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Guarda L’uso del “capitale mafioso” in Emilia e in Lombardia Orientale. Dalle contiguità culturali agli effetti dell’impresa mafiosa

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L’USO DEL “CAPITALE MAFIOSO” IN EMILIA E IN

LOMBARDIA ORIENTALE. DALLE CONTIGUITÀ CULTURALI

AGLI EFFETTI DELL’IMPRESA MAFIOSA

Patrizio Lodetti, Martina Panzarasa

Title: The use of "mafia capital" in Emilia and Eastern Lombardy. From cultural contiguity to the effects of mafia enterprise.

Abstract

The article analyses some aspects of the mafia phenomenon in Mantua, Cremona, Piacenza, and Reggio Emilia – the so-called “quadrilateral of the Po valley” - through a triangulation between qualitative and quantitative methods. It is divided into two parts. The first aimed at investigating the orientations of thoughts and actions, that have facilitated the establishment of the Cutro clans (KR); the second aimed at quantifying the effects of mafia entrepreneurship on the local economy. Key words: ’Ndrangheta, mafia taxation, cultural contiguity, triangulation, padan quadrilateral

L’articolo analizza alcuni aspetti del fenomeno mafioso nelle province di Mantova, Cremona, Piacenza e Reggio Emilia - il cosiddetto “quadrilatero padano” - attraverso una triangolazione tra metodi qualitativi e quantitativi. Si articola in due parti: la prima volta a investigare gli orientamenti di pensiero e di azione che hanno facilitato il radicamento dei clan di Cutro (KR); la seconda finalizzata a quantificare gli effetti dell’imprenditoria mafiosa sul tessuto economico locale.

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1. Introduzione

L’articolo analizza alcuni aspetti del fenomeno mafioso e la sua diffusione nelle province di Mantova, Cremona, Piacenza e Reggio Emilia. Tale area, a cavallo fra Lombardia ed Emilia Romagna, è stata definita da dalla Chiesa e Cabras - riprendendo l’antica dicitura latina - “quadrilatero padano”.1 Si tratta di un territorio

ancora poco indagato, in cui negli ultimi anni sono andati crescendo gli interessi e gli affari di diversi clan di provenienza ionica, originari di Cutro e di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. La loro presenza risale in realtà agli anni ‘80 con l’arrivo dei clan Dragone, Oliverio, Ferrazzo, Arena e Nicoscia, seguiti, a partire dagli anni ‘90, dal clan Grande Aracri.2 In particolare è sotto la guida del boss Nicolino

Grande Aracri che si sono consolidati il potere e l’influenza della ‘ndrangheta. Gli insediamenti riconducibili a questo clan insistono non solo nei capoluoghi di provincia, ma anche in numerosi comuni di piccole dimensioni.3 I poteri e i capitali

del clan, come mostrano numerose indagini giudiziarie,4 hanno trovato ospitalità nel

mondo imprenditoriale e negli appalti pubblici.

Questa ricerca si focalizza nello specifico sull’esercizio del “capitale mafioso” del clan Grande Aracri nel territorio del “quadrilatero”. Si articola in due parti: la prima volta a investigare le condizioni contestuali e gli orientamenti di pensiero e di azione che hanno facilitato il radicamento del clan; la seconda finalizzata a cogliere il ruolo strategico dell’imprenditoria mafiosa e a quantificare il suo impatto sul tessuto economico locale.5 Per farlo impiega una triangolazione tra metodi qualitativi e

1 Si veda a questo proposito il capitolo “Oltre Reggio: il “quadrilatero” padano” in Nando dalla Chiesa,

Federica Cabras, Rosso mafia. La 'ndrangheta a Reggio Emilia, Bompiani, Milano, 2019.

2 Per una ricostruzione storica della presenza mafiosa in questi territori si vedano tra gli altri: Enzo

Ciconte, ‘Ndrangheta padana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; Federico Varese, Mafie in

movimento in Romagna: prospettive di studio e proposte di intervento, Bologna, Regione

Emilia-Romagna, 2014; Marco Santoro, Marco Solaroli, Forme di capitale mafioso e risonanza culturale.

Studio di un caso regionale e proposta di una strategia concettuale in "Polis", 2017, Vol 31 n. 3, pp.

375-408; Nando dalla Chiesa, Federica Cabras, Rosso mafia. La 'ndrangheta a Reggio Emilia, op. cit.

3 Si veda ad esempio il caso studio di Brescello approfondito da Ombretta Ingrascì in Nando dalla

Chiesa, Federica Cabras, Rosso mafia. La 'ndrangheta a Reggio Emilia, op. cit.

4 In particolare Tribunale di Bologna, 2015; Tribunale di Brescia, 2017.

5 I primi tre paragrafi d’introduzione, inquadramento teorico e definizione operativa sono stati

pensati e scritti congiuntamente dai due autori. Il quarto paragrafo, riferito alla prima parte della ricerca, è stato scritto da Martina Panzarasa. Il quinto e il sesto paragrafo, entrambi riferiti alla seconda parte della ricerca (e tenuti distinti per una ragione di maggior chiarezza analitica), sono stati scritti da Patrizio Lodetti.

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quantitativi: si basa, dunque, su interviste discorsive a operatori di settori economici infiltrati da gruppi mafiosi e su modelli di regressione panel elaborati a partire da dati di società6 attive nei medesimi ambiti. Lo studio mette in luce alcune dimensioni

di contiguità culturale fra impresa locale e impresa mafiosa che possono aver agevolato la normalizzazione e la tolleranza di alcune pratiche mafiose. Mostra inoltre che l’organizzazione criminale calabrese è stata in grado di esprimere diverse forme di capitale mafioso: sia sociale, sia culturale e sia simbolico. Proprio l’interazione di questi capitali ha posto le basi per la definizione di forme di riconoscimento del fenomeno mafioso a livello locale e ha contribuito all’accumulo del capitale più propriamente economico. I rapporti con l’imprenditoria mafiosa rappresentano una delle forme più rilevanti di riconoscimento sul territorio e al contempo l’articolazione più esplicita dell’utilizzo dei capitali economici accumulati. Conseguentemente, si è cercato di comprendere se la presenza di impresa mafiosa nei territori in esame si configuri come una tassa illegittima, che sottrae risorse materiali e immateriali al tessuto economico locale. I risultati delle analisi evidenziano che gli effetti della tassa mafiosa, declinati nella perdita di ricchezza delle imprese autoctone, sono rilevanti e significativi, soprattutto nelle città di Mantova e Reggio Emilia dove la cosca Grande Aracri si è radicata con maggiore efficacia e capillarità.

2. Quadro teorico

La letteratura sull’espansione delle mafie in aree non tradizionali è orientata da diversi modelli paradigmatici. È possibile individuare un principale filone di studi che si focalizza sull’analisi del capitale sociale e dunque sulle risorse relazionali a disposizione dei mafiosi. Secondo questa prospettiva, la forza – anche imprenditoriale – delle organizzazioni mafiose va ricondotta alla loro capacità di “fare rete”, di costruire legami sociali con altri soggetti mafiosi, ma anche e soprattutto con politici, imprenditori, liberi professionisti. Tali relazioni possono essere attivate e impiegate in modo strategico, a seconda dei contesti e delle

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necessità. Questo approccio è stato introdotto - con la sintesi “il potere della mafia sta fuori dalla mafia” - da Nando dalla Chiesa, che individua proprio nel paradigma del capitale sociale e nella sua attuazione una delle condizioni per la realizzazione del processo di espansione delle organizzazioni mafiose in territori non tradizionali.7 È stato, inoltre, approfonditamente studiato e problematizzato da

Rocco Sciarrone. Secondo quest’ultimo, la capacità di accumulare e impiegare capitale sociale - insieme all’attitudine a strutturare giochi cooperativi e a impiegare strategicamente la violenza - costituisce uno degli elementi su cui si innesta il potere delle mafie.8

A partire da questa tesi, Sciarrone indaga approfonditamente il rapporto tra organizzazioni mafiose ed economie locali. Nel libro Mafie vecchie, mafie nuove, infatti, l’autore mette in evidenza i rapporti tra imprese di mafia e imprese locali, che formalmente non si caratterizzano per l’utilizzo di pratiche criminali ed illecite. In questo stesso contributo viene inoltre formulata una tipologia analitica che distingue imprese e imprenditori sulla base del loro grado di coinvolgimento con le organizzazioni mafiose. In un ordine di crescente coinvolgimento criminale troviamo: gli imprenditori subordinati, a cui l’organizzazione criminale garantisce protezione in cambio di un totale assoggettamento; gli imprenditori collusi, che stabiliscono con l’organizzazione un rapporto di mutua convenienza (protezione attiva); e infine gli imprenditori mafiosi in senso stretto. Fantò arricchisce questo impianto concettuale aggiungendo la categoria dell’impresa a partecipazione mafiosa.9 La partecipazione diretta, infatti, permette l’incontro tra economia legale

e illegale all’interno di una comune unità organizzativa e si configura come un’iniezione di capitali mafiosi in imprese pulite.10 Fantò sposta quindi il focus

7 Nando dalla Chiesa, Passaggio a Nord: la colonizzazione mafiosa, Edizioni Gruppo Abele, Torino,

2017, pp. 259-260.

8 Rocco Sciarrone, Luca Storti, Le mafie nell'economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, il

Mulino, Bologna, 2019; Rocco Sciarrone, Mafie al nord. Strategie criminali e contesti locali, (a cura di), Donzelli, Roma, 2014; Rocco Sciarrone, Alleanze nell'ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel

Mezzogiorno, (a cura di), Donzelli, Roma, 2011; Rocco Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, Donzelli,

Roma, 2009.

9 Enzo Fantò, L'impresa a partecipazione mafiosa: economia legale ed economia criminale, Edizioni

Dedalo, Bari, 1999.

10 Questo tendenzialmente accade con due modalità tipiche: la progressiva acquisizione di aziende

non più in grado di saldare un prestito usuraio, o la progressiva acquisizione di quote di aziende che hanno performance di mercato molto positive e promettenti. Cfr. Stefania Pellegrini, L’impresa grigia.

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analitico sui capitali economici e descrive i meccanismi finanziari con cui le organizzazioni mafiose riescono a contaminare l’economia legale.

Dalla Chiesa, in un’approfondita revisione della letteratura sul tema dell’imprenditoria mafiosa, mette in evidenza un filone di studi proprio orientato all’analisi dei costi che la presenza mafiosa comporta per l’economia locale e per la collettività.11 L’assunto fondativo è che la presenza delle organizzazioni mafiose sia

una tassa illegittima, che colpisce le opportunità di sviluppo economico di un territorio e il libero manifestarsi delle energie imprenditoriali locali. Nel libro I costi dell’illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia, curato da Antonio La Spina, vengono raccolti alcuni tra i più autorevoli e rappresentativi contributi di questo filone.12 Uno

di questi è scritto da Lo Forte che, in linea con Sciarrone e Fantò, descrive e tipizza i diversi rapporti che un imprenditore può stabilire con la mafia, focalizzandosi sulla categoria del fiancheggiamento.13 Questo rapporto non si configura né come una

richiesta di protezione in cambio di un assoggettamento all’organizzazione,14

come un’accettazione strumentale dei capitali mafiosi, ma come la scelta di partecipare ad affari in alleanza con i clan con l’aspettativa di trarre dei vantaggi posizionali sul mercato.15

Anche Grasso16 analizza i meccanismi innescati dalla presenza dell’imprenditoria

mafiosa nel mercato. Secondo l’autore essa mina il processo di libera concorrenza e crea una struttura asimmetrica di vantaggi ingiusti per alcune specifiche imprese.17

Queste prospettive analitiche mettono in risalto lo stretto intreccio tra economia legale e illegale, l’elevata vischiosità culturale, le convergenze di interessi e le fitte

Le infiltrazioni mafiose nell’economia legale, Ediesse, 2018; Clotilde Champeyrache, Quand la mafia se légalise: pour une approche économique institutionnaliste, CNRS Editions, Paris, 2016.

11 Nando dalla Chiesa, L'impresa mafiosa: tra capitalismo violento e controllo sociale, Cavallotti

University Press, Milano, 2012.

12 Antonio La Spina, I costi dell'illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia, Il Mulino, Bologna, 2008. 13 Guido Lo Forte, Criminalità organizzata ed economia illegale, in, I costi dell’illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia, op. cit., pp. 43-75.

14 Diego Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata. Einaudi, Torino,1992. 15 Maurizio Catino, Colletti bianchi e mafie. Le relazioni pericolose nell'economia del Nord Italia in

“Stato e mercato”, 2018, Vol 38 n. 1, pp. 149-188; Nando dalla Chiesa, Federica Cabras, Rosso mafia.

La 'ndrangheta a Reggio Emilia, op. cit.

16 Pietro Grasso, Antonio La Spina, Le imprese tra sicurezza e legalità. I costi dell’illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia, in I costi dell'illegalità., op. cit., pp. 325-336.

17 L’autore, inoltre, individua i settori economici più esposti e maggiormente permeabili all’impresa

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relazioni tra imprenditori e organizzazioni mafiose. Proprio per questo, dalla Chiesa sottolinea l’importanza di una discussione sulla tassa mafiosa, sulla sua portata e sui suoi effetti di sistema18 (soprattutto nei periodi di crisi).

Queste prospettive teoriche appaiono comunque concordi nel sostenere che il vero potere delle mafie vada individuato, primariamente, nel loro capitale sociale e nella capacità di esercitare una protezione e, secondariamente, nel capitale economico e nell’uso specializzato e intimidatorio della violenza fisica. Essi sembrano tuttavia non esaurire la complessità del fenomeno espansivo delle mafie, tralasciando alcuni aspetti legati invece alla dimensione culturale e simbolica. Marco Santoro, insieme a Marco Solaroli, ha proposto un paradigma concettuale in grado di dare rilevanza al ruolo svolto dal repertorio culturale e dai sistemi di significazione riprodotti dai soggetti mafiosi, a partire da una articolazione del concetto di capitale proposto da Bourdieu.19 Il sociologo francese individua quattro forme di capitale - sociale,

economico, culturale e simbolico - sottolineando la necessità di considerarli nella loro correlazione e reciproca influenza. Santoro e Solaroli provano ad applicare questo dispositivo analitico, declinandolo in funzione dello studio delle mafie. In questa accezione il capitale economico identifica il capitale di liquidità, acquisito attraverso gli investimenti in mercati leciti e illeciti. Il capitale sociale corrisponde alle risorse relazionali che i soggetti mafiosi possono mobilitare ai propri fini. Il capitale culturale20 identifica la capacità di gestire le interazioni e di impiegare

codici diversi a seconda dei diversi contesti (ad esempio l’uso strategico di metodi violenti). Il capitale simbolico rientra infine nella sfera del riconoscimento e della visibilità: nel caso della mafia esso si identifica con l’onore mafioso, la reputazione e il prestigio (si pensi ad esempio agli stili di abbigliamento o alle scelte di autoveicoli). Santoro e Solaroli provano a sintetizzare questa articolata struttura concettuale nella nozione di forme di capitale mafioso, uno strumento analitico in

18 Nando dalla Chiesa, L'impresa mafiosa: tra capitalismo violento e controllo sociale, op. cit. 19 Marco Santoro, Marco Solaroli, Forme di capitale mafioso e risonanza culturale., op. cit.

20 Il capitale culturale può essere suddiviso, in linea con la modellizzazione di Bourdieu, in capitale culturale i) incorporato, ii) istituzionalizzato e iii) oggettivato. Il primo identifica la gestione della

propria presenza fisica, la capacità interazionale e linguistica di impiegare codici diversi a seconda dei diversi contesti, la capacità cognitiva, fisica e morale di impiegare metodi violenti. Il secondo corrisponde alle forme di riconoscimento delle proprie competenze e del proprio status interno all’organizzazione, dunque ai gradi e ruoli occupati. Il terzo coincide con gli stili di abbigliamento e arredamento, le scelte di autoveicoli e l’utilizzo di armi o oggetti riconducibili all’azione mafiosa.

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grado di rendere conto delle risorse materiali, sociali, culturali e simboliche di cui dispongono i soggetti mafiosi.

Lo strumento da loro proposto, si presta ai nostri fini in quanto consente di includere nell’analisi, sia la dimensione economica e relazionale, sia la dimensione simbolica e culturale della presenza mafiosa, a partire da possibili indicatori. Più in generale questo dispositivo concettuale permette di individuare e provare a operativizzare le diverse dimensioni che concorrono al consolidamento del cosiddetto potere mafioso su un territorio.

3. Cenni metodologici: diverse domande, diversi metodi

L’articolo analizza alcuni aspetti del fenomeno mafioso e la sua diffusione nelle province di Mantova, Cremona, Piacenza e Reggio Emilia.21 Si articola in due parti:

la prima volta a investigare le condizioni contestuali e gli orientamenti di pensiero e di azione che hanno facilitato il radicamento dei clan crotonesi; la seconda finalizzata a cogliere il ruolo strategico dell’imprenditoria mafiosa e a quantificare il suo impatto sul tessuto economico locale.22 Sebbene la ricerca indaghi un unico

fenomeno sociale – la presenza delle organizzazioni mafiose nel “quadrilatero padano” – la scelta di focalizzarsi nell’analisi su due diverse dimensioni - una riconducibile più alla sfera “culturale” e una più “economica” – ha portato alla formulazione di diverse, seppur convergenti, domande di ricerca; e alla conseguente individuazione dei corrispondenti metodi più idonei a svilupparle. Ciascuna sezione prevede dunque l’impiego di un distinto approccio metodologico: qualitativo nello studio degli elementi contestuali e culturali che possono aver agevolato l’insediamento; quantitativo nell’analisi delle conseguenze economiche di una

21 L’elaborato è tratto da una ricerca finanziata da un’erogazione liberale del Dott. Luigi Gaetti,

nell’ambito dei lavori della Commissione Parlamentare Antimafia. Tale studio, svolto dagli stessi autori, offre una più ampia panoramica del fenomeno mafioso nelle città di Mantova, Reggio Emilia, Cremona e Piacenza.

22 I primi tre paragrafi di introduzione, inquadramento teorico e definizione operativa sono stati

pensati e scritti congiuntamente dai due autori. Il quarto paragrafo, riferito alla prima parte della ricerca, è stato scritto da Martina Panzarasa. Il quinto e il sesto paragrafo, entrambi riferiti alla seconda parte della ricerca (e tenuti distinti per una ragione di maggior chiarezza analitica), sono stati scritti da Patrizio Lodetti.

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presenza mafiosa sul territorio. Tale scelta è orientata dalla volontà di provare a integrare i risultati ottenuti con strumenti statistici, a dati raccolti attraverso l’impiego di tecniche di rilevazione e analisi improntate alla dimensione della narrazione e della rappresentazione.

Metodologicamente, dunque, questo studio si articola entro i confini di un processo di triangolazione beetween-methods,23 in cui differenti approcci e tecniche sono

utilizzati per studiare lo stesso fenomeno. Il dialogo tra metodi differenti è proprio finalizzato a far emergere le sfaccettature del modello poliedrico di condizionamento che distingue l’insediamento della ‘ndrangheta in questi territori. L’analisi è guidata da una macro domanda di ricerca relativa alle modalità di radicamento ed espansione dei clan crotonesi e trova più precisa specificazione rispetto alle due dimensioni analitiche considerate.

La prima parte della ricerca mira a raccogliere le rappresentazioni del fenomeno mafioso diffuse nel territorio e a individuare le condizioni contestuali che possono aver favorito o agevolato il radicamento dei gruppi mafiosi. La dimensione della rappresentazione ci consente di confrontarci, non solo con le principali narrazioni sulla criminalità organizzata – che contribuiscono a forgiare un immaginario collettivo sulle mafie potenzialmente fuorviante - ma anche con i meccanismi di riconoscimento e visibilità di questi gruppi criminali, riconducibili al capitale culturale e simbolico da essi speso sul territorio. Il modo in cui l’operato di tali soggetti è ricostruito e raccontato può fornire, infatti, importanti indizi in merito al posizionamento dei diversi attori sociali rispetto al problema dell’illegalità e della criminalità organizzata mafiosa e - più in generale - a riguardo dei meccanismi di reciprocità da essi messi in atto. L’analisi delle diverse rappresentazioni dovrebbe agevolare l’individuazione di possibili varchi strutturali e culturali che hanno consentito il radicamento dei gruppi criminali. Tali ambiti di compromissione, come vedremo, possono avere una matrice legata a fattori storici o economici, ma anche una matrice culturale. Il focus sulla dimensione culturale mira a cogliere, in

23 Donald T. Campbell, Distinguishing Differences of Perception from Failures of Communication in Cross-cultural Studies, in Cross-Cultural Understanding: Epistemology in Anthropology, Filmer Stuart

Cuckow Northrop e Helen H. Livingston (a cura di), Harper & Row, New York, 1964 pp. 308-336; Norman K. Denzin, The Research Act, Aldine Publishing Co., Chicago, 1970.

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particolare, anche i possibili elementi di continuità valoriale e simbolica fra il contesto ospitante e il gruppo deviante. L’analisi delle fonti secondarie, tra cui atti giudiziari e documenti istituzionali e giornalistici, è stata integrata con dati raccolti da fonti primarie attraverso lo strumento dell’intervista discorsiva semi-strutturata.24 Il modello d’insediamento mafioso che sembra caratterizzare la

provincia di Mantova e quelle confinanti, si distingue in particolare per la centralità della dimensione economica. Lo studio preliminare sul caso Mantovano25 ha, in

effetti, messo in evidenza proprio la spiccata vocazione all’imprenditorialità del clan cutrese, che qui opera nei settori dell’edilizia e delle costruzioni. In questa sede ci proponiamo, dunque, di concentrare l’analisi sulle rappresentazioni di soggetti appartenenti a questi ambiti. Le interviste considerate sono state condotte tra aprile e novembre 2019 grazie all’intercessione della Camera di Commercio di Mantova che ha preso contatto diretto con alcuni imprenditori storicamente attivi sul territorio e nelle provincie limitrofe, ossia nell’area del “quadrilatero”.26 La

mediazione dell’ente corporativo ha costituito una garanzia di affidabilità, consentendoci di accedere a queste preziose fonti orali, altrimenti difficilmente avvicinabili (soprattutto considerati i temi affrontati nelle interviste). Nonostante l’anonimato sia stato - come è prassi - assicurato in sede di rielaborazione e restituzione dei dati, alcuni degli intervistati hanno preferito non condividere la loro identità e sono stati dunque intervistati in forma anonima. Tale precauzione è di per sé già indicativa del fatto che sul territorio insiste una presenza in grado di intimidire alcuni operatori economici.

La seconda parte dello studio è orientata ad analizzare gli esiti della presenza mafiosa nel tessuto economico del “quadrilatero”. Anche in questo caso il focus è sul contesto imprenditoriale. Il valore euristico di questa scelta si fonda sulla funzione strategica che l’impresa mafiosa assume nei processi di espansione dei clan. L’uso

24 Lo studio più ampio da cui è tratto questo elaborato si basa su 25 interviste con soggetti legati a

diverso titolo ai contesti in esame. In particolare: i) imprenditori con esperienza nel settore edile e immobiliare; ii) sindacalisti operativi da tempo sul territorio; iii) esponenti della pubblica amministrazione; iv) giornalisti impegnati a raccontare le vicende legate a ‘ndranghetisti; v) membri delle forze dell’ordine e vi) rappresentati delle Camere di Commercio.

25 Patrizio Lodetti, 'Ndrangheta e impresa mafiosa a Mantova. Le conseguenze sull'economia locale in

"Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata", 2018, Vol. 4 n. 1, pp. 53-98.

26 In questo senso il campione considerato risente dell’intermediazione della Camera di Commercio

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(reale o potenziale) della violenza che spesso accompagna il metodo mafioso può danneggiare lo sviluppo di interi settori economici. Se inizialmente le imprese mafiose sembrano essere portatrici di profitti e nuovi posti di lavoro, alla lunga, minando il principio della libera concorrenza, provocano stagnazione e conseguentemente disoccupazione (con tutte le implicazioni sociali del caso). Si è cercato, quindi, di comprendere se la presenza mafiosa nei territori di Reggio Emilia, Mantova, Piacenza, e Cremona, si configuri come una tassa illegittima, che sottrae risorse materiali e immateriali alla comunità locale. L’analisi è stata sviluppata utilizzando dati camerali e dati contenuti nella banca dati Orbis (di Bureau Van Dijk).27 Tra le innumerevoli informazioni a cui si può avere accesso, sono

particolarmente rilevanti quelle riguardanti i dettagli anagrafici delle imprese (azionisti di riferimento, titolari effettivi, amministratori e manager); quelle riguardanti le strutture societarie e le tipologie di attività (inclusi i codici Ateco, che permettono di filtrare il campione per settore economico di interesse); e soprattutto quelle riferite ai bilanci e ai dati finanziari previsionali. La quantità di informazioni e la natura longitudinale dei dati ha permesso di utilizzare dei modelli lineari dinamici, elaborati per verificare se gli andamenti finanziari delle imprese siano influenzati dalla provincia d’origine degli imprenditori, al netto di una serie di altre variabili tenute sotto controllo. Nello specifico, si è scelto di analizzare l’andamento degli EBITDA,28 ipotizzando che la redditività delle imprese con titolari/top

manager crotonesi29 sia superiore a quella delle imprese autoctone (H1).

È di fondamentale importanza chiarire che l’imprenditoria crotonese non può e non deve essere equiparata o sovrapposta al concetto di imprenditoria mafiosa. Se è insostenibile dedurre dalla provenienza geografica di un imprenditore il suo legame con i clan, è però legittimo indurre che l’imprenditore mafioso abbia dei legami di compaesanità (o quantomeno di corregionalità) con i membri dell’organizzazione

27 Tale banca dati raccoglie dettagliate informazioni su oltre 365 milioni di società in tutto il mondo. 28 L'acronimo EBITDA sta per l’espressione: "earnings before interest, tax, depreciation, and amortization”. È un indicatore di profittabilità che indica la capacità dell’azienda di generare reddito

basandosi esclusivamente sulla gestione operativa, escludendo quindi interessi, imposte e ammortamenti su beni materiali e immateriali.

29Per le società di persone, sono state considerate quelle in cui almeno il 20% dei soci è nato nella

provincia di Crotone. Per le società di capitali, sono state considerate quelle in cui almeno il 25% dei top manager è nato nella provincia di Crotone. Con il termine top manager si intendono gli individui facenti parte del consiglio di amministrazione o con potere di firma.

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con cui collabora, come dimostrato empiricamente da diversi studi di comunità30 e

da numerose evidenze giudiziarie.31 Conseguentemente, prendere in analisi le

performance finanziarie delle imprese crotonesi, verificandone l’eventuale vantaggio posizionale sul mercato e controllando i settori economici e i paesi in cui sono maggiormente presenti, permette indirettamente di osservare e attribuire un ordine di misura alla diffusione e alla pervasività dell’imprenditoria mafiosa in un territorio.

4. Interstizi culturali, contiguità e ambivalenze

In questa prima parte della ricerca, a partire dalle interviste condotte, sembra stimolante provare a individuare quelle dimensioni che hanno agevolato il radicamento dei gruppi criminali cutresi. Cercheremo di concentrarci sull’analisi degli “interstizi culturali”, intesi come metaforici “spazi” di incontro fra rappresentazioni e pratiche, lecite e illecite. Li consideriamo qui come modi di intendere, rappresentare e concettualizzare le diverse situazioni, le cui ripercussioni trovano il favore del modello relazionale mafioso. Come speriamo di riuscire a mostrare, essi sembrano orientare le strategie di azione degli imprenditori che operano nelle provincie in esame.

Va in primo luogo rilevato che l’analisi dei dati mostra l’esistenza di una interessante dissonanza fra le narrazioni raccolte. A fronte di rappresentazioni in cui i soggetti mafiosi e le loro strategie operative vengono descritti impiegando dettagli e toni allarmati, vi sono testimonianze di imprenditori che si distanziano dalla possibilità che questo fenomeno sia radicato e dall’avervi intrattenuto qualsivoglia tipo di relazione. Quest’ultimo tipo di posizione argomentativa si avvale di diversi strumenti giustificatori, ciascuno dei quali fa appello a ragioni reali e contingenti, impiegate però ai fini di neutralizzare l’intero discorso sociale relativo alla presenza mafiosa. Alcuni degli imprenditori intervistati sembrano utilizzare delle tecniche di neutralizzazione32 volte, non tanto a negare in toto - e dunque in maniera poco

30 Nando dalla Chiesa, Martina Panzarasa, Buccinasco: la ‘ndrangheta al Nord. Einaudi, Torino, 2012. 31 Tribunale di Bologna, 2015; Tribunale di Brescia, 2017.

32 Gresham Sykes, David Matza, Techniques of neutralization: A theory of delinquency, in "American

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verosimile - la presenza della mafia, ma a minimizzare pericolosamente il fenomeno e a distanziarsene in termini professionali, oltre che personali. Talvolta la coesistenza di diverse rappresentazioni emerge all’interno delle medesime testimonianze.

Un primo interstizio può essere rintracciato proprio nel tipo di strategia narrativa impiegata per legittimare l’iniziale cecità degli imprenditori locali e minimizzare la pericolosità dell’operato mafioso. Tale argomentazione sembra fare appello all’apparente assenza di violenza, ma soprattutto alle dinamiche concorrenziali del libero mercato e alla sua supposta capacità di autoregolarsi. L’imprenditore C, per esempio, ammette di sapere che alcune “persone” sono arrivate nelle zone in esame, hanno iniziato ad acquistare terreni edificabili e ad “espandersi”. Conferma che questi soggetti hanno fatto investimenti di notevole entità in un breve arco di tempo, ma sottolinea che non vi sono stati atti violenti. Specifica in particolare che:

“A me non hanno mai rotto le scatole quindi io non ho motivo di poter…

Non le hanno mai soffiato un lavoro?

Ma no... hanno portato via un po’ di mercato immobiliare però… più di questo... ma che il mercato era libero e non potevo essere infastidito più di tanto, ok oh, la realtà è questa...” (C.)

L’assenza di atti intimidatori ai propri danni sembra implicare una forma di “indifferenza”. Essa rispecchia l’impiego di schemi culturali riduttivi, veicolati da uno specifico immaginario del fenomeno mafioso. L’aspetto più interessante pertiene però l’argomentazione proposta: C sembra impiegare un sistema di significazione in cui ogni strategia, se priva di un portato di violenza fisica, è tollerabile e rientra dunque nelle “regole del gioco”. È in quest’ottica, come cerchiamo di mostrare, che alcune modalità d’azione, seppur illecite, possono trovare giustificazione.

L’adesione valoriale, ancor prima che pratica, alle regole del libero mercato e alle implicazioni che esse comportano, sembra assumere un primato anche nel dibattito relativo all’impiego dello strumento delle white list. Le white list33 sono elenchi stilati

presso le prefetture provinciali al quale possono registrarsi le imprese che lavorano nei settori considerati ad alto rischio di infiltrazione mafiosa. Di fatto raccolgono la

33 Istituite con la legge n.190 del 6 novembre 2012 ed il D.P.C.M. 18 aprile 2013, pubblicato in G. U il

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lista dei fornitori, prestatori di servizi, ed esecutori dei lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa. Questo tipo di normativa è stato applicato alla provincia di Reggio Emilia e alle zone limitrofe a seguito del sisma del 2012, dal momento che la ricostruzione sarebbe potuta diventare occasione di investimento per le organizzazioni mafiose.

Alcuni imprenditori si sono mostrati critici e scettici nei confronti di questo strumento, in realtà volto a tutelare l’impresa sana. Le principali lamentele riguardano la mole di burocrazia che le white list comportano, ma anche i meccanismi attraverso cui le prefetture valutano l’inclusione delle imprese nella lista, e i danni economici che comporta l’esclusione da essa. Il potere della prefettura - il cui intervento ha in questo caso ragioni preventive - viene in sostanza criticato e rappresentato come discrezionale. La narrazione dell’imprenditore S si focalizza sul problema di quella che lui stesso definisce “continuità” fra impresa sana e mafiosa.

“C’è questo nodo normativo per cui, voglio dire, c’è l’impresa che faccio esempi a livello astratto, che, consapevolmente per trarne vantaggio, utilizza dei legami e delle complicità, e c’è l’impresa che semplicemente, magari senza condizionamenti, entra in contatto con questo mondo e può pagare conseguenze molto alte. (….) C’è questa cosa mai risolta della continuità, come dev’esser stabilita e tutto quanto…

Diciamo però che se c’è una continuità è perché ci sono dei soggetti devianti…

Mah, questo…

Se no, non ci sarebbero imprenditori ingiustamente coinvolti…

Ma io posso anche non saperlo”. (S)

Le critiche sollevate hanno ovviamente un fondamento: l’estromissione dalla white list può avere pesanti ripercussioni sul fatturato dell’azienda e metterla seriamente in difficoltà. Allo stesso modo è vero che le scelte delle prefetture si articolano a partire da indizi e segnalazioni raccolte dalle forze dell’ordine sul territorio e non seguono, per ragioni evidenti, l’intero iter giudiziario. È da ultimo condivisibile che vi siano diverse tipologie di contiguità fra azienda mafiosa e non, più strategica o più inconsapevole. Queste tre argomentazioni nel loro insieme non minano però il fatto che l’utilità delle white list sia proprio a vantaggio di questa ultima categoria di imprese. L’intera giustificazione implica inoltre l’esistenza di operatori economici illeciti, ma, come spiega l’imprenditore S per neutralizzare la sua possibile vicinanza, “io posso anche non saperlo”.

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L’idea che non spetti all’imprenditore raccogliere informazioni e tenere sotto controllo il profilo delle aziende con cui collabora è condivisa anche da K.

“Perché non è che il titolare dell’azienda debba andare a fare il check up a tutte le imprese con le quali collabora, subappaltatori e cose del genere perché le infiltrazioni poi avvenivano attraverso i subappalti (…). Il fatto è che un’azienda una mattina ha bisogno di tre asfaltatori perché deve asfaltare e prima di chiamarli in cantiere deve avere l’elenco di chi era in norma, e la norma e da dove venivano, era una difficoltà enorme. L’unica cosa che ricordo, che so è proprio questa, la difficoltà dell’azienda di controllare i suoi subappaltatori”. (K)

Nella rappresentazione di K l’attività di controllo che le imprese sarebbero tenute a fare sembra concorrere con i tempi che il libero mercato richiede: invece di essere interpretata come una forma di tutela proprio della libera concorrenza, è valutata come una perdita di tempo. In sostanza la white list è rappresentata come un istituto che interviene nel sistema di libero mercato al fine di facilitare il riconoscimento di operatori economici affidabili. Nel farlo però distorce in parte i principi concorrenziali, dal momento che le imprese in essa incluse acquisiscono un vantaggio posizionale, conferito però da un intervento istituzionale. Quelle escluse - per motivazioni come visto spesso non condivise – ne sono invece fortemente danneggiate.

La centralità attribuita alla libera concorrenza del mercato sembra aver condizionato anche possibili risposte organizzative volte a contenere l’infiltrazione mafiosa. L’imprenditore C, a capo di una delle imprese storiche mantovane, ripercorre il momento in cui lui e suo padre si sono resi conto del fatto che alcuni operatori potessero avere comportamenti illeciti.

Da lì (….) è cominciato il sospetto, (…) però, sai dal discorso del sospetto ad andare a combattere quella realtà lì, non ci siamo mai neanche posti il problema di andare a combatterla, prima di tutto non sapevamo come combatterla… sì, magari non so, del tipo fare fra noi, passami il termine anche se non è neanche corretto, fare cartello, ci mettiamo d’accordo chi fra noi, che sappiamo di essere del territorio, e quindi di riuscire a collaborare fra noi per fare una certa realtà, riuscire poi cioè a chiudere il cerchio, ma comunque, c’erano comunque invidie fra di noi..

Ma col senno di poi, secondo lei, un tipo di coordinamento avrebbe avuto un...

No, no, perché poi il mercato è libero, cioè sul mercato libero cosa succede? Vince chi mette più soldi sul piatto. E io se sapevo di già in partenza di andarci a smenare, a perdere, lascia stare, preferisco stare a letto che andarci a smenare. (C)

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C prova a interrogarsi sul perché non ci sia stata - una volta preso atto di queste presenze criminali - una qualche risposta. Ammette che gli imprenditori “non si sono neanche posti il problema di come combatterla” la mafia e individua in una maggior cooperazione fra gli attori economici quella che avrebbe potuto essere una strategia per contenere l’avanzamento sul mercato delle società legate al gruppo mafioso. Sollecitato su questo punto, però, si appella alla libertà di mercato e alla consapevolezza che una soluzione di questo tipo - ossia la creazione di una sorta di “cartello” di imprese locali - sarebbe incompatibile con il liberalismo del settore e con tutta probabilità controproducente in termini di profitto. Identifica, inoltre, nell’individualismo, ossia nelle invidie, un ostacolo alla formazione di un ipotetico “fronte comune”. In questo senso lo “spazio” d’incontro che ha indirettamente agevolato gli operatori illeciti, sembra essere stato fornito proprio dalla generale attitudine competitiva che caratterizza il libero mercato. Tale disposizione ha minimizzato la funzionalità di strumenti di tutela e ha in qualche modo ostacolato la possibilità di un confronto costruttivo nel mondo dell’impresa locale, lasciando adito alle strategie di chi è più organizzato e “mette più soldi sul piatto”.

L’analisi delle rappresentazioni raccolte mette in luce un secondo “spazio” d’incontro fra impresa locale e mafiosa. Le interviste consentono di rilevare l’attuazione da parte dell’impresa locale di modelli di azione contigui a quelli diffusi nei contesti devianti. L’aspetto più interessante risiede in questo caso nella modalità con cui alcune di queste pratiche - in sostanza illecite - vengono narrate: ossia senza grandi tentativi di nascondimento. Proprio tale disposizione dà concretezza all’ipotesi che esse abbiano trovato una forma di legittimazione nell’ambiente imprenditoriale e siano di conseguenza state, almeno in parte, normalizzate e, conseguentemente, tollerate.

La prima prassi su cui sembra opportuno focalizzarsi riguarda l’ampia diffusione del lavoro autonomo in regime di Partita Iva fra i lavoratori che prestano servizio di manodopera nel settore edile e le modalità illecite con cui viene talvolta impiegato. L’esistenza di un numero elevatissimo - e sproporzionato - di ditte individuali è un fenomeno che è stato rilevato come significativo anche da alcune stime delle Camere di Commercio coinvolte nella ricerca, come quella di Mantova e di Reggio Emilia. Tali numeri sembrano avvalorare la possibilità che dietro alcune di queste ditte

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individuali si celino in realtà lavoratori subordinati, impiegati appunto come manodopera dalle imprese locali. Il fenomeno delle “false partite Iva” è in effetti ampiamente diffuso in Italia nel settore delle costruzioni e diversi studi mettono in evidenza la sua pervasività.34 L’imprenditore C ricorda che prima della crisi del

2008:

“C’erano più o meno circa 15mila iscritti [alla Camera di Commercio di Mantova] all’edilizia come imprese, ma di queste 15 mila, e non esagero, dai 9 ai 10 mila erano prestatori di mano d’opera, non erano… aprivano la partita iva e poi venivano… cosa che per altro oggi nel nostro settore, è la manodopera… cioè, dico una cosa che potrebbe esser controproducente, nel senso che non è un’auto denuncia però è un po’ il sistema che funziona così… ormai la manovalanza o il muratore manovale, oggi…”

Chiedo a C quali vantaggi abbiano invece gli imprenditori nell’appoggiarsi a lavoratori con la partita Iva e in questo caso la sua risposta è molto eloquente.

“Per l’imprenditore che gli offre il lavoro il vantaggio cos’è? Perché alla fine i costi non è che siano tanto minori, anche chi è a partita Iva o gli dai una certa cifra o altrimenti non sta in piedi, cioè non regge con le tasse da pagare, però c’è un vantaggio che oggi avendo tutta manodopera che viene a lavorare come dipendente in un’impresa edile l’80%. (…) la buona parte di chi comunque cerca l’occupazione fissa come ruolo, come dipendente, è brutto dirlo, ma dopo una settimana che tu l’hai assunto son già a casa in malattia, è brutto, non c’è costanza, è brutto (…) però invece spesso ti trovi, con il fatto poi che tu una volta che lo hai assunto, lasciarlo a casa diventa un problema. Il prestatore di manodopera che cos’ha? Se tu vieni a lavorare, ti pago, se tu stai a casa, non ti devo pagare, io non ho un costo e tu non guadagni e quindi tu anche quando hai il mal di testa, non ti dico con la febbre, ma il mal di testa, cerchi di venire a lavorare lo stesso. E questo permette anche da parte mia di mantenere certi impegni e certe scadenze nei confronti anche… perché io prendo un impegno con il cliente...” (C)

La narrazione di C pone diverse questioni. In primo luogo chiarisce che è l’impresa - o meglio l’imprenditore - a richiedere manovalanza che possieda una partita Iva, che sia dunque formalmente autonoma e non dipendente. In questo modo i lavoratori non hanno alcun tipo di copertura o retribuzione in caso di malattia e sono dunque

34 Il tema è stato affrontato in particolare dalla letteratura che si occupa dei processi di inserimento

lavorativo nel settore edile di soggetti migranti. Cfr, fra gli altri Iraklis Dimitriadis, “Asking Around”:

Immigrants' Counterstrategies to Renew Their Residence Permit in Times of Economic Crisis in Italy, in

“Journal of Immigrant & Refugee Studies”, 2018, Vol. 16 n.3, pp. 275-292; Claudio Morrison, Devi Sacchetto e Olga Cretu, International migration and labour turnover: Workers’ agency in the

construction sector of Russia and Italy, in “Studies of Transition and Societies”, 2014, Vol. 5 n. 2, pp.

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più “incentivati” a lavorare anche qualora avessero problemi di salute. Come spiega C “se hai il mal di testa cerchi di venire a lavorare lo stesso”. Questo assicura all’imprenditore una continuità lavorativa e la possibilità di non mancare mai le consegne concordate con i clienti, oltre, ovviamente, a una riduzione dei costi per il lavoro. Sebbene C lo minimizzi, infatti, il costo di assunzione per un lavoratore dipendente è maggiore di quello fatturato a un lavoratore formalmente a partita Iva. Una seconda prassi che potenzialmente si presta alla dimensione dell’illecito riguarda le perizie sul valore degli immobili in costruzione. L’imprenditore V, in particolare, ha raccontato di come lui stesso – in qualità di tecnico - abbia eseguito in passato fittizie valutazioni su indicazioni delle banche e di come questo fenomeno fosse direttamente legato all’evasione fiscale delle imprese che operavano nel settore immobiliare. V spiega innanzitutto che la prassi di fare eseguire una valutazione dell’immobile da parte delle banche - prima di acquistare l’immobile ed erogare un mutuo - fosse indispensabile data l’esistenza di un “non dichiarato”. Era, infatti, comune “il malcostume che l’impresa non dichiarasse tutto” e che dunque il costo dell’immobile risultasse falsato. Le banche, però, facevano esplicita richiesta di “gonfiare” queste medesime perizie:

“Sai quanti tecnici, cioè quanti direttori di banca mi hanno chiesto di fare una stima superiore del valore per poter far accedere poi al finanziamento il suo cliente... allora era l’80%... allora quella che era la prassi allora di routine: era dare il finanziamento ai privati o chi per esso fino all’80% del valore dell’immobile, io arrivo sino a 80 (…) quindi: quanto vale quella casa lì? La banca stessa mi chiedeva: non dire che vale 100 mi dici che vale 120 così gli davano il 100%, quindi vedi che le furbette da banche, perché loro intanto gli garantivano… perché cosa succede? Loro guadagnano sugli interessi e allora gli interessi erano abbastanza cospicui... quindi vedi dove è nato tutto il sistema che poi… non poteva resistere davanti a una crisi.” (V)

Il meccanismo era piuttosto semplice: la banca poteva finanziare un mutuo pari all’80 per cento del valore dell’immobile; richiedeva dunque ai tecnici di sovrastimare la propria perizia del 20 per cento in modo da conferire un prestito pari al 100 per cento del valore dell’immobile e guadagnare quindi un 20 per cento in più di interessi. La logica era di prestare più denaro possibile per recuperare più interessi possibili. Questa pratica illecita era diffusa e verosimilmente tollerata sul territorio. Le false perizie, inoltre, non venivano effettuate solo al fine di erogare

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mutui, ma anche per valutare i finanziamenti da concedere agli imprenditori e le tempistiche con cui versarli. Alcuni imprenditori, tra cui quelli cutresi, grazie all’intermediazione di notai compiacenti, avrebbero ricevuto trattamenti preferenziali. L’imprenditore X prova a spiegarlo:

“Quindi per dire, lei può fare un avanzamento lavori, quindi la casa costa 100, finirla costa 100, al primo solaio ti do 20 al secondo solaio ti do 30 e.… ok, e invece se al primo solaio [ti chiedono] “come sei messo?” [tu dici] “sono già al secondo solaio”, e loro, [ti dicono] “ti do 40”, anche una agevolazione in questo senso... è successo di tutto, di tutto. Quindi anche da parte dei notai, di tutti, purtroppo tutto il sistema che... una parte del sistema fortunatamente, alcuni del sistema che davano agevolazioni, perché tu, un conto è averne 20mila, un conto è averne 40, non è la stessa cosa, ti puoi permettere di comprare qualcos’altro e iniziare qualcos’altro, quindi fare un altro investimento e aumentare il tuo giro d’affari, cosa che non ti sarebbe stata possibile si ti davano solamente il giusto che dovevano darti…”

Secondo X, i finanziamenti delle banche avrebbero dovuto arrivare seguendo precisi scaglioni, ma in molti casi le stime di avanzamento lavori erano fittizie e consentivano agli imprenditori, locali e non, di accedere alla liquidità in anticipo acquisendo molti margini di vantaggio concorrenziali. Un ruolo cruciale è stato svolto in questo senso anche dai direttori degli istituti di credito. Diversi intervistati individuano, più in generale, nella disposizione delle banche a concedere lauti prestiti alle imprese immobiliari, non solo una delle ragioni a fondamento del tracollo del settore, ma un ulteriore elemento di vantaggio per alcuni imprenditori. In effetti, la facilità con cui era possibile accedere al credito bancario ha fatto sì che un intero settore, quello dell’edilizia immobiliare, si reggesse sul debito.

“Noi [imprenditori] abbiamo vissuto per tanti anni facendo gli americani con i soldi non nostri, cioè noi avevamo a disposizione, sembrava… faccio un esempio sciocco, sembrava il più pezzente quello che aveva un fido in banca più piccolo, sembra assurdo, non sono soldi tuoi un fido, sono soldi della banca che ti permette di sforare saltuariamente quando ci sono quei picchi di necessità. Invece le imprese di costruzione tutte, nessuna esclusa aumentavano il fido, non perché magari avesse dei picchi… ma perché teneva costante il suo indebitamento con la banca, quindi praticamente era un prestito costante. Nel momento stesso che però la banca è andata in crisi [2008-2009], che hanno chiuso i rubinetti e anzi hanno chiesto anche il rientro questa cosa… ha permesso di mettere in ginocchio le imprese che utilizzavano questo flusso come se fossero soldi loro, che era sbagliato.” (C)

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Secondo C l’indebitamento delle imprese era una prassi condivisa e “istituzionalizzata”.35 Inoltre era proprio la possibilità di accesso a un credito

sempre maggiore a sancire una sorta di riconoscimento sociale per cui, in una logica paradossale, “sembrava il più pezzente quello che aveva un fido in banca più piccolo”. La fiducia degli istituti di credito - o forse le relazioni privilegiate con i funzionari bancari del territorio – conferivano in questo caso il possesso di un capitale culturale e relazionale, oltre che economico.36 Coloro che disponevano dei

migliori contatti e quindi di un potere relazionale, infatti, proprio in ragione delle risorse economiche a cui avevano accesso, potevano dare mostra di uno specifico posizionamento sociale. Questa pratica sembra fosse comune fra le imprese locali e cutresi. C fa riferimento in particolare alla società di un noto imprenditore originario di Cutro e allo sproporzionato fido a cui ha avuto accesso per un cantiere nella zona della stazione degli autobus di Mantova.37

“ricordo che pubblicamente l’indebitamento di questo cantiere qui era di 46 milioni di euro... verso le banche, mentre il costo di cantiere, perché comunque avevo amici che lavoravano come tecnici che erano dentro, costi di cantiere erano, non arrivavano a 20-21.

Cioè hanno chiesto soldi alle banche per 25 milioni di euro in più?

E le banche glielo hanno concesso (…) Non so se il direttore locale o il sistema, questo non chiedermelo perché non lo so. Io se avessi chiesto 20 milioni in più per un intervento rispetto ai costi effettivi... ciao... chiamavano un’ambulanza per sapere se stavo bene oppure no. (…) mentre lì è stato concesso, lì forse... cioè sono queste le cose che hanno impattato di più sul mercato…” (C)

L’imprenditore cutrese ha avuto accesso a una somma esorbitante, pari al doppio del costo del cantiere. Non abbiamo dati per sostenere se questo sia avvenuto in ragione di forme velate di intimidazione, per effetto dei rapporti costruiti negli anni con i vertici del sistema bancario o in virtù della ottima reputazione imprenditoriale e sociale dell’imprenditore cutrese. È interessante però rilevare che questo modus

35 Rocco Sciarrone, Alleanze nell'ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, op. cit.,

pp. 39-43.

36 Marco Santoro, Marco Solaroli, Forme di capitale mafioso e risonanza culturale. Studio di un caso regionale e proposta di una strategia concettuale, op.cit.

37 A questo proposito si veda la ricostruzione fatta da Rossella Canadè, Fuoco Criminale. La ‘ndrangheta nelle terre del Po’: l’inchiesta, Imprimatur, Reggio Emilia, 2017.

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operandi - portato all’estremo dall’impresa in questione – trovasse già una legittimazione nell’ambiente bancario e imprenditoriale locale.

Le pratiche considerate e il modo in cui vengono narrate ci consentono di notare come il radicamento di soggetti mafiosi sia avvenuto in un contesto in cui era già presente un sostrato di attività illecite legittimato. Proprio questo sostrato può aver funzionato come uno “spazio” d’incontro: l’alta soglia di tolleranza nei confronti di alcune pratiche illegali preesistenti può aver contribuito, infatti, all’iniziale sottostima di quelle messe in atto dai soggetti mafiosi, favorendo, seppur indirettamente, il processo di insediamento. Come nota la letteratura, infatti, l’espansione mafiosa è di norma connessa a una situazione preesistente di “sregolazione”.38 Tale interstizio di pratiche illecite potrebbe dunque aver

funzionato come uno spazio di incontro fra interessi convergenti. In questo senso l’analisi avvalla l’ipotesi che vi siano in realtà delle contiguità culturali - più che delle differenze - fra il modo di agire e concepire il mercato di alcuni imprenditori locali e degli ‘ndranghetisti, ossia che in questi territori - così come in molti altri a non tradizionale presenza mafiosa - trovino spazio delle strategie di azione39 costruite a

partire da elementi culturali condivisi fra soggetti mafiosi e non.

Più in generale, l’analisi delle rappresentazioni degli imprenditori locali ha il merito di mettere in luce la centralità del capitale sociale, ossia di quella rete di relazioni indispensabili a ottenere vantaggi sul mercato, che spazia dal tecnico, all’impiegato di banca, al notaio. È possibile provare a individuare altre espressioni del capitale mafioso, così come teorizzato da Santoro e Solaroli, esercitato dai gruppi cutresi sul territorio. Nell’individuare alcune corresponsabilità - legate principalmente all’assenza di controlli nei confronti di alcune imprese edili cutresi - emergono, infatti, aspetti interessanti legati all’esercizio di un capitale culturale. L’imprenditore X, per esempio, lamenta la mancanza di sopralluoghi da parte dell’Ausl (Agenzia per Unità Sanitaria Locale), sui cantieri riconducibili alle società mafiose, a fronte dei numerosi controlli a cui sono sottoposti altri imprenditori.

38 Carlo Donolo, Disordine, L'economia criminale e le strategie della sfiducia, Donzelli, Roma, 2001;

Rocco Sciarrone, Mafie al nord. Strategie criminali e contesti locali, op. cit, cfr. p. XIII.

39 Ann Swidler, Culture in action: Symbols and Strategies, in "American Sociological Review", 1986,

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“Vengono a farti i controlli se hai le persone a posto, se sono a posto, a me vengono spesso, non trovano… magari stanno lì una giornata per guardare c’è un ponteggio in tutta la palazzina, che ci sono 20 cm, 19 cm e mezzo, 20 cm, cioè stanno lì magari una mezza giornata. E gli dici guarda di là che sono sul tetto, sul muro, che stanno camminando sui muri senza neanche un pezzettino di ponteggio. “E di là non ci vai?” “Ah là ci andremo”, però non sono mai andati.” (X)

Sollecitato rispetto alle responsabilità dei tecnici, però, X suggerisce che non tutti i casi vadano considerati come espressione di una connivenza e ipotizza che vi siano soggetti, invece, sottoposti a forme d’intimidazione.

“Allora guardi, a me arrivano voci, sa… qualcheduno poi magari esterno dell’ambiente e ti dice: ma come fanno ad andar là? Che sono andati là una volta li hanno chiusi in una baracca e gli han detto, guarda che tuo figlio va a scuola là, sappiamo che va a scuola là. E lui non ci va più. E lo posso capire, lo posso capire, lo posso capire, io ho una figlia, quindi se mi dicessero una cosa così io là non ci andrei mai più. È brutto dirlo, ma purtroppo fai così, non hai alternativa...

Lei dice più per una questione intimidatoria che per una questione di connivenza…

Secondo me scinderei le due cose: magari c’è quello che è vicino che magari gli arriva qualcosa e allora lascia correre e c’è quello che invece è… ti toccano tuo figlio e a quel punto lui dice cambio strada e di là non passo più. E stessa cosa nei comuni, ci sono entrambe le cose, più forse nei comuni il discorso di benefici, chiamiamoli “benefici”. Sì...” (X)

X ipotizza che coesistano - come è verosimile - la dimensione della corruzione e quella dell’intimidazione: da un lato negli uffici comunali preposti è possibile che vengano omesse forme di controllo per ottenere “chiamiamoli benefici”; dall’altra è plausibile che alcuni dei messi comunali e delle agenzie di supervisione dei cantieri abbiano subìto nel tempo delle minacce e che per tale ragione evitino di svolgere le loro mansioni in alcuni cantieri. Questa capacità di impiegare diversi registri relazionali, con un potenziale portato di violenza, corrisponderebbe, secondo il modello di Santoro e Solaroli, a una forma di capitale culturale.40

X denuncia anche l’assenza di controlli sotto il profilo fiscale e, similmente, emerge un’ambivalenza degli organi preposti alla supervisione.

“Anche dei controlli fiscali che alla fine, cavolo, ma questo qui [figlio di un noto imprenditore legato al clan di Cutro] a 24, 25 anni cominci a comprarti 200-600-700 mila, milioni di euro, cioè 700 mila euro di qua, un milione di là, ma… ok. Dopo, senti che quello che veniva a farmi l’assicurazione, che fatturerà 20 mila euro all’anno...

40 Secondo il modello del capitale mafioso proposto nel paragrafo sul quadro teorico, si tratterebbe

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gli fanno mille controlli, pare sia andata la guardia di finanza perché non tornavano 500 euro (…).

E a loro nessun controllo fiscale...

A loro guardi, so che i primi anni, quando erano arrivati, mi ricordo, dopo tre, quattro anni che erano arrivati. (…) cosa ha fatto? Ha messo tutta la contabilità in una macchina e la macchina ha preso fuoco, i primi anni, parliamo dei primi anni ‘90, i primi anni che sono arrivati. Quando cominciavano a capire che magari poteva arrivargli il controllo, tutto nella macchina, la macchina prendeva fuoco, non ho più niente, le carte sono bruciate. I primi anni facevano così, dopo secondo me sono riusciti ad avere delle coperture che … facevano, senza fare anche questo.” (X)

La narrazione di X cerca di evidenziare il divario esistente nelle pratiche di controllo fiscale: la loro capillarità o la loro totale assenza. Racconta inoltre le modalità con cui agli esordi, nei primi anni ’90, gli esponenti degli interessi ‘ndranghetisti sarebbero riusciti a evadere il fisco con pratiche che possiedono una elevata visibilità: avrebbero, cioè, ovviato ai controlli bruciando tutta la contabilità fiscale in un’automobile e dichiarando un incidente. Oggi invece, secondo X, potrebbero contare su delle vere e proprie “coperture”. L’impunità che trapela dal percorso degli imprenditori mafiosi - a seguito di gesti anche eclatanti - è un messaggio di per sé: un gesto che denota una competenza culturale, ma che possiede anche un portato simbolico e uno specifico esito.

La dimensione simbolica,41 oltre che culturale, del capitale mafioso trova

espressione in altre manifestazioni, magari meno vistose, ma in grado di dare rilievo al potere esercitato dal gruppo sul territorio. Nei confronti di coloro a cui si attribuisce un certo capitale simbolico si reagisce con fascinazione, riverenza e terrore, ma anche stima. Il capitale simbolico rientra in questo senso nella sfera del riconoscimento e della visibilità. Nel caso della mafia, come proposto da Santoro e Solaroli, esso può essere identificato con la reputazione e il prestigio. Questo tipo di capitale trova immediato riconoscimento all’interno dei contesti a tradizionale presenza mafiosa, dove si assiste alla condivisione di un repertorio culturale. Lì i soggetti mafiosi occupano posizioni sociali dominanti, trasversalmente

41 Secondo Bourdieu il capitale simbolico non è una proprietà o una predisposizione, ma un elemento

connesso alla struttura ineguale dei rapporti sociali. Il sociologo francese sostiene che la capacità dei soggetti che occupano una posizione dominante di imporre le loro produzioni culturali e simboliche gioca un ruolo determinante nei rapporti sociali di dominazione. Introduce anche il concetto di “violenza simbolica”, per indicare l'arbitrarietà di queste produzioni simboliche, che finiscono per essere legittimate dagli attori sociali dominati.

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riconosciute, e il capitale simbolico può esprimere una “violenza simbolica”, imponendo modelli di interpretazione e legittimando pratiche. È possibile, però, che anche in zone di nuovo insediamento, come quelle in esame, le manifestazioni del capitale simbolico mafioso trovino riconoscimento e legittimazione, seppur in forme più sottili. Anzi, proprio la capacità di permeare un contesto e trovare riconoscimento è indicativa delle forme di contaminazione culturale esistenti. Proviamo a considerare alcuni indizi della loro presenza nelle rappresentazioni raccolte.

Un primo elemento simbolico si concretizza nella tendenza a presentarsi come soggetti vincenti, con disponibilità economiche. I soggetti mafiosi tendono in questo senso a dare visibilità al loro potere. In generale esso trova una concretezza nel possesso di oggetti costosi, in particolare auto di lusso. Ne sono un esempio le Porsche o i vistosi suv di taglio americano sfoggiati nei centri abitati e sui cantieri rievocati da X e da K.

“Porsche. Porsche. Tutti il Porsche. Tutti il Porsche. Tutti il Porsche. O i suv … quelli quadrati… di CSI [serie televisiva americana] ... quindi eh... e tu dicevi, ma cavoli questo qui tre giorni fa, cioè 6 mesi fa, era con un camioncino scassato e adesso te lo trovi a farti il concorrente e a comprarti il terreno.” (X)

“Sì, sì... all’epoca poi c’era uno addirittura, uno che faceva gli intonaci, faceva far gli intonaci a tanta gente. Lui cambiava una macchina ogni venti giorni, passava dal Ferrari giallo, alla macchina americana… andava in giro per i cantieri, e continuava a cambiare macchina...” (K)

Il portato simbolico di queste automobili costose non risiede solo nel loro valore economico, ma nel modo in cui vengono esibite negli “spazi del lavoro”, ossia nei cantieri. Ciò che intimidisce maggiormente, inoltre, è la rapidità con cui sono state accumulate le risorse necessarie al loro acquisto. Sia X che K, infatti, fanno riferimento, nel dipingere l’immagine del mafioso a bordo della sua auto di lusso, ad un’altra immagine, quella dello stesso soggetto solo qualche mese prima spiantato, che “faceva gli intonaci” “con un camioncino scassato”.

Gli imprenditori mafiosi sembrano inoltre essere percepiti socialmente come “gente per bene”: essi riproducono un repertorio simbolico riconducibile al self made man, all’uomo di successo. Costruiscono un’immagine di sé, da un lato, volta

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all’integrazione nella classe imprenditoriale locale, dall’altro, attenta a segnalare - proprio attraverso un’estetica “neoliberale” - la posizione di successo acquisita nel mercato.

“[Queste persone sono] percepite a livello... cioè i sottoposti sono percepiti come più loschi, loro come gente per bene. Sono sempre vestiti benissimo, si fan fare le camicie su misura, con il nome sulla camicia e quant’altro (ride) iniziale sul polsino (ride)... ci ridiamo sopra, ci sorridiamo sopra però…” (Z)

Un altro modo per segnalare una posizione di potere è quella di manifestare sicurezza e distacco. In effetti gli imprenditori mafiosi sembrano interagire con i colleghi mantenendo questa attitudine nei contesti in esame. Quando chiedo a X che tipo relazione ha avuto con loro, risponde così.

“Mah sì, “ciao, ciao”. Loro sono sempre amiconi. Io sono uno molto freddino nelle mie cose, non sono molto … assolutamente. Loro “ciao, ciao, uh, come va?” … però loro, loro hanno questo, hanno questo vantaggio, che loro hanno fatto fallire quello lì e il giorno dopo van là a salutare. Cioè gli hai rovinato la vita, gli hai rovinato la famiglia, lo hai fatto divorziare, gli hai fatto perdere la casa, gli hai fatto perdere tutto e loro belli come il sole. Quello io non ce la faccio, io non ce la faccio.” (X)

Proprio nel loro porsi come “amiconi” sembra risiedere una forma manifesta di superiorità. A prescindere, infatti, dagli atti compiuti e dalle loro ripercussioni sociali ed emotive – come i tracolli finanziari di cui hanno diretta responsabilità - sembrano sempre attendersi dagli altri un atteggiamento formalmente ossequioso e non denunce o rivendicazioni. Questo tipo di distacco e di rispetto dovuto, questo vetro di cristallo che nessuno dei colleghi imprenditori ha il coraggio di infrangere, trova forza anche in un’evidenza: la loro infallibilità.

“Sa cosa c’è? Che alla fine visto che loro comunque sembrano non fallire e poi alla fine ritornavano su, sembravano cavoli dei… cioè… (…) Allora [uno pensa]: non è un disonesto, allora è importante, anche perché cavoli sta facendo lavori ancora là, sta facendo, poi ha finanziamenti ovunque, finanziamenti che secondo me è stata una cosa mostruosa...” (X)

X prova a spiegare quale fosse la percezione sociale diffusa a riguardo di questi soggetti: quella di “vincenti”. A fronte di indagini, rischi e tracolli finanziari, sono sempre riusciti a “ritornare su”, a ottenere finanziamenti, talvolta esorbitanti. Nell’ottica neoliberale è vincente chi sopravvive al mercato, chi ottiene fiducia e denaro dalle banche, è fallito chi invece sopperisce nella competizione. Questo

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schema di lettura rintracciabile nella storia economica di questi territori e in generale radicato nel pensiero economico capitalista, trova solo una parziale conferma nelle traiettorie biografiche degli imprenditori mafiosi. La loro infallibilità - in realtà permeata di “trucchi” e pratiche illecite - contribuisce a consolidare la loro immagine sociale di vincenti, invece che di disonesti.

A questo presupposto – ossia all’infallibilità – contribuisce, inoltre, la costante protezione dell’organizzazione criminale. La ‘ndrangheta tutela economicamente i suoi membri e nel farlo presentifica il suo potere anche qualora questi incappino nel fallimento, ossia nelle conseguenze di indagini giudiziarie. In questo senso è significativa la narrazione di C a riguardo della situazione attuale di un noto imprenditore cutrese finito sotto indagine.

“Allora il danno economico, se è vero quello che si è ipotizzato a oggi, i soldi messi sul piatto non sono i suoi, quindi lui [l’imprenditore cutrese] non ha perso una lira, con tanto che se per caso sei bravo che non tiri in ballo altri soggetti, comunque lui il vitalizio ce l’ha. Credo (…) che quelle organizzazioni lì non è che ti abbandonano, quindi lui a livello economico sicuramente non sta male, tant’è che comunque al di là dei suoi arresti domiciliari, insomma… la casa è di tanto di capello... (…) [Ride] L’ha intestata alla moglie. Evidentemente il soggetto pur essendo stato un intonachino all’inizio, probabilmente è stato anche una persona capace, perché certe cose non sono comunque riusciti a estrapolargliele, cioè casa sua non gliel’han toccata e probabilmente è stato bravo nel separare le cose come doveva fare...” (C)

L’imprenditore cutrese in questione non ha “perso una lira” ed è stato agli arresti domiciliari in una casa con “tanto di cappello”, sottratta con sapienza ai sequestri giudiziari. Lo stesso C non riesce a esimersi dal riconoscergli delle doti imprenditoriali, seppure esse siano state volte a tutelare il patrimonio da indagini giudiziarie: avrebbe saputo muoversi con strategia e avvedutezza. Sembra risiedere proprio in questa distorsione interpretativa il nucleo del problema in termini di percezione e significazione: l’imprenditore cutrese non ha agito da imprenditore “capace” - così come C e parte della classe imprenditoriale che lui incarna sembrano indirettamente rappresentare - ma da imprenditore deviante.

La breve panoramica delle rappresentazioni analizzate ci consente di dare consistenza all’idea che nelle zone in esame l’organizzazione criminale calabrese sia stata in grado di esprimere diverse forme di capitale mafioso: sia sociale, sia culturale e sia simbolico. L’interazione di questi capitali ha posto le basi per la definizione di

Figura

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