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Uso dei dati telerilevati per la valutazione della suscettibilità da frana in aree incendiate.

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U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

Dipartimento di Scienze della Terra

Corso di Laurea Magistrale in

Scienze e Tecnologie Geologiche

Uso dei dati telerilevati per la valutazione

della suscettibilità da frana in aree

incendiate.

Candidato: Filippo Focacci

Relatore:

Dott. Andrea Ciampalini

Correlatore: Prof. Carlo Baroni

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Indice

Capitolo 1 – Introduzione e Obiettivi………..4

Paragrafo 1.1 – Introduzione……….4

Paragrafo 1.2 – Obiettivi della tesi……….14

Capitolo 2 – Area di studio……….15

Paragrafo 2.1 – Inquadramento geografico………15

Paragrafo 2.1 – Clima e vegetazione………16

Capitolo 3 – Inquadramento……….17

Paragrafo 3.1 - Inquadramento geologico………..17

3.1.1 – Formazioni……….20

3.1.2 – Depositi alluvionali………..23

3.1.3 – Copertura detritica……..……….………….23

Paragrafo 3.2 - Inquadramento geomorfologico……..24

3.2.1 – Forme, processi e depositi fluviali e di versante dovuti al dilavamento………..24

3.2.2 - Forme, processi e depositi di versante…….26

3.2.3 – Forme e processi antropici……….27

3.2.4 – Idrogeologia……….31

Capitolo 4 – Incendi boschivi in Toscana………33

Paragrafo 4.1 – Introduzione……….33

Paragrafo 4.2 – Incendio del 24 Settembre 2018…….37

Paragrafo 4.3 – Interventi post incendio………..40

Capitolo 5 – Materiali e metodologie………45

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Paragrafo 5.2 – Metodologie………66

5.2.1 – Metodologie satellitari………..66

5.2.2 – Metodologie GIS……….……….74

5.2.3 – Rilevamento sul terreno……….…84

Capitolo 6 – Risultati……….86

Paragrafo 6.1 – Risultati analisi GIS e immagini satellitari……….86

Paragrafo 6.2 – Analisi delle serie temporali ricavate dalle immagini ottiche e radar………..………..95

Paragrafo 6.3 – PS e serie storiche………..…….103

Paragrafo 6.4 – Carta della Suscettibilità……….108

Capitolo 7 – Discussioni.………..126

Capitolo 8 – Conclusioni………147

Bibliografia………..153

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Capitolo 1

Introduzione ed Obiettivi

1.1 – Introduzione.

Il fenomeno incendi sta cambiando rispetto al passato perché l’ambiente forestale ed il clima stanno mutando le loro interazioni. Ondate di calore e siccità sono più frequenti ed aumentano lo stress idrico della vegetazione, rendendola altamente infiammabile. Oltre a ciò, un tempo il territorio veniva coltivato e capillarmente gestito, cosa che oggi succede sempre più raramente (Seidl et al., 2017).

A seguito dell’abbandono delle aree agricole e pastorali, i boschi italiani si stanno espandendo spontaneamente di circa 30.000 ettari all’anno, originando formazioni pre-forestali e boschi di neoformazione particolarmente predisposti ad essere percorsi dagli incendi.

Anche le aree urbanizzate sono in espansione e sono sempre più diffuse le zone di interfaccia urbano-foresta dove il rischio incendi è alto ed il pericolo evidente (Bovio

et al., 2017).

Oggi la strategia praticamente unica contro gli incendi, almeno in Italia, si basa prevalentemente sull’estinzione del fuoco. Questa strategia prevede una struttura antincendio capace di intervenire tempestivamente con mezzi numerosi su un territorio vasto. Tuttavia, gli incendi presentano un’elevata variabilità da un anno all’altro che

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5 dipende da diverse condizioni predisponenti e determinanti ed in primo luogo dalla variabilità meteorologica.

Usare come unica strategia quella dell’estinzione, va a trascurare un aspetto fondamentale ossia quello di studiare le caratteristiche della vegetazione che predispongono ai grandi incendi.

Il comportamento degli incendi boschivi è determinato da tre fattori: le condizioni meteorologiche, le proprietà geomorfologiche e pedologiche del terreno e le caratteristiche della vegetazione.

Per poter agire in maniera preventiva sull’andamento di un incendio boschivo abbiamo quindi un’unica possibilità: intervenire sull’unica variabile accessibile e modificabile: la componente vegetale.

Gli interventi “selvicolturali preventivi” favoriscono le specie meno infiammabili, regolando in senso orizzontale e verticale la distribuzione dei combustibili con la creazione di soluzioni di continuità, riducendo il carico di combustibile vegetale e l’accumulo del materiale più infiammabile, mantenendo gli spazi aperti esistenti (Piano AIB 2019-2020).

Quindi, una strategia che integra l’estinzione con azioni preventive di gestione del bosco, che lo rendano meno suscettibile ai grandi incendi, è più efficace nel mitigare il rischio. Il conseguente minor danno arrecato all’ecosistema aumenterà anche la sua resilienza, cioè la capacità di recuperare quella funzionalità che è stata

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6 compromessa dall’intensità e dall’estensione dell’incendio, oltre che dalla ricorrenza dello stesso.

Talvolta si preferiscono interventi tradizionali, come favorire la crescita di specie meno infiammabili e quella di alberi più resistenti, di maggiori dimensioni e con chiome più distanziate. Questi interventi, tuttavia, vanno incontro a fattori limitanti come la difficile accessibilità delle zone che si riflette sulla realizzazione e sui costi dei cantieri forestali.

Questi limiti portano ad attuare altre tecniche di prevenzione tra cui, ad esempio, il “fuoco prescritto” (Fig.

1.1), tecnica selvicolturale di prevenzione che applica in

modo esperto ed autorizzato il fuoco alla vegetazione su superfici pianificate, in determinate condizioni meteorologiche ed ambientali, adottando precise procedure da parte di tecnici e professionisti (Bovio et al., 2012).

Figura 1.1 – Applicazione della tecnica del “fuoco prescritto” (da http://valdarnopost.it ).

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7 Come prevenzione incendi, “il fuoco prescritto” ha l’obiettivo di rendere più difficile il passaggio in chioma degli incendi boschivi e di modificare il modello di combustibile, eliminando o riducendo fortemente il materiale vegetale fine e quello morto, interrompendo la continuità verticale del combustibile e ripristinando o mantenendo gli spazi aperti posti all’interno ed ai margini del bosco.La gestione degli incendi però non si ferma alla prevenzione ed estinzione, ma riguarda anche la previsione del pericolo prima che questi si verifichino e la ricostituzione post-incendio.

Si definiscono zone di interfaccia urbano-foresta quelle aree dove le strutture antropiche si trovano a stretto contatto con l’ambiente forestale. In queste porzioni di territorio gli incendi boschivi si possono generare all’interno degli insediamenti urbani o delle infrastrutture, per poi propagarsi verso il bosco, oppure si possono verificare situazioni nelle quali gli incendi si propagano dall’ambiente boschivo verso le strutture antropiche. Per questo motivo si vanno a definire le fasce parafuoco di protezione (Fig. 1.2-1.3).

Figura 1.2 – Fasce parafuoco sui Monti Pisani (da Piano di prevenzione AIB dei Monti Pisani.)

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Figura 1.3 – Esempio di una fascia parafuoco in Sardegna ( da http://www.sardegnaforeste.it ).

Queste ultime sono opere perimetrali da realizzare dove il bosco arriva al margine dei centri abitati e lungo le strutture viarie.

La fascia di protezione deve realizzare condizioni di sicurezza per gli insediamenti presenti, per cui devono essere operati degli interventi selettivi sulla vegetazione esistente. Ovviamente le dimensioni delle zone di protezione, che vanno dai 25 ai 50 m, variano a seconda del rischio incendi che si trova in quella zona (Piano AIB 2019-2020).

Per avere ulteriore protezione, soprattutto intorno ad abitazioni, sono definiti i cosiddetti “spazi difensivi”, aree circostanti strutture antropiche isolate, nelle quali, in modo graduato, è fortemente ridotto il carico del combustibile e ne è assicurata la discontinuità verticale ed orizzontale. Le zone sono fondamentalmente due, la

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9 prima da 0 fino a 10 m e la seconda da 10 fino a 30 m (Piano AIB 2019-2020) (Fig. 1.4).

Figura 1.4 – Modello di “spazi difensivi” relativi ad un’abitazione (da Piano AIB 2019-2020).

Con questi metodi di prevenzione si cerca quindi di mantenere centri abitati ed abitazioni ad una certa distanza da vegetazione ed alberi. Questo perché, in caso di forte vento, foglie, piccoli rami o altro materiale possono essere sollevati ed arrivare a contatto con le abitazioni vicine, rischiando la propagazione dell’incendio, come rappresentato nello schema sottostante. (Fig. 1.5).

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Figura 1.5 – In questa figura si vede come la vegetazione troppo vicina ad abitazioni, in caso di incendi, può diventare un pericolo per

la propagazione dell’incendio stesso

(da https://www.thebushfirefoundation.org/how-fire-behaves/ )

In molti casi la propagazione dell’incendio tramite i materiali in fiamme trasportati dal vento, fenomeno definito come “spotting” (Fig. 1.6), diventa molto pericolosa non solo negli incendi vicino a centri abitati, ma anche in quelli boschivi. Questo perché la presenza di vento fa sì che diventino inutili le vie tagliafuoco, appositamente predisposte, facilmente superabili dai materiali trasportati dal vento.

Figura 1.6 – Fenomeno di “spotting” in un incendio boschivo (da https://www.arcgis.com ).

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11 Gli interventi post-incendio devono mirare ad un bosco con una maggiore resistenza (capacità di opporsi al trauma termico degli incendi) e resilienza (capacità di tornare alla condizione precedente al trauma) ed a garantire che non si verifichino altri eventi negli anni immediatamente successivi. Questo è possibile solo nel caso in cui si abbiano conoscenze sui fattori ambientali, sulle caratteristiche meteorologiche ed infine sullo stato idrico della vegetazione.

È di fondamentale importanza individuare le zone dove sia stata compromessa la rinnovazione naturale della vegetazione o dove la stessa possa dar luogo ad un nuovo soprassuolo ancora più esposto al rischio di incendio, come ad esempio per il pino marittimo (Piano AIB 2019-2020). Gli interventi post-incendio sono di fondamentale importanza per mitigare e diminuire lo sviluppo di futuri fenomeni pericolosi. In primis l’aumento dell’erosione su quei versanti, prima protetti dalla vegetazione ed in secondo luogo dell’instabilità dei versanti soprattutto durante piogge intense.

L’impatto del fuoco sul suolo può essere diretto o indiretto. L’impatto diretto è collegato soprattutto con l’intensità del calore. Il suolo essendo un cattivo conduttore di calore, fa sì che l’incendio coinvolga solo i primi centimetri di esso. Gli effetti diretti dipendono dal tipo di suolo, dalla tessitura dei materiali, dalle condizioni pre-incendio, dalle condizioni meteorologiche ed infine anche dalla vegetazione.

Gli effetti indiretti sono legati alla produzione di grandi quantità di cenere, alla diminuzione della capacità di

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12 recupero delle piante ed a tutte quelle azioni che si devono attivare per la manutenzione post incendio.

Uno degli impatti più importanti ed evidenti è la riduzione o la scomparsa totale della copertura del suolo. Le alte temperature comportano una diminuzione della materia organica presente nel suolo e di conseguenza possono cambiare la sua composizione. Questi drastici cambiamenti avvengono di solito a temperature comprese tra i 200°C ed i 450°C.

A queste temperature la maggior parte dei nutrienti, come carbonio ed azoto cominciano a vaporizzare, fino alla completa scomparsa quando le temperature superano i 500°C. In molti incendi le temperature possono salire fino a 1100°C, ciò comporta la volatilizzazione totale di quasi tutti gli elementi presenti nel suolo (Pereira et al., 2018).

Dopo un incendio la cenere prodotta ricopre il suolo e crea una protezione temporanea contro l’erosione. Con le alte temperature si ha la produzione di una cenere estremamente fine, capace di penetrare nei pori del terreno e di diminuirne la permeabilità.

Infine, la cenere prodotta alle alte temperature è molto ricca in carbonati che formano una crosta superficiale, impedendo all’acqua di scorrere in profondità. Tutte queste conseguenze portano ad una impermeabilizzazione del suolo (Fig. 1.7) e di conseguenza ad un maggiore scorrimento delle acque superficiali.

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Figura 1.7 – Processi di impermeabilizzazione del suolo durante gli incendi (da https://www.tiogaenv.com/).

Subito dopo un incendio il suolo risulta estremamente sensibile a qualsiasi tipo di cambiamento, a causa dell’assenza di vegetazione che forniva supporto e protezione dagli agenti atmosferici, come ad esempio piogge intense. Queste condizioni si ritrovano spesso negli ambienti mediterranei, caratterizzati da intense piogge autunnali. Sono proprio queste ad essere spesso responsabili di grandi movimenti superficiali, come frane o

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1.2 – Obiettivi della tesi.

Gli obiettivi principali di questo lavoro sono stati fondamentalmente due: il primo è stato quello di elaborare una carta della suscettibilità delle frane presenti nella zona di studio. Questo è stato fatto per comprendere meglio come l’incendio avesse influito sulla stabilità dei versanti e quali fossero dopo l’incendio le zone classificabili come a rischio. Ciò è stato possibile grazie alla raccolta ed al confronto di dati sia provenienti da fonti già esistenti, come i modelli digitali del terreno e varie immagini satellitari, sia raccolti direttamente sul campo durante le fasi di mappatura della zona bruciata e dei dissesti presenti. L’elaborazione di questi dati è stata realizzata grazie all’uso di programmi specifici, di cui sono riportati tutti i passaggi più importanti. Il secondo obiettivo è stato quello di mostrare quali possono essere i passaggi e le metodologie utilizzabili per uno studio approfondito su una zona incendiata. Ossia mostrare quali dati devono essere utilizzati, quali sono i fattori da considerare ed infine mostrare come le metodologie satellitari e gli studi sul terreno, correlati, possono essere presi come base per gli studi futuri.

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Capitolo 2

Area di studio

2.1 - Inquadramento geografico

I Monti Pisani sono dei rilievi che si collocano nella Toscana Settentrionale, ad una distanza variabile tra i 12 ed i 20 km dalla costa tirrenica. Si estendono per oltre 160 km² tra le valli del Serchio e dell’Arno, dividendo le città di Pisa e Lucca. La cima più alta non raggiunge i 1000 m s.l.m. (Monte Serra, 918 m s.l.m.). Tale cima, insieme al Monte Cascetto, lo Spuntone di Santallago, il Monte Faeta e il Monte Verruchino, va a costituire il crinale principale, con direzione prevalente NO-SE. Le altre cime minori sono disposte sia sul versante pisano che su quello lucchese. La struttura generale dei Monti Pisani è costituita inoltre da svariate incisioni vallive date dai diversi torrenti, tra cui lo Zambra e il Fosso di Calci, che ne hanno modificato la morfologia (Fig. 2.1).

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2.2 - Clima e vegetazione

In generale la Toscana è collocata in un’area climatica definita “temperata calda con estate secca”, caratterizzata però da una marcata variabilità dovuta proprio alla sua posizione geografica e conformazione orografica; queste caratteristiche influenzano fortemente, non solo in estate, il regime degli incendi boschivi (Piano AIB 2019-2020).

I Monti Pisani sono caratterizzati da un afflusso meteorico nettamente più elevato rispetto a ciò che si registra nella Toscana Centro-Meridionale, con precipitazioni che arrivano a 1252,1 mm/anno sul Monte Serra (Rapetti, 2000). Il regime pluviometrico è di tipo submediterraneo, con precipitazioni massime in autunno e inverno (intensità massima in ottobre: 14-15 mm/giorno piovoso) e piovosità estremamente ridotta in estate (intensità minima in luglio: 6-9 mm/ giorno piovoso). Dal punto di vista termico il clima varia da temperato caldo, nelle porzioni planiziali che circondano il massiccio montuoso, al temperato subcontinentale nelle porzioni culminali. L’attività umana sui Monti Pisani è registrata fino a circa 6000 anni fa, di conseguenza la fitogenesi presente è artificiale o semi-naturale. Si possono individuare diverse classi vegetazionali: varie tipologie di castagneti che ricoprono circa il 25%, querceti affiancati a lecceti e sughereti. In aree con limitata estensione, su substrato carbonatico, crescono diverse tipologie di macchia soprattutto nelle aree meridionali dei rilievi. Sui Monti Pisani abbiamo inoltre una delle maggiori concentrazioni di pino marittimo (Pinus pinaster) di tutta la Toscana, che ricopre circa il 36% di tutta l’area di studio (Tomei et al., 1993).

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Capitolo 3

Inquadramento

3.1 – Inquadramento Geologico

La struttura dei Monti Pisani è legata alla formazione dell’Appennino Settentrionale, una catena orogenica di età alpina che si è generata dalla chiusura del bacino oceanico ligure-piemontese (Fig. 3.1)

Figura 3.1 – Struttura dell’Appennino Settentrionale (da Mantovani et al.,2013).

individuatosi nel Giurassico e situato tra i margini continentali della placca Sardo-Corsa e la Placca Adria. Le fasi di chiusura legate ad una subduzione intraoceanica si sono sviluppate dal Cretaceo Superiore fino all’Eocene

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18 Medio. Da questo momento si è sviluppata una fase di collisione continentale dall’Eocene Medio fino all’Oligocene Inferiore che ha portato ad una flessurazione della Placca Adria. Da qui deriva la struttura generale della catena, composta da varie unità tettoniche impilate, raggruppate in base al dominio paleogeografico di appartenenza.

I Monti Pisani rappresentano una larga finestra tettonica che mostra le Unità Toscane Metamorfiche confinate al di sotto delle Unità Toscane non Metamorfiche, Liguri e sub-Liguri (Fig. 3.2). Questa finestra è bordata principalmente da 2 sistemi di faglie ad alto angolo, con direzioni NW-SE e NE-SW, legate alla tettonica estensionale del Quaternario (Pandeli et al., 2004). Da Est verso Ovest e dal basso verso l’alto si riconoscono: l’Unità del Monte Serra, l’Unità di S. Maria del Giudice nota anche come “Falda Toscana Metamorfica” e la Falda Toscana (Rau & Tongiorgi,1974). Quest’ultima affiora essenzialmente nel settore meridionale, occidentale e nord–occidentale e si sovrappone tettonicamente sulle altre due. Sulla base delle indagini strutturali alla meso ed alla micro-scala è stato possibile stabilire che durante l’orogenesi alpina l’Unità del Monte Serra e l’Unità di S. Maria del Giudice hanno subito un’evoluzione tettonica polifasica, caratterizzata da tre eventi deformativi principali D1, D2 e D3. (Carosi et al., 2002). Questo ha portato allo sviluppo di un metamorfismo di basso grado riferibile alla facies degli scisti verdi (Franceschelli et al., 1986).

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Figura 3.2 – In questo schema sono rappresentate le principali Unità Geologiche presenti nei Monti Pisani ed i vari elementi strutturali

(Sergiampietri et al., 2012).

L’unità del Monte Serra è costituita da sedimenti triassici, terrigeni, di tipo alluvionale (Formazione della Verruca, Trias Medio) che evolvono nel tempo verso sedimenti costieri e di delta fluviale (Formazione del M. Serra, Carnico). Al di sopra di questi metasedimenti appartenenti al Verrucano si sovrappone la formazione di S. Maria del Giudice. Una successione prevalentemente carbonatica che termina verso l’alto con spessori modesti di torbiditi (“Pseudomacigno”). La Falda Toscana invece si trova sotto forma di piccoli lembi di natura calcarea, appartenenti alle formazioni del Calcare Massiccio e Cavernoso che si vanno a sovrapporre alle due precedenti unità.

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3.1.1 - Formazioni

La zona di studio ricade all’interno dell’Unità del Monte Serra, a parte un piccolo lembo di Falda Toscana che affiora presso l’abitato di Caprona.

All’interno dell’Unità del Monte Serra andando dal basso verso l’alto troviamo principalmente due formazioni:

• Formazione della Verruca

• Formazione delle Quarziti del Monte Serra

Ognuna di queste a sua volta è suddivisa in vari membri: • Formazione della Verruca:

“Anageniti grossolane” (V1) Anisico-Ladinico: conglomerati prevalentemente quarzosi a matrice quarzitico-filladica violacea irregolarmente stratificati in grosse bancate.

“Scisti violetti” (V2) Ladinico: filladi quarzitiche (e subordinatamente filladi) violacee a stratificazione di regola indistinta, cui si intercalano tipi più grossolani di colore chiaro.

“Anageniti minute” (V3) Ladinico: quarziti per lo più biancastre a grana molto variabile, normalmente grossolane fino a conglomeratiche, alternate spesso a filladi quarzitiche e filladi violacee.

• Formazione delle Quarziti del Monte Serra:

“Scisti Verdi” (S1) Carnico: filladi sericitico-cloritiche verdi in cui si intercalano sottili straterelli quarzitici in ripetute alternanze, spesso ondulati e lentiformi.

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21 “Quarziti verdi” (S2) Carnico: quarziti per lo più verdi o grigio-verdi con fitta stratificazione incrociata.

“Quarziti bianco rosa” (S3) Carnico: quarziti bianco-rosate, di grana molto variabile passanti localmente a tipi litologici più grossolani fino a conglomerati minuti.

“Quarziti viola zonate” (S4) Carnico Sup.: quarziti a grana finissima e filladi sericitico-cloritiche violacee in lamine fittamente alternate che danno alla roccia un aspetto finemente zonato.

I membri alla base della Formazione della Verruca giacciono in discordanza sul basamento paleozoico caratterizzato da filladi, quarziti, scisti e metarenarie. Il basamento affiora solo in una piccola porzione sulla Verruca e vicino all’abitato di Calci.

Sui metasedimenti del Verrucano si sovrappone tettonicamente l’Unita di S. Maria del Giudice, rappresentata da una successione di metasedimenti post-triassici. Questi sono definiti con il nome di Formazione della copertura calcarea e silicea, la quale al suo interno è costituita principalmente dai seguenti membri: Grezzoni (Gr), Calcari cerioidi (M), Calcari Selciferi (Cs).

Al di sopra dell’Unità di S. Maria del Giudice troviamo infine la Falda Toscana, sotto forma di piccoli lembi. La Falda Toscana è costituita da varie formazioni tra cui: Brecce poligeniche (Brc), Calcari e marne a Rhaetavicula

contorta (cmA), Portoro (Pt), Calcare Massiccio (cm),

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22 “Brecce poligeniche” (brc): brecce poligeniche ad elementi provenienti dalle 2 formazioni toscane calcareo-silicee, inglobanti scaglie di varia grandezza di calcari ceroidi e calcari e marne a R. contorta.

“Calcari e marne a Rhaetavicula contorta” (cmA) Retico Inf.-Medio: calcari più o meno marnosi, neri o grigio scuri, ben stratificati, cui si alternano marne zonate grigio scure con patina di alterazione giallastra, fossilifere.

“Portoro” (pt) Retico sup.: calcari grigio scuri brecciati, a cemento calcareo-limonitico bianco-giallastro.

“Calcare Massiccio” (cm) Lias inf.: calcari bianchi, grigio-chiari, massicci.

“Scaglia Toscana” (sp) Eocene-Oligocene Inf.: marno argilliti varicolori, quasi sempre rosso fegato, a stratificazione indistinta, minutamente scagliose all’affioramento ove appaiono in prismetti o frammenti aciculari.

“Macigno” (mg) Oligocene Sup.-Miocene Inf.: arenarie micaceo-feldspatiche, in strati e banchi di potenza variabile cui si alternano argillosiltiti in strati di spessore molto minore.

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3.1.2 - Depositi alluvionali

Particolare importanza deve essere data anche ai depositi fluviali, estremamente abbondanti in queste zone. Sono stati distinti tre ordini di depositi alluvionali (a, at1 e at2) costituiti in generale da ciottoli poligenici ed eterometrici, immersi in una matrice sabbioso-limosa giallo rossastra, talora abbondante e predominante. I depositi più antichi (at2) sono riferibili in gran parte alla conoide erosa e terrazzata del Rio Magno e sono costituiti da un conglomerato poligenico ben classato con abbondante matrice (Franchi et al., 2004). Con il termine generico di alluvioni terrazzate (at) sono indicati tutti gli accumuli coniformi di materiali detritici, costituiti prevalentemente da ciottoli e sabbie, che si trovano generalmente allo sbocco delle valli dei corsi d’acqua principali e dei rii minori. Le “at1” e le “at2” sono costituite nella loro facies-tipo da una matrice di materiale fine, di colore rossastro, all’interno della quale sono presenti blocchi di dimensioni variabili, in genere di forma arrotondata. I depositi di tipo “a”, sono depositi alluvionali recenti, estremamente presenti nell’area di studio, costituiti da terreni a varie granulometrie ed a pendenza debolissima, se non nulla. Sono sedimenti di origine fluviale, imputabili alle alluvioni del Rio Magno ed anche del Paleo-Serchio (Franchi et al., 2004).

3.1.3 - Copertura detritica

In quest’area di studio molto presente è anche una spessa copertura detritica. In generale è formata da elementi lapidei di pezzatura eterometrica (da qualche mm a

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24 decine di cm), di forma angolosa, legati da una matrice più fine che occupa gli interstizi tra i clasti (Franchi et al., 2004). Ovviamente la natura dei clasti riflette le caratteristiche della formazione rocciosa da cui è derivata. Tutte le formazioni hanno prodotto una certa copertura detritica, ma le più evidenti sono relative alle formazioni quarzitiche del Monte Serra. La resistenza di queste litologie agli agenti atmosferici ha permesso che blocchi di gradi dimensioni percorressero interi versanti, molto lontano dagli affioramenti di origine. Alla Formazione della Verruca invece si possono attribuire grossi blocchi anagenitici riscontrabili nelle zone occidentali dell’area di studio.

3.2 – Inquadramento Geomorfologico

Le forme, i depositi ed i processi presenti nell’area sono stati suddivisi in 3 tipi:

3.2.1 - Forme, processi e depositi fluviali e

di versante dovuti al dilavamento

Le acque correnti superficiali rappresentano uno degli agenti che in maniera maggiore hanno determinato e determinano l’evoluzione geomorfologica dell’area di studio. Le forme sicuramente dominanti sono quelle di erosione: i torrenti sono in attivo approfondimento, come dimostra la presenza di profonde incisioni a V nei versanti principali e la conseguente erosione laterale che produce

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25 scarpate di degradazione e l’innesco di limitati fenomeni franosi.

Forme di ruscellamento

In questa categoria rientra sia il ruscellamento dato dalle acque meteoriche, sia quello concentrato lungo solchi e fossi. Le forme di erosione si trovano in maniera più frequente sulle coperture e dove c’è la presenza di materiale facilmente erodibile. I solchi di ruscellamento sono una forma molto comune, direttamente dipendenti dagli apporti meteorici. In estate sono completamente asciutti, mentre si riattivano durante le precipitazioni, creando rapidissimi deflussi che asportano una gran quantità di materiale appartenente soprattutto alle coperture detritiche. Si sviluppano lungo la direzione di massima pendenza del versante e possono avere forme rettilinee oppure un andamento più sinuoso con numerose anse (Franchi et al., 2004).

Scarpate di erosione torrentizia

La maggior parte delle scarpate dovute all’attività erosiva dei corsi d’acqua si imposta su antichi sedimenti alluvionali, es. conoidi, come quella del Rio Magno (Franchi et al., 2004). La velocità con cui queste forme crescono nel tempo dipende da molti fattori, tra cui il clima, la litologia, le caratteristiche morfologico-strutturali ed infine le opere di protezione messe in atto.

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3.2.2 - Forme, processi e depositi di

versante

Altro agente dominante nella formazione del paesaggio è la gravità. Le principali forme di versante dovute alla gravità sono rappresentate da frane, falde detritiche, coni e canaloni detritici e dalle scarpate di degradazione.

Frane

Frequentemente si vanno ad impostare nelle aree di impluvio, dove gli spessori delle coltri eluvio-colluviali e l’imbibizione dei terreni, per la presenza di acqua durante le precipitazioni, sono maggiori che altrove. Altre aree colpite da fenomeni franosi sono quelle in cui si ha una forte erosione da parte dei torrenti. Questo si ha soprattutto nelle anse dei torrenti dove l’erosione è maggiore e sviluppa fenomeni franosi di limitata estensione (Fig. 3.3).

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Soliflusso e creep

Sono movimenti lenti della copertura che ricopre i versanti. Sono individuabili da vari indizi tra cui la deformazione dei terreni e l’incurvatura alla base di fusti di molte piante.

Colate di pietre: “sassaie” o “block streams”

Si tratta di notevoli accumuli di massi angolosi e di dimensioni variabili, formatisi durante le fasi più fredde nell’ultima glaciazione quando i rilievi al margine della catena appenninica erano soggetti a condizioni di ambiente periglaciale (Pappalardo e Putzolu, 1994).

Depositi eluvio-colluviali

I depositi eluvio-colluviali corrispondono alle coperture detritiche che rivestono le pendici collinari e montane. Sono originati dallo scorrimento delle acque superficiali che trasportano il materiale superficiale (eluviale) e lo depositano dopo un breve tratto in cordoni o alla base dei rilievi. Gli accumuli sono costituiti da elementi spigolosi incoerenti di varie dimensioni, con massi anche di alcuni metri di diametro, immersi in una abbondante matrice sabbiosa.

3.2.3 - Forme e processi antropici

L’ antropizzazione ha interessato i Monti Pisani fin da epoche remote; sono stati fatti ritrovamenti ricollegabili fino al Paleolitico Sup. È però con gli Etruschi e successivamente con i Romani che l’uomo apporta modifiche al paesaggio con le sue attività, sia tramite

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28 l’estrazione della pietra calcarea dei Monti Pisani, sia modificando la morfologia preesistente soprattutto per scopi agricoli. Nelle zone pianeggianti, tutto intorno ai Monti Pisani, fu attivata una regimazione delle acque superficiali, tramite canali e fossi, sia per l’irrigazione delle colture, sia per suddividere in maniera più efficiente gli appezzamenti di terreno. A seconda del tipo di suolo e di acclività l’uomo lo ha utilizzato cambiando il tipo di coltivazione. Nelle zone più acclivi si costruirono moltissimi terrazzamenti, tramite l’uso dei muretti a secco. L’uso della pietra a secco sui versanti terrazzati riveste una notevole importanza, soprattutto nei paesi del Mediterraneo (Fig. 3.4), per la sua diffusione, per il suo valore patrimoniale e per le sue applicazioni ambientali.

Figura 3.4 – Distribuzione dei terrazzamenti sulla Penisola Italiana (da Rizzo et al., 2016).

In questa area di studio, sin dal XIV secolo, l’attività agricola è stata centrata prevalentemente sulla olivicoltura, accanto alla quale esisteva anche una pastorizia per la produzione di lana e formaggi. Tale intenso sfruttamento delle risorse trovava bilanciamento nella continua opera di manutenzione dedicata al territorio e, nello specifico, alle sistemazioni idraulico-agrarie.

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29 Gli anni 60 del ‘900 hanno visto la fine di questa economia, portando alla riduzione di tutti quegli addetti in agricoltura che avevano costituito, con il loro lavoro, il principale fattore nell’evoluzione del paesaggio (Rizzo et

al., 2006).

Ogni terrazzamento veniva costruito secondo diverse tecniche (Fig. 3.5) in base a diversi fattori, tra cui il tipo di rocce presenti, la quantità di materiale di riempimento disponibile ecc.

Figura 3.5– Struttura generale di un terrazzamento, con sezione (da Rizzo et al., 2006).

Questo tipo di modificazione dei versanti fu fatta principalmente per due motivi: (i) innanzitutto per ricavare maggiore spazio coltivabile, data l’elevata acclività dei versanti, (ii) poi per stabilizzare la grande quantità di materiale detritico presente. In molte località l’abbandono dei terrazzi ha portato ad eventi di instabilità, ancora più accentuati in aree colpite da incendi. Nell’area studiata, c’è stata non solo la perdita delle colture, ma anche l’aumento dei processi erosivi già attivi sui terrazzi. Una volta che vengono a mancare tutte le opere di manutenzione, la struttura dei terrazzamenti comincia a

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30 cedere e si vanno a sviluppare una serie di fenomeni che ne aumentano l’instabilità. Principalmente i fenomeni tipici dati dalla mancanza di manutenzione sono gli spanciamenti o i crolli in serie (Fig. 3.6). Questi eventi che minano la stabilità del terrazzamento, vengono spesso risanati in modo errato con l’utilizzo di cementi o malte che diminuiscono la permeabilità della struttura, peggiorando la situazione.

Figura 3.6– Tipi di dissesti che caratterizzano i terrazzamenti abbandonati (Da Rizzo et al., 2016).

L’area studiata, secondo Rizzo et al. (2006) risulta interessata da copertura del suolo agricolo per una superficie complessiva pari a 1.812 ha, la rimanente parte è occupata da aree boscate o con vegetazione naturale di vario tipo (3.977 ha), da insediamenti (366 ha), da affioramenti rocciosi e corsi d’acqua (61 ha). Nella tabella riportata in Figura 3.7, ripresa da Rizzo et

al.(2006) sono indicati gli ettari relativi alle principali

classi di copertura del suolo, sia rispetto al totale, sia rispetto esclusivamente alle zone terrazzate. La Fig. 3.8 mostra anche l’uso del suolo sui 3 Comuni che ricoprono i Monti Pisani.

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31

Figura 3.7 – Sotto la colonna “[a] totale” troviamo tutti gli ettari, per ogni classe di copertura del suolo, dei 3 comuni di Calci, Buti e Vicopisano. La colonna “[b] di cui terrazzato” indica sempre le varie

coperture con gli ettari, ma questa volta solo delle zone terrazzate (Rizzo et al., 2016).

Figura 3.8 – La tabella mostra le classi principali di uso del suolo, dove [a] è riferito alla copertura totale, mentre [b] solo ai terrazzamenti. La figura invece mostra le varie classi di copertura del

suolo agricolo (Rizzo et al., 2006).

3.2.4 - Idrogeologia

Le successioni litologiche e la rispettiva struttura tettonica delle Unità del Monte Pisano individuano complessi idrogeologici caratterizzati da permeabilità, riconducibili a fratturazione e carsismo. Ulteriori acquiferi, permeabili per porosità intergranulare, si ritrovano nelle coperture detritiche (Grassi e Cortecci, 2005). Il reticolo idrografico è rappresentato da corsi d’acqua che incidono le principali

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32 valli; tali corsi d’acqua presentano portate molto variabili in funzione della stagionalità: alcuni risultano completamente asciutti già nella stagione primaverile, come rilevato dagli autori in uno studio svolto per il Comune di San Giuliano Terme (Pistoia et al., 2010). Mentre nella stagione invernale riscontrano portate maggiori soprattutto dopo precipitazioni intense.

La cosiddetta “Valle delle Fonti” (Fig. 3.9) al limite occidentale dell’area di studio, corrisponde in realtà al bacino idrografico del torrente Zambra di Asciano, bacino esposto a SO, con una superficie di 1.7 kmq. Le rocce costituenti il bacino sono riconducibili alla Formazione delle Quarziti del Monte Serra, in particolare alle Quarziti bianco-rosa (Carnico); nel settore Nord Nord-Est del bacino sono presenti ampi affioramenti della Formazione della Verruca, in particolare Anageniti grossolane (Anisico-Ladinico) sovrapposte alle Filladi e Quarziti listate di Buti (Paleozoico). I litotipi presenti sono quindi pressoché impermeabili e scarsamente erodibili. (Sergiampietri, 2012)

Figura 3.9 – Bacino idrografico del torrente Zambra. (Sergiampietri et al., 2012)

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Capitolo 4

Incendi boschivi in Toscana

4.1 - Introduzione

La Toscana, con una superficie di 22.992 kmq, è la quinta regione italiana per estensione. Il 66,5% della superficie si sviluppa su un territorio prevalentemente collinare, il 25% circa è occupato da massicci montuosi, mentre l’8,5% da pianure estese principalmente lungo la fascia costiera. Nel 2013 il Monitoraggio dell’Uso e Copertura del Suolo Toscano (MUST), realizzato dal Consorzio LAMMA per Regione Toscana, ha evidenziato che circa la metà dell’intero territorio regionale (per l’esattezza il 49,3%) è coperto da 1.115.370 ettari di boschi. Sommando a questo dato i 14.096 ettari di impianti di arboricoltura da legno e i 79.383 ettari di arbusteti si raggiungono 1.208.849 ettari, pari al 53,4% del territorio toscano (Piano AIB 2019-2020).

Nelle zone interne della regione gli incendi più pericolosi sono quelli a fattore predominante vento (ovviamente influenzati anche dalla topografia) proveniente da N/E (grecale), caratterizzati anche da comportamento di tipo convettivo, dovuto a grande disponibilità di combustibile e condizioni meteo predisponenti. Nella tabella successiva (Fig. 4.1) è riportato il numero di incendi boschivi, superfici percorse e medie ad evento nel periodo 2000-2009 e 2010-2017.

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Figura 4.1 – Incendi boschivi dal 2000 al 2017, con le varie superfici percorse e le medie ad evento o totali (da Piano AIB 2019-2020)

Per la classificazione degli incendi boschivi si può prendere a riferimento una soglia critica di superficie, pari a 20 ettari, che separa gli eventi di ridotte dimensioni, nei quali l’intervento di spegnimento risulta tempestivo ed efficace, da quelli nei quali il contenimento delle fiamme richiede un consistente impegno dell’Organizzazione Regionale Antincendi Boschivi (AIB) della Regione Toscana. Un’altra soglia critica è fissata a 100 ettari e comprende una percentuale molto limitata di eventi, stimata in uno 0,23%, che a livello di superficie boscata pesa però per oltre un quarto del totale (26%). Per rendere conto del dato numerico basta considerare che nel decennio 2008-2017 gli incendi di questo tipo sono stati appena 10 in tutto. Alle due soglie critiche di 20 e 100 ettari se ne aggiunge una terza rappresentata dai

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35 grandi incendi forestali (GIF) con superficie maggiore di 500 ettari (Fig. 4.2).

Nel periodo analizzato non ci sono stati eventi di questo tipo in Toscana, mentre nel 2018 si è verificato l’incendio studiato in questo lavoro nei Comuni di Calci e Vicopisano, che ha percorso una superficie al momento stimata in 1000 ettari di bosco e 150 ettari di vegetazione (Piano AIB 2019-2020).

Figura 4.2 – Classificazione degli incendi boschivi 2008-2017. (da Piano AIB 2019-2020)

Un’altra classificazione degli incendi viene fatta riguardo alle cause che li hanno innescati (Fig. 4.3). Per analizzare le cause di incendio boschivo si fa riferimento al complesso dei dati gestiti, a seconda del caso preso in considerazione, dalle Unità Carabinieri Forestali che, a partire dagli eventi relativi al 2011, hanno modificato la tipologia di classificazione come di seguito indicato:

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36

 incendi da cause naturali, legati a diversi fattori naturali;

 incendi da cause involontarie, determinati da azioni e comportamenti dell’uomo per i quali non si ravvisa un’esplicita volontà di provocare un incendio;

 incendi da cause volontarie, riconducibili ad una volontà deliberata di appiccare il fuoco per recare danno ad ambiente, cose e persone;

 incendi da cause dubbie, per i quali gli accertamenti svolti non hanno portato alla raccolta di sufficienti riscontri oggettivi per individuare con certezza la causa di incendio;

 incendi da cause non classificabili, corrispondono agli eventi per i quali l’area di inizio incendio non è stata individuata e pertanto l’incendio non è classificabile, né può essere ipotizzata una motivazione valida e oggettiva.

Figura 4.3 – Questo grafico è stato elaborato dai dati ricavati dal Comando Regione Carabinieri Forestale Toscana nel periodo dal 2011

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37

4.2 - L’incendio del 24 settembre 2018

L'incendio si è sviluppato lunedì 24 settembre, intorno alle ore 22,00 sul Monte Serra. Il fuoco, complice il forte vento che spirava sulla Toscana, si è diffuso molto rapidamente. Se si osservano i dati riportati (Fig. 4.4) relativi alle velocità dei venti si può notare come ci sia stato un picco proprio nei giorni 24 e 25 settembre. Per il 24/09, velocità media: 3 m/s, velocità max: 13,8 m/s e direzione Ovest; mentre per il 25/09, velocità media: 3,6 m/s, velocità max: 14 m/s e direzione Est.

Figura 4.4 – Grafico della velocità massima del vento nel periodo compreso fra il 01 settembre 2018 e il 01 ottobre 2018 per la stazione di misura di Calci. Sull’asse delle ascisse sono riportati i giorni, mentre su quello delle ordinate la velocità del vento in m/s.

(Dati del Centro Funzionale Regionale di Monitoraggio Meteo-Idrologico)

Altri due parametri che hanno influito sullo sviluppo dell’incendio sono state le precipitazioni e le alte temperature.

In figura 4.5 è riportato l’andamento delle precipitazioni giornaliere dal mese di giugno 2018 fino ad ottobre 2018

(38)

38 e si può notare come l’incendio si sia sviluppato alla fine di un periodo con poche precipitazioni e di scarsa intensità, fattore che ha favorito il progredire delle fiamme.

Figura 4.5 – Grafico delle precipitazioni giornaliere nel periodo 01/06/2018-01/10/2018 per la stazione di misura di Calci. Sull’asse

delle ordinate sono riportati i mm di pioggia mentre sulle ascisse i giorni. (Dati del Centro Funzionale Regionale di Monitoraggio

Meteo-Idrologico)

Infine, anche le alte temperature (Fig. 4.6), hanno favorito l’incendio. Si può vedere infatti come nei giorni 24/25 Settembre le temperature sono piuttosto elevate.

Figura 4.6– Grafico delle temperature massime giornaliere nel periodo 01/01/2018-01/01/2019 per la stazione di misura di Calci. Sull’asse delle ordinate sono riportate le temperature mentre sulle ascisse i giorni.

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39 L’incendio ha continuato a bruciare per circa 3 giorni costringendo la Protezione Civile all’ uso di due Canadair, mentre il decollo di alcuni elicotteri è stato sospeso per le forti raffiche di vento.

Già negli anni passati i Monti Pisani sono stati caratterizzati da numerosi incendi, tutti però di estensione minore rispetto a quest’ultimo. Fino al 2004 (Fig. 4.7) la massima estensione raggiunta da un incendio era stata di 669 ha nel 1993; un danno esiguo rispetto a quello apportato dall’incendio del mese di settembre.

Figura 4.7 – Aree bruciate suddivise per comune (grafico in alto) e cronologia degli incendi con le rispettive aree bruciate, dal 1983 fino

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40

4.3 – Interventi post incendio

Nei periodi successivi al completo spegnimento dell’incendio (02/10/2018) e alla estinzione dei focolai sotterranei (26/10/2018), dal 11/10/2018 sono iniziati i primi interventi di messa in sicurezza dei versanti. Successivamente, da febbraio fino a maggio, le autorità si sono mobilitate per attivare un secondo lotto di interventi (febbraio-maggio 2019) per la messa in sicurezza di tutte quelle zone che potevano essere considerate a rischio. Gli interventi sono serviti al taglio del materiale vegetale bruciato ed al suo utilizzo per la realizzazione di opere di messa in sicurezza dei versanti (questo intervento ha interessato circa 200 ettari), di opere di sistemazione idraulica forestale (sono stati realizzati 7 km di fossi di guardia e 177 brigliette) e di interventi di ripristino della viabilità all'interno del bosco (oltre 13 km di viabilità forestale) (www.gonews.it).

La maggior parte degli interventi si sono concentrati a diminuire la pericolosità relativa all’instabilità dei versanti, allo scorrimento delle acque superficiali ed alla gestione della risorsa bosco. Durante l’incendio, la scomparsa di buona parte delle radici ha compromesso la stabilità dei primi decimetri di suolo. In queste condizioni e, soprattutto durante eventi piovosi di grande intensità, come noto, la probabilità dell’innesco di dissesti superficiali aumenta notevolmente. Pertanto, diventa di fondamentale importanza andare a stabilizzare artificialmente il suolo e favorire la ricrescita di nuova vegetazione che, con il passare del tempo, porterà ad

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41 aumentare di nuovo le forze resistenti tramite radici (Melo

et al., 2017).

Peraltro, le grandi quantità di polveri prodotte durante la combustione e le alte temperature provocano una progressiva impermeabilizzazione degli spessori più superficiali del suolo. Questo fenomeno ostacola l’infiltrazione dell’acqua e quindi comporta maggiore scorrimento delle acque superficiali aumentando la possibilità che nei tratti più a valle si sviluppi una maggiore erosione.

La manutenzione dei corsi d’acqua e la regimazione delle acque superficiali contribuiscono ad attenuare la pericolosità dovuta al possibile sviluppo di gullies, debris

flow o frane superficiali (Santi et al., 2010).

Nell’area di studio gli interventi sono stati fondamentalmente tre: innanzitutto taglio degli alberi bruciati durante l’incendio per risolvere il pericolo di caduta, la costruzione di palizzate sui versanti e la manutenzione e messa in sicurezza dei canali con tubazioni, fossi di guardia e opere in muratura.

La tecnica della palizzata in legname è un sistema di strutture fisse in legno per la stabilizzazione di pendii e scarpate, naturali o artificiali, in dissesto.

Con questo sistema si tende a rinverdire le scarpate attraverso la formazione di piccoli gradoni lineari, sostenuti dalle strutture di legno, che corrono lungo le curve di livello del pendio e dove, a monte, si raccoglie del materiale terroso. Quest’ultimo può essere di riporto oppure, in molti casi, si lascia che i fenomeni atmosferici e

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42 la gravità portino all’accumulo di materiale a monte della palizzata (Fig. 4.8).

Figura 4.8 – Accumulo di materiale a monte della palizzata (foto acquisita il 24 settembre 2019).

Le piante, una volta che la vegetazione si sarà sviluppata, garantiranno una miglior tenuta del terreno con l'apparato radicale ed un aumento della resistenza all'erosione superficiale.

La costruzione delle palizzate, in generale, (Fig. 4.9) prevede una serie di modalità di esecuzione, che però variano a seconda del luogo in cui si vanno a costruire. Normalmente le fasi sono le seguenti (Atlante delle opere di sistemazione dei versanti, 2002):

 Preparazione del terreno e modellamento del pendio con formazioni di gradoni, paralleli tra di loro, lungo tutta la superficie del versante interessato.

 Infissione nel terreno di pali di larice o di castagno, lunghi circa 1,30 m e con diametro di 10-15 cm, posti ad una distanza di 1- 2 m.

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43

 Posa in opera di mezzi tronchi di larice o di castagno, con diametro di circa 10 cm e lunghezza superiore ai 2 m, aventi la funzione di trattenere il materiale di risulta dello scavo, posto a monte della struttura e di garantire la sua stabilità.

 Messa a dimora, appoggiate sul fondo dello scavo, di talee e/o di piantine radicate.

Figura 4.9 – Sezione frontale e laterale di una palizzata viva con inserimento di piantine (da Atlante delle opere di sistemazione dei

versanti, 2002).

Nel caso dell’area di studio l’applicazione di questa opera è stata modificata a causa delle particolari condizioni post- incendio. La maggior parte degli alberi che erano stati bruciati, ma che non erano caduti, lungo le strade o vicino ad abitazioni, creavano un pericolo soprattutto durante raffiche di vento. Sono stati così tagliati ad un’altezza di circa 50-100 cm dal suolo, utilizzando le ceppaie rimaste come palizzate verticali, ed i tronchi superiori disposti orizzontalmente (Fig. 4.10). In questo modo sono stati riutilizzati i materiali presenti in loco,

(44)

44 limitando le spese e velocizzando le opere di messa in sicurezza.

Figura 4.10 – Palizzate costruite sfruttando i tronchi degli alberi bruciati dall’incendio. Questa foto acquisita ad un anno di distanza

dall’incendio mostra come l’accumulo di materiale a monte delle palizzate abbia favorito la ricrescita della vegetazione.

Le opere di regimazione (Fig. 4.11), costruzione di fossi di guardia e manutenzione dei corsi d’acqua sono state eseguite soprattutto dove, a causa delle piogge intense, molti torrenti avevano causato accumuli di materiale detritico o parzialmente ostruito gli alvei.

Figura 4.11 – Costruzione di una briglietta per la raccolta delle acque superficiali

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45

Capitolo 5

Materiali e metodi

5.1 – Materiali

In questo lavoro le immagini satellitari sono i dati maggiormente utilizzati. Queste sono state acquisite da diverse piattaforme satellitari, tra cui Sentinel-1 a COSMO-SkyMed (radar), Sentinel-2 ed infine Pléiades (ottiche).

Da Sentinel-1 si sono ricavati i dati relativi ai Permanent Scatterers (PS) per monitorare lo spostamento di possibili corpi franosi. I dati Sentinel 1 sono stati ottenuti tramite tecnica SqueeSAR (Ferretti et al.,2011) e reperiti dal portale WebGIS della Regione Toscana (https://geoportale.lamma.rete.toscana.it/difesa_suolo/# /viewer/openlayers/326). I dati COSMO-SkyMed sono stati reperiti tramite il Geoportale Nazionale, Piano Straordinario di Telerilevamento (PST) del Ministero dell’Ambiente (http://www.pcn.minambiente.it/mattm/). Le immagini ottiche Sentinel-2 e Pléiades sono state utilizzate per delimitare la zona bruciata. In particolare, le immagini Sentinel 2 sono state utilizzate anche per monitorare l’evoluzione della zona durante la fase post- incendio. Sono state utilizzate immagini acquisite con satelliti diversi perché aventi due risoluzioni spaziali differenti: la prima (Sentinel-2) 10 m e la seconda (Pléiades) 2 m.

(46)

46 Nel sito della Regione Toscana sono accessibili due

database utili per questo lavoro: il Database Pedologico e

Uso e Copertura del Suolo.

Grazie a questi dati è stato possibile innanzitutto elaborare delle carte relative alle tipologie di suolo interessate dall’incendio e successivamente sono stati utilizzati per la creazione della carta di suscettibilità da frana. Fondamentale per elaborare questa carta è stato l’inventario delle frane aggiornato e la Carta Geologica Regionale (CARG). L’ inventario, messo a disposizione dal Consorzio Lamma e scaricabile dal sito della Regione Toscana, include i vari corpi franosi ed il loro stato di attività, mentre il CARG, messo a disposizione nel sito della Regione Toscana, dà informazioni sulla geologia dell’area di studio.

Durante la realizzazione della carta di suscettibilità da frana all’interno dell’area di studio, sono stati utilizzati PS (Permanent Scatterer) con allegate le varie serie temporali, per determinare lo stato di attività aggiornato. I modelli digitali del terreno, DSM (Digital Surface Model) e DTM (Digital Terrain Model) utilizzati in questo lavoro, provengono da un volo con LIDAR aereo effettuato sui Monti Pisani. Questi dati sono stati ricavati dall’azienda CGR (Compagnia Generale Riprese Aeree) e poi forniti dal Consorzio Lamma della Regione Toscana.

Infine, a circa un anno dall’incendio sulla piattaforma di

Google Earth Pro, è stata caricata un’acquisizione ad

altissima risoluzione, circa mezzo metro, utilizzata per individuare le opere post incendio.

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47

Sentinel-1

La missione Sentinel-1, è costituita da due satelliti polari che, grazie all’apertura sintetica e all’uso della banda C, possono acquisire il giorno e la notte indipendentemente dalle condizioni atmosferiche. Sentinel-1 è la prima delle cinque missioni sviluppate da ESA per l’iniziativa Copernicus. I due satelliti che compongono la missione Sentinel-1 sono Sentinel-1A e Sentinel-1B. Giacciono sulla stessa orbita distanziati di 180° ed acquisiscono immagini con risoluzioni fino a 5 m, coprendo aree maggiori di 400 km (http://esa.int/).

I prodotti di Sentinel-1 sono usati molto per il monitoraggio delle zone Artiche e degli Oceani, grazie alla possibilità di acquisire in ogni tipo di clima e di momento del giorno. In più i dati prodotti come polarimetro, sono utilizzati per il monitoraggio a terra delle coperture vegetative e per l’elaborazione di modelli relativi alla pericolosità.

Relativamente al monitoraggio degli oceani, con le acquisizioni di Sentinel-1, c’è la possibilità di mappare e seguire tutte le rotte delle navi ed individuare irregolarità, come rilascio di olii ed attività illegali, trovare edifici sospetti in aree remote e tenere sotto controllo il disboscamento e lo sfruttamento delle foreste.

La rapidità di acquisizione, affiancata da tecniche interferometriche, permette l’utilizzo dei dati acquisiti da Sentinel-1 come base per il monitoraggio di frane, eruzioni vulcaniche e terremoti (Berger et al., 2012).

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48 Le immagini sono liberamente scaricabili per tutti i tipi di usi, commerciale, scientifico e pubblico. Vengono rilasciati nel formato Sentinel standard (SAFE), in diversi livelli e a seconda delle varie polarizzazioni (Fig. 5.1)

Figura 5.1 - Tipologia di dati distribuiti (da http://esa.int/).

Sentinel-2

La missione Copernicus Sentinel-2 è composta da 2 satelliti polari, con la stessa orbita eliosincrona. Lanciati simultaneamente, sono distanziati di 180° tra di loro e questo fa sì che ci sia un’alta frequenza di acquisizione, dato che si ha un passaggio sull’Equatore ogni 5 giorni. I 2 satelliti di questa missione forniscono continuamente immagini ad alta risoluzione ed in varie bande, grazie ad uno strumento multispettrale (MSI) che permette l’acquisizione di immagini in 13 bande differenti con varie risoluzioni spaziali (Fig. 5.2): 4 bande a 10 m, 6 bande a 20 m ed infine 3 bande a 60 m, con una larghezza dell’impronta a terra di circa 290 km (http://esa.int/). Alcune di queste bande sono state studiate appositamente

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49 per superare tutti gli errori dovuti all’atmosfera, che interessavano le altre immagini satellitari.

Figura 5.2 - Caratteristiche delle varie bande spettrali dei due satelliti Sentinel (da http://esa.int/).

La missione Sentinel-2 è stata creata con una serie di obiettivi, tra cui il monitoraggio della vegetazione e delle aree verdi, il controllo dello stato e delle caratteristiche chimiche e fisiche degli oceani e delle acque superficiali. Inoltre, grazie all’alto tasso di acquisizione, i satelliti Sentinel diventano di fondamentale importanza per il monitoraggio delle zone colpite da disastri naturali e nelle successive fasi di recupero. Importante ruolo viene anche svolto a riguardo della sicurezza, sulle coste, nei mari e soprattutto, lungo i confini di paesi interessati da guerre. Infine, nelle zone tropicali lo studio del tasso di disboscamento, tramite l’uso delle immagini satellitari, diventa di cruciale importanza per creare modelli per i cambiamenti climatici negli anni futuri (Drusch et al., 2012).

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50 Oltre ad acquisire in 3 risoluzioni spaziali differenti, i satelliti Sentinel hanno una risoluzione radiometrica di 12 bit, che dà un range di 4095 toni di grigio. Come già detto la risoluzione temporale di questi satelliti è di 5 giorni, permettendo quindi un gran numero di acquisizioni in un tempo ristretto (http://esa.int/).

I 2 satelliti, Sentinel 2A e Sentinel 2B hanno le orbite che vengono definite eliosincrone. Ciò significa che l’angolo di incidenza tra la luce del sole e la superficie della terra viene tenuto costante per tutto il tragitto. Questo aiuta a minimizzare l’impatto delle ombre, gli errori dovuti alla geometria di acquisizione ed a rendere più uniforme l’illuminazione al suolo. A terra poi si trovano tutte le basi e le stazioni Copernicus che hanno il compito di monitorare lo stato ed il funzionamento dei satelliti, le loro orbite e la qualità dei dati che poi vengono distribuiti agli utenti. I dati posso essere utilizzati direttamente e sono rilasciati sotto forma di due tipologie (Fig. 5.3).

Figura 5.3 - Le due tipologie di immagini rilasciate agli utenti (da http://esa.int/).

Grazie alla rapidità di acquisizione delle missioni Sentinel 2, è stato possibile scaricare un’immagine acquisita circa ogni mese dal giorno dell’incendio:

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51 21 Settembre 2018 26 Settembre 2018 21 Ottobre 2018 15 Novembre 2018 15 Dicembre 2018 14 Gennaio 2018 15 febbraio 2018

Queste immagini sono servite successivamente per quantificare i cambiamenti avvenuti mensilmente nella zona bruciata.

Pléiades

La seconda immagine utilizzata è un’immagine pancromatica, acquisita tramite i satelliti della missione Pléiades appartenenti alla CNES (Agenzia Spaziale di Francia). La collaborazione tra Italia e Francia con il programma ORFEO ha dato il via all’acquisizione di immagini ottiche e radar sempre a più alta risoluzione e all’uso di strumenti satellitari all’avanguardia.

I due Satelliti Pléiades 1 e 2 hanno la capacità di regolare l’angolo di vista in tutte le direzioni e questo comporta la possibilità di attuare varie modalità di acquisizioni.

Inoltre, possono acquisire anche 30 immagini in un solo passaggio e questo permette di ricavare delle vere e proprie animazioni delle zone prese in considerazione. La maggior parte delle immagini che vengono acquisite da Pléiades, sono utilizzate soprattutto nella cartografia, nel monitoraggio delle foreste, delle acque superficiali ed anche per il monitoraggio di zone a rischio.

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52 Pléiades nelle fasi iniziali forniva dati solo sotto forma di immagini ottiche ad alte risoluzioni. Con il progredire della tecnologia sono aumentati di conseguenza i vari tipi di sensori per fornire agli utenti diverse tipologie di dati (Fig. 5.4).

Figura 5.4 - I vari sensori montati sui satelliti Pléiades e le loro caratteristiche (da

https://earth.esa.int/web/eoportal/satellite-missions/p/pleiades)

COSMO- SkyMed

COSMO-SkyMed è una costellazione che consiste in quattro satelliti equipaggiati con Radar ad Apertura Sintetica che opera in banda X. COSMO-SkyMed è un sistema di osservazione della terra per scopi sia militari che civili (Dual Use), volto a fornire prodotti e servizi necessari a:

Monitoraggio ambientale ed applicazioni di sorveglianza per la gestione di rischi esogeni, endogeni ed antropogenici.

Fornitura di prodotti e servizi commerciali.

Sviluppato dall'Agenzia Spaziale Italiana (ASI) in cooperazione con il Ministero della Difesa,

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COSMO-53 SkyMed si basa su una costellazione di quattro satelliti identici, dotati di radar ad apertura sintetica (SAR) che lavorano in banda X (in grado, quindi, di vedere attraverso le nuvole e in assenza di luce solare). Il sistema è in grado di effettuare fino a 450 riprese al giorno della superficie terrestre, pari a 1.800 immagini radar, ogni 24 ore. (http://www.cosmo-skymed.it).

Vari sono i punti di forza di questi satelliti: innanzitutto la capacità di operare in diverse modalità di acquisizione,

spotlight (concentrandosi su un'area di pochi km quadrati

ed osservandola con risoluzione fino al singolo metro), stripmap (osservando una striscia continua di superficie terrestre) o scanSAR (coprendo una regione di 200 km di lato). (Fig. 5.5).

Figura 5.5- Le varie modalità di acquisizione con le loro caratteristiche (da http://www.cosmo-skymed.it).

I tempi di risposta sono estremamente brevi, da 72 ore fino a 18 ore nei momenti di emergenza, per configurare la costellazione ed acquisire immagini. Il tempo di rivisitazione è minore di 12 ore, ciò permette di monitorare la superficie terrestre in maniera estremamente efficiente.

Ogni satellite è equipaggiato con sensori SAR che, lavorando in banda X, permettono di acquisire immagini

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54 ad altissima risoluzione non essendo influenzati dalla tipologia di clima o ora della giornata.

Le applicazioni sono molteplici. La prima, di maggior importanza, è di fornire studi sulle cause o sulla pericolosità dei grandi disastri ambientali, come frane, alluvioni, eruzioni vulcaniche ecc. Dato il brevissimo tempo di rivisitazione (variabile fra 4 e 16 giorni), COSMO-SkyMed ha la capacità di monitorare nel tempo qualsiasi spostamento o deformazione superficiale e quindi diventa di fondamentale importanza per lo studio dei fenomeni precursori.

Un più ampio utilizzo viene fatto per il monitoraggio dell’erosione costiera, dei fenomeni di subsidenza, soprattutto nelle aree abitate ed infine per la produzione di cartografia di alto livello partendo dalle immagini ad alta risoluzione fornite da COSMO-SkyMed (Gianinetto et

al., 2011).

Database

Per avere ulteriori informazioni sulla zona bruciata e soprattutto sul tipo e l’uso dei terreni interessati dall’incendio, si sono utilizzati due database differenti. Nel primo caso si è utilizzato il Database Pedologico, liberamente accessibile nel sito della Regione Toscana, di fondamentale importanza per conoscere il tipo di terreno e le sue caratteristiche pre-incendio (Fig. 5.6)

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Figura 5.6 - Stralcio dal Database Pedologico della Regione Toscana (da http://www.regione.toscana.it/).

Come secondo database è stato utilizzato Uso e Copertura del Suolo, anche questo liberamente accessibile dal sito della Regione Toscana. Questo ci ha dato informazioni sull’uso del suolo andato perso con l’incendio, così da quantificarne anche le aree (Fig. 5.7).

Figura 5.7 - Struttura generale di Uso e Copertura del Suolo (da http://www.regione.toscana.it/).

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56 L’inventario delle frane, scaricato dal sito della Regione Toscana, contiene lo shapefile (Fig. 5.8) dei corpi franosi e tutte le caratteristiche tra cui lo stato di attività, fondamentale per realizzare la carta di suscettibilità.

Figura 5.8 – Shapefile delle frane ritagliato sulla zona incendiata di interesse.

Permanent Scatterers

La tecnica dei diffusori permanenti (Permanent

Scatterers,PS) è uno strumento operativo estremamente

efficace per il monitoraggio di fenomeni di deformazione della superficie terrestre con precisione millimetrica, basato sull'impiego di serie temporali d'immagini radar satellitari di tipo SAR (Synthetic Aperture Radar) (Ferretti

et al., 2000; Ferretti et al., 2001).

In generale le informazioni che si possono ricavare da ogni PS sono le seguenti:

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 Velocità media registrata.

 Posizione del bersaglio (coordinate geografiche e la quota).

 La serie temporale di deformazione con frequenza di misura pari a quella del tempo di rivisitazione del satellite.

 Parametri di qualità, deviazione standard e coerenza. La coerenza mostra l’accordo che c’è tra i dati ed il modello di spostamento. Varia tra 0 e 1 e valori di 1 indicano un elevato accordo con il modello. La deviazione standard esprime di quanto varia la stima della differenza di velocità tra un punto in analisi e uno preso come riferimento.

Tutte le deformazioni che si misurano tramite PS sono misure relative, sia nello spazio che nel tempo. Viene tutto calcolato rispetto alla posizione di un punto di riferimento a terra, di coordinate note, supposto fermo o espressamente indicato tramite apposite misurazioni. La caratterizzazione temporale dei dissesti avviene attraverso la consultazione delle serie storiche o temporali dei PS. I valori di spostamento sono in funzione del tempo trascorso tra la prima acquisizione e le successive immagini (Fig. 5.9). In questo caso le informazioni sugli spostamenti provengono dalle acquisizioni in orbita discendente ed ascendente. Lo studio delle serie temporali permette di valutare le variazioni delle deformazioni, ottenendo dati non direttamente osservabili dalle velocità medie.

Riferimenti

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