di redigere una nuova costituzione. Veri e propri atti rivoluzionari che portarono alla Dichiarazione di

Indipendenza in America, alla nascita dei primi sindacati in Inghilterra e alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino in Francia. Rivoluzioni che interessarono soprattutto l’assetto politico e culturale

delle varie nazioni, andando ad alimentare il crollo di un’epoca ritenuta ormai sempre più obsoleta, conosciuta con il nome di Ancien Régime. Il Settecento fu, però, anche il “secolo dei lumi”, espressione che, ancora una volta, mette in risalto un’evidente volontà di rottura col passato: l’Illuminismo, infatti, come movimento politico, sociale, filosofico e culturale, vide gli intellettuali dei nuovi stati emergenti proporsi di liberare il genere umano da secoli e secoli di oscurantismo religioso e tirannia monarchica. L’innovazione e la voglia di cambiare abbracciarono tutti i campi, tanto che, in ambito artistico, si incominciarono ad abbandonare lo sfarzo e l’eccessivo decorativismo che avevano dominato il Seicento, in favore di uno stile più “pulito” e austero, modulato sul gusto degli antichi; in letteratura, gli scrittori iniziarono a seguire le “regole” della pittura, dedicandosi ad una scrittura più sobria e diretta, vicina alle opere di Omero e Dante; in un secolo così

(9)

2

complesso e travagliato, ci fu chi scelse la via della poesia, del canto disilluso e spensierato di pastori mitici e muse innamorate e chi, invece, preferì la via del “forte sentire”, dei versi e della prosa dura e spezzata, del gesto e della rappresentazione sublime, delle parole rivoluzionarie. Fu proprio nel “vil secol” per eccellenza che si trovò a vivere e a comporre l’Alfieri, un autore che meglio non avrebbe potuto rappresentare un’epoca così instabile e tormentata come fu il Settecento.

(10)

3

Alfieri e il suo tempo

I.I Dal Rococò al Neoclassicismo: il panorama artistico-culturale al tempo dell’Alfieri

Nel 1749, anno della nascita di Vittorio Alfieri, nel panorama artistico europeo si delineò una nuova concezione dell’arte, lontana anni luce da quella che aveva dominato la scena culturale sino a quel momento. Dalla prima metà del Settecento, in Francia ma anche in gran parte d’Europa, si sviluppò il Rococò, uno stile ornamentale venuto alla luce come evoluzione del Barocco. Alcuni dei suoi tratti fondamentali, come la sfarzosità delle forme, l’eccessivo decorativismo o l’estrema cura per il particolare, sono tutti elementi riscontrabili nell’architettura, nella moda e nell’oggettistica nobiliare del tempo. Si pensi alla Reggia di Versailles e a come influenzò la struttura dei palazzi aristocratici europei della prima metà del secolo; o ancora, all’Hôtel de Soubise che, nel 1736, venne ristrutturato da Germain Boffrand per la famiglia De Soubise. Sebbene il Rococò si diffuse ampiamente nella moda e nei gusti dell’aristocrazia primo-settecentesca, pian piano andò scomparendo in tutta Europa, venendo sempre più associato all’Ancien Régime; per questo, lasciò il posto ad un movimento artistico e culturale che, secondo gli intellettuali, meglio si addiceva al nuovo clima di cambiamento e innovazione dell’epoca: il Neoclassicismo. Individuare la causa di questo fenomeno nell’avvento di una nuova “età borghese”, e ridurre il tutto al binomio aristocrazia/Rococò-borghesia/Neoclassicismo, sarebbe cosa troppo banale. Quel che è certo, però, è che tutti i suoi aspetti possono essere facilmente ricollegabili ad una sfera d’azione propriamente aristocratica: lo sfarzo, il lusso, lo charme sono tutti elementi che, inevitabilmente, avvalorano la tesi del dualismo appena illustrato. Non per niente l’avvento del Neoclassicismo andò di pari passo con la volontà, da parte degli intellettuali illuministi, della creazione di un “nuovo mondo”. Hugh Honour, nel suo saggio Neoclassicismo, afferma infatti che non si trattò solamente di un mutamento di moda ma «di un rifiuto radicale come quello dei filosofi e diverso, dalla maggior parte dei mutamenti di stile avvenuti precedentemente nella storia dell’arte, per la sua consapevolezza3». Temi

come il ritorno al primitivo, la supremazia della ragione e l’uguaglianza tra gli uomini furono capisaldi tanto dell’Illuminismo quanto del Neoclassicismo. E, ancora, punti di contatto il Neoclassicismo ne ebbe anche con lo spirito della Rivoluzione Francese, come nota ancora una volta Honour, prendendo in esame le parole del filosofo britannico Isaiah Berlin:

(11)

4 La Rivoluzione si propose la creazione e la restaurazione di una società stabile e armoniosa, fondata su principî immutabili: un sogno di perfezione classica, o almeno quanto più di vicino a esso si potesse realizzare sulla terra. Essa predicava un universalismo pacifico e un umanitarismo razionale4.

Honour, citando Berlin, invita il lettore a sostituire la parola «società» a quella di «arte», per avere ben chiara l’analogia di rivoluzione politica/rivoluzione artistica (o più precisamente di Rivoluzione Francese/ Rivoluzione Neoclassica). Oltretutto, nel primo Settecento, il Neoclassicismo si era diffuso con il nome di

Vero Stile, a rimarcare ancora una volta l’opposizione con il passato (caratterizzato evidentemente da un falso stile) e l’idea rivoluzionaria di risorgimento delle arti. Convinzioni che portarono Winckelmann a incoraggiare

i pittori a “intingere il loro pennello nell’intelletto”, piuttosto che nel colore. Partì proprio da qui la necessità di ridisegnare la figura dell’artista e il suo ruolo all’interno della società che, sino a quel momento, era stato visto come un semplice artigiano, in balìa dei capricci del proprio committente (lo stesso Alfieri condannerà la sottomissione di certi intellettuali, specialmente nelle sue Satire). Ed è così che lo sfarzo e la brillantezza della pittura rococò lasciarono il posto ai contorni decisi e più fermi del Neoclassicismo. In Francia, dopo la morte di Luigi XIV, che aveva fatto dell’arte uno strumento utile alla sola decorazione di interni per gli spazi della Corona, fu lo zio di Madame de Pompadour, Lenormant de Tournehem, nominato Directur Général des

Bâtiments du Roi, a rinnovare i vecchi dettami del mecenatismo ufficiale. Nel 1748 inaugurò una nuova Ecole Royale affinché i giovani artisti possedessero una più vasta cultura generale, incentrata specialmente sul

recupero della storia antica: vennero riportati alla luce, tra molti, autori come Livio e Tacito. Un vero e proprio “culto degli antichi” iniziò, così, a prendere sempre più piede nella nuova concezione artistica primo-settecentesca e la voglia di trasmettere questa rinnovata visione dell’arte ebbe come diretta conseguenza la produzione di una miriade di testi di teoria, primi tra tutti quelli del Winckelmann e del Mengs. Ed è proprio di quest’ultimo una delle opere pittoriche più significative del movimento neoclassico, una sorta di vero e proprio manifesto illustrato. Il Parnasus5 di Mengs (fig. 1), infatti, rispetta icasticamente i punti fondamentali

della pittura neoclassica: il dipinto non presenta particolari effetti coloristici o un decorativismo eccessivo, non è strutturato secondo una composizione intrecciata, è privo di oscure fughe in profondità. Tutti elementi che, invece, avevano avuto la meglio nell’arte barocca e rococò.

4 Ivi, p. 4.

5 Un’ipotesi abbastanza accreditata e riportata anche da Honour nel suo saggio Neoclassicismo è che l’opera di Mengs

(12)

5 Fig. 1, A. R. Mengs, Parnasus, 1761, olio su tavola, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.

Per opere pittoriche ancor più vicine al sogno di perfezione classica bisognerà, però, aspettare David; furono proprio gli anni Ottanta del Settecento, infatti, ad essere caratterizzati da una miriade di capolavori, generati dal fervore creativo proprio di quel periodo. Il capolavoro neoclassico per eccellenza, a detta dei critici e degli storici dell’arte, è Il Giuramento degli Orazi (fig. 2) di Jaques Louis David, episodio che l’autore recuperò dalla storia di Livio. Momento scelto dall’artista per il suo lavoro è l’istante in cui i fratelli prestano giuramento, un vero e proprio atto di sacrificio per la patria ad opera di giovani guerrieri romani. David avrebbe potuto scegliere di soffermarsi su un altro episodio della vicenda, sicuramente più ricco di pathos e suspense, ovvero il rientro dell’unico degli Orazi a Roma.Il fatto di aver scelto proprio il giuramento sottolinea, ancora una volta, la volontà degli artisti neoclassici di mettere in rilievo gli antichi valori dell’età classica, ormai sempre più attuali nei messaggi degli intellettuali contemporanei. E fu proprio lo stesso David a sottolineare l’importanza delle passioni dei personaggi nei suoi quadri.

(13)

6 Fig. 2, J. L. David, Il giuramento degli Orazi, 1784, olio su tela, Museo del Louvre, Parigi.

È importante ricordare che un anno prima della nascita dell’Alfieri, nel 1748, venne riportata alla luce la città di Pompei. Grazie agli scavi dell’ingegnere Roque Joaquín de Alcubierre, nell’iniziativa archeologica incoraggiata dalla dinastia dei Borboni, in seguito alla sensazionale scoperta di Ercolano avvenuta dieci anni prima, un’altra città antica vide la luce. C’è da dire, però, che in molta manualistica e saggistica storica ma anche letteraria e artistica, le scoperte di Pompei ed Ercolano vengono presentate, erroneamente, come le cause scatenanti la riscoperta del sentimento antico e, quindi, del sorgere del movimento neoclassico. Ricondurre solamente a queste due scoperte la genesi di una corrente artistica tanto complessa e articolata quale fu il Neoclassicismo, in un momento storico altrettanto intricato come la seconda metà del Settecento, mi sembra cosa assai limitante. Nonostante questo, indubbiamente, i due ritrovamenti alimentarono la volontà d’interesse e di riscoperta legati al contesto neoclassico; buona parte della letteratura del primo Settecento, infatti, fu occupata da una lunghissima polemica riguardo i meriti dell’architettura greca e di quella romana. Famosissima è la diatriba tra Giovanni Battista Piranesi e Johann Joachim Winckelmann, che vide proprio in questo ultimo un forte sostenitore della supremazia dell’arte greca. Winckelmann fu il primo ad applicare un metodo storico allo studio delle opere artistiche

,

illustrando come la storiaproceda per cicli di crescita e di declino. La storia dell’arte antica è, secondo il critico, un processo organicoscandito da quattro periodi, ognuno con un proprio stile: quello primitivo o arcaico (avanti Fidia),quello sublime o grandioso (di Fidia e dei suoi contemporanei), quello del bello (di Prassitele e di Lisippo) e quello del lungo stile di imitazione (fino alla caduta dell’Impero Romano, nel 476 d.C.)

.

Questo ciclo si ripete poi, ad esempio, nel Rinascimento (gli artisti prima di Raffello sono gli arcaici, Raffaello e Michelangelo sono i sublimi, Correggio è bello e i maestri successivi sono

imitativi). Per motivare la superiorità dell’arte greca, inoltre, Winckelmann elaborò l’idea di influenza del clima o dell’ambiente sul divenire umano: secondo il critico i Greci furono «la razza più bella mai esistita»

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7

anche il clima politico contribuì a rendere i Greci la popolazione perfetta, a causa della libertà che «aveva sempre avuto la sua sede in questo paese, anche accanto ai troni dei re». Per contro, nella sua visione, gli Egizi coi «piedi piatti, un clima nocivo e politico fondato sul dispotismo» erano incapaci di rappresentare la figura umana perfetta6. Chiaramente, oltre alla continua disputa di carattere storico-artistico, portata avanti dagli

storici dell’arte, venne riportata alla luce anche moltissima letteratura classica e, soprattutto, venne riscoperta l’importanza di Omero; lasciato da parte nei secoli precedenti, per far spazio ad altri padri della letteratura, quali Dante e Shakespeare, nella seconda metà del Settecento divenne protagonista di un’importante rivalutazione critica, che portò le sue opere ad essere tra le più lette e consultate di quel periodo. Alfieri, dunque, nacque in un clima completamente dinamico, pieno di rinascite, scoperte e caratterizzato da una forte valutazione critica dei secoli precedenti. Si ritrovò, nel giro di poco tempo, ad essere ancora un aristocratico dell’Ancien Régime, accezione che trovava sempre meno posto nel mondo a lui contemporaneo. Nonostante questo, grazie alla sua genialità e alla sua lungimiranza, fu uno degli artisti più grandi e importanti dell’epoca, seppur con tutta la sua irrequietezza e insoddisfazione, tipiche di un secolo tanto complesso quale fu il XVIII.

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8

I. II Vittorio Alfieri e lo Stato Sabaudo

Il Conte Vittorio Amedeo Alfieri nacque il 16 gennaio del 1749 ad Asti, in Piemonte, da «nobili, agiati e onesti parenti7», come ci ricorda lui stesso nella Vita. Aspetto primario per comprendere a pieno l’indole e la

complessità di quello che sarà uno dei più grandi autori del panorama letterario italiano, è l’analisi del contesto politico, economico e sociale piemontese della seconda metà del XVIII secolo, unita allo studio dell’Alfieri in quanto “soggetto” di tutta una serie di eventi e situazioni propri di quel periodo. Appartenendo alla classe nobiliare, Vittorio trascorse l’infanzia a Palazzo Alfieri, dimora di famiglia, affiancato da un precettore «ignorantuccio8» che gli insegnò i primi rudimenti delle lettere. All’età di dieci anni si spostò nell’Accademia

Reale di Torino, luogo di vitale importanza per la sua educazione. L’«Epoca Seconda» della Vita si apre proprio con l’arrivo dell’astigiano a Torino ed è qui che incominciò il periodo dell’adolescenza in accademia. La percezione dello Stato Sabaudo, dunque, fu per il Nostro di tipo urbano e Torino ne era la capitale, sede della corte e delle istituzioni centrali di governo ma anche una tra le città più popolate ed estese del Piemonte. Nella seconda metà del Settecento, infatti, Torino crebbe in dimensioni, popolazione e importanza, divenendo la degna sede di una monarchia, quella dei Savoia, che puntava a ottenere un ruolo sempre più importante nel panorama politico ed economico europeo. Certamente, il rapido sviluppo della città fu in larga misura determinato da una massiccia immigrazione che aveva impoverito altri centri cittadini piemontesi, privandoli del fior fiore della nobiltà e di un attivo ceto medio fatto di professionisti, mercanti e artigiani; ma l’attrazione esercitata dalla capitale ebbe anche ricadute positive sulla miriade di uomini e di donne provenienti dalle aree rurali, che trovarono nella capitale opportunità di lavoro, di promozione sociale e spazi di formazione come le accademie e l’università. Ed è proprio in questo clima di crescente ambizione economica e sociale che l’Alfieri intraprese i suoi primi studi in accademia, venendo a contatto con moltissimi studenti stranieri che suscitarono in lui quella fortissima smania di viaggiare, che lo accompagnerà per tutta la vita. L’appartenenza al ceto nobiliare, però, non fu sempre cosa facile per l’Alfieri: chiaramente, interiorizzò determinati modelli di cultura e tradizione aristocratica e questo ebbe come diretta conseguenza una notevole difficoltà ad inserirsi nei meccanismi amministrativi, politici e militari sabaudi. Nel maggio 1766, non concludendo gli studi, entrò nell’esercito come «porta-insegna» nel Reggimento Provinciale d’Asti e non nella cavalleria come aveva pensato in un primo momento. Questo cambio di rotta avvenne in virtù del fatto che (ce lo dice lo stesso autore nella Vita) la voglia di prestare servizio militare era piuttosto ridotta e i doveri di un porta-insegna assai limitati. Particolarmente in questa occasione, emerge l’indole aristocratica e indomita dell’Alfieri:

7 V. Alfieri, Vita, I, 1, Milano, Garzanti Libri, 2000, cit., p. 7. 8 Ivi, I, 2, p. 11.

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9 Bisognò pure ch’io m’adattassi, e nel corrente di quel maggio lasciai l’Accademia, dopo esservi stato quasi ott’anni. E nel settembre mi presentai alla prima rassegna del mio reggimento in Asti, dove compiei esattissimamente ogni dovere del mio impieguccio, aborrendolo; e non mi potendo assolutamente adattare a quella catena di dipendenze gradate, che si chiama subordinazione; ed è veramente l’anima della disciplina militare9 […].

La tendenza all’insubordinazione e all’incapacità di sottostare ad un potere assolutistico fu prerogativa di tutta l’esistenza dell’Alfieri, tanto che la maggior parte delle sue opere trae spunto proprio da questo aspetto. Celebre è il caso dei trattati Della Tirannide e Del Principe e delle lettere o, ancora, di alcune satire, prima tra tutte I

Re («per far ottimo un Re, convien disfarlo»). E sembrerebbe a primo impatto una contraddizione il fatto che

un nobile aristocratico si scagli con tanta violenza contro il ceto di cui lui stesso fa parte; in realtà, l’Alfieri nel 1778 passò ai fatti, tanto che nella Vita scrive:

Mi erano sempre oltre modo pesate e spiaciute le catene della mia natìa servitù […]; non dubitai punto, ciò visto, di lavorare con la maggior pertinacia ed ardore all’importante opera di spiemontizzarmi per quanto fosse possibile; ed a lasciare per sempre, ed anche a qualunque costo il mio mal sortito nido natio […]. Io dunque prescelsi di essere autore. E, nemicissimo com’io era d’ogni sotterfugio ed indugio, presi per disvassallarmi la più corta e la più piana via, di fare una interissima donazione in vita d’ogni mio stabile sì infeudato che libero (e questo era più che i due terzi del tutto) al mio erede naturale, che era la mia sorella Giulia, maritata come dissi col conte di Cumiana10.

L’Alfieri scelse, dunque, di «spiemontizzarsi» e lasciare i suoi possedimenti, ereditati dalla famiglia, alla sorella Giulia, riservandosi un vitalizio annuo, contento di aver comprato con quest’iniziativa «l’indipendenza della sua opinione e la libertà dello scrivere». Il rifiuto di divenire un suddito del re si concretizzò nella volontà di far parte di una sorta di koinè ristretta di uomini di cultura, sapienti e intellettuali; desiderio che restò vivo sino allo scoppio della Rivoluzione e che vide il Nostro schierarsi dalla parte dei rivoluzionari prima e spostarsi verso ideali antirivoluzionari poi. Si è a lungo discusso sull’evidente mutamento di pensiero che caratterizzò l’Alfieri post-rivoluzionario, insistendo sul fatto che si tratti di una forte contraddizione. Mi sembra, invece, che di contraddittorio ci sia ben poco: un intellettuale così tanto coinvolto nella lotta al dispotismo e all’assolutismo monarchico non poteva che accogliere a braccia aperte un evento tanto straordinario come la Rivoluzione; il fatto che, poi, questa si sia trasformata in una sommossa caotica e disorganizzata, sfociata in uno spettacolo sanguinoso e teso all’eliminazione dell’aristocrazia in toto, portò inevitabilmente l’Alfieri a rivedere le proprie convinzioni, non tanto contraddicendosi, ma portando il proprio pensiero ad uno stadio successivo. Credo che il processo mentale dell’autore non debba essere considerato secondo un’inversione di rotta ma, anzi, come una presa di coscienza di quello che la storia stava suggerendogli.

9 Ivi, II, 10, p. 58. 10 Ivi, IV, 6, pp. 182-185.

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10

L’Alfieri non tornò mai ad appoggiare la monarchia ma continuò a schierarsi contro gli estremismi, contro quella rivoluzione che era divenuta una nuova forma di tirannide. Una cosa, però, è certa: negli anni che seguirono la “spiemontizzazione” l’Alfieri dedicò corpo e anima alle lettere, stringendo amicizie e rapporti con intellettuali di ogni specie, anche artisti. Il bisogno di contatto e di rassicurazione che emerge dagli scambi epistolari dell’autore, con figure quali Tommaso Valperga da Caluso o Francesco Gori Gandellini (per citarne alcuni), ci fa capire quanto l’Alfieri sentisse la necessità di un continuo confronto di opinioni e pareri riguardo il proprio lavoro. È quella volontà, di cui si è già parlato in precedenza, di far parte di un gruppo, di una realtà ben definita, che si concretizzò nelle società segrete prima e nei salotti letterari poi. Indubbiamente questi contatti furono prolifici per l’Alfieri, tanto che seppe cogliere gli spunti preziosi che gli vennero trasmessi, disseminandoli qua e là, all’interno delle proprie opere.

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I.III L’ “arte trasmessa”: luoghi e figure di rilievo nell’esperienza artistica dell’Alfieri

I. III.I Spiritualità e pittura: Tommaso Valperga da Caluso

Come già accennato nel paragrafo precedente, le amicizie di Vittorio Alfieri furono molto importanti per la sua formazione. Nel 1772, a Lisbona, fece la conoscenza di Tommaso Valperga da Caluso, filosofo, astronomo, matematico e fisico di grande erudizione. Fratello minore di Carlo Francesco II di Valperga conte di Masino, ambasciatore del Regno di Sardegna in Portogallo, l’abate da Caluso piacque subito all’Alfieri:

Quest’uomo, raro per l’indole, i costumi e la dottrina, mi rendè delizioso codesto soggiorno, a segno che, oltre al vederlo per lo più ogni mattina a pranzo dal fratello, anche le lunghe serate dell’inverno io preferiva pure di passarmele intere da solo a solo con lui, piuttosto che correre attorno pe’ divertimenti sciocchissimi del gran mondo. Con esso io imparava sempre qualche cosa, e tanta era la di lui bontà e tolleranza, che egli sapea per così dire alleggerirmi la vergogna ed il peso della mia ignoranza estrema, la quale tanto più fastidiosa e stomachevole gli dovea pur comparire, quanto maggiore ed immenso era in esso il sapere11.

Caluso si configurò immediatamente nell’immaginario alfieriano come una sorta di guida spirituale, «un Montaigne vivo12», un magister che seppe rasserenare la vita dell’autore, durante un viaggio che altrimenti

non avrebbe avuto nulla da offrire. I due non si rividero sino al 1776, anno in cui l’abate arrivò a Torino, per poi lasciarsi nuovamente e ritrovarsi a Firenze nel 1802. In quest’ultima occasione l’Alfieri si trovò impossibilitato a godere pienamente della presenza dell’amico, costretto a rimanere nella propria camera da letto per malattia. Nonostante ciò, riuscì a fargli analizzare diversi lavori, quali le satire, le traduzioni da Terenzio e da Virgilio ma, soprattutto, quelle dal greco, che Caluso riconobbe subito come ottime e postillò con alcuni consigli preziosi. Il sodalizio tra i due può essere ancor più messo in luce da una corrispondenza artistica che ebbe inizio nel 1797, anno in cui l’Alfieri regalò all’abate il dipinto realizzato da François-Xavier Fabre, opera in cui compare insieme alla compagna Luisa Stolberg contessa d’Albany (fig. 3). Nel 1802, in occasione dell’arrivo di Caluso a Firenze, l’Alfieri commissionò un secondo dipinto a Fabre, stavolta raffigurante lo stesso abate in prima persona (fig. 5). Se pur a distanza di sei anni l’uno dall’altro, i due dipinti devono essere letti come un dittico, aspetto brillantemente suggerito da Guido Santato13. L’Alfieri scelse di

affidare alle doti artistiche di Fabre la concretizzazione del rapporto di amicizia intellettuale e di intimità spirituale che da sempre lo aveva legato a Caluso. I due quadri sono intessuti di una fittissima rete di rimandi e corrispondenze iconografiche, tanto da presentare diversi elementi in comune che favoriscono «un’unitaria

11 V. Alfieri, Vita, III, 12, Milano, Garzanti Libri, 2000, p. 129. 12 Ivi, p. 130.

13 Cfr. G. Santato, Alfieri e Caluso, in Alfieri e il suo tempo: atti del Convegno internazionale, a cura di Marco Cerruti,

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e speculare corrispondenza ritrattistica14». Nel primo quadro (fig. 3), spiega Santato, Vittorio Alfieri e la

contessa d’Albany sono seduti ad un tavolo, in posizione quasi del tutto simmetrica rispetto allo spazio del dipinto. L’immagine della donna risulta essere incorniciata da una sorta di bianco candore, dovuto alla cuffia e alla veste che indossa; la figura del conte, invece, appare più netta e decisa e il suo volto viene messo in risalto, per contrasto del bianco della camicia, dal rosso scarlatto del risvolto della giacca. Il paesaggio che si intravede alle spalle dei due è uno scorcio di Firenze (si possono distinguere il campanile di Giotto e la cupola di Santa Maria del Fiore). Ma ciò che risulta essere ancor più interessante sono i carteggi che compaiono sul tavolo: l’Alfieri tiene sotto la sua mano sinistra una raccolta di versi dello stesso Caluso, l’Omaggio poetico

alla Serenissima Altezza di Giuseppina Teresa di Lorena Principessa di Carignano, opera dedicata, appunto,

a Giuseppina Lorena, nonna di Carlo Alberto di Savoia, amica persa durante gli orrori della Rivoluzione Francese. Il testo è aperto non casualmente all’inizio del terzo canto, La ragione felice, in cui l’autore analizza il possibile rapporto felice tra Ragione e Natura (interessante notare come il foglio risulti essere non a stampa ma manoscritto, riproducendo fedelmente la stessa grafia di Caluso). Sulla parte opposta del tavolo, a destra, compaiono due volumi, uno riconoscibile, ovvero gli Essais di Montaigne, chiaro omaggio a quel «Montaigne vivo» già ricordato sopra; l’altro, non essendo dalla parte del dorso, non può essere identificato. Sotto i due libri compare, poi, una lettera inviata dallo stesso Caluso all’Alfieri, in cui è possibile leggere: «Al Nobil Uomo / Il Sig. Conte Vittorio Alfieri/ Firenze», a testimonianza del fitto rapporto epistolare tra i due, concetto ulteriormente rafforzato dal materiale scrittorio nelle vicinanze. A questa lettera, continua Santato, corrisponde quella che la contessa tiene tra le mani (fig. 4) dove, sul verso del foglio, si legge un indirizzo scritto con una grafia che riproduce quella dello stesso Alfieri: «Al Nobil Uomo / Il Sign.r Abate Tommaso / di Caluso. Segretario della / Reale Accademia delle Scienze. / Torino» e ancora «poiché il Destino ci vuol pur divisi, / De’ duo cui stai sculto perenne in petto / Abbiti almen, Tommaso Egregio, i visi»; infine, in calce, compaiono la firma e la data.

Fig. 3, F. X. Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri e Louise Stolberg d’Albany, 1796, olio su tela, Museo Civico d’Arte Antica- Palazzo Madama, Torino.

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13 Fig. 4, F. X. Fabre, Ritratto di Vittorio Alfieri e Louise Stolberg d’Albany, particolare, 1796, olio su tela, Museo Civico d’Arte Antica- Palazzo Madama, Torino.

Il 13 settembre del 1797 l’abate inviò una lettera al conte per ringraziarlo del dipinto di Fabre del ‘96; i primi versi contenuti nella lettera ricalcavano quelli alfieriani: «Poiché il Destino ci vuol pur divisi, / Fie guardarvi dipinti il mio diletto: /Benché quanto più miro i pinti visi, / Più mi punge il desio del vero aspetto, / E più dispero giorni appien felici / Lunge da tali amici15». L’abate rimase immensamente colpito dal dipinto e decise

di collocarlo immediatamente nella propria stanza. In un’altra lettera del 12 novembre 1802, Alfieri, riferendosi al ritratto, scrisse a Caluso:

Il vostro ritratto è riuscito ottimo sopra ogni altro che abbia fatto Fabre finora; l'ho collocato nella mia stanza da letto in faccia all'uscio che va nella biblioteca e pende fra i busti di Euripide e Sofocle disegnati dalla Sig[no]ra, e stando io in letto vi vedo; e voi mi guardate: e mi date non poca soggezione quando io sto schiccherando le mie noterelle greche su l’Omero, ed i tragici. Mi pare un sogno, che voi siate stato qui, e tra il poco tempo che ci siete stato, e la mia impotenza corporale e mentale in tutto il tempo che ci foste, non mi tengo niente soddisfatto di questa visita; onde o a cose migliorate, o definitivamente stabilmente peggiorate, vi richiederemo un altro par di mesi, ma con quiete, senza furia di partire bene, e col vanto nostro che ci siate venuto veramente apposta per noi16.

Il fatto che l’Alfieri decise di collocare il ritratto dell’amico nella propria stanza da letto è quanto di più simbolico si riesca ad immaginare: è come se il dipinto concretizzasse la presenza dell’abate, come se il soggetto non fosse solamente rappresentato sulla tela ma stesse lì in carne ed ossa. Ed ecco che allora quella presenza si veste di tutta una serie di rimandi simbolici e il «ritratto diviene immagine e specchio: anima una dialettica dello sguardo che va ben al di là della funzione rammemorante: “io in letto vi vedo e voi mi

15 T. V. Di Caluso, Lettere dell’Abate Tommaso Valperga di Caluso a Vittorio Alfieri, cit., p. 514. 16 V. Alfieri, Epistolario, III, pp. 147-148.

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guardate”17 ». L’abate da Caluso, nel suo ritratto, tiene in mano l’edizione Didot delle Tragedie alfieriane,

aperto in due punti tra i versi conclusivi del Don Garzia e la dedica del Saul. Sotto il volume è posta una lettera indirizzata a «Madame/ Comtesse d’Albany/ Princesse de Stolberg/ Florence» (chiaro il parallelismo iconografico nei confronti del precedente ritratto). Compare anche una lente, fondamentale per chi passa tempo a tradurre testi in ebraico o greco (l’abate conosceva queste lingue e le traduceva). Sullo sfondo una ricca biblioteca, luogo perfetto per un erudito del calibro di Caluso. Tra gli scaffali sono presenti diversi volumi e, tra questi, ne sono riconoscibili alcuni: il Tomo VI dell’edizione Didot delle Tragedie alfieriane, il Corano (titolo in caratteri arabi), l’edizione della Cantica e del Salmo XVII tradotti da Caluso, il poemetto Masino, Il

paradiso perduto, la Bibbia e l’Eneide. Diventa evidente, a questo punto, come tra i due quadri si venga a

creare un fitto gioco di specchi e di rimandi, «intesi a fissare l’immagine di un’esemplare unione di spiriti che si realizza attraverso i libri18». Non per niente, i due leggono rispettivamente l’uno un testo dell’altro. Ecco

che la scrittura, dunque, ha la meglio sull’immagine, il dipinto diviene solo il mezzo che mette in luce il vero e proprio punto di incontro tra i due: la letteratura, la scrittura, la parola. E anche il gesto assume una valenza importante: se ci soffermiamo sulle mani di Caluso, così gentili e distese nell’atto di sorreggere un libro, diviene palese una chiara comunione con l’oggetto, trasformatosi in una sorta di feticcio. Accade lo stesso anche in Alfieri, a simboleggiare una vera e propria unione di vita e opera. I volti si distendono, si fanno pacati, sereni e l’unione di queste due anime affini è finalmente completa.

Fig. 5, F. X. Fabre, Ritratto dell’abate Tommaso Valperga di Caluso, 1802, olio su tela, Museo Civico d’Arte Antica- Palazzo Madama, Torino.

17 G. Santato, Alfieri e Caluso, in Alfieri e il suo tempo: atti del Convegno internazionale, a cura di Marco Cerruti,

Maria Corsi, Bianca Danna, Asti, 29 novembre-1 dicembre 2001, Leo S. Olschki, 2003, cit., p. 261.

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I. III.II Vittorio Alfieri «pittor-poeta»: il carteggio con Ranieri de’ Calzabigi

Negli anni Ottanta l’Alfieri conobbe il poeta Ranieri de’ Calzabigi, l’unico che lo rassicurò di aver posto il teatro italiano sullo stesso piano di quello francese. Riguardo il letterato livornese, l’autore della Vita scrive:

Mentr’io stava quasi per finire la stampa19, ricevei dal Calsabigi di Napoli una lunghissima lettera, piena zeppa di citazioni

in tutte le lingue, ma bastantemente ragionata, su le mie prime quattro tragedie. Immediatamente, ricevutala, mi posi a rispondergli, sì perché quello scritto mi pareva essere stato fin allora il solo che uscisse da una mente sanamente critica e giusta ed illuminata […]20.

Nel 1783, dunque, l’Alfieri ricevette una lettera dal Calzabigi21 che, addentrandosi nei meandri delle tragedie

alfieriane, si inserì con le sue riflessioni in quel dibattito sulla riforma della drammaturgia che aveva preso piede dagli inizi del XVIII secolo. Tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, infatti, cominciò a cambiare qualcosa nel mondo del teatro: il pubblico iniziò a non essere più lo stesso, costituito principalmente dalla classe borghese. Fu Luigi Riccoboni, comico dell’Arte, a proporre una riforma che tenesse conto di questo cambiamento di gusto: tentò, con il suo teatro, di abbandonare quell’evasione nel meraviglioso fiabesco e nel fantastico, che tanto aveva caratterizzato il secolo precedente, per introdurre pian piano una forma di naturalismo basato su personaggi simili a quelli che si potevano incontrare nella vita di ogni giorno. E, seguendo proprio questa strada, Carlo Goldoni portò per primo a compimento questo progetto, inaugurando quel periodo di riforma teatrale che verrà ricordato proprio con il nome di “riforma goldoniana”. I teatri, che sino a quel momento avevano messo in scena per lo più balletti e melodrammi, iniziarono a inserire nei propri programmi commedie e tragedie. I principali cambiamenti interessarono la sfera emotiva della rappresentazione: secondo Riccoboni, infatti, lo spettatore, per essere completamente coinvolto, doveva potersi rispecchiare e immedesimare nei personaggi, aspetto possibile solamente con soggetti realistici e non più con le maschere. Chi, invece, non si trovò per niente d’accordo con la visione teatrale riccoboniana fu Carlo Gozzi che, dopo essersi scagliato a lungo anche contro la nuova drammaturgia goldoniana, si fece sostenitore della ormai passata Commedia dell’Arte. In questo dibattito si inserì l’Alfieri che, a differenza di Goldoni, interpretò in maniera lievemente differente le sorti del teatro: anziché dare al pubblico ciò che voleva, inseguì un proprio ideale artistico, scelta dovuta al fatto che si misurò per lo più con il campo della tragedia. Inoltre, poiché l’Alfieri oramai mostrava la crisi profonda cui la tragedia stava andando in contro, metteva in scena per lo più la “morte” del genere tragico stesso, sconvolgendo e stupendo un pubblico ancora legato ad un concetto tradizionale del tragico.

19 L’Alfieri si riferisce alla stampa delle sei tragedie Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone e Merope,

avvenuta a Siena nel 1783. Queste si andarono ad aggiungere alle precedenti quattro Filippo, Polinice, Antigone e

Virginia, già stampate a Siena qualche mese prima da Vincenzo Pazzini Carli. 20 V. Alfieri, Vita¸ IV, 11, Milano, Garzanti Libri, 2000, pp. 217-218.

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E questo ebbe come diretta conseguenza una spaccatura all’interno del pubblico alfieriano: c’era chi, da una parte, gridava all’innovazione e al genio, chi, dall’altra (ed era la stragrande maggioranza) rimaneva turbata e scossa da così tanto stravolgimento. Fu proprio con il Saul che l’Alfieri concretizzò a pieno questa poetica: il protagonista, infatti, non incarna più l’eroe tragico tradizionale, quanto piuttosto la crisi dell’individualismo eroico, mostrando la contraddizione di un vecchio ideale vagheggiato e la sua impossibilità di attuarsi nel mondo contemporaneo. È in questo scenario che, dunque, si colloca la lettera del Calzabigi, che decise di impostare l’intero discorso sul rapporto tra arte e drammaturgia. Il livornese era piuttosto convinto che l’analogia tra le due potesse essere perseguita facilmente e che le due fossero collegate tra loro secondo legami importanti, certamente nascosti e, quindi, da riportare alla luce:

Quando mi torna in mente il celebre detto di Orazio

ut pictura, poesis

mi compiaccio in credere che sia più significante e misterioso, di quello che comunemente si pensa: parmi che, a guisa d’un oracolo, gran cose racchiuda, e che molto sia necessario meditarci sopra per interpretarlo22.

Qualche riga più sotto, l’illustrazione della stretta connessione e interdipendenza tra sfera artistico-pittorica e scena tragica:

Penso dunque, che la tragedia altro esser non deve, che una serie di quadri, i quali un soggetto tragico preso a trattare somministrar possa all’immaginazione, alla fantasia d’uno di quegli eccellenti pittori, che meriti andar distinto col nome, non troppo frequentemente concesso, di pittor-poeta. […] Supponendo adunque che a taluno di questi pittor-poeti eccellenti nella composizione, come Rubens, Giulio romano, Tintoretto, o altro emulo loro, fosse comandato da qualche sovrano di dipingere in ampia sala il sagrifizio d’Ifigenia: egli è chiaro, che questa a lui proposta istoria, o favola dovrebbe in diversi quadri distribuire: quadri che, esponendola dal suo principio, nella da lui ideata catastrofe, o scioglimento, andassero a terminarla. Immaginato il suo piano intiero, il pittore ne sceglierebbe le situazioni più pompose e interessanti, che al suo giudizio si presentassero. Ad ognuna di queste assegnerebbe uno de’ suoi quadri. In questi, io raffiguro gli atti di una tragedia. Quelle situazioni, che fossero più idonee a svelare i caratteri de’ personaggi introdotti, e le passioni che gli agitavano, e quelle che più movimento ad esse somministrassero, sicuramente dal pittor-poeta sarebbero preferite; perché queste situazioni appunto cagionano nello spettatore maggior diletto, curiosità, sorpresa, e interesse23.

22 R. De’ Calzabigi, Lettera di Ranieri de’Calsabigi all’autore sulle quattro sue prime tragedie, in V. Alfieri, Tragedie, Volume I, a cura di Nicola Bruscoli, Bari, Laterza, 1946.

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Calzabigi, dunque, decise di esaminare il soggetto pittorico del Sacrificio di Ifigenia, usato dai saggisti settecenteschi a paradigma del tragico.

Fig. 6, G. B. Tiepolo. Sacrificio di Ifigenia, 1757, affresco, Villa Valmarana “Ai Nani”, Vicenza.

L’ideale lavoro pittorico-drammaturgico del Calzabigi, perciò, non puntava più ad una “pittura” attenta agli aspetti emotivo-ragionativi. Per lui, l’apice dei fatti, avrebbe dovuto presentarsi pressappoco così:

[…] mentre all’ara, davanti alla statua di Diana, coronata di fiori e pallida e semiviva si vedrebbe prostrata la misera Ifigenia; mentre Clitennestra, dalle guardie fermata in distanza, sarebbe dipinta in attitudine di slanciarsi verso la figlia; mentre il fiero Calcante vibrar già si mirerebbe il sacro coltello: colla spada in mano il furibondo Achille dipinto sarebbe, afferrando la destra del sacerdote, e in punto di ucciderlo. I suoi Tessali da una parte si vedrebbero abbassar giù le aste; e le schiere greche, dall’altra, in figura di opporsi a loro. Agamennone, fra’ capitani greci, sarebbe dipinto col volto coperto. Ma Diana in nuvola, con una cerva a’ piedi, mostrerebbe scendere verso l’altare, soddisfatta dell’ubbidienza. In lontananza, sulla flotta ondeggerebbero le bandiere delle navi; gonfie sariano dipinte alcune spiegate vele, ed occupati alle sarte i marinari: contrassegni evidenti di esser placati gli Dei, assicurata la vita d’Ifigenia, contento Achille, calmati Agamennone e Clitennestra24 […].

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E indubbiamente il punto più alto della tragedia, quello più ricco di pathos, era per il Calzabigi quello della morte di Ifigenia per mano di Calcante. Solamente la pittura poteva essere in grado di rappresentarne la scena:

A prima vista si scopre che, in questi diversi quadri, tutto quel movimento che quella celebre favola prestar può all’immaginazione, compendiato si trova. Il pittore, che è poeta muto, non potendo far parlare i personaggi che introduce, è necessitato a farli agire. Qui niente ci astrae, né ci divaga. Tutto serve a rappresentarci le passioni di quegli eroi in quel solenne turbamento. A me sembra, che se una tal continuazione di quadri (che formano una dipinta tragedia) ben disegnata fosse, e arditamente e fieramente colorita da un primario pittore, desterebbe negli animi degli spettatori il terrore e la compassione, con maggior sentimento e maggiore energia e celerità, che una tragedia sullo stesso soggetto composta, o letta, o in teatro rappresentata. Se dietro questa mia idea anderà ella, signor Conte stimatissimo, esaminando le meglio disegnate tragedie che si conoscano, rileverà, credo, che vi si adattano maravigliosamente, e che tanto più vi si adattano quanto più sono meglio disegnate e sceneggiate. Anzi l’imperfezione di molte, penso che derivi dal non essere state maneggiate su questo meccanismo. Le tragedie son tanto più interessanti e più perfette, quanto son meno declamatorie, più in movimento, e più pittoresche: e però somministrano alla fantasia più ricche e più interessanti situazioni per la pittura25;

Un vero e proprio montaggio di sequenze, quasi cinematografico anacronisticamente parlando, costruito secondo un forte crescendo, sino al più alto momento di spannung. Questo stratagemma, come spiega il Calzabigi, è riconducibile ai peintures vivants di tradizione pantomimica:

I pantomimi (intendo parlare di quelli degli antichi) co’ gesti, co’ movimenti, colle attitudini, animavano le figure o i personaggi che imitavano; li caratterizzavano, e gradatamente di scena in scena li conducevano a collocarsi in que’ quadri o gruppi, co’ quali immaginavano piú far colpo sugli animi degli spettatori26.

E ancora:

[…] è difettoso ogni piano tragico, in cui troppo si ragiona, e poco si fa; che è d’uopo toglierne, per accostarsi alla perfezione dell’arte, gli ambiziosi ornamenti; e che fabbricandosi il piano medesimo, come una serie e continuazione di quadri, come ho proposto, (quadri che ristringeranno il discorso a quel poco indispensabile per caratterizzare i personaggi, e condurli in quella situazione pittoresca che ha da colpire, e efficacemente scuotere gli animi degli spettatori) si otterrà di fare d’ogni azione teatrale la miglior distribuzione; e la più viva, la piú interessante, la più animata, la più commovente tragedia, che far si possa27.

25 Ivi, pagine successive. 26 Op cit., pagine successive. 27 Ivi, pagine successive.

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19

Per il livornese chi ha pienamente applicato il principio della tragedia suddivisa in “quadri” è lo stesso Alfieri; addirittura, l’autore tragico avrebbe di gran lunga sorpassato niente meno che il tragediografo per eccellenza, William Shakespeare. Sarebbe riuscito a stendere versi tragici ancor più degni di lode di quelli del poeta inglese perché meno intessuti di aspetti fantastici e meravigliosi. La maggiore aderenza al vero lo fa «rassomigliare a Michelangelo», padrone di una pittura tanto realistica da sembrare viva; e, ancora, il suo verseggiare così intenso e duro lo accomuna al padre della letteratura italiana Dante Alighieri. Chiaramente a queste parole non tardò di rispondere l’Alfieri che, sebbene come già visto in precedenza ritenesse lo scritto del Calzabigi «il solo che uscisse da una mente sanamente critica e giusta ed illuminata», annotò nella sua lettera di risposta alcune precisazioni, mostrandosi talvolta in disaccordo con il suo interlocutore. Nella prima parte della lettera di risposta l’Alfieri si congratula con il Calzabigi per aver riconosciuto i meriti e i demeriti del teatro francese e inglese, aggiungendo una personale visione della tragedia:

La tragedia di cinque atti, pieni, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori, e non consultori o spettatori; la tragedia di un solo filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi; semplice per quanto uso d’arte il comporti; tetra e feroce, per quanto la natura lo soffra; calda quanto era in me; questa è la tragedia, che io, se non ho espressa, avrò forse accennata, o certamente almeno concepita28.

La genesi dell’inclinazione tragica viene inserita, secondo un tipico espediente dell’Alfieri autobiografico, in un contesto di auto-abbassamento ironico:

Ciò che mi mosse a scrivere da prima, fu la noia, e il tedio d’ogni cosa, misto a bollor di gioventú, desiderio di gloria, e necessità di occuparmi in qualche maniera, che più fosse confacente alla mia inclinazione. Da queste prime cagioni spogliate di sapere affatto, e quindi corredate di presunzione moltissima, nacque la mia prima tragedia, che ha per titolo Cleopatra29.

Da subito l’autore rinnega la paternità di un «mostro», quella Cleopatra che compose nel 1774, ammirando alcuni arazzi raffiguranti Antonio e la regina d’Egitto (dunque una genesi iconografica!) nella casa di Gabriella Falletti di Villafalletto.

28 V. Alfieri, Risposta dell’autore a Ranieri de’ Calzabigi, in V. Alfieri, Tragedie, Volume I, a cura di Nicola Bruscoli,

Bari, Laterza, 1946.

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Momento, però, alquanto importante se si considera che segnò l’agnizione di sé stesso come poeta tragico:

Da quella sfacciata mia imprudenza di essermi in meno di sei mesi, di giovane dissipatissimo ch’io era, trasfigurato in autor tragico, ne ricavai pure un bene; poiché contrassi col pubblico, e con me stesso, che era assai piú, un fortissimo impegno di tentare almeno di divenir tale. Da quel giorno in poi (che fu in Giugno del 75) volli, e volli sempre, e fortissimamente volli30.

La parte centrale della lettera si concentra sulla spiegazione e giustificazione delle scelte stilistiche adoperate nelle varie tragedie e commentate dal Calzabigi. Il momento più interessante arriva, però, quando l’Alfieri si sofferma sui concetti di armonia e chiarezza. Secondo l’astigiano l’armonia si presenta in tante forme: quella della lirica è la più musicale e suntuosa di tutte, in cui il poeta alletta le orecchie dell’ascoltatore con parole e immagini fluide e rotonde; segue, in linea musicale, l’epica cui «si adatta la tromba, suono piú gagliardo e meno armonioso della lira, ma suono pure, e canto31»; infine, ecco la tragedia:

Ma la Tragedia, signor Calsabigi stimatissimo, non canta fra i moderni; poco sappiamo se cantasse, e come cantasse fra gli antichi; e poco altresí importa il saperlo. Molto importa bensí il riflettere, che né i Greci, né i Latini non si sono serviti del verso epico né lirico dialogizzando in teatro, ma del jambo, diversissimo nell’armonia dall’esametro. Fatto si è, che strumento musicale alla tragedia non si è attribuito mai; che le nazioni, come la nostra e la inglese, che si senton lingua da poter far versi, che sian versi senza la rima, ne l’hanno interamente sbandita, come parte di canto assai piú che di recita: e aggiungasi, che ogni giorno si dice la tromba epica, la lira delfica, il coturno e pugnale della tragedia.

Dunque, la tragedia non deve avere armonia musicale; deve rifarsi allo stile epico ma senza averne il «canto continuato», deve disegnare immagini liriche ma senza abusarne. La lingua tragica non è poesia, è realtà. Alfieri altro non parla che di naturalismo, di mimesi e di realismo, per far sì che il pubblico seduto in platea (ovviamente quello più accorto) possa immergersi completamente in quel mondo che viene rappresentato sul palcoscenico. E per far ciò, ritiene che il mezzo più efficace sia proprio la distribuzione delle parole, aspetto che era stato fortemente criticato dal Calzabigi.

30 Ivi, pagine successive. 31 Ivi, pagine successive.

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Spiega l’Alfieri:

Nell’Antigone, atto terzo, verso 43, io ho fatto dire a Creonte contro l’uso della sintassi comune:

I’ lo tengo io finora Quel, che non vuoi tu, trono.

e questa è una delle piú ardite trasposizioni ch’io abbia usate. Ella può credere, che io sapea benissimo che si sarebbe più pianamente detto: Quel trono, che non vuoi. Pure nel recitare io stesso ben cinque sere questi due mezzi versi, sempre badai se ferivano gli orecchi del pubblico; e non li ferivano, ma bensí molta fierezza si rilevava in quel breve dir di Creonte: e nascea la fierezza in parte, se pure non in tutto, dalla trasposizione di quel trono, che pronunziato staccato con maestría dal tu, facea sí che tutta l’attenzione del pubblico, e del figlio minacciato, portasse su quella parola trono, che in quel periodetto era la sola importante. A me parve, ed ancor pare, che ci stia bene, non armonicamente, ma teatralmente; e vorrei lasciarvela finché ad altra qualunque recita accurata teatrale (se mai si fará), io sappia che il pubblico intero l’abbia replicatamente disapprovata per modo duro ed oscuro. Due versi di seguito che abbiano accenti sulla stessa sede, parole fluide, rotonde, e cantanti tutte, recitati in teatro generano cantilena immediatamente; e dalla cantilena l’inverisimiglianza, dalla inverisimiglianza la noja. Giudicar dunque dei versi tragici con l’armonia dei lirici negli orecchi rombante, non si può, o mal si può32.

Proprio in queste parole Alfieri condensa la sua riflessione riguardo l’interdipendenza tra pittura e poesia, tra rappresentazione scenica e letteratura. Se per Calzabigi le due arti erano in stretto contatto tra loro, se il concetto dell’ut pictura era sembrato al livornese applicabile in tutto e per tutto al contesto tragico, per l’Alfieri non è così. L’autore difende le proprie scelte stilistiche evidenziando i limiti dell’ideologia oraziana, nel momento in cui la si rapporta al linguaggio letterario e teatrale. Non è affatto necessario che lo scrivere tragico risulti chiaro e armonico come, invece, appare un’opera pittorica agli occhi dello spettatore. La chiarezza, l’immediatezza non sono qualità intrinseche e primarie dello scrivere, come lo sono per la pittura. E d’altronde un autore come l’Alfieri lo sapeva benissimo, amante qual era di una scrittura oscura e disarmonica, propria di una forza evocatrice che pochi scrittori prima di lui avevano saputo padroneggiare con così tanta consapevolezza. Sono gli attori, è la rappresentazione scenica che ha il compito di rendere chiare quelle parole, di dare armonia, appunto, a ciò che in un primo momento può apparire confuso e disarmonico. È come se, in un certo senso, per usare il paradigma aristotelico dell’atto e della potenza, l’Alfieri ritenesse che la rappresentazione teatrale sia contenuta in potenza nella tragedia letteraria (l’atto) ma che quest’ultima, sia nettamente superiore alla prima.

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22

A sostegno della sua tesi l’Alfieri riporta proprio quanto accaduto a Roma con la rappresentazione dell’Antigone:

Così è succeduto all’Antigone in Roma, che alla recita fu trovata chiara, ed energica dai piú; alla lettura poi, da molti oscura e disarmonica. Ma le parole si vedono elle, o si ascoltano? E se non erano disarmoniche all’orecchio, come lo divenivano elle all’occhio? Io le spiegherò quest’enimma. I versi dell’Antigone erano da noi recitati, non bene, ma a senso, e quindi erano chiari ai piú idioti; letti poi forse non così a senso, non badando al punteggiato, divenivano oscuri. Recitati, pareano energici, perché il dire era breve, e non cantabile, né cantato; letti da gente avvezza a sonetti e ottave, non vi trovando da intuonare la tiritéra, li tacciarono di duri: pure quella energia lodata nasceva certamente da questa durezza biasimata33.

Il pubblico teatrale italiano della seconda metà del Settecento non era in grado di cogliere queste sfumature. L’Alfieri lo sapeva bene, sapeva che certi espedienti letterari non potevano esseri apprezzati da quella platea, era consapevole che per poter trasmettere quell’arte in maniera efficace e coinvolgente c’era bisogno di un intermediario, anzi più di uno, che rendesse la letteratura tragica quella serie di quadri cui il Clazabigi alludeva nella sua lettera. E questa squadra, questo gruppo di “traduttori” del linguaggio letterario-tragico dovevano essere gli attori: ottimi, istruiti, capaci di comprendere a pieno quei testi e trasmetterli con senso al pubblico. Non è l’autore che si deve “abbassare a pittore” ma il pubblico a doversi elevare intellettualmente:

Il pubblico italiano non è ancora educato a sentir recitare: ci vuol tempo, e col tempo si otterrà; ma intanto non per questo lo scrittore deve essere lasso o triviale34.

Quelli del Calzabigi e dell’Alfieri sono due modi completamente diversi di intendere il teatro e la letteratura tragica: più vicino alla tradizione il primo, più irriverente e all’avanguardia il secondo. In questa visione l’Alfieri si distaccò dalla pittura intesa in senso tradizionale, da quell’arte che sosteneva e aveva in mente il Calzabigi, per avvicinarsi a qualcosa di lievemente differente: una nuova concezione dello spazio, dell’azione, della parola, un’arte oscura, scarna, concentrata sul soggetto, lontana dal descrittivismo decorativo che aveva caratterizzato la letteratura teatrale del secolo precedente.

33 Ivi, pagine successive. 34 Ivi, pagine successive.

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23

E in questo l’Alfieri è più che mai figlio del suo secolo, alla pari di Johann Heinrich Füssli o Gasparo Angiolini:

Tenebre, o voi del chiaro dì più assai / convenienti a quest’orribili reggia, / quanto m’aggrada il tornar vostro35.

Fig. 7, J. H. Füssli, Gertrude, Amleto e il fantasma del padre di Amleto, 1793, olio su tela, Mamiano di Traversetolo, Parma, Fondazione Magnani Rocca.

(31)

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I. III.III La pittura senese e Francesco Gori Gandellini

Nel 1777 l’Alfieri si trovava in Toscana, più precisamente a Siena, con l’intenzione di migliorare la lingua italiana36, essendoci in questa città una concentrazione inferiore di «forestieri» rispetto a Pisa e a Firenze. Qui

avvenne un incontro che segnò moltissimo l’esistenza del poeta:

E sempre ho benedetto quel punto in cui ci capitai, perché in codesta città combinai un crocchietto di sei o sette individui dotati di un senno, giudizio, gusto e cultura, da non credersi in così picciol paese. Fra questi poi primeggiava di gran lunga il degnissimo Francesco Gori Gandellini, di cui più di una volta mi è occorso di parlare in vari miei scritti, e la di cui dolce e cara memoria non mi uscirà mai dal cuore37.

A Siena, dunque, l’Alfieri conobbe Francesco Gori Gandellini, nato da una famiglia di mercanti senesi, amico di letterati e artisti e cultore di idee politiche illuminate. Un «santo legame» che venne consacrato dall’autore con il dialogo La virtù sconosciuta, dopo la morte del Gori avvenuta nel 1784. Gli interessi dei due, la comunanza di pensiero, viene sottolineata dall’Alfieri anche all’interno della Vita:

Una certa somiglianza nei nostri caratteri, lo stesso pensare e sentire (tanto più raro e pregevole in lui che in me, attese le di lui circostanze tanto diverse dalle mie) ed un reciproco bisogno di sfogare il cuore ridondante delle passioni stesse, ci riunirono ben tosto in vera e calda amicizia38.

Sia l’Alfieri sia il Gandellini furono fervidi sostenitori di quegli ideali democratici e libertari propri dell’Illuminismo e inguaribili nostalgici di quella morale eroica, tipica di tanta letteratura classica, ormai completamente estinta nel mondo dei contemporanei. Questa sintonia portò l’Alfieri ad interessarsi in particolar modo ad alcuni scritti artistici dell’amico senese, specialmente al Saggio di Storia pittorica sopra la

vita di Mecarino e al Prospetto della scuola dei Pittori senesi. Bernardina Sani, curatrice del Saggio, ha notato

come le pagine del testo gandelliniano trasudino di concetti comuni alla visione alfieriana del mondo, a conferma di quanto lo scambio intellettuale tra i due personaggi fosse realmente sincero. All’interno della sua opera, il Gandellini aveva descritto i migliori dipinti della città di Siena attraverso un punto di vista prettamente eroico-patriottico, in particolare gli affreschi di Domenico Beccafumi nella sala del Concistoro di Palazzo Pubblico (fig. 8). Così facendo il critico, dunque, interpretava quelle esemplari storie di virtù non soltanto dal punto di vista estetico e formale ma soprattutto attraverso quello politico e morale.

36 L’Alfieri, nato nello Stato Sabaudo, era abituato per lo più a parlare in francese, soprattutto anche a causa dei suoi

studi nell’Accademia Reale di Torino.

37 V. Alfieri, Vita, IV, 4, Milano, Garzanti Libri, 2000, p. 176. 38 Ibidem.

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Come ha notato Carlo Sisi, possiamo facilmente immaginare che «l’Alfieri condividesse quei ragionamenti sull’arte reputandoli non del tutto estranei alla sua filosofia estetica e alle sue concezioni drammaturgiche39»,

visto che addirittura pensò più e più volte di pubblicarli, sia per mettere in luce la descrizione patriottica dei lavori del Beccafumi sia per sottolineare le sue posizioni classicistiche attraverso le critiche ai contemporanei. Nella Virtù Sconosciuta, a proposito di questa eventuale pubblicazione, si legge:

FRANCESCO: Nol far, deh, nol fare, se davvero tu m’ami. Tu sai che per mio solo passatempo e diletto io già, così come dava la penna, buttava in carta l’effetto che mi parea ricever nell’animo dalla vista ed esame di quelle pitture. Nessuna idea, neppur leggerissima, di far su ciò libri mi cadde mai nella mente; e benché corra adesso questa smania di belle arti, ed alcuni, nulla potendo essere per sè stessi, né far del loro, abbiano creata questa nuova arte di chiacchierar sull’altrui, tu sai che io sempre ho reputato esser questa una mera impostura; perché il vero senso del bello si può assai più facilmente provare che esprimere. E a questi entusiasti di belle arti chi credere veramente potrà nel vederli così caldi ammiratori di un Bruto dipinto, e così freddi lettori poi di un Bruto da Livio scolpito?40

Per il Gori del dialogo tentare di descrivere il «vero senso del bello», recepito attraverso il mero utilizzo degli occhi, è impresa quanto mai impossibile; solamente il “sentire” umano può riuscire nell’impresa; echi abbastanza evidenti di quella poetica alfieriana del “forte sentire” che «per ogni nostra vena e fibra trascorre, ed a tutti i sensi si affaccia41». Nella finzione dell’opera l’Alfieri prontamente risponde:

VITTORIO: Ed appunto per ciò traluce in questi tuoi scritti un certo vero, e non affettato né ingrandito senso del bello, dal quale vorrei che con loro vergogna imparassero codesti moderni entusiasti, che le gran parole, grandi cose non sono; e che il caldo dell'anima di chi ha osservato e sentito il bello, non trapassa veramente nel cuore di chi ne legge il resultato, se non per via della più naturale semplicità.Quindi io avea presso che risoluto in me stesso di dare in luce quelle tue sole descrizioni dei dipinti della sala del palazzo pubblico in Siena; i quali, per essere bei fatti di storia d'amor patrio, e di libertà, non avrebbero meno testimoniato il tuo finissimo tatto nell'arte, che il tuo forte entusiasmo per le vere e sublimi virtù; e mi parea di vederviti in poche tue parole vivamente dipinto te stesso; e mi bastava ciò, per mostrare di te quasi un raggio al volgo degli uomini: e, per tutto in somma svelarti, a quel tuo brevissimo scritto disegnava io di far precedere una tua brevissima vita, in cui dimostrato avrei, ma con modeste parole, del pari il tuo raro valore, e la mia calda amicizia e ammirazione vera per te42.

39 C. Sisi, Temi figurativi intorno ad Alfieri, in Alfieri in Toscana: atti del convegno internazionale di studi, a cura di G.

Tellini e R. Turchi, Firenze, 19-21 ottobre 2000, Leo S. Olschki, 2002, cit., p. 760.

40 V. Alfieri, La virtù sconosciuta, cit., p. 39. 41 Ibidem.

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L’Alfieri non potette rimanere indifferente alle interpretazioni dell’opera del Beccafumi, realizzate secondo il Gori da un «pennello tragico» in grado di far emergere tutta una serie di sentimenti e passioni, visto che quelle stesse caratteristiche erano le medesime della sua scrittura. E ancora, importantissimo il fatto che un anno prima dell’edizione della Virtù sconosciuta, l’Alfieri ricevette da Ranieri de’ Calzabigi la lettera nella quale, come già ricordato sopra, si prospettava l’idea di una tragedia “per quadri”, dipinti sulla scena da un “pittor poeta”. La pittura, dunque, nella concezione gandelliniana e alfieriana diviene pretesto per la futura celebrazione di qualcos’altro, è subordinata (e questo l’Alfieri lo aveva già risposto al Calzabigi) al sentire poetico e grandioso dell’“eroe-poeta” (e non pittore!), sorta di exemplum per un pubblico pronto all’azione rivoluzionaria. Chiaro, quindi, come il “forte sentire” sia nettamente superiore alla vista, come la sensazione anticipi l’osservazione, come la poesia superi la pittura. Certo, c’è da dire, che tutte queste convinzioni l’Alfieri le abbandonò per un attimo nel momento in cui si accinse alla stesura della Cleopatra che, come già ricordato in precedenza, ebbe una genesi tutta iconografica. Nonostante questo, però, gli ideali del Gori e dell’Alfieri procedettero veramente di pari passo, quasi incontrandosi e fondendosi insieme negli scritti dell’uno e dell’altro. Si potrebbe quasi dire che i concetti elaborati e pensati dal Gandellini nei suoi scritti artistici abbiano fornito non pochi spunti all’Alfieri tragico: un vero e proprio esempio di “arte trasmessa”.

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