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La fauna ad Amphibia dei torrenti montani dell'Alta Valle del fiume Magra, in Lunigiana:un approccio per la conservazione

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA

Laurea Magistrale in Conservazione ed Evoluzione Classe LM60

Titolo

La fauna ad Amphibia dei torrenti montani dell’Alta Valle del fiume Magra, in Lunigiana:un approccio per la conservazione

Relatori Candidata Prof. Giulio Petroni Barbara Giovannini Dott. Marco A. L. Zuffi

Dott.ssa Matilde Boschetti

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INDICE

Riassunto p.5

1. Introduzione p.8 1.1 Argomento e scopo della ricerca p.16

1.2. Area di studio p.19

1.2.1 Il bacino idrografico del fiume Magra p.20

1.2.2 Aspetti ambientali e conservazionistici p.21

1.2.3 I torrenti dei sopralluoghi p.23

2. Materiali e metodi p.30

2.1 Sopralluoghi sull’aria di studio p.30

2.2 Identificazione p.32

2.2.1 Identificazione rane rosse p.33

2.2.2 Identificazione larve p.34

2.2.3 Identificazione ovature p.37

2.3 Rilievo dei dati biometrici p.38

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2.5 Analisi ecologiche p.44

2.6 Analisi statistiche p.45

3. Biologia delle specie in studio p.46

3.1 Salamandra salamandra (Linnaeus, 1758) p.46

3.2 Salamandrina perspicillata (Savi, 1821) p.48

3.3 Ichthyosaura alpestris (Laurenti, 1768) p.50

3.4 Bufo bufo (Linnaeus, 1758) p.52

3.5 Rana italica Dubois, 1987 p.54

3.6 Rana dalmatina Fitzinger, 1838 p.56

3.7 Rana temporaria Linnaeus, 1758 p.58

3.8 Conservazione e protezione p.60

4. Risultati p.62

4.1 Torrenti p.62

4.1.1 Distribuzione dei punti GPS per transetto dei torrenti considerati p.64

4.2 Specie p.69

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4.2.2 Biometria p.75

4.3 Batrachochytrium dendrobatidis p.79

5. Discussione e Conclusioni p.82

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Riassunto

L’analisi della fauna ad Amphibia dei torrenti montani dell’Alta Valle del fiume Magra è alla base di questo studio. E’ stata presa in considerazione quest’area della Lunigiana (Toscana) perché abbastanza intatta dal punto di vista ambientale e con taxa endemici italiani, es. Salamandrina perspicillata (Savi, 1821), ma di cui si hanno pochi dati sugli aspetti biologici ed ecologici.

I torrenti scelti sono: Verdesina, Caprio, Canal della Ghiaia, Magiola e Geriola, appartenenti sia al lato destro che sinistro del bacino idrografico del fiume Magra, così da garantire una copertura territoriale il più possibile rappresentativa. Si sono effettuati 32 sopralluoghi a cadenza settimanale (notturni e diurni) da marzo a ottobre 2016, che hanno permesso di raccogliere dati sulla presenza e l’effettivo utilizzo dell’habitat da parte delle specie di Anfibi (Stoch e Genovesi, 2016) e di tipo biometrico (solo Anuri) da comparare con quelli di popolazioni appenniniche presenti nelle collezioni del Museo “La Specola” di Firenze, per individuare eventuali differenze dimensionali.

Inoltre, per valutare lo stato di salute degli Anuri, è stata indagata l’eventuale presenza di Batrachochytrium dendrobatidis sugli individui adulti, un agente patogeno che ha contribuito al declino delle popolazioni di Anfibi nel mondo. Questa é la prima ricerca che s’interessa alla diffusione del fungo B. dendrobatidis in popolazione di Anfibi in Lunigiana, anche se non è la prima in Italia.

Le specie rilevate sono: Salamandra salamandra (Linnaeus, 1758), Salamandrina perspicillata (Savi, 1821), Ichthyosaura alpestris (Laurenti, 1768), Bufo bufo (Linnaeus, 1758), Rana dalmatina Fitzinger, 1838, Rana italica Dubois, 1987, Rana temporaria Linnaeus, 1758. I taxa più comuni sono risultati la Rana appenninica e il Rospo comune, con una buona distribuzione nei vari torrenti. Gli altri dati (range altitudinali, fenologia, biometria) concordano fondamentalmente con le conoscenze già note in letteratura, ma con alcune differenziazioni minime per quanto riguarda la presenza di I. alpestris, in quanto pone a 200 m la quota più bassa di ritrovamento.

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Per quanto riguarda la presenza di B. dendrobatidis sono risultati positivi solo B. bufo e R. italica, con valori d’infezione relativamente bassi (range da 3 a 21,5 Genome Equivalent) e non significativi. Malgrado i dati raccolti siano relativamente pochi, risulta sicuramente degno di nota il ritrovamento del fungo in Lunigiana, soprattutto in una prospettiva di previsione di progetti di conservazione e riqualificazione degli habitat e/o incrementi delle ricerche biologiche ed ecologiche.

Abstract

This research has been aimed at studying the Amphibia fauna of the mountaneous streams of the upper Lunigiana valley, along the Magra river. This area of North Western Tuscany has been considered because it is quite intact from an environmental point of view and also for the presence of some Italian endemic taxa, e.g. Salamandrina perspicillata (Savi, 1821), even though a few data on the biological and ecological aspects are available. The selected streams are: Verdesina, Caprio, Canal della Ghiaia, Mangiola, Geriola, belonging to both the right and left side of the Magra river. A quite representative territorial coverage is therefore assumed.

Thirty-two weekly (night-time and diurnal) site inspections have been carried out from March to October 2016. Those inspections allowed to record data on the presence and the actual use of the habitat by the amphibian species, and biometric data to compare with other populations of Apennine area, using specimens from the collections of Museum “La Specola” in Florence. Besides, to evaluate the state of health of the Anura, we investigated the possible presence of Batrachochytrium dendrobatidis, a pathogen that has contributed to the decline of the populations of amphibians in the world. This is the first research investigating the diffusion of Bd in populations of amphibians in Lunigiana, even if it is not the first one in Italy. The detected species are: Salamandra salamandra (Linnaeus, 1758), Salamandrina perspicillata (Savi, 1821), Ichthyosaura alpestris (Laurenti, 1768,) Bufo bufo (Linnaeus, 1758), Rana dalmatina Fitzinger, 1838, Rana italica Dubois, 1987, Rana temporaria Linnaeus, 1758.

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The most common taxa are R. italica and B. bufo, with a widespread distribution in the various streams. The other data (altitudinal range, phenology, biometrics) basically agree with the information already known in literature. There are only some minimal differentiations in the I. alpestris (Laurenti, 1768) distribution, since this species was found at 200 m asl, the lowest altitude for the species in this area. As it regards the presence of Bd, only B. bufo and R. italica have resulted positive, with relatively low and not meaningful values of infections (range from 3 to 21.5 GEs). Despite recorded data are relatively limited the recovery of the Bd in Lunigiana is noteworthy, especially in a perspective of forecast of projects of habitat management and conservation and/or of the increases of further biological and ecological studies.

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1. INTRODUZIONE

Gli Anfibi (dal greco amphi = doppio, bios = vita) sono una classe di vertebrati che presenta un ciclo di vita bifasico (Heyer et al., 1994). Le uova vengono in genere deposte in acqua e in acqua si sviluppano le larve sino alla metamorfosi. Una volta metamorfosati (con perdita delle branchie e spesso forti modifiche dell'apparato alimentare) conducono vita prevalentemente terrestre. Essi sono presenti in quasi tutti i continenti e oggi rappresentano, purtroppo, uno dei gruppi di vertebrati più a rischio d’estinzione. La loro vulnerabilità è legata proprioai fattori intrinseci del “doppio ciclo vitale”, per il quale sono costretti a subire sia l’inquinamento terrestre che idrico. Il fenomeno ha preso un tale aspetto di attenzione presso la comunità scientifica internazionale da coinvolgere moltissimi ricercatori verso nuove linee di ricerca. In questo ambito è stato coniato il termine GAD. (Global Amphibian Decline). GAD è l’acronimo con cui a livello internazionale s’indica il declino su scala globale delle popolazioni di Anfibi (Blaustein e Wake, 1995). Alcune delle cause sono:

 l’alterazione e scomparsa degli habitat;  il traffico veicolare;

 l’introduzione di specie aliene;  il cambiamento climatico globale;  le malattie infettive.

Alterazione e scomparsa degli habitat. La scomparsa e frammentazione degli habitat sono tra le problematiche più importanti che possono portare al declino delle specie di Anfibi. Gli Anfibi, per le loro esigenze biologiche, hanno bisogno di habitat diversificati, sia zone umide utilizzate per la loro riproduzione che zone distanti dai corsi d’acqua, dove le specie si rifugiano e vivono.

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Gli habitat di riproduzione possono subire alterazioni a causa delle operazioni di bonifica da parte dell’uomo, artificializzazione degli alvei fluviali, costruzione di centrali idroelettriche che interrompono il continuum fluviale ed eliminano sia la vegetazione ripariale che le estese zone ecotonali ad allagamento periodico, molto utili per la sopravvivenza delle specie. Oltre alle operazioni di bonifica delle zone umide e di modificazione degli alvei fluviali (Scoccianti, 2001), anche il cambiamento d’uso del suolo agricolo può portare alla compromissione e scomparsa degli habitat (Scoccianti, 2001). Tale processo ha portato all’utilizzo sempre più massiccio di macchinari agricoli di grande potenza, all’intensificazione del drenaggio dei terreni stessi, ai cambiamenti nei metodi di irrigazione, al recupero di superfici non utilizzate in passato (margini dei campi, piccoli boschetti, zone acquitrinose, siepi, muretti a secco ecc.), all’uso esteso di prodotti chimici (Figura 1).

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Lo sviluppo di queste nuove tecnologie e metodologie di coltivazione ha avuto un effetto negativo su quella sorta di “equilibrio” che da secoli caratterizza tutti gli agroecosistemi portando alla rarefazione di alcune specie di Anfibi (Scoccianti, 2001).

Le specie di Anfibi, durante alcuni periodi dell’anno, vivono all’interno delle aree forestali, di conseguenza, a seconda delle trasformazioni subite dalle foreste e boschi mesofili, molte popolazioni possono riportare gravi danni (Scoccianti, 2001). Quindi anche il disboscamento porta a continue interruzioni dell’evoluzione naturale e a eventi di pesante disturbo ed alterazione delle caratteristiche fisiche ed ecologiche dell’habitat. Anche gli incendi possono compromettere lo status delle popolazioni animali perché danneggiano habitat di grande valore, dove gli Anfibi possono trovare rifugio, svernare ed estivare (Scoccianti, 2001). L’urbanizzazione e le infrastrutture costituiscono un altro dei fattori che maggiormente contribuiscono alla frammentazione degli habitat e all’isolamento delle popolazioni (Scoccianti, 2001; Cushman, 2006). Esse creano una barriera che non permette gli spostamenti degli animali, perciò le popolazioni, rimanendo isolate, possono andare verso il declino (Vanni e Nistri, 2006).

Traffico veicolare. Un’altra conseguenza negativa della presenza delle infrastrutture viarie in un territorio è l’aumento degli investimenti degli individui in migrazione riproduttiva o in semplice attraversamento (Figura 2), con l’aumento della mortalità e conseguente impoverimento della densità delle popolazioni che si trovano ai lati della strada o all'interno del sistema viario (si pensi ai raccordi e agli svincoli autostradali) (Scoccianti et al., 2001; Vanni e Nistri, 2006). Gli Anfibi sono considerati la classe maggiormente esposta al rischio d’investimento sulle strade. Con il termine “punti focali di attraversamento” s’indicano i tratti stradali in cui ogni anno si ripetono fenomeni migratori di massa che coinvolgono molte decine o anche centinaia di individui (Scoccianti, 1998). Questi eventi migratori degli Anfibi sono principalmente legati alle fasi di arrivo e uscita dal sito riproduttivo e a quelle di spostamento fra siti di estivazione e siti di svernamento (Vanni e Nistri, 2006).

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Scoccianti et al. (2001) hanno provato a stimare quantitativamente l’impatto che il traffico veicolare ha sui vertebrati sulle strade della regione Toscana. Lo studio ha evidenziato che nell’intera regione, caratterizzata da un’estensione di territorio pari a 22.992 kmq e da una rete stradale extraurbana complessiva di 21.611 km (dati I.S.T.A.T., 1995), poteva essere ipotizzata una perdita annuale di 282.908 Anfibi, 17.682 Rettili, 62.475 Uccelli e 76.228 Mammiferi (Scoccianti, 2001).

Introduzione di specie aliene. Le introduzioni di specie aliene possono essere causa diretta o indiretta di cambiamenti nella ricchezza, nell’abbondanza e nella distribuzione di quelle autoctone, di alterazioni nelle caratteristiche degli habitat e nelle relazioni che contraddistinguono le catene trofiche, di cambiamenti nei processi biologici che regolano e contraddistinguono gli ecosistemi (Kats Lee e Ferrer Ryan, 2003).

Con il termine “specie aliene” o alloctone sono indicate quegli organismi introdotti al di fuori del naturale areale distributivo presente o passato, attraverso un’azione diretta (intenzionale o accidentale) dell’uomo (Genovesi, 2009).

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L’impatto dovuto all’introduzione delle specie aliene rappresenta attualmente una delle maggiori minacce per la conservazione della diversità biologica del pianeta (Vanni e Nistri, 2006). A causa del loro particolare ciclo vitale, gli Anfibi sono considerati ad alto rischio nel caso d’introduzioni di fauna aliena sia terrestre che acquatica. Di solito gli effetti negativi più evidenti delle introduzioni si possono osservare negli ambienti acquatici, dove si ha la presenza delle uova e delle larve spesso concentrate in spazi ridotti, rendendo così più vulnerabili gli Anfibi (Scoccianti, 2001). I taxa introdotti dall’uomo, pericolosi per le popolazioni di Anfibi, sono molto numerosi, ma quelli che danno maggior problematiche sono le specie ittiche introdotte a scopi sportivi nei laghi e nei torrenti. Le specie di Pesci che vengono introdotte nell’ambiente naturale sono capaci di arrecare gravi danni alla maggior parte delle specie di Anfibi. Le larve e le uova sono quelle su cui si verifica una maggiore predazione, ma è nota anche su individui adulti. La morte per predazione costituisce l’effetto più evidente, tuttavia sono anche importanti, ai fini del successo riproduttivo e della sopravvivenza delle popolazioni, le conseguenze dello stress indotto sugli individui dalla presenza dei predatori con conseguenti modificazioni del comportamento di determinate specie (Scoccianti, 2001).

Il cambiamento climatico globale. La vita negli ambienti acquatici, come in quelli terrestri, dipende dal clima. Tuttavia, a causa delle differenze tra i due ambienti, le popolazioni acquatiche hanno una sensibilità diversa da quelle terrestri rispetto alle variazioni climatiche. L’ambiente acquatico è, in generale, più protettivo di quello terrestre perché le escursioni termiche sono minori e le radiazioni ultraviolette sono attenuate dall’acqua, quindi le specie che si sono evolute nell’acqua sono in grado di sopportare solo piccole variazioni dell’ambiente esterno (Severini et al., 2006). Per questa ragione si ritiene che molte popolazioni acquatiche siano a rischio a causa del cosiddetto “global change”. Per “global change” s’intende una variazione progressiva negli anni dei valori medi climatici dei principali parametri chimico-fisici dell’atmosfera terrestre (anidride carbonica, ozono, temperatura, precipitazioni) considerati nel loro insieme (Severini et al., 2006).

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Il cambiamento a scala globale dei parametri dell’aria ha come conseguenza un cambiamento di quelli dell’acqua. I cambiamenti climatici sono causati principalmente dalle attività umane che immettono in atmosfera composti chimici come i clorofluorocarburi (CFC) e l’anidride carbonica. I CFC sono responsabili della riduzione dello strato di ozono e del conseguente aumento della penetrazione della radiazione UV-B attraverso l’atmosfera. Le radiazioni UV-B, a loro volta, risultano essere una forte minaccia per gli ecosistemi e per gli organismi viventi (Severini et al., 2006). Uno studio di Blaustein et al. (2001) ha mostrato che elevati livelli di radiazione UV-B hanno effetti negativi sul successo della schiusa delle uova di alcune specie di Anfibi (Bufo boreas e Rana cascadae) negli Stati Uniti d’America.

Inoltre è emerso che le radiazioni UV-B possono produrre sugli Anfibi effetti negativi sugli embrioni (malformazioni, ritardo nella schiusa delle uova, morte), sulle larve (lesioni cutanee, variazioni del comportamento, morte) e sugli individui metamorfosati (lesioni agli occhi e alla cute, effetti sistemici conseguenti alla diminuzione della risposta immunitaria) (Ovaska, 1997). L’immissione dell’anidride carbonica in atmosfera invece produce il cosiddetto “effetto serra”, che causa un progressivo innalzamento della temperatura. L’innalzamento della temperatura crea cambiamenti nel regime delle precipitazioni, nei regimi dei corpi idrici, nel tasso di evaporazione e nel grado di umidità dei suoli con conseguenze gravi sulle popolazioni e specie di Anfibi. (Pounds et al., 1999).

Patologie infettive: Batrachochytrium dendrobatidis. Oltre a tutte le cause sinora

descritte, anche le patologie infettive possono svolgere un ruolo nella progressiva riduzione numerica delle popolazioni di Anfibi e la loro proliferazione è da imputare a problematiche di origine antropica (Razzetti e Bonini, 2001). Tra le patologie studiate a livello mondiale abbiamo B. dendrobatidis. Questo fungo è un agente patogeno che provoca la chitridiomicosi, una grave micosi che colpisce protisti, piante, invertebrati e, tra i vertebrati, unicamente gli Anfibi (McMahon, 2015). Si tratta di funghi ubiquitari, che sono stati ritrovati in ambienti acquatici e nel suolo umido. In prevalenza sono organismi saprotrofi che attaccano la cheratina dell’epidermide degli Anfibi adulti (Figura 3), dei neometamorfosati e il campo buccale dei girini perché non possiedono uno strato corneo dell'epidermide, mentre non infettano le uova (Berger, 1999).

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I sintomi più evidenti risultano costituiti da una muta anomala, accompagnata talora da ulcere e piccole emorragie (McMahon, 2015). L'esito letale viene attribuito alla reazione iperplastica dell'epidermide e alle sue conseguenze su respirazione e osmoregolazione cutanee (Voyles, 2011), ma anche all'azione sistemica di tossine prodotte dal fungo (McMahon, 2015).

L'infezione avviene a opera di zoospore flagellate, solo attraverso il mezzo acquatico. Le zoospore possono sopravvivere fino a tre-quattro settimane in acqua di rubinetto o deionizzata, mentre in natura possono infettare gli Anfibi anche sette settimane dopo la loro immissione in acqua (Johnson e Speare, 2003). Le spore sono attive soprattutto tra i 17° e i 25°C, ma possono tollerare temperature tra i 4° e i 28°C (Piotrowski et al., 2004). Per quanto riguarda la provenienza del B. dendrobatidis si sono individuate due ipotesi principali; secondo la prima ipotesi sarebbe un fungo indigeno e i cambiamenti climatici, l’aumento della temperatura, l’aumento dei raggi UV-B e la diminuzione delle piogge avrebbero intensificato la virulenza e la sensibilità alle infezioni a causa di deficienze immunitarie degli Anfibi (Carey et al., 1999). Per la seconda ipotesi, invece, il B. dendrobatidis è un fungo introdotto dall’Africa, in tempi passati, tramite gli Xenopus laevis, esportati come animali da laboratorio (malattia segnalata in esemplare museale del 1938) oppure, oggi, con l’aumento del commercio di specie (Tessa et al., 2013).

Figura 3. Sezione di epidermide, dove sono visibili zoosporangi di B. dendrobatidis

(Berger et al., 1999)

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Qualunque sia l’origine dell’agente patogeno, esso è oggi diffuso nel mondo intero. I primi casi documentati si riferiscono a esemplari di Rana pipiens raccolti nel 1974 in Nord America e a esemplari di varie specie raccolti a partire dal 1978 in Australia (Bree Rosenblum et al., 2013). Circa un centinaio di specie appartenenti a 14 famiglie di Urodeli e Anuri risultano attualmente colpite da questa infezione in America, Europa, Africa, Australia e Oceania. Circa la metà delle specie colpite si trova in Australia (Berger et al., 1999). In Europa l'infezione è segnalata dal 2000 in Germania e in Spagna, soprattutto in popolazioni naturali di Rana arvalis. In Spagna, anche in popolazioni naturali di Alytes obstetrican. Ma sono anche colpite popolazioni di B. bufo e S. salamandra (Bosch et al., 2001).

Per quanto riguarda l’Italia, i primi casi osservati di infezione da B. dendrobatidis su Anfibi sono stati diagnosticati nell'estate del 2001 su esemplari di Bombina pachypus provenienti da popolazioni del territorio collinare della provincia di Bologna (Stagni et al., 2003). Oggi si ritrova sia in Italia settentrionale e centrale che in Sardegna e le specie di Anuri interessati sono, secondo Bielby et al. (2009): B. pachypus, Discoglossus sardus Tschudi in Otth, 1837, Lithobates catesbeianus (Shaw, 1802), genere Pelophylax, Fitzinger, 1843 (“rane verdi”), Rana latastei Boulenger, 1879, Euproctus platycephalus (Gravenhorst, 1829); secondo Zampiglia et al. (2013): S. s. gigliolii Eiselt e Lanza, 1956, I. a. apuanus (Bonaparte 1839), R. italica.

Il fungo non è specie-specifico e infetta tutte le specie di Anuri e Urodeli oggi conosciute; in più la sensibilità delle specie al fungo è diversa: alcune muoiono rapidamente in seguito all’infezione, ma altre possono sopravvivere senza particolari difficoltà a una forte contaminazione come ad esempio la Rana verde maggiore e la Rana toro. Queste specie, però, possono favorire la diffusione della malattia e costituiscono dei serbatoi permettendo al fungo di contaminare l’acqua successivamente (McManon et al., 2015). Un altro possibile serbatoio di infezione sono specie introdotte come i crostacei del genere Procambarus (McMahon et al., 2015). Inoltre è stata trovata una forte correlazione tra altudine e chitridiomicosi mortale (Walker et al., 2010). La presenza di B. dendrobatidis non si traduce sempre in una minaccia immediata per il portatore. Gli impatti delle infezioni possono variare da nessuna o lieve malattia fino a forme di epidemia grave (morti di massa e declino della popolazione, Bosch et al., 2001; Bielby et al., 2009; Fischer et al., 2009).

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1.1 Argomento e scopo della ricerca

Anche se i fattori di rischio del declino sono noti, è importante approfondire le conoscenze sulla presenza e sulla distribuzione delle specie di Anfibi nel nostro paese, soprattutto in aree a forte vocazione naturalistica e ove gli studi sono assenti, scarsi (Cianfanelli et al., 2016) o comunque datati (Farina, 1980).

Sarà possibile ottenere maggiori informazioni sulle condizioni di vita degli Anfibi e, contemporaneamente, correlarle alla qualità ambientale. Gli Anfibi sono infatti considerati degli indicatori dello stato di salute di un habitat e variazioni demografiche o il loro declino possono essere messi in relazione con la degradazione degli ecosistemi (Frugis, 1998). La scelta dell’area di studio è caduta sulla Lunigiana perché poco esplorata dai naturalisti nei suoi aspetti biologici (Farina, 1980; Vanni e Nistri, 2006; Cianfanelli et al., 2016), con pochissime, se non nulle, informazioni di tipo distributivo (Cianfanelli et al., 2016) e nulle per quanto attiene la biologia e l’ecologia. La Lunigiana è un’area abbastanza intatta dal punto di vista ambientale, relativamente poco frequentata, per cui potenzialmente ricca di elementi faunistici e con la presenza di alcuni taxa endemici italiani. Alcune specie sono inoltre inserite nella Direttiva Habitat (per una revisione generale si veda Dini, 2015).

In ultimo, si vuole sottolineare come le carte distributive e, quindi, la potenzialità del dato intrinseco delle specie erpetologiche in generale e di quelle ad Anfibi in particolare, riportate nell’Atlante Regionale (Vanni e Nistri, 2006), sono di fatto poco o per nulla utilizzabili, se non come riferimento generale. Infatti, il dettaglio cartografico di questo e altri atlanti è forzatamente basso, con quadranti di 10 km di lato. La presenza (o l’assenza) di una specie va di fatto considerata, cercata e verificata ex novo.

Questo lavoro si è proposto di verificare soprattutto la presenza delle specie di Anfibi possibili (Vanni e Nistri, 2006) all’interno di un ambito geografico sufficientemente rappresentativo dell’Alta Valle del Magra lungo entrambi i versanti. Successivamente, in base ai dati raccolti, di studiare la consistenza e la distribuzione delle popolazioni di Anfibi lungo transetti standardizzati, attraverso un censimento delle specie presenti e, ove possibile, di raccogliere anche dati di tipo biometrico per eventuali comparazioni con altre popolazioni appenniniche, utilizzando per confronto esemplari delle collezioni scientifiche erpetologiche (Museo “La Specola” di Firenze).

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Per il monitoraggio mi sono basata sulle indicazioni generali previste da Stoch e Genovesi (2016), che suggeriscono la visita di ogni sito fino a tre volte, in quanto, in caso di mancata osservazione della specie, si procede ad una seconda visita e, in caso di esito negativo, a unaterza. Nel mio caso ho optato per un numero di visite ≥ 5. Ho inoltre considerato una lunghezza del transetto ampiamente maggiore di 100 m, misura standardizzata proposta da Stoch e Genovesi (2016).

Considerata la scarsità di informazioni generali, ho voluto anche raccogliere dati sull’eventuale occorrenza di organismi patogeni sugli individui e le specie di Anfibi della zona di studio relativamente alla sola presenza di B. dendrobatidis. Complessivamente, con questa tesi, ho voluto dare un primo contributo per descrivere la situazione faunistica attuale, la distribuzione, lo stato di salute e la composizione di specie, in funzione del settore idrogeografico e del tipo di transetto in torrente. Tutto ciò per caratterizzare le eventuali popolazioni di Anfibi a rischio per le quali siano necessari progetti di conservazione, interventi di riqualificazione degli habitat e/o incremento delle ricerche (censimento, biologia, ecologia) (Farina 1980; Ficetola, 2001; Dini 2015).

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1.2 Area di studio

L’area di studio presa in considerazione è l’Alta Valle del bacino del Fiume Magra, in Lunigiana. La Lunigiana è una terra posta tra tre regioni italiane: Liguria, Toscana ed Emilia-Romagna. Essa coincide con la punta nord occidentale della Toscana (Figura 4). Il suo territorio è in prevalenza montuoso ed è limitato dall’Appennino Tosco-Emiliano, che attraversa la Lunigiana da nord ovest a sud est, dal versante interno dell’Appennino Ligure e dalle Alpi Apuane, che la chiudono a sud. Il suo territorio coincide con il bacino idrografico del fiume Magra (Figura 5).

Figura 4. Cartina d’Italia con la localizzazione della Toscana e della

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1.2.1 Il bacino idrografico del fiume Magra

Il bacino del fiume Magra occupa un’area di 1686 kmq ed è costituito dall’unione di due vallate quasi parallele tra loro: ad occidente la valle del Vara e ad oriente la media valle del fiume Magra separate dalla dorsale che dal passo dei Due Santi scende al Monte Cornoviglio e poi alle colline di Bolano. L’area di confluenza tra questi corsi d’acqua coincide con un tratto vallivo che si allarga a costituire la bassa Val di Magra (Raggi e Palandri, 1989).

Figura 5. Bacino del Magra; www.adbmagra.it.

Fiume Magra

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Il bacino del fiume Magra ha assunto la sua conformazione idrografica attuale solo in tempi recenti in seguito ai movimenti orogenetici che hanno determinato il sollevamento della dorsale appenninica e provocato la cattura del fiume Vara da parte del fiume Magra,che inizialmente scorrevano in due valli separate: il PaleoVara sfociava nell’attuale Golfo della Spezia, mentre il PaleoMagra andava a confluire col fiume Serchio (Raggi e Palandri, 1989).

Il fiume Magra nasce dal Monte Borgognone, vicino al Passo della Cisa; nel suo primo tratto scorre verso sud-ovest ricevendo le acque di piccoli torrenti; all’altezza di Pontremoli, il corso d’acqua svolta decisamente verso sud-est in direzione Aulla. In questo tratto si apre la prima pianura alluvionale; qui l’idrografia si presenta fortemente dissimmetrica: gli affluenti di sinistra hanno un corso notevolmente più lungo di quelli di destra. Dopo Aulla il fiume cambia direzione incidendo la profonda gola tra Aulla e Santo Stefano di Magra con una serie di meandri incassati. Poco dopo Santo Stefano di Magra, si ha la confluenza col fiume Vara, dopodiché il fiume Magra attraversa la vasta pianura alluvionale che si estende fino alla foce, in località Bocca di Magra, Comune di Ameglia (Raggi e Palandri, 1989).

1.2.2 Aspetti ambientali e conservazionistici

Il bacino nelle sue parti più elevate e scoscese presenta una vegetazione boschiva piuttosto diffusa, inframmezzata da aree a vegetazione erbacea o cespugliosa perché destinate a prati e pascoli o perché abbandonate dall’agricoltura. Nelle zone a pendio più dolce o in quelle di pianura invece è svolta l’attività agricola, caratterizzata più da colture permanenti che annuali (Piano tutela acque Magra, 2002, Regione Toscana). La vegetazione ripariale è costituita da saliceti, pioppete, ontanete e boschi planiziali (Fagus sylvatica L., Castanea sativa Mill., Quercus cerris L.) di elevato interesse conservazionistico (Figura 6), ma anche da specie alloctone invasive come Robinia pseudoacacia L.

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Tali ecosistemi sono messi in pericolo dall’aumento dei livelli di urbanizzazione (espansioni residenziali, artigianali e industriali, assi stradali) e artificializzazione della pianura alluvionale e dei bassi versanti (edilizia residenziale), con consumo di suolo agricolo e l’alterazione delle aree di pertinenza fluviale. Alcuni dei corsi d’acqua presentano l’artificializzazione delle sponde e la realizzazione di sbarramenti a fini idroelettrici e di periodici interventi di controllo ed eliminazione della vegetazione ripariale (Piano paesaggistico, Ambito 1, Regione Toscana, 2014).

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1.2.3 I torrenti dei sopralluoghi

Sono stati selezionati cinque torrenti, affluenti di destra e di sinistra del fiume Magra, ovvero il torrente Caprio (sinistra), il torrente Canal della Ghiaia (sinistra), il torrente Mangiola (destra), il torrente Geriola (destra) e il torrente Verdesina (destra). La localizzazione di questi torrenti su ambo i lati del Magra, mi ha permesso di avere un’ampia area di campionamento con un maggior numero di differenze ambientali, così da poter garantire una buona rappresentatività del territorio. I siti di campionamento presentano situazioni diverse sia dal punto di vista dell’antropizzazione e frequentazione da parte dell’uomo, sia del tipo di bacino, altitudine, habitat e persistenza dell’acqua. Gli affluenti di destra sono caratterizzati, a esclusione del Vara, da una portata modesta a causa della scarsità di sorgenti perenni; in genere hanno dei corsi brevi e vicini tra di loro. Gli affluenti di sinistra sono quelli che danno il contributo maggiore alla portata del Magra perché alimentati da buone sorgenti anche in alta quota. Quindi il regime idrico di questi corsi d’acqua è soprattutto influenzato dalle piogge stagionali, che, viste le particolari caratteristiche morfologiche e geografiche della Lunigiana, la considerevole altezza dei rilievi e la vicinanza al mare, risultano essere molto più abbondanti che in altre parti d’Italia. Le precipitazioni sono copiose in primavera ed in autunno, quando si registrano anche le massime piene, generalmente 3-5 volte in un anno, mentre la minore portata si presenta in estate (Farina, 1980).

Il Canal della Ghiaia (Tabella 1) è un piccolo affluente del torrente Monia che nasce dall’Appennino tosco-emiliano tra i paesi di Biglio e Lusignana e scorre nelle vicinanze di Irola (Figura 7).

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Figura 7. T. Canal della Ghiaia, località Irola; Foto B. Giovannini.

Tabella 1. Localizzazione torrente Canal della Ghiaia.

COMUNE DI

VILLAFRANCA IN LUNIGIANA FILATTIERA

TORRENTE Canal della Ghiaia

QUOTA 200-300 m slm

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Il Caprio (Tabella 2) nasce a 1831 metri d’altezza dal monte Orsaro e si getta nel fiume Magra in località Migliarina nel comune di Filattiera (Figura 8).

Tabella 2. Localizzazione torrente Caprio.

COMUNE DI FILATTIERA TORRENTE Caprio QUOTA 300 m slm

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Il Mangiola (Tabella 3) nasce dal monte Coppigliolo a 1139 metri e confluisce nel fiume Magra presso Talavorno (Villafranca in Lunigiana); di questo torrente è stato preso in considerazione un piccolo affluente di destra (Figura 9).

Figura 9. T. Mangiola, località Mulazzo; Foto B. Giovannini.

Tabella 3. Localizzazione torrente Mangiola.

COMUNE DI MULAZZO TORRENTE Mangiola QUOTA 400-500 m slm

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Il

Geriola (Tabella 4) nasce fra il monte Zucoletto a 926 metri e il monte Scopello, 1007 metri e si getta nel fiume Magra presso Villafranca in Lunigiana (Figura 10).

Figura 10. T. Geriola, località Mulazzo; Foto B. Giovannini.

Tabella 4. Localizzazione torrente Geriola.

COMUNE DI VILLAFRANCA IN LUNIGIANA TORRENTE Geriola QUOTA 200 m slm

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Il Verdesina (Tabella 5) nasce in più rami dal monte Borraccìa a 1250 metri ed è un affluente di sinistra del torrente Verde a Boranco, Pontremoli (Figura 11).

Figura 11. T. Verdesina, località Guinadi; Foto B. Giovannini.

Tabella 5. Localizzazione torrente Verdesina.

COMUNE DI PONTREMOLI TORRENTE Verdesina QUOTA 400-500 m slm

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Questi piccoli torrenti presentano scarsi livelli di inquinamento, almeno nel tratto superiore, grazie alla mancanza di grossi centri urbani o industriali e all’abbondanza di acque correnti per quasi tutto l’anno. Solo d’estate alcuni torrenti si seccano, ad esclusione del Caprio, del Verdesina e del Mangiola. Il degrado è in generale legato ai tagli della vegetazione ripariale e alle artificializzazioni degli argini e degli alvei (soprattutto nel tratto più basso in prossimità della confluenza con il Magra), che producono un aumento della velocità di deflusso con conseguenti erosioni, frane, smottamenti delle sponde e distruzione degli habitat, sia terrestri che acquatici, utilizzati dagli Anfibi. Anche l’attività della pesca sportiva può arrecare disturbo, soprattutto a causa dei ripopolamenti fatti con specie estranee alla fauna autoctona. Invece la presenza di discariche di inerti e rifiuti ingombranti è legata al correre della rete viaria a fianco dei corsi d’acqua (Piano paesaggistico, Ambito 1, Regione Toscana, 2014).

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2. MATERIALI E METODI

2.1 Sopralluoghi sull’area di studio

La ricerca è stata svolta da marzo ad ottobre 2016 con sopralluoghi impostati secondo un protocollo di uscite settimanali sia durante le ore diurne che notturne, periodo di maggior attività delle specie ricercate in questo studio. I sopralluoghi consistevano nella realizzazione di transetti di 500 metri su entrambe le sponde del torrente esaminato, partendo dal punto più a valle del transetto, risalendo contro corrente per non alterare il microhabitat e disturbare gli animali.

Durante ogni sopralluogo si è ricercata la presenza delle specie di Anfibi segnalate in letteratura e tipiche di questi ambienti, mediante osservazione diretta, facendo particolare attenzione all'ispezione di potenziali rifugi come massi, cavità naturali e mediante sollevamento delle pietre in alveo o delicato movimento del fogliame sul fondo.

Oltre ai transetti sui torrenti, nel corso degli spostamenti nell’area di studio, sono stati presi in considerazione ed ispezionati anche fontanili, vasche e pozze rilevati durante il trasferimento da un torrente all’altro, per verificare la presenza di specie non tipiche dei torrenti, ma segnalate in Lunigiana dalla letteratura.

In aggiunta alla presenza degli individui metamorfosati, si sono ricercate ovature, larve e neometamorfosati.

Ad ogni sopralluogo sono state annotate le coordinate GPS (Garmin Etrex 30; con indicazione di data, ora, altitudine) di inizio e fine transetto e dei vari ritrovamenti; infine, per prevenire i rischi di contaminazione da possibili infezioni, abbiamo adottato adeguate misure di profilassi tra cui la pulizia e disinfezione tramite ipoclorito di sodio delle attrezzature utilizzate sul campo e l’uso di guanti monouso (Razzetti e Bonini, 1997).

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I soggetti trovati (ovature, metamorfosati, larve) sono stati identificati e annotati su apposita scheda cartacea (Figura 8)

Sono stati effettuati 32 sopralluoghi, di cui due in notturna per ogni torrente:

 7 nel Verdesina;  7 nel Caprio;

 7 nel Canal della Ghiaia;  6 nel Mangiola;

 5 nel Geriola.

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Google Earth ™ è stato utilizzato per posizionare i vari segnaposto (waypoints) scaricati dal GPS, relativi a tutte le osservazioni e dati raccolti.

2.2 Identificazione

Gli animali ritrovati durante i sopralluoghi sono stati prelevati con metodi incruenti mediante l’utilizzo di un retino a maglie fini (per uova e larve) o direttamente a mano (individui metamorfosati) e, successivamente, identificati tramite utilizzo di tabelle dicotomiche. Oltre agli Anfibi metamorfosati, si sono identificate le forme larvali, quelle neoteniche e le ovature.

Le tabelle utilizzate sono:

 chiavi dicotomiche per il riconoscimento degli Anfibi metamorfosati (Lanza, 1983; Vanni e Nistri, 2006) (Figura 14);

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 chiavi dicotomiche per il riconoscimento delle forme larvali e neoteniche degli Anfibi (Lanza,1983; Vanni e Nistri, 2006);

 chiavi dicotomiche per il riconoscimento delle ovature dei generi di Anfibi (Lanza,1983; Vanni e Nistri, 2006).

2.2.1 Identificazione delle rane rosse

Le specie di rane rosse che vivono nel territorio italiano sono: R. dalmatina Fitzinger 1838, R. latastei (Boulenger, 1879), R. temporaria (Linnaeus,1758), R. italica Dubois 1987; R. latastei è presente solo in Pianura Padana.

Per l’identificazione di queste specie è stato necessario osservare le loro caratteristiche morfologiche dando particolare attenzione alle dimensioni, alla presenza delle marezzature sotto la gola, alla lunghezza della linea bianca che percorre la mascella, alle dimensione e

Figura 14. Esempio di identificazione attraverso la valutazione della

lunghezza dell’arto posteriore rispetto a quella del corpo (Lanza,1983); Foto B. Giovannini.

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posizionamento del timpano rispetto all’occhio, alla colorazione dell’inguine e alla lunghezza degli arti posteriori (Tabella 6).

Tabella 6. Caratteristiche morfologiche delle rane rosse per l'identificazione (Vanni e Nistri, 2006;

modificata da B. Giovannini).

SPECIE MUSO NARICI TIMPANO GOLA INGUINE ZAMPE

Rana temporaria (Linnaeus, 1758); La striscia laterale chiara su labbro superiore spesso si scurisce verso la punta del muso

Piccolo e poco evidente Colorazione varia Rana dalmatina Fitzinger, 1838 Affilato, a punta. La striscia laterale bianca percorre tutta la mascella Ravvicinate Grande, vicino all'occhio Bianca o con macchie ai lati, grigia o color panna Giallo o bianco Molto lunghe. Tallone oltre il muso. Striate Rana latastei (Boulenger, 1879) La striscia laterale bianca si interrompe a metà mascella Ravvicinate e lontane dall'occhio Più piccolo dell'occhio e lontano da esso Bruna con linea bianca centrale Bianco Molto lunghe. Tallone oltre il muso Rana italica Dubois, 1987 Arrotondato. Lati scuri. La striscia laterale bianca si interrompe a metà mascella

Ben separate Piccolo Scura con riga bianca in mezzo Giallo o bianco Lunghe. Le posteriori gialle inferiormente .

2.2.2 Identificazione delle larve

Le forme larvali degli Anuri e Urodeli sono state identificate in campo sempre tramite tabelle dicotomiche. Queste tabelle ci permettono di identificare le larve già abbastanza avanti nello sviluppo, cioè con la presenza dei quattro arti ben sviluppati negli Urodeli; degli arti posteriori, ma non ancora di quelli anteriori negli Anuri, mentre non sono

(34)

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utilizzabili per larve di Anuri appena sgusciate dall’uovo, per quelle molto giovani o con quattro arti già ben sviluppati (Vanni e Nistri, 2006).

Larve di Anuri. Le larve di anuri vengono classificate osservando alcune strutture discriminanti che sono:

 conformazione delle varie strutture dell’apparato buccale, numero e tipo di file di cheratodonti e numero di papille labiali (Figura 15);

 colorazione e conformazione delle membrane caudali;  posizione dello spiracolo.

Queste caratteristiche sono state osservate ad occhio nudo durante il sopralluogo quando lo sviluppo larvale era avanzato, altrimenti si sono prelevati alcuni campioni, messi in etanolo e identificati poi in un secondo momento presso il Museo di Storia Naturale di Calci (Pisa), tramite l’utilizzo di un microscopio binoculare.

.

Figura 15. Apparato buccale di larva di Anuro e denominazione delle singole strutture (Lanza, 1983;

modificata da B. Giovannini).

Legenda

A: apparato buccale, a forte

ingrandimento, di un’ipotetica larva di Anuro, per illustrare la denominazione delle singole strutture che ne fanno parte

(li = labbro inferiore; ls = labbro superiore; mi = mascella inferiore; ms = mascella superiore; pl = papille labiali; r = rostrodonte; si1-si5 = serie 1-5 inferiori di

denti labiali o cheratodonti; ss1-ss4 = serie 1-4 superiori dei denti labiali o cheratodonti; le serie 1 e 2 inferiori e la serie 1 superiore sono intere, le altre divise

in due).

B: larva di Anuro in visione laterale (mc =

(35)

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Larve di Urodeli. Le larve di Urodeli (Figura 16) s’identificano mediante osservazione diretta e con l’utilizzo di chiavi dicotomiche; anche in questo caso le larve devono essere ad un avanzato stadio di sviluppo per avere una sicura attribuzione specifica dell’esemplare. I caratteri discriminanti che sono stati analizzati per attribuire la specie negli Urodeli sono:

 il numero delle dita;  la colorazione diversa;  la conformazione del capo;

 la conformazione delle membrane caudali.

In aggiunta, è anche stato utile tenere conto delle preferenze ecologiche e le peculiarità comportamentali delle varie specie in esame (Lanza, 1983) e, per quanto approssimativa, la loro distribuzione nel territorio (Vanni e Nistri, 2006).

Figura 16. Larve di Urodeli: A-B, I. alpestris; C, S. salamandra; D, S. perspicillata (Lanza, 1983;

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2.2.3 Identificazione ovature

Le ovature (Figure 17-19) ritrovate durante i sopralluoghi sono state identificate tramite tabelle dicotomiche per il riconoscimento delle ovature dei generi di Anfibi (Vanni e Nistri, 2006). Purtroppo l’attribuzione specifica è in molti casi difficile, soprattutto quando si tratta di ovature danneggiate e quindi non di forma, colore e posizione tipiche. Di esse sono state analizzate:

 la forma;  la grandezza;  il colore;

 il luogo di deposizione (Vanni e Nistri, 2006).

Figura 17. Ovature di Rospo comune (Lanza, 1983;

modificata da B. Giovannini).

Figura 18. Ovature di Rana appenninica (Lanza,

1983; modificata da B. Giovannini).

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2.3 Rilievo dei dati biometrici

I dati e le misure in campo sono stati rilevati sempre su animali vivi e solo sugli Anuri, oggetto anche delle analisi infettivologiche. Abbiamo deciso di non misurare gli Urodeli perché trovati tutti nelle fasi di deposizione delle uova ed evitare quindi ogni forma di disturbo in questa fase critica della loro biologia. Poiché le dimensioni di molte specie di Anfibi Anuri possono variare a seconda della disponibilità di cibo, dell’altitudine, della latitudine e possono fornire una maggiore caratterizzazione delle popolazioni in esame, ho considerato le possibili variazioni dimensionali delle specie censite nell’ottica di ulteriori confronti con ricerche successive (Stoch e Genovesi, 2016). I parametri biometrici sono stati presi con un calibro ventesimale (in mm) e con una bilancia digitale (precisione 0,1 grammi).

Ho rilevato le seguenti misurazione (le lettere fanno riferimento alla figura 20 e sono le stesse riportate nelle schede di campo, figura 13):

 lunghezza totale (apice muso-urostilo): A-A;

 lunghezza capo (apice muso-angolo della bocca): B-B;

 larghezza capo (tra gli angoli buccali): C-C;

 lunghezza arto anteriore (ascella apice-dito lungo): D-D (Figura 21);  lunghezza arto posteriore

(inguine-apice dito lungo): E-E;  massa corporea.

Figura 20. Schema delle misurazioni su Anuri;

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Figura 21. Esempio di misurazione avambraccio di Bufo bufo; Foto di B. Giovannini.

Le stesse misurazioni, per confronto, sono state effettuate su campioni museali (Figure 22 e 23) della collezione di studio del Museo di Storia Naturale Sezione Zoologica “La Specola” dell’Università di Firenze (MZUF). Gli Anuri delle collezioni sono stati scelti in base alla località di cattura, prediligendo esemplari della Liguria e di altri parti della Toscana, prossime all’area di studio (Tabella 7).

Sono stati misurati trenta esemplari di Rospo comune e ventotto di Rana appenninica escludendo la massa corporea, in quanto la conservazione in soluzione alcoolica tende comunque a disidratare i tessuti e a rendere il dato poco affidabile e confrontabile.

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Tabella 7. Località di ritrovamento degli esemplari presenti al MZUF.

Data Museo zoologico La Specola Specie Numero esemplari I luoghi di cattura

17-Oct-84 MZUF B.bufo 4 Tra Isola Santa e i tre fiumi (Valle della Turrite Secca), Alpi Apuane LU 630-750 m slm.

07-May-70

MZUF B.bufo 6 Gronda, Alpi Apuane MS circa 300 m slm. 08-Apr-81 MZUF B.bufo 7 Lago di S.Stefano, Lucinesco, IM.

27-Dec-70

MZUF B.bufo 13 Monte Argentario GR.

03-Jun-97 MZUF R.italica 8 Fosso della croce, Chiusa della Verna AR.

22-Sep-71 MZUF R.italica 6 Dintorni di Calleta, 9 km a W di Rassina AR, 700 m slm.

X MZUF R.italica 5 Torrenti Archiano e Gressa presso Soci AR 1941.

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2.4 Analisi molecolari

Abbiamo eseguito tamponi per il campionamento del muco sugli Anuri e così valutare la presenza di chitridiomicosi in Lunigiana.

Il lavoro si è svolto secondo tre fasi: campionamento sul campo, estrazione del DNA, diluizione e analisi dei campioni.

Campionamento sul campo. Gli individui di Anfibi trovati durante i sopralluoghi sono sottoposti a prelievo di muco con un tampone sterile (Figura 24). Il tampone va sfregato almeno trenta volte sulla pelle dell’animale, con particolare attenzione alle parti più suscettibili alla micosi (zona pelvica, zona ventrale, arti e palmature delle zampe); dopodiché si pone il tampone nella provetta sterile e infine si tappa la provetta (Murone et al., 2016). La provetta viene siglata con un pennarello indelebile (coordinate GPS, data del campionamento, specie, sesso, età e torrente). Per evitare il contagio vengono usati guanti monouso e tutto il materiale utilizzato è stato sterilizzato con candeggina contenuta in uno spruzzino.

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I campioni prelevati in campo sono stati conservati in una borsa termica refrigerata e poi trasferiti in un congelatore a -20°C sino alle analisi. Il materiale così prelevato è stato poi consegnato al Laboratorio DISTAV (Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ambiente e della Vita) dell’Università di Genova, che ha effettuato le analisi utilizzando un metodo originale ottenuto modificando quello standard di Boyle et al. (2004). La tecnica di rilevamento del DNA di Grasselli (2013), utilizzata in questo studio, è più vantaggiosa poiché utilizza reagenti chimici meno costosi del precedente. In questo modo è possibile eseguire l'analisi di un maggior numero di campioni di muco a parità di spesa e contemporaneamente ha la stessa efficacia e i risultati delle due tecniche sono del tutto confrontabili (Maggesi, 2015).

Estrazione. I campioni sono stati numerati in ordine di estrazione per cui a ogni provetta, già siglata al momento del campionamento, si associa un numero di estrazione che è subito registrato in archivio. Dopodiché si preparano le Eppendorf da 1,5 ml pesando 0,03-0,04 g di microsfere di silice sulla bilancia di precisione, che servono per rompere la parete dei funghi. Si procede lavorando sotto cappa per evitare possibili contaminazioni: con la pipetta P200 si aggiungono 200 µl di PrepMan Ultra alle Eppendorf.

Uno a uno vengono presi i tamponi dalle provette e si spezzano lasciando solo la testa del tampone nella miscela di estrazione che è stata preparata. I campioni sono così pronti per l’estrazione con shock meccanico e termico. Con la P200 si raccoglie tutto il possibile sul fondo dell’Eppendorf da 1,5 ml e si pipetta dentro le Eppendorf da 0,2 ml, che sono già state etichettate riportando il numero di estrazione corrispondente. I campioni sono ora pronti per essere diluiti e analizzati, o congelati e conservati per future analisi (Maggesi, 2015).

Analisi. Per evitare contaminazioni, la procedura è svolta sotto cappa aspirante; per lo stesso motivo è indispensabile procedere al riempimento della piastra per le analisi nel minor arco di tempo possibile e minimizzando gli spostamenti tra una zona di lavoro e l’altra.

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La PCR è un’analisi estremamente sensibile, per questo motivo, prima di procedere con l’analisi del DNA estratto, si diluiscono i campioni più volte con H2O DNA free in modo

da ottenere le diluizioni 1/100. I campioni sono così pronti per essere analizzati. Una volta pronta la miscela si centrifuga per qualche secondo per omogeneizzarla. Si pipettano aliquote di 15 µl di miscela in ogni pozzetto della piastra; con un pennarello a punta fine è utile segnare preventivamente i pozzetti destinati ai controlli positivi (Batrachochytrium dendrobatidis standards) e quelli destinati ai controlli negativi (H2O DNA free) per

assicurarsi di non commettere grossolani errori di contaminazione durante la preparazione della piastra. Si pipettano poi 5 µl d’acqua nei pozzetti destinati al controllo negativo (almeno tre per piastra). Si aggiungono 5 µl di ognuno dei campioni diluiti (1/100) al pozzetto precedentemente assegnato sulla piastra. Una volta aggiunti tutti i campioni nei pozzetti, si pipettano gli standard, cioè quantità note del DNA di B. dendrobatidis espresse come Genome Equivalent (GE) di 0,1, 1, 10, 100 e 1000 in triplicato, nei pozzetti assegnati. Questi sono i campioni positivi su cui si calibrano le curve con le quali il software comparerà le amplificazioni dei nostri campioni. Dopodiché si sigilla la piastra con la pellicola adesiva e si passa ad analizzarla nel termociclatore.

Una volta terminata la corsa della PCR si raccolgono i dati su chiavetta USB e si scaricano sul PC con software dedicato (Step-one plus, Life Technologies) dove possono essere letti e interpretati i risultati (Maggesi, 2015).

2.5 Analisi ecologiche

In questo studio ho tenuto conto delle diverse fasi di attività delle specie potenzialmente presenti, soprattutto delle fasi riproduttive. In coincidenza della riproduzione, gli animali si concentrano negli habitat acquatici, dove diventa più facile procedere ai rilevamenti. La presenza di ovature e girini consente, infatti, di accertare, per le singole specie, l’effettiva idoneità e lo sfruttamento del sito acquatico come habitat riproduttivo (Stoch e Genovesi, 2016).

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Con il GPS ho tenuto conto della posizione dei ritrovamenti (metamorfosati, larve, ovature), dell’orientamento del transetto e dell’altitudine per valutare eventuali preferenze riproduttive delle diverse specie di Anfibi. La rappresentazione grafica della fenologia (numero di osservazioni nel tempo) è stata realizzata tramite l’utilizzo di grafici Microsoft Excel.

2.6 Analisi statistiche

Tutti i dati raccolti sono stati sottoposti ad analisi con tecniche univariate, parametriche e non parametriche ed analisi multivariate tramite il software SPSS, vers. 20,0. Si è anlizzata la normalità mediante approssimazione a χ2

(test di Kolmogorov-Smirnov) delle variabili altitudinali, biometriche degli individui catturati e misurati. Sempre per parametri normalemente distribuiti (es: differenze tra sessi) si è utilizzato il test t di Student e l’analisi della Varianza a una via (one way ANOVA) per singole variabili in relazione ai cinque siti di campionamento. Per le variabili non normali si è fatta l’ analisi della Varianza non parametrica (Kruskal-Wallis test) (es.: variazione altitudinale dei punti GPS per sito) e l’analisi della diversa distribuzione degli orientamenti dei torrenti e della distribuzione altitudinale con test del χ2

. Per analizzare le variabili biometriche più correlate si è utilizzato il test del coefficiente di correlazione di Pearson. Infine la visualizzazione grafica è stata fatta mediante istogramma (distribuzione delle specie, ecc.).

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3. BIOLOGIA DELLE SPECIE IN STUDIO

3.1 Salamandra salamandra (Linnaeus, 1758)

Figura 25. S. salamandra; Foto www.blogamphibia.blogspot.it.

Inquadramento sistematico CLASSE: AMPHIBIA

ORDINE: URODELA FAMIGLIA:

SALAMANDRIDAE

La salamandra pezzata è presente in Italia con due sottospecie:

 S. s. salamandra (Linnaeus, 1758) nell’Italia settentrionale;  S. s. gigliolii Eiselt e Lanza, 1956 nell’Italia meridionale.

La salamandra pezzata, Salamandra salamandra (Linnaeus, 1758), ha una colorazione nera con vistose macchie gialle, gli adulti posso arrivare fino a 25-30 cm di lunghezza totale (Lanza, 1983). È una specie ovovivipara, la femmina partorisce in acqua e si accoppia in primavera a terra. Le larve alla nascita misurano circa 3 cm e hanno una colorazione brunastra che diventa come quella dell’adulto avvicinandosi alla metamorfosi (Lanza, 1983).Vive prevalentemente nei boschi di latifoglie decidue vicino a corsi d’acqua. È una specie attiva prevalentemente tra il crepuscolo e l’alba.

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S. salamandra è distribuita (Figura 26) in tutto l’arco alpino fino ad arrivare ai 2000 m di quota e lungo la catena appenninica (Vanni e Nistri, 2006).

Per quanto riguarda la distribuzione toscana è da attribuire alla sottospecie appenninica S. s. gigliolii Eiselt e Lanza, 1956.

Figura 26. Distribuzione italiana Salamandra pezzata (Caldonazzi et al.,

2007; modificata da B. Giovannini).

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3.2 Salamandrina perspicillata (Savi, 1821)

Figura 27. S. perspicillata; www.actaplantarum.org.

Inquadramento sistematico

CLASSE: AMPHIBIA ORDINE: URODELA

FAMIGLIA: SALAMANDRIDAE Il genere Salamandrina è composto da due specie endemiche dell’Italia peninsulare appenninica, simili nell’aspetto esteriore, distinte su basi genetiche:  Salamandrina perspicillata (Savi, 1821) in Italia settentrionale;  Salamandrina terdigitata (Lacépède, 1788) distribuita in Campagna centrale e meridionale, Basilicata e Calabria.

Salamandrina perspicillata (Savi, 1821) ha una colorazione nerastra-marrone con una zona più chiara a forma di V sulla parte dorsale del capo (Vanni e Nistri, 2006); la lunghezza degli adulti va da 7 a 10 cm. L’accoppiamento avviene a terra in primavera e le femmine depongono le uova in acqua a gruppi di 10-20, fissandoli a corpi sommersi. Le larve sono semi-trasparenti e a fine sviluppo misurano dai 2,5 ai 3,5 cm (Vanni e Nistri, 2006).

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S. perspicillata predilige le aree forestali a latifoglie. È maggiormente attiva nelle ore crepuscolari e notturne.

Questa specie è endemica dell’Italia peninsulare settentrionale e centrale (Figura 28); è diffusa dalla Liguria e Piemonte sud orientale fino alla Calabria. È presente maggiormente sul versante tirrenico e predilige zone collinari e di medio-bassa montagna (Vanni e Nistri, 2006).

Figura 28. Distribuzione italiana Salamandrina di Savi (Angelini et al., 2007; modificata da B. Giovannini).

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3.3 Ichthyosaura alpestris (Laurenti, 1768)

Figura 29. Ichthyosaura alpestris femmina;

Foto B. Giovannini.

Inquadramento sistematico

CLASSE: AMPHIBIA ORDINE: URODELA

FAMIGLIA: SALAMANDRIDAE

Il tritone alpestre è presente in Italia con tre sottospecie:

 Ichthyosaura alpestris alpestris (Laurenti, 1768);

 Ichthyosaura alpestris apuanus (Bonaparte, 1839) degli

Appennini centro-settentrionali e di alcuni rilievi interni;

Ichthyosaura alpestris

inexpectatus (Dubois e Breuil, 1983

)

di pochi laghetti della Catena Costiera in Calabria, individuato su base genetica.

Ichthyosaura alpestris (Laurenti, 1768) da adulto raggiunge gli 8-9 cm di lunghezza nei maschi e di 10-12 cm nelle femmine. È una specie con forte dimorfismo sessuale: i maschi hanno una colorazione più vivace e una cresta vertebrale.

Si riproduce in acqua e le femmine depongono singole uova attaccate a fili d’erba ripiegati. Le larve sono di colorazione scura e lunghe 5 cm. Il Tritone alpestre può sviluppare forme neoteniche in condizioni ambientali particolari. I neotenici sono caratterizzati dalla permanenza delle branchie esterne, ma già maturi dal punto di vista riproduttivo (Lanza, 1983

).

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50

Questa specie è attiva principalmente di notte e durante la stagione fredda entra in letargo. Il Tritone alpestre è distribuito sul territorio italiano (Figura 30) non uniformemente e limitato essenzialmente ai rilievi.

I. a. alpestris (Laurenti, 1768) appare comune nel settore orientale. In Italia nord-occidentale è localizzato in alta Val d’Aosta (Sindaco, 1993) e Val d’Ossola.

Figura 30. Distribuzione italiana del Tritone alpestre (Andreone et al., 2007;

modificata da B. Giovannini).

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3.4 Bufo bufo (Linnaeus, 1758)

Figura 31. B. bufo; Foto B. Giovannini.

Inquadramento sistematico

CLASSE: AMPHIBIA ORDINE: ANURA

FAMIGLIA: BUFONIDAE B. bufo ha due sottospecie in Italia:

 B. b. bufo (Linnaeus, 1758),

distribuita sulle Alpi e nella Pianura Padana;

B. b. spinosus Daudin, 1803, Italia continentale, Sicilia e Isola d’Elba; di taglia e parotoidi più grandi e colorazione particolarmente contrastata (la validità delle

sottospecie è ancora dubbia, Piazzini et al., 2005).

Il Rospo comune è un Anfibio di grandi dimensioni, può arrivare ad una lunghezza massima intorno ai 20 cm; ha una colorazione ventrale biancastra, mentre il dorso è di colore bruno-rossastro (Vanni e Nistri, 2006). Il dimorfismo sessuale non è molto marcato in questa specie. La differenza si riscontra maggiormente nelle dimensioni: maschi più piccoli delle femmine con avambracci più robusti e presenza dei pad nuziali sulle prime tre dita e sul carpo. Bufo bufo (Linnaeus, 1758) si riproduce dopo il letargo invernale da marzo a giugno a seconda della quota e della latitudine.

L’accoppiamento è di tipo ascellare, cioè il maschio sale sul dorso della femmina fecondando le uova, mentre vengono emesse in acqua.

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I luoghi di accoppiamento vengono raggiunti con migrazioni di moltissimi esemplari. Le femmine depongono da 4000 a 6000 uova contenute in due o quattro file, in lunghi cordoni gelatinosi, ancorati alla vegetazione o alle pietre sul fondo (Vanni e Nistri, 2006).

Le larve hanno una colorazione nera, alla schiusa misurano da 3 a 5 mm e il loro sviluppo dura dai 2 ai 3 mesi (Vanni e Nistri, 2006). B. bufo è una specie prevalentemente notturna, predilige ambienti diversificati che vanno dai boschi alle aree prative, coltivate e antropizzate. La specie è presente in tutta Italia, eccetto in Sardegna (Figura 32).

Figura 32. Distribuzione italiana di Rospo comune (Bӧhme

et al., 2007; modificata da B. Giovannini).

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3.5 Rana italica Dubois, 1987

Figura 33. R. italica; Foto B. Giovannini.

Inquadramento sistematico

CLASSE: AMPHIBIA ORDINE: ANURA FAMIGLIA: RANIDAE

La Rana appenninica fino a pochi anni fa era considerata una sottospecie di Rana graeca Boulanger, 1891;

successivamente è stata riconosciuta a livello specifico sulla base della sua distribuzione e delle caratteristiche genetiche (Andreone, 2004).

Rana italica Dubois, 1987 ha una colorazione dorsale bruno-rossiccia. La gola chiara macchiettata di scuro; una stria chiara sul labbro inferiore si estende fino a sotto l’occhio. La lunghezza degli adulti non supera i 4-5 cm (Vanni e Nistri, 2006). Il dimorfismo sessuale non è molto accentuato e la differenza sta nelle dimensioni: femmine più grandi; inoltre i maschi hanno avambracci più robusti e i pad nuziali. La riproduzione avviene in primavera e l’amplesso è di tipo ascellare; la femmina depone le uova fecondate in acqua in piccole masse rotondeggianti ancorate a sassi e altri oggetti sommersi.

La colorazione del girino è bruno-grigiastra. I girini metamorfosano dopo 2-3 mesi dalla schiusa delle uova (Vanni e Nistri, 2006).

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La Rana appenninica è una specie legata molto ai torrenti e ruscelli con acqua limpida in aree boscate di latifoglie. È una specie endemica dell’Italia appenninica, essendo distribuita dalla Liguria centrale all’Aspromonte ed è diffusa maggiormente lungo il versante appenninico tirrenico (Figura 34)

.

Figura 34. Distribuzione italiana di Rana appenninica (Picariello

et al., 2007; modificata da B. Giovannini).

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3.6 Rana dalmatina Fitzinger, 1838

Figura 35. R. dalmatina; Foto B. Giovannini.

Inquadramento sistematico

CLASSE: AMPHIBIA ORDINE: ANURA FAMIGLIA: RANIDAE

Rana dalmatina Fitzinger, 1838 è una specie monotipica

assegnata al genere Rana, in cui è inserito il gruppo di rane rosse

.

Rana dalmatina Fitzinger, 1838 ha un corpo slanciato e le zampe posteriori molto lunghe. La colorazione va dal grigio al bruno-giallastro, al marrone, al rossastro con macchiette scure. Il ventre ha una colorazione biancastra e la parte interna della coscia e l’inguine hanno una colorazione gialla.

Gli adulti possono arrivare a una lunghezza massima di 9 cm (Vanni e Nistri, 2006). Il dimorfismo sessuale non è marcato e consiste nelle dimensioni più ridotte nel maschio e un avambraccio più robusto rispetto alla femmina.

Inoltre durante il periodo riproduttivo il maschio presenta la formazione dei pad nuziali. L’accoppiamento è di tipo ascellare e avviene in acqua, dove le femmine depongono le uova in masse rotondeggianti e gelatinose ancorate alla vegetazione.

Le larve hanno una colorazione brunastra sul dorso, la parte ventrale con macchiette madreperlacee e una membrana caudale molto ampia che finisce appuntita.

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R. dalmatina preferisce vivere in ambienti boscati, a parte il breve periodo riproduttivo. La sua attività è maggiore al crepuscolo e di notte. È segnalata in gran parte dell’Italia continentale, peninsulare, sulle Alpi e sull’Appennino centrale; si spinge fino a 1600 m slm (Figura 36).

Figura 36. Distribuzione italiana di Rana agile (Bernini et al., 2007;

modificata da B. Giovannini).

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3.7 Rana temporaria Linnaeus, 1758

Figura 37. R. temporaria; www.naturamediterraneo.com

Inquadramento sistematico

CLASSE: AMPHIBIA ORDINE:ANURA FAMIGLIA: RANIDAE

Rana temporaria Linnaeus, 1758 è la rana rossa più grossa e con la corporatura più massiccia presente in Italia. Dorsalmente ha una colorazione che va dal bruno al bruno-rossastro, con una serie di macchie brune scure o nerastre. La lunghezza totale è di 7-8 cm, ma può raggiungere anche i 10,5 cm. Il dimorfismo sessuale è presente nella colorazione della zona ventrale, che nei maschi presenta macchie di colore bruno-grigiastro. Inoltre il maschio ha gli avambracci più robusti, i pad nuziali e due sacchi vocali interni nella parte laterale della gola.

La riproduzione avviene tra marzo e maggio. Anche per R. temporaria l’accoppiamento è di tipo ascellare, avviene in acqua, più spesso di notte. La femmina depone 700-4000 uova nerastre, raccolte in grosse masse, che galleggiano sulla superficie dell’acqua.

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