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Il downsizing tra miti e realta'. Il caso di Perini Navi.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di laurea in Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane

IL DOWNSIZING TRA MITI E REALTÀ Il caso Perini Navi

Candidato: Nicolas Quadrelli

Relatore:

Prof. Mauro Sylos Labini

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

PARTE I - IL DOWNSIZING FRA FATTI E MITI ... 5

CAPITOLO 1 – RICOSTRUZIONE DI UN FENOMENO COMPLESSO ... 6

1.1 – Definizioni, caratteristiche e strategie principali ... 6

1.2 – Cause ... 10

1.3 – Periodi storici ... 12

1.4 – Cause-bis: la teoria istituzionale ... 14

CAPITOLO 2 – LA PROVA DEI FATTI ... 19

2.1 – Effetti economici e finanziari ... 19

2.2 – Costi ... 23 2.3 – Reputazione ... 26 2.4 – Produttività e qualità ... 28 2.5 – Formazione ... 29 2.6 – Effetti psicologici ... 29 RIEPILOGO ... 33 PARTE II - IL CASO PERINI NAVI ... 35

CAPITOLO 1 – ANALISI DEL CASO AZIENDALE ... 37

1.1 – Ambiente ... 37

1.2 – Caratteristiche della forza lavoro ... 45

1.3 – Cultura ... 45

1.4 – Strategia ... 46

1.5 – Tecnologia del posto di lavoro ... 47

1.6 – Coerenza del sistema HR ... 49

CAPITOLO 2 – IL DOWNSIZING DI PERINI NAVI ... 54

2.1 – Riduzione della forza lavoro ... 54

2.2 – Lean transformation ... 56

RIEPILOGO ... 59

CONCLUSIONI ... 61

BIBLIOGRAFIA ... 64

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INTRODUZIONE

L’idea per questo elaborato nasce dall’esperienza di tirocinio curricolare maturata presso l’HR Department di Faper Group S.p.A. dove chi scrive è stato impegnato in attività di rilevazione e analisi dei profili professionali per l’aggiornamento dei mansionari delle varie aziende controllate dalla società. La necessità di attivare questo progetto formativo è nata dai processi di riorganizzazione industriale avvenuti a seguito della crisi economica. Da qui la domanda da cui parte questo testo: quali sono i principali effetti economici, organizzativi e, soprattutto, sul sistema HR di una ristrutturazione aziendale quando implica un ridimensionamento organizzativo e la perdita di posti di lavoro?

Da una prima rassegna della bibliografia, è emerso come il downsizing abbia contorni teorici non completamente definiti e come, nonostante sia una scelta utilizzata da oltre trent’anni, è difficile trovare studi che ne misurino l’efficacia. Questi due elementi si possono ricollegare gli argomenti trattati da Pfeffer e Sutton nel loro La strategia dei fatti (2011) in cui gli autori lamentano che fin troppo spesso le decisioni manageriali sono prese sulla base di credenze che poco hanno a che spartire con la razionalità basata su prove fattuali concrete. Si è quindi deciso di dedicare la prima parte dell’elaborato a una trattazione più generale del downsizing cercando di verificare la congruità degli effetti economici e organizzativi “benefici” spesso sbandierati da consulenti e manager con quelli rilevati da studi e indagini di accademici, ricercatori e associazioni professionali.

Nel primo capitolo si propone una ricostruzione teorica dell’argomento. Questa scelta, che potrebbe sembrare meramente compilativa, risponde invece a una necessità di chiarezza generale, dal momento che, come si è detto poc’anzi, uno dei maggiori limiti riconosciuto dalla stessa letteratura accademica è l’assenza di un modello teorico di riferimento. Lungi dal volerne proporre uno, si è ritenuto utile e propedeutico per rispondere alla nostra domanda di ricerca, riassumere le principali caratteristiche, strategie, cause e sviluppi storici del downsizing per poi individuare l’approccio più consono da utilizzare nel corso della trattazione. Si sono poi analizzate le principali cause del ricorso a tali politiche, sia quelle di carattere economico e organizzativo sia quelle che, riprendendo la teoria istituzionale di Meyer e Rowan (1977), considerano l’intervento di forze sociali nel far sì che i manager si omologhino a determinate regole istituzionali che giustifichino il downsizing.

Il secondo capitolo, invece, risponde al quesito principale di questa prima parte: gli effetti economici e organizzativi reali del downsizing corrispondono a quelli previsti dal management o può accadere che le loro aspettative vengano disattese? Si sono quindi presi in

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considerazioni alcuni miti – intesi come risultati delle azioni di ridimensionamento suggeriti dal senso comune – cercando di trovarne riscontro sulla base di ricerche e indagini empiriche. Quando ciò non è stato possibile, si è evidenziato perché e a quale costo queste mezze verità possano portare risultati opposti a quelli preventivati.

La seconda parte dell’elaborato analizza il caso di Perini Navi, azienda del gruppo Faper e leader internazionale nella progettazione e costruzione di super yacht a vela. Complice la crisi del settore della nautica di lusso con conseguente calo delle commesse, il presentarsi di nuovi competitor a livello internazionale, nuovi modelli di produzione e differenti richieste dei clienti in termini di personalizzazioni di prodotto e servizi, l’azienda si è trovata in una situazione di difficoltà strutturale che ha spinto il management ad adottare strategie di ridimensionamento organizzativo. Anche in questo caso si è scelto di dividere la trattazione in due parti: una più generale e una più specifica.

Nel primo capitolo si è esaminata l’azienda nel suo complesso attraverso l’analisi dei cinque fattori proposta da Baron e Kreps (1999). Si sono quindi presi in considerazione l’ambiente competitivo, economico e sociale in cui la società opera, le caratteristiche del personale, la cultura e la strategia aziendale e la tecnologia del posto di lavoro per determinare il grado di coerenza o incoerenza del sistema HR, sia nei suoi elementi interni che fra questi fattori esogeni.

Evidenziati i punti di forza e le criticità di Perini Navi si è passati, nel secondo capitolo, ad analizzare le principali azioni di downsizing implementate nel piano di riorganizzazione industriale, mettendole in relazione con i risultati emersi nella prima parte dell’elaborato e concentrandosi soprattutto sui possibili effetti organizzativi e sulle risorse umane delle scelte attuate. In particolare, si sono analizzate procedure e motivazioni utilizzate per la riduzione del personale e le cause delle difficoltà incontrate dall’azienda per attuare il progetto di lean transformation dei processi produttivi e dell’organizzazione.

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PARTE I

IL DOWNSIZING FRA FATTI E MITI

Ne La strategia dei fatti (2011) Jeffrey Pfeffer e Robert Sutton mettono in guardia dal “potere ipnotico delle mezze verità”. Gli autori sottolineano come spesso accada che alcune politiche in tema di gestione aziendale e delle risorse umane vengano considerate generalmente valide e applicabili seppure queste dimostrino la loro utilità solo quando implementate nei tempi e nei modi adeguati.

Il problema viene individuato nel fatto che, per valutare l’efficacia di una determinata strategia manageriale, spesso ci si basi sull’esperienza altrui, o su quella passata, senza però contestualizzarne a fondo i motivi di successo. Si noti che l’esperienza di per sé, sia diretta che indiretta, è una fonte di dati e informazioni importante su cui basare le proprie decisioni, ma il rischio è quello di effettuare confronti con criteri casuali, finendo per emulare solo i processi più visibili e immediati tralasciandone altri ben più importanti.

Questo capitolo cerca di capire se anche il downsizing possa incorrere in queste problematiche da cui i manager debbano essere messi in guardia. Per far ciò ricostruisce un preliminare quadro teorico dell'argomento, dato che presenta molteplici sfaccettature tali da poter creare equivoci; successivamente, cerca di capire se i principali risultati economici e organizzativi attesi dal management dai piani di ridimensionamento organizzativo siano effettivamente supportati da evidenze statistiche tali da rendere tali strategie universalmente valide o se siano annoverabili come mezze verità.

In un’ottica di management basato sui fatti è fuori dall’intento di questo lavoro voler redigere un vademecum sulle best praticses riguardo al downsizing – si rischierebbe di andare a commettere gli errori di generalizzazione di cui sopra – si vuole piuttosto cercare di presentare le principali evidenze sulle conseguenze economiche e organizzative di uno dei più delicati banchi di prova in ambito HR (Welch & Welch, 2009).

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CAPITOLO 1 – RICOSTRUZIONE DI UN FENOMENO COMPLESSO

La parola downsizing è stata utilizzata per la prima volta in ambito aziendale per indicare la riduzione nelle dimensioni e nella potenza – si legga nel consumo – delle automobili prodotte dopo la crisi petrolifera del 1973. Solo in seguito sarà ripresa in termini organizzativi per indicare il processo di riduzione della forza lavoro avvenuto negli USA a seguito della recessione iniziata nel 1982 (Littler & Gandolfi, 2008) e successivamente come strategia a più ampio raggio volta a migliorare la performance complessiva dell’organizzazione (Gandolfi & Hansson, 2011).

Seppure si tratti di una pratica manageriale ormai consolidata, a causa dell’utilizzo comune del termine non è semplice darne una connotazione teorica precisa. Basti pensare che durante lo studio di Kim S. Cameron del 1994 sulle strategie di downsizing i vari manager interpellati dell’autore utilizzarono ben 34 parole differenti per indicare le azioni di ristrutturazione e di riduzione degli asset utilizzate. In altri contributi si ritiene che il termine sia uno dei tanti eufemismi usati per nascondere una strategia comune: tagliare posti di lavoro (Bauhmol, 1993; Cascio, 2002; Pfeffer, 2010). Alcuni studiosi lamentano addirittura che il campo di ricerca sia sottosviluppato rispetto ad altri strumenti di politica organizzativa (Macky, 2004). Dato questo scenario, cercare di dare un inquadramento più preciso dell’argomento non è soltanto un mero sforzo compilativo ma il tentativo di voler sgomberare il campo da incertezze e possibili incomprensioni, nonché creare un punto di partenza per una trattazione più precisa del tema.

1.1 – Definizioni, caratteristiche e strategie principali

Quindi, che cosa s’intende per downsizing? Tra le definizioni più utilizzate in letteratura se ne possono riportare due. La prima interpreta il termine in senso più stretto e lo definisce come l’eliminazione pianificata di ruoli e/o posizioni (Cascio, 1993). L’altra, più generale, vede il downsizing come l’insieme di attività sostenute volontariamente dal management per migliorare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’azienda e che interessano la dimensione della forza lavoro, i costi e i processi (Freeman & Cameron, 1993; Cameron, 1994). Non appare appropriato – e forse nemmeno possibile – cercare di stabilire quale fra le due sia la definizione più rigorosa, si concorda piuttosto con Gandolfi (2011) che vede questi due approcci come gli estremi di un medesimo continuum. Entrambe, pur nelle loro

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differenze, condividono le quattro principali caratteristiche del downsizing individuate da Cameron, Freeman e Mishra (1991).

La prima è facilmente individuabile nelle definizioni stesse in quanto tutte e due pongono l’accento sulla natura intenzionale, e quindi endogena, delle azioni di downsizing. Questa caratteristica ci permette di differenziarlo dal declino organizzativo a cui vengono associate conseguenze negative in termini economici e organizzativi – riduzione degli asset compresa – a causa di un inadeguato adattamento a condizioni ambientali – e quindi esogene – disfunzionali (Cameron, Freeman & Mishra, 1991).

Appare altresì erroneo considerare questi due termini legati da una relazione causa-effetto: un’azienda può decidere di implementare azioni di downsizing senza necessariamente vivere una fase di declino così come durante quest’ultime può non essere la risposta scelta dal management per risollevarsi dal periodo di crisi (Cameron, Freeman & Mishra, 1991; Cascio 2002; Tuna 2009).

Questa precisazione è utile per introdurre un’importante categorizzazione del termine. In letteratura vengono distinti due tipi di downsizing: reattivo e proattivo. Il primo si riferisce alle azioni intraprese dal management a fronte di una situazione di declino causata da una crisi economica e/o finanziaria e quindi, come si rammentava sopra, da fattori generalmente esterni. L’obiettivo principale, in questo caso, è la sopravvivenza dell’azienda, per questo l’ottica è spostata nel breve periodo e le azioni intraprese sono soprattutto volte al contenimento dei costi. L’altro tipo, quello proattivo, è slegato dall’andamento della congiuntura economica ed è implementato per migliorare la competitività e l’efficienza aziendale nel lungo periodo sfruttando, ad esempio, nuove tecnologie, agendo sulle competenze e conoscenze delle risorse umane o riorganizzando l’azienda nel suo complesso. (Ryan & Macky, 1998; Zatzick, Marks & Iverson, 2009; Gandolfi, 2014).

La seconda caratteristica riguarda la riduzione del personale. Sebbene possa non essere l’unico output possibile, comunemente si considera il taglio intenzionale dei posti di lavoro come il “core business” delle politiche di downsizing. Tuttavia bisogna fare attenzione nel considerare downsizing e licenziamenti come sinonimi, in quel caso sarebbe meglio aggiungere il complemento di specificazione employment (Cascio, 2002) oppure utilizzare termini come workforce reduction (Cameron, 1994) o reduction-in-force (Gandolfi & Hansson, 2010) in quanto downsizing fa riferimento – almeno in linea teorica – a un set di strategie più ampio che ha sì effetti sulle risorse umane ma che non si limita esclusivamente alla loro eliminazione dall’azienda.

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Terzo, che sia implementato in maniera reattiva o proattiva, il downsizing ha l’obiettivo di migliorare l’efficienza dell’organizzazione e renderla lean and mean. Secondo Gandolfi (2011) la maggiore differenza fra le definizioni di Cascio e Cameron utilizzate a inizio paragrafo sta nel fatto che la prima consideri come obiettivo del downsizing non tanto il miglioramento delle performance dell’azienda di per sé quanto piuttosto la riduzione della dimensione organizzativa. Non si concorda pienamente con quest’affermazione in quanto porrebbe il contributo di Cascio troppo vicino a confondersi con il declino organizzativo e inoltre non sembra tener conto del fatto che proprio nell’articolo in questione l’autore si concentri proprio sul perché gli obiettivi di efficienza1 legati al piano di ristrutturazione possano non presentarsi.

Per ultimo va sottolineato come le attività di downsizing abbiano effetti sui processi aziendali. Questo può avvenire direttamente, quando l’intento è quello di snellire la struttura organizzativa, oppure indirettamente. Infatti, anche nel caso in cui le politiche adottate si limitino alla riduzione dell’organico, questo andrà a influire su come il lavoro verrà ripartito tra chi rimane all’interno dell’organizzazione.

Continuando nell’intento di definire meglio i contorni dell’argomento, nella Tabella 1 si riassumono i principali approcci presentati in letteratura riguardo alle strategie con cui il ridimensionamento organizzativo è implementato: riduzione della forza lavoro, organization redesign e sistemica (Cameron, Freeman & Mishra 1993; Appelbaum, Everard & Hung, 1999; Gandolfi, 2008).

• Riduzione della forza lavoro

È la strategia più “semplice”, veloce e comune con cui le organizzazioni decidono di ridimensionarsi. L’obiettivo – spesso di breve periodo – è la riduzione dell’organico aziendale per un rapido contenimento dei costi. Può essere implementata attraverso licenziamenti collettivi, incentivi all’esodo, pensionamenti anticipati e non rinnovando i contratti di lavoro attualmente in essere.

• Organization redesign

Un’organizzazione può diventare lean and mean non solo riducendo l’organico ma anche snellendo e riorganizzando la struttura aziendale e il modo in cui vi si lavora. Eliminare, sostituire o unire livelli gerarchici, funzioni e unità considerati ridondanti, modificare i task dei lavoratori secondo un’ottica di job enrichment e/o enlargment è un altro modo per fare

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Per Cascio i benefici previsti dal downsizing sarebbero sei: minor costo del lavoro, minor burocrazia, processo decisionale e comunicativo migliorato, maggior intraprendenza della forza lavoro e aumento della produttività.

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downsizing. In questo caso l’orizzonte temporale, sia d’implementazione che in termini di risultati attesi, è il medio periodo .

• Sistemica

Questa strategia considerare il downsizing come il tentativo non solo di cambiare la struttura organizzativa di un’azienda e i suoi processi ma anche la cultura, i valori e la missione (de Vries & Balazs, 1997). Prevede un coinvolgimento costante delle risorse umane nell’identificare i costi nascosti da ridurre secondo un’ottica di downsizing di tipo bottom-up. È focalizzata nell’ottenere proattivamente vantaggi nel lungo periodo e presuppone un investimento nella formazione delle risorse umane, non solo nelle dimensione del saper fare ma anche in quella del saper essere.

Queste strategie non sono indipendenti né mutualmente esclusive. Le organizzazioni possono quindi implementare un mix di azioni delle diverso tipo. In questo caso si parlerà di un approccio al downsizing con una maggiore ampiezza. Tuttavia Cameron (1994) rileva come le organizzazioni analizzate nel suo studio siano più propense a usare un approccio caratterizzato da maggior profondità in cui vengono usate un gran numero di azioni dello stesso tipo. In particolare, la strategia più utilizzata è quella della riduzione della forza lavoro2.

Tabella 1 – Strategie di downsinzing e categorizzazione secondo ampiezza e profondità

Maggiore ampiezza è (Più azioni delle diverse strategie)

Strategie di downsizing

Riduzione forza lavoro Organization redesign Sistemica

Maggiore profondità ê

(Più azioni della stessa strategia) - Licenziamenti - Pensionamenti anticipati - Incentivi all’esodo - Scadenza contratti […] - Eliminazione livelli aaagerarchici - Accorpamento unità - Job enrichment - Job enlargment […]

- Eliminazione costi nascosti - Cambio cultura azienda - Cambiamento bottom-up - Attivazione RU in processo

aaadownsizing […]

Rielaborato da: Cameron, K. S., Freeman, S. J., & Mishra, A. K. (1993).

Ricapitolando, pur in assenza di una definizione unica, possiamo includere il downsizing nell’ambito delle attività correlate alla ristrutturazione organizzativa, cioè i cambiamenti pianificati della struttura dell’azienda che coinvolgono le proprie risorse umane (Cascio, 2002). Nel suo senso più specifico il downsizing è l’insieme di azioni volte a ridurre costi, ridondanze e dimensione organizzativa dell’azienda e che prevedono spesso l’eliminazione di

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Lo studio di Cameron, Freeman e Mishra (1993) analizza le strategie di downsizing di 30 aziende del settore automobilistico USA, scelte con l’intento di massimizzare l’eterogeneità fra le dimensioni organizzative. Durante il periodo di analisi 29 aziende hanno utilizzato almeno un’azione di riduzione della forza lavoro, 15 almeno una di organization redesign e solo in 12 hanno tentato un approccio sistemico.

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posti di lavoro; mentre una visione più olistica lo inserisce tra i processi di cambiamento organizzativo che coinvolgono anche la cultura e lo status quo.

Nel prosieguo questo elaborato si concentra soprattutto sul primo approccio in quanto più in linea con i riferimenti bibliografici utilizzati e più consono ad analizzare il caso aziendale presentato nella seconda parte del lavoro. Inoltre – come già anticipato in apertura – l’attenzione è posta sull’employement downsizing che coinvolge in maniera più diretta le risorse umane e che appare più interessante da affrontare secondo l'ottica del management basato sui fatti, in quanto risulta essere contemporaneamente la strategia più utilizzata e più problematica in sede di congruenza fra risultati auspicati e ottenuti.

1.2 – Cause

Perché le organizzazioni decidono di ridimensionarsi?

È necessario premettere che anche per questo interrogativo non si può dare una risposta unica e certa. Come si è visto in precedenza stiamo parlando di un fenomeno manageriale vasto e complesso e cercare di individuarne un set finito di cause equivarrebbe a sottovalutare tale natura; dietro ogni decisione del management di utilizzare strategie di downsizing c’è una molteplicità di fattori tra loro interdipendenti. Vediamo una rapida rassegna di quelli più citati in letteratura.

Uno dei motivi più comuni è l’intenzione di implementare politiche di contenimento dei costi in risposta a fattori esterni su cui la direzione aziendale ha un limitato grado di controllo. Crisi economico-finanziarie, maggiore pressione dei competitor anche a livello internazionale, declino di alcuni settori e mercati con conseguente perdita di market share, cambiamenti demografici, cambiamenti legislativi, aumento del costo del lavoro e accordi internazionali sono alcuni dei motivi che possono indurre le aziende a rivedere la loro dimensione organizzativa cercando di eliminare gli sprechi e le inefficienze accumulate (Gandolfi & Hansson, 2011). Più incerto è l’impatto dell’innovazione tecnologica sul downsizing. Per Appelbaum (1999a, 1999b) la conseguenza è un aumento della produttività e quindi una minore necessità di lavoratori. Altri invece contestano che gli avanzamenti tecnologici di per sé portano non di rado ad assumere nuovi lavoratori e nuove figure professionali e che sia piuttosto l’impatto amministrativo delle ICT a rendere necessari interventi di riduzione del personale (Kets de Vries & Balazs, 1997; Gandolfi & Hansson, 2010).

Quella del downsizing può anche essere la risposta a pressioni interne causate da risultati economici e finanziari non all’altezza delle aspettative del management e della proprietà da

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cui deriva la necessità di tagliare le spese con l’intento di aumentare i guadagni e di conseguenza migliorare il valore delle azioni rispondendo alle pressioni degli shareholder (Appelbaum, Heverard & Hung, 1999; Cameron, 1994; Cascio, 1995, 2002). Una ristrutturazione può essere necessaria dopo un’acquisizione o una fusione per eliminare eventuali ridondanze di lavoratori o funzioni oppure può essere parte di un piano più ampio di cambiamento della strategia aziendale (Gandolfi & Hansson, 2011). Il downsizing è anche utilizzato insieme all’outsourcing in modo da rendere più flessibile ed economica la variazione della forza lavoro a seconda delle necessità produttive (Baron & Kreps, 1999). Nella Tabella 2 si è cercato di sintetizzare alcune delle cause appena riportate suddividendole in base alla loro natura esterna o interna rispetto all'organizzazione. Un'altra ripartizione utilizzata in letteratura discrimina fra fattori di ordine macroeconomico, relativi al settore dell’azienda oppure specifici rispetto all’organizzazione nel suo complesso (Drew, 1994; Gandolfi, 2014). Col rischio di sembrare ripetitivi si vuole nuovamente sottolineare come queste categorie abbiano carattere indicativo e non vadano considerate come compartimenti stagni vista l’interdipendenza dei vari fattori dietro ogni decisione di downsizing.

Tabella 2 – Principali cause di downsizing

Fattori esterni Fattori interni

- Congiuntura economica - Competizione internazionale - Pressione dai competitor - Crisi di settore

- Perdita di market share - Cambiamenti demografici - Uscita da mercati internazionali - Cambiamenti legislativi - Innovazioni tecnologiche - Variazione costo del lavoro […]

Economico/finanziari:

- Strategie di riduzione dei costi - Scarsi risultati finanziari - Richieste degli shareholder - Scarsi/errati investimenti strategici Organizzativo/manageriali:

- Fusioni e acquisizioni (M&A) - Crisi del management

- Cambiamento della strategia/mission - Diminuzione degli indicatori di performance - Outsourcing

[…]

Rielaborato da: Gandolfi, F., & Hansson, M. (2011).

Un altro interessante contributo è quello fornito dai risultati dello studio dell'American Management Association del 1996 riportati nella Tabella 3. Si può notare una sensibile diminuzione delle condizioni ambientali come principale causa di downsizing a “beneficio” di motivazioni di carattere interno come l’adozione di nuove tecnologie, il ricorso all’esternalizzazione delle attività e, in maniera minore, a eventi come fusioni e acquisizioni.

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Tabella 3 – Principali cause di downsizing 7/90-6/91 % 7/91-6/92 % 7/92-6/93 % 7/93-6/94 & 7/94-6/95 % 7/96-6/97 % Crisi economico-finanziaria 73,1 63,6 65,7 48,7 43,7 36,6 Aumento produttività 33,9 40,0 37,5 41,5 34,5 32,6 Outsourcing 10,5 17,9 14,3 20,5 19,1 22,8 Nuove tecnologie 8,1 12,2 11,4 13,6 19,7 19,6 Fusioni e acquisizioni 8,5 10,1 9,7 13,4 10,4 12,8 Obsolescenza 3,6 3,1 2,5 2,9 5,0 6,0

Fonte: Appelbaum, S. H., Lavigne-Schmidt, S., Peytchev, M., & Shapiro, B. (1999).

1.3 – Periodi storici

La complessità nel definire un quadro teorico preciso del ridimensionamento organizzativo è data anche dal fatto che si tratta di un fenomeno manageriale non recente che ha visto cambiamenti di significato e dei metodi di implementazione nel corso degli anni. Littler e Gandolfi (2008) hanno cercato di contestualizzarlo storicamente individuando tre fasi principali a seconda del livello pratico, comunicativo e strategico con cui il downsizing è stato implementato. Con il primo gli autori fanno riferimento all'entità, al tipo e al target delle strategie di riduzione del personale utilizzate, il livello comunicativo indica la “retorica” utilizzata del management nel giustificare e motivare le scelte attuate, mentre l'ultimo fa riferimento ai motivi strategici e agli obiettivi di tali politiche.

Nella prima fase, che intercorre fra la seconda metà degli anni ’70 e la prima metà anni ’80, la riduzione negli input di lavoro consisteva principalmente in tagli al personale e chiusure di stabilimenti. Difficilmente venivano annunciati licenziamenti di massa superiori a qualche centinaio di unità e in termini assoluti l’entità dei posti di lavoro persi è stata relativamente contenuta e concentrata fra lavoratori manuali e, in minore entità, personale impiegatizio di basso livello. In questa fase il termine downsizing non era frequente nella vulgata comune e nemmeno in quella manageriale e accademica ed era piuttosto utilizzato il concetto di reduction-in-force. Le direzioni aziendali giustificavano i tagli come l’estremo tentativo di opporsi a una situazione di declino organizzativo e scongiurare effetti più gravi, non c’era quindi alcun intento strategico di per sé, se non quello reattivo, nell’adottare politiche di ridimensionamento organizzativo (Gandolfi, 2009a). Il downsizing veniva visto come un’aberrazione della normale vita organizzativa poiché cozzava direttamente con alcuni degli assunti dominanti di quel periodo in tema di management. In particolare si pensava che le aziende migliori fossero quelle più grandi in termini di asset impiegati e che continuassero a crescere nel tempo mantenendo sempre politiche coerenti, ragion per cui flessibilità e

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adattabilità erano viste come caratteristiche disfunzionali (Cameron, Freeman & Mishra, 1991).

Questi assunti hanno subito un profondo ripensamento nella seconda fase, individuata da metà anni ’80 fino agli inizi degli anni 2000. Da bigger is better a lean and mean, un cambio radicale che ha istituzionalizzato il downsizing come lo strumento strategico principale per tenere sotto controllo i costi e impiegare un parsimonioso e flessibile utilizzo degli asset (Gandolfi, 2009a). A dimostrazione della pervasività del downsizing nella vita delle aziende di quel periodo si può citare il dato per cui l’85% delle società della Fortune 5003 ne ha fatto ricorso fra il 1989 e il 1994 e il 100% prevedeva di farlo nei successivi cinque anni: la definizione di Mroczkowski e Hanaoka (1997) del downsizing come l’American quick-fix approach non appare priva di fondamento. Altro elemento di legittimazione del ridimensionamento organizzativo è stato il cosiddetto Wall Street effect, cioè la presunt correlazione fra l’annuncio di piani di ristrutturazione e l’aumento del valore delle azioni di una società (Worrell, Davidson III e Sharma, 1991). Tutto questo scenario si è concretizzato in un maggior numero di posti di lavoro eliminati e stabilimenti chiusi rispetto alla fase precedente, inoltre, nel nome della flessibilità, è aumentato il ricorso a numero di lavoratori temporanei ed esterni (Littler & Gandolfi, 2008). I ruoli e le posizioni più soggette ai tagli non sono stati più gli operai ma soprattutto i colletti bianchi di ogni livello (Gandolfi, 2009a), rei di appesantire l’organizzazione senza corrispondere un adeguato livello di produttività (Cameron, Freeman & Mishra, 1991). Questa fase è considerata da Davis (2003) come quella dei licenziamenti di massa mentre Dolan e colleghi (2000) si riferiscono agli anni ’90 come alla downsizing decade.

La terza e ultima fase che si estende fino ai nostri giorni riprende caratteristiche delle due precedenti. Con la crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007 il downsizing è tornato a essere impiegato anche in maniera reattiva (Rampell, 2009) ma, se negli anni ’70 e ’80 questo era considerato un’eccezione necessaria alla normale crescita delle aziende, oggi la riduzione della dimensione organizzativa e la ricerca della flessibilità sono entrambi obiettivi importanti perché associati – quando le politiche di downsizing sono implementate coerentemente – alla diminuzione degli sprechi, all’aumento dell’efficienza complessiva dell’organizzazione e alla maggiore capacità di risposta a sollecitazioni esterne (Cascio, 2011). Gandolfi (2009a, 2009b) identifica due tra le pratiche di – employement – downsizing più comuni oggi: nascosto e generalizzato. A differenza di quanto avveniva nella seconda fase, in cui le organizzazioni

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La Fortune 500 è una lista annuale delle migliori società USA in termini di fatturato stilata dall’omonima rivista.

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annunciavano pubblicamente i loro cospicui interventi di riduzione del personale nella speranza di giovare della benedizione dei mercati finanziari, oggi, invece, alcuni manager cercano di tenerli nascosti dalla cassa di risonanza dei media (Cassen Weiss, 2008) per evitare pubblicità negativa e non per non impattare sul morale e la motivazione dei dipendenti. Questa scelta, tuttavia, non appare fra le più consigliabili: si vedrà come la maggiore apertura del management nella gestione comunicativa dei piani di downsizing sia uno degli elementi fondamentali per creare un clima collaborativo con i lavoratori e ottenere dei vantaggi durante i periodi di ristrutturazione (Appelbaum, Everard & Hung, 1999; Welch & Welch, 2009; Robbins 2009; Gandolfi & Hansson, 2011). Il secondo tipo di downsizing non è una pratica nuova. Già in passato – soprattutto in periodi di crisi – le organizzazioni hanno fatto ricorso a tagli di posti di lavoro generalizzati e indiscriminati. Cameron (1994) paragona quest’approccio al lanciare una granata in una stanza chiusa: non è dato di sapere chi sopravvivrà. Fuor di metafora, il rischio è che non si riesca a prevedere né a controllare chi lascerà l’organizzazione. Secondo Baron e Kreps (1999) in fase di downsizing si viene a creare un processo di selezione avversa fra l’azienda e i suoi migliori lavoratori. Questi ultimi, infatti, per le loro elevate competenze e conoscenze possono essere quelli maggiormente propensi a tornare sul mercato per cercare un nuovo posto di lavoro in un’impresa più in salute. I processi comunicativi, ancora una volta, possono svolgere un ruolo chiave per evitare di lasciare l’organizzazione con un vuoto di competenze chiave e memoria istituzionale. Infine, tagli generalizzati e indiscriminati non sembrano rispondere ai requisiti di giustizia distributiva e procedurale: colpire in egual modo unità che possono avere livelli di performance differenti può finire per demotivare i migliori dipendenti mentre l’inflessibilità e l’arbitrarietà dei tagli può essere ritenuta ingiusta (Baron & Kreps, 2009; Cascio, 2009).

1.4 – Cause-bis: la teoria istituzionale

La domanda di ricerca che ci siamo posti per questa prima parte dell’elaborato è se gli effetti economici e organizzativi associati al downsizing siano considerabili o meno come quelle mezze verità che Pfeffer e Sutton (2011) considerano tanto dannose per le organizzazioni e le loro risorse umane. Il rischio che si corre quando si decide di implementare una di queste politiche è non rendersi conto che la loro validità tanto sbandierata si basa su un benchmarking di esperienze passate e altrui non adeguato alla propria situazione corrente. Nel paragrafo precedente si è messo in risalto come dalla prima alla seconda fase il downsizing sia passato da esser considerato un male necessario fino a un vero e proprio

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mantra manageriale. Gandolfi (2009b), tuttavia, considera questa situazione come un paradosso in quanto l'entusiasmo nei confronti delle politiche di ristrutturazione – e soprattutto di riduzione del personale – non era supportato da risultati empirici concreti che ne dimostrassero il necessario successo. Come si può spiegare questo fatto?

McKinley, Sanchez e Shick (1995), per spiegare le ragioni del successo del downsizing negli anni '80 e '90 nonostante l’assenza o, nel migliore dei casi, l'incertezza dei dati sulla reale efficacia di tali politiche, si rifanno alla teoria istituzionale di Meyer e Rowan (1977). Questa teoria enfatizza il ruolo delle cosiddette regole istituzionali nel determinare le azioni dei manager e come le organizzazioni si strutturino. In altre parole, esisterebbero norme e/o aspettative condivise all'interno di una società o di un gruppo che legittimano alcuni comportamenti rispetto ad altri. Riformulando i concetti d’isomorfismo coercitivo, mimetico e normativo gli autori identificano tre forze sociali che spiegano cosa spinga le organizzazioni ad adottare regole istituzionali come bussola delle loro politiche: vincolanti, emulative e di apprendimento.

Le forze vincolanti sono date dalla pressione esterna alle aziende affinché si conformino alle regole istituzionali considerate legittime in quel dato periodo. Quindi, attorno agli anni '90 giacché la crescita e la grandezza di un'azienda non erano più viste come degli elementi necessariamente positivi e il downsizing si era svincolato dal concetto – negativo – di declino organizzativo le regole istituzionali iniziarono a legittimare l'utilizzo di politiche di ridimensionamento. Anche il già citato Wall Street effect rappresenta una forza vincolante che ha legittimato scelte di riduzione del personale, soprattutto nel caso in cui il sistema di remunerazione dei CEO preveda una corposa quota di stock options4.

Delle forze emulative si è già parlato introducendo il concetto di mezza verità. Adottare le stesse politiche di organizzazioni leader del settore diventa una risposta più comune di quanto possa sembrare quando l'incertezza dovuta alla competizione internazionale, alle innovazioni tecnologiche e ad altri fattori esterni diventa pressoché incontrollabile per il management. A cavallo fra gli anni '80 e '90 molte delle maggiori aziende dell'industria energetica e petrolifera si resero protagoniste di drastici tagli ai propri organici. Alcune delle motivazioni utilizzate dai manager per giustificare tali scelte erano annoverabili fra gli ordini di fattori di carattere economico e organizzativo – su tutte il basso costo del petrolio e una stringente

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Pfeffer e Sutton (2011) puntualizzano come utilizzo delle stock option per la remunerazione dei manager come strumento per aumentare le prestazioni delle grandi aziende sia dettato più dalle credenze radicate – forte è la somiglianza con le regole istituzionali di cui sopra – che dalla logica. Secondo l'ottica del modello principale-agente è rischioso mischiare incentivi legati al mercato azionario se l'interesse dell'organizzazione è rivolto a quello reale perché si potrebbero indurre e premiare comportamenti disfunzionali all’interesse effettivo dell’organizzazione.

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normativa del governo federale sull'estrazione – ma sia McKinley e colleghi (1995) che Cascio (2009) ritengono che dietro questi licenziamenti ci sia stata una forte spinta imitativa dettata dal successo del profondo piano di ristrutturazione della General Electric sotto la direzione di Jack Welch.

Prendere come esempio le aziende leader non è sbagliato, studiare – per quanto possibile – le procedure che hanno portato a ottimi risultati può essere sia una fonte di ispirazione che di informazioni utili. Nel far ciò bisogna tenere conto delle specificità che caratterizzano ogni realtà. Questi elementi – condizioni ambientali, modelli di business, cultura interna e organizzazione del lavoro – rendono spesso e volentieri le politiche necessarie per raggiungere il successo una questione privata e difficilmente replicabili (Pfeffer e Sutton, 2011). Le forze imitative, invece, rischiano di lasciare in secondo piano questi fattori e di indurre il management a copiare processi che hanno funzionato in altri contesti basandosi su criteri casuali e non interrogandosi in maniera approfondita se fra la strategia in questione e i risultati visibili esista una semplice correlazione o un più profondo rapporto causale.

Le regole istituzionali, infine, possono derivare dai temi discussi nelle università o nelle associazioni professionali. Secondo McKinley (1995) i tradizionali metodi di cost accounting insegnati nelle business school americane hanno portato a giustificare – e di conseguenza legittimare – il downsizing quando questa strategia si combina con quella dell'outsourcing. Con una normale imputazione dei costi generali di produzione le operazioni rimaste in house finiscono per risultare più costose che in precedenza rendendo necessari interventi di ridimensionamento.

Le regole istituzionali, tuttavia, non agiscono indistintamente su tutte le organizzazioni. McKinley, Sanchez e Shick (1995) individuano quattro situazioni in cui l’effetto delle forze sociali è maggiore.

La prima riguarda le aziende che hanno un elevato grado di dipendenza con terze parti per reperire risorse critiche. Queste sono maggiormente esposte alla pressione di shareholder e

stakeholder per omologarsi alle regole istituzionali. Si già detto di come il downsizing possa

essere un mezzo utilizzato per rispondere alle aspettative di azionisti, partner strategici e analisti, soprattutto quando questi ne associno effetti generalmente positivi – in particolare sul valore delle azioni.

Abbiamo riportato che fra le cause di carattere organizzativo che possono indurre la direzione aziendale a ricorrere a eventuali tagli vi è il cambiamento – in negativo o positivo – degli indicatori di performance. Tuttavia, non è sempre possibile monitorare con precisione il contributo di ciascun lavoratore, quando è troppo costoso o intrusivo farlo si ripiega su una

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misura indiretta come il livello di output. Ma se la tecnologia del posto di lavoro5 è caratterizzata da un elevato grado d’interdipendenza, c’è un’alta ambiguità fra i task e la creatività è un aspetto centrale, risulta comunque difficile trovare una misura quantitativa che sia esaustiva dell’input dei lavoratori. In questi casi sarebbe rischioso e incoerente motivare politiche del personale sull’andamento della performance, poiché questa è difficilmente rilevabile e le misure di output scelte non sono controllabili dai singoli. Paradossalmente, questa situazione d’incertezza può comunque spingere la direzione aziendale a utilizzare azioni di ridimensionamento dei costi, in mancanza d’indicatori adeguati le forze vincolanti e imitative possono fornire le “adeguate” giustificazioni per conformarsi alle regole istituzionali e omologarsi alle politiche dei competitor anche rischiando di essere incoerenti.

Ci sono casi in cui è complicato per i manager riuscire a determinare l’esatto numero d’input – risorse umane comprese – necessari a ottenere un adeguato livello di output in quantità e qualità. Ciò avviene quando le core technology dei processi dell’azienda sono ambigue e/o indefinite, come ad esempio nelle aziende di consulenza, di marketing o quelle dell’industria cinematografica o musicale. La difficoltà nel determinare il fabbisogno ottimo di risorse per l’azienda può far apparire come quantomeno rischioso adottare azioni di ridimensionamento organizzativo, tuttavia, ancora una volta, McKinley e colleghi sottolineano come all’aumentare dell’incertezza aumenti anche la pressione delle regole istituzionali. Per gli autori uno dei motivi che ha reso i white collar il target principale dei tagli durante gli anni ’90 è proprio il fatto che questi abbiano generalmente a che fare con tecnologie più incerte rispetto al personale operativo.

Per ultimo, le forze sociali sono più forti quanto è maggiore la frequenza d’interazione fra le organizzazioni. Quando le aziende fanno parte delle stesse associazioni professionali, partecipano alle stesse conferenze, hanno gli stessi consulenti e c’è mobilità della forza lavoro fra competitor le regole istituzionali si diffondo secondo la dinamica dell’apprendimento oltre a quella del vincolo e dell’omologazione.

Per attenuare l’impatto delle forze sociali, gli autori suggeriscono di attuare piani di compartecipazione azionaria dei dipendenti in modo da essere meno dipendenti da terze parti; processi di reengineering incrementali in modo da trovare nessi più precisi fra input e output e poter implementare piani di downsizing motivati “tecnologicamente” e da indicatori precisi e facilmente misurabili su cui poterne valutare l’efficacia ex-post; infine, consigliano di

5 Per tecnologia del posto di lavoro s’intendono i fattori e le condizioni che determinano come gli input di lavoro

siano trasformati in output (Baron e Kreps, 2009). Il termine non va confuso con la mera strumentazione utilizzata in quanto si riferisce all’intero sistema in cui i vari compiti dei lavoratori sono coordinati fra di loro.

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“diversificare” il proprio pattern di interazioni in modo da ampliare il flusso di informazioni a disposizione.

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CAPITOLO 2 – LA PROVA DEI FATTI

Con la teoria istituzionale si è avuto modo di prendere in considerazione un punto di vista che cerca di spiegare l’utilizzo del downsizing al di là delle motivazioni economico-organizzative. Non è ancora possibile dare una risposta alla nostra domanda principale, ma le spinte emulative sono certamente un campanello dall’allarme non indifferente quando si vuole valutare una pratica manageriale in base ai fatti. Nel far ciò è fondamentale cercare di valutare la congruenza dei risultati attesi dal downsizing con quelli effettivamente ottenuti dalle aziende che lo hanno implementato.

Una premessa è d’obbligo: il management basato sui fatti non si esaurisce in un’analisi dei dati quantitativi togliendo valore a ciò che in un’organizzazione non è quantificabile – leadership e capitale umano in primis – e tantomeno vuole cercare di dare soluzioni preconfezionate valide per tutti, ma ha l’obiettivo di porre le prove concrete e i dati come bussola d’orientamento per le scelte aziendali per evitare di basare strategie su fiacche analogie con ciò che ha avuto successo in passato o sta avendo successo in altri contesti.

2.1 – Effetti economici e finanziari

Uno dei risultati attesi dal downsizing è che aumenti la redditività dell’organizzazione. Secondo Cascio (1993) il ragionamento di molti manager si basa sull’idea che per migliorare i risultati economico-finanziari ci sono grossomodo due possibilità: tagliare i costi o aumentare i ricavi. Dato che fra queste due opzioni la prima risulta essere maggiormente prevedibile, ridurre le spese con azioni di downsizing acquista un notevole appeal in quanto porterebbe maggiori guadagni e di conseguenza un maggior valore azionario per la gioia degli

shareholder. Il ragionamento si basa su una condizione fondamentale: che tutte le altre

condizioni all’interno dell’azienda rimangano uguali. Questo, però, molto spesso non accade, e l’impatto del downsizing – soprattutto quando si traduce in tagli generalizzati all’organico – finisce per portare risultati diversi rispetto a quelli preventivati.

Il già citato Wall Street effect non è mai stato supportato da un coro unanime di ricerche che ne dimostrassero l’effetto, tutt’altro (Gandolfi, Renz, Hansson & Davenport, 2011). Lavelle (2012) riporta una ricerca della Bain & Company in cui sono stati analizzati il valore azionario delle aziende che hanno ridotto la propria forza lavoro. La conclusione è che gli investitori tendono a riconoscere quando i tagli sono parte di un business plan di più ampio respiro o di una strategia tampone per contenere i costi. Nel primo caso i dati parlano di un

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aumento medio del 10% e del 13% nei casi di licenziamenti a seguito di fusioni o acquisizioni e piani di ristrutturazione complessiva. Nel secondo, si rileva una diminuzione del 2% nei primi 30 giorni dai licenziamenti e prestazioni di mercato inferiori dell’8% nei tre anni successivi.

Una delle ricerche più complete sull’argomento è quella di Cascio e Young (1997, 2003) che hanno studiato l’andamento finanziario delle società dello Standard & Poor’s 5006 dal 1982 al 2000. L’obiettivo della ricerca è stato osservare le performance finanziarie delle società considerando le variazioni del return on asset e del rendimento azionario – sia in maniera indipendente che ponderata al settore di appartenenza in modo da poter confrontare aziende che condividano simili condizioni economiche e competitive – da un anno prima a due anni dopo ogni variazione intenzionale della dimensione organizzativa.

Le aziende sono state suddivise in 7 categorie per ogni periodo di analisi: • Employment downsizers

Aziende in cui la diminuzione della forza lavoro è stata maggiore del 5% e quella di impianti e attrezzature minore del 5%.

• Asset downszizers

Aziende in cui la diminuzione di impianti e attrezzature è stata maggiore del 5% rispetto a una diminuzione della forza lavoro di almeno il 5%.

• Combination downsizers

Aziende che hanno ridotto il personale di più del 5% ma non rientrano nelle categorie precedenti.

• Employment upsizers

Aziende in cui l’aumento della forza lavoro è stato maggiore del 5% e quello di impianti e attrezzature minore del 5%.

• Asset upsizers

Aziende con un aumento del personale maggiore o uguale al 5% e un relativo aumento di impianti e attrezzatura superiore di almeno il 5%.

• Combination upsizers

Aziende che hanno aumentato il personale di più del 5% ma non rientrano nelle categorie precedenti.

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Si tratta di un paniere azionario delle principali società americane per capitalizzazione. Ogni azienda ha un peso direttamente proporzionale al proprio valore di mercato.

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• Stable employers

Aziende in cui la forza lavoro ha subito variazioni comprese fra -5% e +5%.

Va detto che la scelta della soglia del 5% è del tutto arbitraria ma secondo gli autori rappresenta un limite adeguato per considerare le differenti variazioni degli asset senza troppe distorsioni. Una soglia minore avrebbe probabilmente inserito nella categoria dei downsizers anche quelle aziende che hanno visto diminuire il personale senza licenziare alcun dipendente ma semplicemente non rimpiazzando quelli in uscita7, mentre una maggiore avrebbe potuto escludere dalla categoria quelle organizzazioni che sono ricorse al downsizing eliminando in termini assoluti e non relativi un buon numero di lavoratori.

I risultati non mostrano alcun legame fra il downsizing e il miglioramento delle performance finanziarie calcolate in base al ROA ponderato al settore di appartenenza. In particolare, come evidenzia il Grafico 1, i risultati dei downsizers non sono mai stati superiori a quelli degli stable employers o, tantomeno, degli upsizers.

Il discorso non cambia per quello che concerne i rendimenti azionari: non ci sono evidenze che suggeriscano che i downsizers abbiano sperimentato risultati necessariamente migliori rispetto gli altri. Il Grafico 2 riassume la percentuale media di guadagno su un investimento in un portfolio di società appartenenti alle diverse categorie indipendentemente dal settore di appartenenza. Alla fine dell’anno 2 per ogni dollaro investito si otterranno:

• $1,69 dagli stable employers • $1,72 dagli employment downsizers • $1,72 dagli asset downsizers • $1,99 dagli employment upsizers • $2,42 dagli asset upsizers

Il grafico 3 mostra come, in relazione alla media del settore di appartenenza, i rendimenti azionari degli asset upsizers siano maggiori del 18% e che nessuna delle altre categorie riesca a ottenere tali risultati.

7 Un’azienda può decidere di non assumere nuovi lavoratori quando dei vecchi dipendenti lasciano il loro

incarico per dimissioni volontarie, pensionamenti e scadenza di contratti a tempo determinato. Questa strategia di riduzione del personale è definita attrition.

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Grafico 1 – ROA ponderato al settore di appartenenza

Grafico 2 – Rendimenti azionari indipendenti dal settore

Grafico 3 – Rendimenti azionari ponderati al settore di appartenenza.

Fonte: Cascio, W. F. (2002).

Nota: l’asse x comprende l’anno precedente all’azione di downsizing fino a due anni successivi.

In conclusione, cosa ci dice lo studio di Cascio e Young? I risultati ci devono mettere in guardia perché le strategie di downsizing, infatti, non sembrano garantire performance

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finanziarie migliori rispetto a chi non ha implementato tali politiche, anzi. Tuttavia non dobbiamo fraintendere e generalizzare quanto emerso: stiamo parlando di effetti medi e come tali devono essere intesi. Gli stessi autori riportano due limiti principali della loro analisi: il primo è che non considerano i possibili fattori che hanno portato alla variazione nelle dimensione organizzativa, quindi i risultati sono regolati in base all’avvenimento dell’azione in sé e non alle sue cause; il secondo, invece, fa riferimento al fatto che considerino solo due alternative – riduzione del personale e nell’uso degli impianti – come metodi per la riduzione dei costi.

Per un’esaustiva rassegna delle varie ricerche sugli effetti economico-finanziari del

downsizing si rimanda a Gandolfi (2008), nessuno gli studi proposti dall’autore presenta delle

rilevanze statistiche che mostrino correlazioni significative a supporto dell’ipotesi che piani di ridimensionamento migliorino la situazioni finanziaria dell’organizzazione rispetto a coloro che decidono di non ristrutturare. Relativamente alle performance borsistiche delle aziende italiane il lavoro di Soda (2001) sembra non differire dai risultati emersi.

2.2 – Costi

La riduzione dei costi è uno dei fini peculiari del downsizing. Ma c'è la possibilità che i risparmi preventivati non si materializzino? Secondo uno studio della Wyatt Company citato da Appelbaum e colleghi (1999a) solo il 46% delle organizzazioni interpellate avevano raggiunto i loro obiettivi di riduzione di spesa. Questo può accadere quando il management decide di implementare politiche di ridimensionamento senza programmi adeguati (Cascio, 1993; Cameron, 1994), concentrandosi su obiettivi di breve periodo e considerando – erroneamente – che i costi del downsizing si riducano a quelli direttamente associati ai dipendenti usciti o fatti uscire dall’organizzazione (Cascio, 2002).

Il ridimensionamento organizzativo, invece, comporta costi sia diretti che indiretti – come riportato nella Tabella 4 – e la difficoltà nel quantificare questi ultimi, soprattutto in mancanza di una strategia, rende non sempre automatico che al downsizing corrispondano un risparmio sui costi generali.

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Tabella 4 – Principali costi associati al downsizing

Costi diretti Costi indiretti

- Liquidazione

- Ferie maturate e indennità di malattia - Incentivi all’esodo

- Sussidi di disoccupazione supplementari - Servizi di outplacement

- Versamenti pensionistici e previdenziali - Costi amministrativi collegati a licenziamenti - Costo riassunzione vecchi dipendenti […]

- Costi di reclutamento e inserimento nuovi assunti - Sindrome del sopravvissuto

- Mancanza di personale in caso di ripresa - Formazione nuovi assunti e vecchi dipendenti - Possibili cause legali con licenziati

- Possibile diminuzione produttività e qualità - Perdita di memoria istituzionale

- Cattiva reputazione […]

Rielaborato da: Cascio, W. F. (2002).

Alcuni dei costi diretti sono inevitabili, sia quando si attuano piani di uscita volontaria che con tagli generalizzati e decisi dalla direzione. A seconda dell’anzianità, del livello, dei contratti individuali e collettivi l’ammontare di queste cifre possono assumere entità tali da far sì che i risparmi preventivati dalla riduzione del personale si concretizzino anche dopo anni (Appelbaum, 1998a).

Tra i costi diretti abbiano inserito anche quello della riassunzione dei dipendenti usciti a seguito di downsizing. Può sembrare assurdo ma può accadere più spesso di quanto si pensi. Cascio (1993) rifacendosi all’indagine della Wyatt Company di cui sopra nota, infatti, come quattro volte su cinque si eliminino posti di lavoro ma non le posizioni associate. Questi mancati interventi di organization redesign – soprattutto se associati all’incapacità di trattenere il personale migliore – fanno sì che nel breve-medio periodo le aziende finiscano per richiamare dal 10 al 20 percento dei vecchi lavoratori. C’è di peggio, spesso accade che questi tornino non come dipendenti a tempo pieno ma come consulenti esterni, costando notevolmente di più rispetto al passato. Cascio (1993) riporta un episodio, certamente estremo ma indicativo, avvenuto in una grande società della Fortune 100 ed emerso durante la sua ricerca: un contabile, precedentemente pagato $9 l’ora, fu assunto come consulente a una tariffa di $428. In questi casi, oltre al mancato risparmio, non vanno sottovalutate le possibili reazioni negative di chi rimane all’interno dell’organizzazione e delle agenzie fiscali (Baron e Kreps, 2009).

Downsizing e outsourcing, comunque, possono essere legati in maniera più coerente quando una società decide di esternalizzare attività considerate non core – ma comunque interdipendenti con quelle rimaste in house – e i lavoratori licenziati finiscono per essere

8 Queste situazioni, associate ai tradizionali metodi contabili, possono portare al risultato paradossale per

cui l’organico a libro paga – quello a tempo pieno – diminuisca mentre aumentino le spese generali imputabili alle risorse umane.

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assunti dai fornitori per sfruttare i loro legami e la loro conoscenza con l’azienda cliente (Baron e Kreps, 2009).

Infine, ci sono casi in cui le aziende decidono di riassumere i vecchi lavoratori dopo aver superato le difficoltà economiche che le avevano portate a licenziarli: è il caso della TSMC, una delle aziende leader nella produzione di semiconduttori, che dopo aver ridotto del 3% la sua forza lavoro nel 2009, a causa di un drastico calo dei profitti, decise di dare la precedenza ai suoi vecchi dipendenti una volta che la produzione tornò a livelli pre-crisi (Kwong, 2009; Cascio, 2009).

Fra i costi indiretti del downsizing bisogna considerare la possibile perdita di opportunità di business, soprattutto in quelle knowledge-based. Ad esempio, una società di consulenza dovrebbe tenere a mente che licenziare un dipendente potrebbe significare perdere parte della propria clientela qualora fra questi si fosse instaurato un forte rapporto fiduciario. Allo stesso modo, un’area R&D più scarna potrebbe voler dire rinunciare a lanciare nuovi prodotti su cui basare un vantaggio competitivo che permetta all’azienda di riprendersi dal periodo di crisi. Secondo Bauhmol (1993) le aziende che ignorano questo rischio più che downsizing finiscono per utilizzare politiche di dumbsizing – letteralmente “instupidamento”. Ancora una volta: seppure sia difficile avere il pieno controllo sul personale in uscita – si rammenti il processo di selezione avversa citato in precedenza – è sempre meglio pianificare e calibrare il più possibile i tagli poiché il rischio di perdere i migliori lavoratori e di trovarsi con dei vuoti di memoria istituzionale è rilevante e finirebbe per costare all’azienda molto più di quanto risparmiato sul solo libro paga.

Inoltre, con politiche di downsizing la riduzione del personale può non interessare tutta l’organizzazione ma riferirsi solo ad alcune unità, mentre altre possono essere potenziate reclutando nuovi lavoratori che andranno adeguatamente formati per un corretto inserimento (Cameron, 1994)9. In alternativa, può avvenire che, per evitare licenziamenti e nuove assunzioni le aziende decidano di implementare strategie di redeployment. Cioè, lavoratori di unità da ridimensionare vengono spostati in altre in cui c’è maggior bisogno di personale10. L’impugnazione dei licenziamenti in sede legale è un altro costo indiretto da tener presente. Oltre alle spese processuali, a seconda della legislazione in materia, ai lavoratori possono essere date più o meno tutele qualora dimostrino di essere stati licenziati senza giusta causa. In Italia, ad esempio, la recente riforma del lavoro ha attenuato in maniera rilevante la

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Alcuni utilizzano i termini upsizing e resizing per indicare queste evenienze.

10 L’adozione di strategie di redeployment è uno dei motivi che ha consentito alla Southwest Airlines di

perseverare nella propria no-layoff policy. Nel 2009, ad esempio, l’azienda ha spostato 82 dipendenti dell’area HR in altri dipartimenti, dalle operazioni di volo a quello legale (Dvorak, 2009).

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possibilità che il giudice possa decidere per il reintegro del lavoratore optando piuttosto su indennizzi economici proporzionali all’anzianità di servizio. Inoltre, a seconda di come strutturino le relazioni industriali, le aziende possono dover contrattare con le rappresentanze sindacali – e a volte persino con l’intervento dello Stato – i piani di ristrutturazione aziendale11.

È quindi complicato riuscire a stimare con certezza i costi del downsizing, limitandosi a quelli diretti si rischia di ignorare delle eventualità tali da poter rimandare – o addirittura annullare – i risparmi attesi dalle politiche adottate. Nel prosieguo di questo capitolo si analizzeranno da vicino alcuni dei possibili effetti organizzativi che in sede di pianificazione della strategia di ridimensionamento organizzativo dovrebbero essere considerati nel computo dei probabili costi indiretti.

2.3 – Reputazione

Nella Tabella 4 si è inserito fra i costi indiretti del downsizing quelli relativi alla cattiva reputazione del datore di lavoro. Si noti che in questa sede ci limitiamo ai comportamenti e allo stile utilizzato dal management nel gestire tali azioni di ridimensionamento, gli effetti psicologici, seppur strettamente collegati, hanno una valenza tale da meritare un paragrafo a sé stante. Facciamo qualche esempio.

Immaginate di ricevere un messaggio di testo sul telefono aziendale che vi invita a chiamare un numero telefonico, durante la chiamata un disco registrato a nome dei curatori fallimentari della società per cui lavorate vi informa che se non sarete contattati prima della fine della giornata lavorativa significherà che sarete state licenziati (Tozzi, 2009). Oppure pensate se l’azienda vi invitasse insieme a tutto lo staff a una conferenza e prima dell'inizio vi dividesse in due gruppi, uno nella Sala A e l’altro nella B. Alla fine quale sarebbe la vostra reazione sapendo che da una parte sono stati illustrati i progetti futuri e dall’altra, invece, sono stati annunciati licenziamenti di massa (Tozzi, 2009)? E ancora, se non appena arrivati alla vostra scrivania vi convocassero nell’ufficio del vostro capo per comunicarvi di essere stati licenziati e di lasciare l’edificio nel giro di mezz’ora pregandovi di non contattare più i vostri ormai ex colleghi per evitare di deprimerli (Petito, 2009)? E se a comunicarvi la vostra sopravvenuta

11

Baron e Kreps (2009) sottolineano come il giudizio sul ruolo dei sindacati sia spesso condito da pregiudizi. Non necessariamente, infatti, devono essere considerati come un freno per l’organizzazione. In alcuni casi possono aumentare la produttività routinizzando le controversie; coinvolgere i lavoratori nei processi decisionali può aumentare il senso di appartenenza e, in caso di crisi, possono essere una fonte di idee per raggiungere l’interesse – di norma comune – della sopravvivenza dell’azienda.

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non necessarietà per l’organizzazione fosse un consulente esterno che non avete mai visto o conosciuto (Welch e Welch, 2009)?

In tutti questi episodi il management ha dato prova di prestare poca attenzione – eufemismo – al fattore umano. Un’obiezione legittima potrebbe essere quella per cui questi comportamenti trovino giustificazione nella coerenza con una politica HR aggressiva e con una cultura aziendale competitiva, tuttavia, Cascio e Wynn (2004) considerano l’irrilevanza di un trattamento equo e giusto come uno dei principali gap fra i risultati della ricerca scientifica e la pratica – somiglianza non casuale fra fatti e miti.

Quando parliamo di reputazione non facciamo riferimento a una semplice cattiva pubblicità sui media, bensì a una delle principali caratteristiche del rapporto di lavoro (Baron e Kreps, 2009). Quest’ultimo, studiato nell’ottica dell’economia dei costi di transazione, è una transazione complessa in quanto le parti coinvolte sono individui limitatamente razionali il cui rapporto dura nel tempo e deve fare i conti con una situazione di incertezza. La razionalità limitata degli individui, insieme al possesso di asset specifici e informazioni private crea costi di transazioni tali poter essere risolti attraverso contratti relazionali, cioè specifici contratti che prevedano rapporti duraturi e caratterizzati da fiducia e reputazione fra le parti (Baron e Kreps, 1999). Allo stesso modo è possibile stilizzare il rapporto di lavoro e studiarlo attraverso la teoria dei giochi. Anche in questo caso, data la natura ripetuta del “gioco”, reciprocità e reputazione diventano elementi centrali nelle strategie dei giocatori per determinarne le risposte ottime e ottenere situazioni di equilibrio (Baron e Kreps, 1999). Quindi, gestire in modo adeguato i processi di ridimensionamento, soprattutto quando coinvolgono un gran numero di licenziamenti, non è derubricabile a una questione di stile o paternalismo ma può essere fondamentale per non minare le proprie possibilità di ripresa e/o crescita. Un’azienda deve rimanere attrattiva per i migliori talenti – e mantenere i migliori dipendenti! – anche in fase di ridimensionamento, tagliare i costi focalizzandosi sugli esiti e ignorando i processi, senza offrire un programma e una visione degli obiettivi futuri può essere deleterio sotto questo aspetto (Cascio, 2009).

La reputazione, inoltre, gioca un ruolo chiave anche quando un’organizzazione ha un forte collegamento nel territorio in cui opera e impiega una forza lavoro autoctona e omogenea. In questi casi difficilmente potrà effettuare tagli generalizzati al proprio organico e non offrire adeguati servizi al personale in uscita senza la pressione e la reazione della comunità su cui ha investito (Baron e Kreps, 1999).

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2.4 – Produttività e qualità

Un altro dei risultati attesi dal downsizing è l’aumento della produttività. L’idea di fondo è semplice, ottenere – almeno – la stessa quantità di output diminuendo gli input utilizzati, detto in forma di slogan: fare di più con meno. Ancora una volta, le cose non sono così semplici e immediate.

I dati sembrano ridimensionare questa credenza: più della metà delle aziende analizzate dalla Society for Human Resource Management riportano livelli di produttività minori o uguali alla situazione precedente le azioni di downsizing (Henkoff, 1990; Cascio 1993); la già citata indagine dell’American Management Association del 1996 ci dice che nelle aziende che si sono ristrutturate durante gli anni ’90 la produttività è salita nel 34% dei casi ed è scesa nel 30% (Cascio, 2002) e che non esiste una correlazione generale fra i piani di ridimensionamento organizzativo e l’aumento della produttività del lavoro (Appelbaum, 1999b); giunge alla stessa conclusione uno studio del National Bureau of Economic Research (Koretz, 1994; Cascio, 2002).

Appelbaum e colleghi (1999b) associano un miglioramento della produttività quando il downsizing fa parte di una più ampia strategia di business process reengineering (BPR). Gli autori pongono una condizione fondamentale: affinché il BPR abbia successo è importante investire sia nella tecnologia che nelle risorse umane. I dipendenti, infatti, affinché migliorino la loro produttività devono essere parte attiva del processo di ristrutturazione ed essere considerati degli asset da sviluppare anziché dei costi da eliminare. L’obiettivo deve essere quello di eliminare posizioni, uffici, aree e unità ridonanti prima che posti di lavoro. La reingegnerizzazione dei processi deve essere il fine e il downsizing un mezzo, non viceversa. Altrimenti, il rischio è quello di mascherare dei licenziamenti con un eufemismo fine a sé stesso (Bauhoml, 1993; Cascio, 2002; Pfeffer; 2010).

Così come fare di più con meno, anche fare meglio con meno può essere ritenuta una mezza verità. Infatti, un altro dei risultati spesso attesi dalle politiche di ristrutturazione ma che non sempre si riscontra è l’aumento della qualità dei prodotti (Cascio, 2002). La già citata indagine del 1996 dell’AMA riporta che soltanto il 35% delle aziende che hanno ridimensionato il loro organico hanno visto aumentare il livello di qualità dei propri beni e servizi.

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