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Terapie intravitreali con farmaci anti-VEGF: appropriatezza e sostenibilita economica per il SSN

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Academic year: 2021

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Sommario

1. INTRODUZIONE 2

1.1 Patologie principali 2

1.1.1 Degenerazione maculare correlata all’età 2

1.1.2 Edema maculare diabetico 10

1.1.3 Occlusione venosa retinica 16

1.2 Patologie secondarie 19

1.2.1 Glaucoma neovascolare 19

1.2.2 Edema maculare cistoide 19

1.2.3 Neovascolarizzazione coroideale miopica 20

1.3 Diagnosi 20

1.3.1 Esame del visus 21

1.3.2 Fluoroangiografia 21

1.3.3 Angiografia con verde indocianina 22

1.3.4 Tomografia a coerenza ottica 22

1.4 Farmaci anti-VEGF 23

1.4.1 Razionale dell’uso di farmaci anti-VEGF 23

1.4.2 VEGF e recettori del VEGF (VEGFR) 24

1.4.3 Ranibizumab 27

1.4.4 Bevacizumab 36

1.4.5 Pegaptanib 44

1.4.6 Aflibercept 47

1.5 Quadro normativo e attualità 51

1.5.1 Prescrizioni on e off-label: quadro normativo 51

1.5.2 Il caso Avastin-Lucentis 54

1.5.3 L'esperienza dell'Emilia Romagna 57

1.5.4 La posizione della Società Oftalmologica Italiana (SOI) 59

1.6 Registri di Monitoraggio AIFA 61

2. MATERIALI E METODI 66

3. RISULTATI 67

4. CONCLUSIONI 73

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1 Introduzione

1.1 Patologie principali

1.1.1 Degenerazione maculare correlata all’età

La degenerazione maculare correlata all’età (AMD: Age-related Macular Degeneration) è la prima causa di cecità legale nei soggetti di età superiore ai 50 anni nei paesi industrializzati. Si tratta di una malattia degenerativa multifattoriale che colpisce la macula, che è la porzione della retina più importante in quanto sede della visione distinta1. La prevalenza della malattia varia dall’1.6% nei soggetti con un’età compresa tra i 52 e 64 anni al 29,9% nelle persone con più di 75 anni2.

L’AMD si verifica quando lo strato della retina responsabile della nutrizione dei coni e dei bastoncelli e dell’eliminazione dei prodotti di rifiuto derivanti dal metabolismo inizia a svolgere queste funzioni con minore efficacia, a causa del suo invecchiamento. Di conseguenza, le cellule della macula si deteriorano e causano la perdita della visione nella parte centrale del campo visivo, lasciando però intatta la visione periferica. Nella maggior parte dei casi si tratta di una malattia progressiva e indolore che spesso colpisce entrambi gli occhi, generalmente uno dopo l’altro. In seguito alla diagnosi di AMD, possono essere necessari anche molti anni prima che si manifesti una considerevole perdita della visione.

La sede anatomica in cui si sviluppano gli eventi patologici che caratterizzano l’AMD è rappresentata dal complesso retina esterna – coriocapillare, in cui si verificano gli eventi più importanti per il ciclo della visione, che vede coinvolte le cellule fotorecettrici e l’epitelio pigmentato retinico (EPR).

L’alterazione dell'EPR e degli strati sottostanti della coriocapillare può condurre ad un processo di atrofia (AMD di tipo secco) oppure promuovere uno stimolo vasoproliferativo con formazione di neovasi sottoretinici (AMD di tipo umido). In ogni caso l’alterazione iniziale del fondo oculare è spesso rappresentata dalle cosiddette drusen1. Le drusen sono depositi di materiale extracellulare, visibili come macchie bianco-giallastre, situati tra la lamina basale dell’EPR e lo strato interno di collagene della membrana di Bruch. Sono importanti nella classificazione dell’AMD e alcune drusen sono associate alla progressione verso forme avanzate di AMD3.

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3 La AMD è classicamente suddivisa in due tipi:

AMD secca (detta anche non neovascolare, non essudativa, a carta geografica o atrofica, di Haab-Dimmer);

AMD umida (detta anche neovascolare, essudativa, disciforme o sierosa, di Junius-Kuhnt).

Queste due forme andrebbero considerate come due patologie distinte, poiché la loro prognosi e terapia sono attualmente diverse.

La AMD secca o atrofica è caratterizzata da un assottigliamento progressivo della retina centrale, che, scarsamente nutrita dai capillari, si atrofizza. I quadri clinici possono presentarsi sotto varie forme: drusen, atrofia a carta geografica o areolare. Le drusen si distinguono dal punto di vista istologico in drusen dure (caratteristicamente piccole e a margini netti) e drusen soffici (margini non ben definiti, che tendono a confluire e a diventare più grandi). Le drusen possono rimanere invariate per anni, non dando alcun segno clinico, oppure evolvere nella forma atrofica o in quella essudativa. L'atrofia a carta geografica o areolare si presenta invece come una o più chiazze di colorito chiaro che lasciano intravedere i grossi vasi coroidali. Le lesioni tendono a ingrandirsi col tempo e a confluire fino ad assumere una forma circolare, ovale o policiclica con margini regolari.

La forma secca è molto più comune della forma umida e costituisce approssimativamente l’80% dei casi di AMD.

La AMD umida è caratterizzata da neovascolarizzazione coroidale (CNV), cioè dalla formazione di nuovi vasi sanguigni anomali che crescono dalla sottostante coriocapillare e proliferano attraverso rotture della membrana di Bruch e nello spazio intraretinico (rispettivamente neovascolarizzazione sottoretinica “occulta” o intraretinica “manifesta”)1.

Questi neovasi patologici hanno un’aumentata permeabilità e portano all’accumulo di sangue e siero sotto l’EPR e/o a livello della retina neurosensoriale, che può portare al distacco dell’epitelio della retina. L’organizzazione e la formazione di metaplasie fibrotiche e cicatrici disciformi costituiscono la fase finale della AMD associata ad una perdita della vista. Il complesso formato dai neovasi coroidali e dal tessuto fibroso può distruggere i fotorecettori entro un periodo di 3-24 mesi; quindi, se non trattata, la patologia conduce ad una ridotta visione centrale entro 2 anni (nelle forme più aggressive si arriva a valori sotto la cecità legale nel giro di pochi

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mesi), oltre ad avere il 50% delle probabilità che la AMD diventi bilaterale entro 5 anni2.

Anche se la forma umida è la meno frequente, l’evoluzione è generalmente più rapida e grave ed è responsabile di circa l’80-90% dei casi di grave perdita della vista2.

Un’ulteriore classificazione è quella A.R.E.D.S. (Age-Related Eye Disease Study), che prende in considerazione il numero e la dimensione delle drusen e/o la presenza di alterazioni dell’epitelio pigmentato retinico (ipo/iperpigmentazione). Sulla

scorta di questa classificazione l’AMD viene distinta in:

• Early AMD (poche drusen di diametro intermedio; anormalità pigmentarie quali ipo/iperpigmentazione).

• Intermediate AMD (almeno una drusen di diametro largo; numerose drusen di diametro intermedio; atrofia a carta geografica che non si estende al centro della macula).

• Advanced Non-neovascular AMD (drusen e atrofia a carta geografica estendentesi al centro della macula).

• Advanced Neovascular AMD (neovascolarizzazione coroidale con una qualsiasi delle possibili sequele quali edema, emorragia, distacco epitelio pigmentato retinico, cicatrice fibrosa)1.

La fase delle drusen è generalmente asintomatica e senza riduzione del visus. A volte si può presentare con una modica distorsione delle immagini, soprattutto delle linee rette (metamorfopsie). La forma umida è invece caratterizzata da una diminuzione dell’acutezza visiva, metamorfopsie e scotoma centrale (cioè zona cieca centrale nel campo visivo con difficoltà di lettura e del riconoscimento delle fisionomie). Per la forma secca si riscontrano gli stessi sintomi della forma umida, ma meno accentuati, con evoluzione più lenta ed esito funzionale meno grave.

Tra i sintomi accessori vanno invece menzionati una aumentata sensibilità alla luce forte, diminuita sensibilità al contrasto, diminuita visione dei colori e fotopsie (sfarfallii o lampi luminosi). I sintomi, se presenti in un solo occhio, possono passare inosservati, mentre sono prontamente recepiti quando l’affezione colpisce di seguito il secondo occhio.

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La AMD è quindi una condizione estremamente frustrante in quanto crea notevoli difficoltà nello svolgimento delle attività quotidiane. Rende difficile scrivere, leggere, guidare e riconoscere i volti. Può risultare difficoltoso vedere gli oggetti sotto una forte luce solare e l'adattamento dalla condizione di buio a quella di luce1.

Questa patologia ha una eziologia multifattoriale, che comprende fattori di rischio ambientali, demografici e genetici. Sebbene l'età sia il maggior fattore di rischio dell'AMD, la patologia è anche associata ad ipertensione, aterosclerosi, fumo, diete ricche di grassi, obesità, genetica ed epigenetica. Le abbondanti e complesse interazioni tra tutti questi fattori di rischio limitano l'efficacia delle opzioni terapeutiche.

Le strutture maculari in corso di cambiamenti patologici sono funzionalmente e anatomicamente distinte, ma collegate, e sono i fotorecettori, l'epitelio retinico pigmentato, la membrana di Bruch e i coriocapillari. I processi centrali coinvolti nella patologia AMD sono, nel tipo precoce o secco della malattia, la lipofuscinogenesi, l'autofagocitosi e la drusenogenesi, accompagnata o seguita da infiammazione e neovascolarizzazione nell'AMD umida.

Poichè la retina è uno dei tessuti con il più intenso flusso sanguigno, i cambiamenti della struttura retinica associati ad AMD possono provocare disturbi del flusso sanguigno nella retina. Infatti, è stato riportato che fattori vascolari svolgono un ruolo importante nella patogenesi di AMD e vi è un crescente corpo di evidenze che il flusso ematico coroidale e retinico siano diminuiti in questa patologia. Pertanto, si è pensato che l'ipossia possa essere associata alla progressione di AMD.

Disfunzioni vascolari possono provocare stress ossidativo, che induce ulteriori cambiamenti nei vasi retinici. Tali cambiamenti possono anche essere evocati dall'ipossia, in quanto stimola la sintesi e il rilascio del fattore 1 ipossia-inducibile (HIF-1) e del fattore di crescita dell'endotelio vascolare (VEGF), che contribuiscono alla neovascolarizzazione (NV). Degno di nota è che l'ipossia è un induttore classico dell'autofagia (processo di degradazione ed eliminazione di componenti intracellulari non più necessari), che a sua volta può essere stimolata dallo stress ossidativo nel tentativo di eliminare le macromolecole danneggiate dalle specie reattive dell'ossigeno (ROS). Pertanto, l'interazione tra ipossia, stress ossidativo e autofagia si può ipotizzare che svolga un ruolo importante nella patogenesi dell'AMD4.

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Figura 1. Sequenza temporale dello sviluppo ipotizzato della degenerazione maculare correlata all’età in prospettiva di una riparazione tissutale CNV= neovascolarizzazione coroidale.

Il danno ossidativo dei componenti cellulari svolge un ruolo importante nel processo di senescenza. La quantità di danni accumulati aumenta con l'età a causa di ostacoli nel sistema di riparazione del DNA, dell'intensificato stress ossidativo e della riduzione delle difese antiossidanti.

Le cellule più sensibili al danno ossidativo sono le cellule post-mitotiche non proliferative, tra cui fotorecettori e cellule dell’EPR, dal momento che non possiedono nessun sistema di rilevamento del danno al DNA nei punti di controllo del ciclo cellulare. Inoltre, l'ambiente maculare favorisce la produzione di ROS, perché i fotorecettori (qui dominanti rispetto ai bastoncelli) hanno maggiore domanda e produzione di energia, quindi di ossigeno. La macula è sempre esposta ad un elevato tasso metabolico e stress ossidativo a causa dell'elevata pressione parziale coriocapillare e della quantità di acidi grassi poliinsaturi (PUFA) dei segmenti esterni della retina. Le PUFA ossidate non sono efficientemente digerite nei lisosomi delle

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cellule invecchiate del EPR e si depositano in forma di lipofuscina. Questo, si è pensato essere importante nell'indurre la formazione di drusen tra le cellule dell’EPR e la membrana di Bruch. La lipofuscina è un cromoforo ed è il principale pigmento fotosensibile dell’EPR, che, dopo aver assorbito un fotone ad alta energia, subisce una serie di reazioni fotochimiche che coinvolgono la formazione dei ROS che, a loro volta, provocano un danno fotochimico nelle cellule della retina e dell’EPR.

L'ipossia può causare gravi conseguenze, tra cui un insufficiente bilancio energetico che causa deplezione di ATP, danni ai componenti cellulari indotti dai ROS, rilascio incontrollato di neurotrasmettitori eccitatori, infiammazione e stimolazione del sistema immunitario e morte cellulare ritardata. Le reazioni all'ipossia, inoltre, evocano un cambiamento nell'espressione di molti geni. HIF-1 è il principale regolatore dell'omeostasi dell'ossigeno e regola l'espressione di centinaia di geni per garantire la sopravvivenza delle cellule in condizioni di stress ipossico e ripristinare l'omeostasi di O2. Inoltre, interagisce con la piruvato deidrogenasi chinasi di tipo 1 (PDK1), la lattato deidrogenasi A (LDH A) e alcune proteine coinvolte nel processo di autofagia mitocondriale.

In generale, gli strati retinici interni sono in grado di recuperare dopo un insulto ipossico acuto ma non dopo ischemia retinica cronica e ipossia, che può portare alla morte cellulare e danno visivo irreversibile. In un report è stato evidenziato che il flusso retinico di sangue viene disturbato sia nel tipo secco che nell'umido e nella forma neovascolare di AMD. Inoltre, la riduzione del flusso coroideale viene positivamente correlata con la progressione dell'AMD. Tuttavia, resta la domanda se l'ipossia è una conseguenza o una causa della malattia. Misurazioni della tensione di ossigeno, pressione di perfusione e flusso sanguigno indicano che l'ipossia è il risultato della diminuita circolazione sanguigna coroideale.

Infiammazione e ipossia locale sono presenti nell'invecchiamento dei coriocapillari, delle cellule del RPE e della retina neurale. Durante l'infiammazione, l'ipossia nelle cellule retiniche può risultare da un aumentato consumo di ossigeno a causa della maggiore attività metabolica della retina infiammata. In generale, l’AMD può essere caratterizzata come presenza di uno stato infiammatorio cronico, infiltrazione locale di cellule infiammatorie, elevati livelli circolatori di citochine proinfiammatorie e componenti del complemento. Anche se il preciso meccanismo di tale infiammazione cronica non è ancora noto, si può ipotizzare che i danni alle macromolecole della retina causati dallo stress ossidativo possano attivare fattori di trascrizione

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regolati, come il fattore nucleare kappa B (NF-kB) e aumentare l'espressione di molecole pro-infiammatorie. NF-kB può anche essere attivato da prodotti finali della glicazione avanzata (AGE) e dal loro recettore (RAGE), che sono tutti iperespressi nell'AMD. Inoltre, lo stress ossidativo cronico e la presenza di infiammazione cronica diminuiscono la capacità delle cellule del EPR di rimuovere le proteine danneggiate o non funzionali tramite il sistema di compensazione liposomiale, che comprende l'autofagia.

L'autofagia è un processo di degradazione ed eliminazione di componenti intracellulari non più necessari e può fornire energia in condizioni di digiuno nutrizionale. L'autofagia può essere classificata in almeno tre classi: macroautofagia, autofagia chaperone-mediata (CMA) e microautofagia. Una marcata riduzione dell'attività macroautofagica con l'invecchiamento è stata associata ad un aumento della CMA, mentre la microautofagica è stata meno descritta nella patogenesi della AMD. La macroautofagia comporta la formazione di autofagosomi, vescicole a doppia membrana, mediata da più di 30 proteine. I ROS inibiscono l'attività della proteina di segnalazione bersaglio della rapamicina nei mammiferi (mTOR), che induce la formazione di un complesso che svolge un ruolo cruciale nella formazione della doppia membrana degli autofagosomi. Le proteine Atg, essenziali nella creazione della forma finale dell'autofagosoma, sono sensibili ai segnali redox, il che supporta l'associazione tra autofagia e stress ossidativo. Recentemente è stato descritto che la proteina SQSTM1/p62 è un anello di congiunzione tra autofagia e proteolisi proteasoma-mediata e viene iperespresso in condizioni di esposizione a vari stimoli ossidativi in campioni di donatori con AMD. Dopo la fusione degli autofagosomi e dei lisosomi, le proteasi lisosomiali, che includono le catepsine D, B ed L, degradano le proteine. L'attività enzimatica delle catepsine è soppressa dalle lipoproteine ossidate, sottolineando il reciproco rapporto tra stress ossidativo e autofagia. Funzioni lisosomiali deteriorate causano un ridotto flusso autofagico, che può essere un aspetto critico della degenerazione delle cellule dell’EPR e dello sviluppo dell'AMD.

A differenza del tipo secco di AMD, l'AMD umida o essudativa si caratterizza per difetti della membrana di Bruch o della barriera esterna emato-retinica, così come per la formazione di neovascolarizzazioni neocoroideali (CNV) e/o membrane neovascolari sottoretiniche. La CNV provoca edema retinico, che è un criterio diagnostico della AMD umida. Oltre a questo, un contatto patologico diretto tra EPR

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e cellule endoteliali (ECs) può aumentare il potenziale proangiogenico di proliferazione e migrazione delle ECs, simile al processo indotto dall'ipossia. Il collegamento tra l’alterazione patologica dell’EPR e lo sviluppo di CNV è il risultato di una interazione multifattoriale di stress ossidativo, ipossia e autofagia nella patogenesi del tipo umido di AMD.

L'analisi dell'interazione tra “autofagia” e “angiogenesi” ha trovato la Trombospondina 1 (TSP-1) come denominatore comune tra l'angiogenesi, l'autofagia e l'AMD, essendo stato individuato come molecola antiangiogenica e quindi come bersaglio per la terapia antineovascolare.

Pertanto, il trio autofagia-stress ossidativo-ipossia può rappresentare una reazione a catena auto-alimentante che accelera la progressione dell'AMD. Tuttavia, resta ancora aperta la questione su quale sia la fonte primaria. Il rapporto tra ipossia e ROS non è ancora stato chiarito, ma molti dei risultati ambigui possono essere attribuiti alla mancanza di tecniche adeguate. Per cui, sono necessari altri studi per chiarire le associazioni reciproche tra gli eventi descritti4.

AMD, con la sua ormai riconosciuta associazione con l'infiammazione cronica, soddisfa la definizione di ferita cronica innescata dalla combinazione di fattori ambientali ancora poco conosciuti in soggetti geneticamente sensibili e da luogo al fenotipo riconosciuto come AMD. Indipendentemente dalla precisa sequenza degli eventi, sembra che il risultato netto di questi processi sia il dropout vascolare nella lamina coriocapillare, che causa ipossia. Questo, a sua volta, conduce ad AMD neovascolare. Inoltre, l'ipossia non può spiegare adeguatamente i fenotipi clinici caratterizzati da atrofia geografica (GA) o CNV che si verificano all'interno di un'area di GA. Se AMD viene considerata come una cicatrice in via di guarigione potrebbe essere valida l'ipotesi che l'ipossia legata all'età e l'ischemia della macula esterna, compreso l'epitelio pigmentato retinico, scatenano lo stress ossidativo e la risposta infiammatoria secondaria, che è parte stessa del processo di guarigione. Tuttavia, poiché l'insulto persiste, l'infiammazione diventa cronica e sempre più amplificata nel corso degli anni o decenni, via via che la macula diventa più ipossica. Questo è riconoscibile clinicamente dalla comparsa di drusen e delle variazioni di pigmento nella macula. L'ipossia diventa così profonda da attivare la risposta neovascolare dei coriocapillari, riconosciuta clinicamente come CNV. Tuttavia, poiché il processo di riparazione è aberrante, si ha una eccessiva formazione di tessuto cicatriziale che

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porta alla perdita permanente della vista per distruzione irreversibile dei fotorecettori, con la cosiddetta formazione di una cicatrice disciforme5.

Terapia dell’AMD

La fotocoagulazione laser della neovascolarizzazione coroideale è stata inizialmente usata per prevenire la perdita della vista. Il trattamento laser ha ridotto il tasso di grave perdita visiva, conservato la velocità di lettura e mantenuto stabile la sensibilità al contrasto. Tuttavia, questa modalità di trattamento non è appropriata per pazienti con lesioni subfoveali ed è associata ad un alto tasso di recidiva, fino al 51%.

La terapia fotodinamica (PDT), che utilizza la combinazione di agenti fotosensibilizzanti e laser a bassa energia per ottenere la distruzione selettiva dei neovasi, è un'altra opzione di trattamento, efficace nelle lesioni subfoveali. Tuttavia, i pazienti con lesioni subfoveali più grandi, hanno avuto un esito meno favorevole. Nonostante il successo nella prevenzione della cecità immediata, il tasso di miglioramento della visione è rimasto basso, con solo il 13-16% dei pazienti che ha guadagnato una riga visiva o più.

L’avvento degli inibitori intravitreali di VEGF ha rivoluzionato il trattamento dell'AMD. Diversi studi randomizzati ne hanno stabilito l'efficacia per ridurre l'incidenza della perdita visiva, ma anche per migliorare la visione in più del 30% dei pazienti6.

1.1.2 Edema maculare diabetico

La retinopatia diabetica (DR) è una delle principali cause di disabilità visiva in tutto il mondo e l'edema maculare diabetico (DME) è la causa più comune di perdita della vista in questi pazienti. La DME è una conseguenza della rottura della barriera vascolare emato-retinica interna (BRB) e può verificarsi per perdita focale derivante da microaneurismi e per perdita diffusa derivante dalle pareti dei capillari7. Lo studio epidemiologico Wisconsin ha riferito che la prevalenza di DME nei soggetti con diabete da 15 anni è circa del 20% nel diabete mellito (DM) di tipo 1 e del 25% nel DM di tipo 2 trattati. I pazienti senza edema maculare, anche in stadio avanzato della malattia, possono ancora mantenere una buona visione. Pertanto, la gestione del

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DME è diventata fondamentale per gli oftalmologi per prevenire la perdita della vista nei loro pazienti8.

La malattia sistemica svolge un ruolo nello sviluppo e nella progressione della retinopatia diabetica7. In pazienti con diabete mellito, la prevalenza di qualsiasi forma di DR è circa il 24%6.

La retinopatia diabetica si manifesta più frequentemente nelle persone con scarso controllo glicemico con più lunga durata del diabete. Altri importanti fattori di rischio sono l'ipertensione, la malattia renale e la dislipoproteinemia. Il Diabete Control and Complications Trial (DCCT) e lo Studio prospettico sul Diabete in Regno Unito (UK-PDS) hanno dimostrato l'importanza di mantenere uno stretto controllo glicemico per ritardare l'insorgenza e rallentare la progressione della retinopatia diabetica nelle persone con DM di tipo 1 e DM di tipo 2, rispettivamente. La UK-PDS ha dimostrato che il mantenimento di adeguati livelli di pressione arteriosa (circa 140/80 mmHg) ha ridotto il rischio di DR nelle persone con DM di tipo 2. Anche se HbA1c (emoglobina glicata), un indice di iperglicemia prolungata, rimane il fattore di rischio più forte per predire la progressione di DR, questo parametro rappresenta solo l'11% del rischio di retinopatia nel DCCT. Inoltre, HbA1c, pressione arteriosa e colesterolo sierico totale, insieme, rappresentavano solo il 9-10% del rischio di DR nello studio epidemiologico del Wisconsin sulla DR (WESDR). Recenti evidenze suggeriscono anche che l'apnea del sonno e variazioni di prolattina sierica, adiponectina e omocisteina possono influenzare la progressione della DR9.

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Figura 2. Patofisiologia dello sviluppo di edema maculare diabetico

Le prime anomalie retiniche identificate nelle persone con DM sembrano essere funzionali, in quanto si verificano in presenza di un fundus che appare normale. Cambiamenti funzionali nella retina diabetica comprendono risposte anormali elettroretinografiche, cambiamenti nel flusso sanguigno e perdita dei meccanismi di autoregolazione che regolano la perfusione capillare della retina. Nel corso della progressione della DR, si possono sviluppare microaneurismi, emorragie retiniche, essudati duri (dispersione dei lipidi) e macule (interruzione localizzata del flusso assoplasmatico), che sono rapidamente osservati dopo l'esame del fundus. Nelle

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ultime fasi della DR si osservano perlature venose (irregolarità nel calibro delle vene retiniche con dilatazioni a sacca e assottigliamento della parete venosa), anomalie microvascolari intra-retiniche (IRMA) e neovascolarizzazione intraretinica e/o pre-retinica.

Sulla base dell'assenza o presenza di neovascolarizzazione, la DR è classificata come retinopatia diabetica non proliferativa (NPDR) o retinopatia diabetica proliferativa (PDR), rispettivamente. Il fundus di pazienti con NPDR è tipicamente caratterizzato dalla presenza di emorragie e/o micoaneurismi retinici in quattro quadranti retinici, perline venose in due quadranti o IRMA in un quadrante della retina (regola 4-2-1). Questi pazienti sono a più alto rischio di progressione verso PDR. Agli stadi NPDR o PDR, ci può essere la rottura palese della barriera emato-retinica interna e/o esterna, con il caratteristico edema maculare diabetico (DME). L'accumulo di liquido al centro della retina che si verifica nella DME costituisce la principale causa della perdita della vista nelle persone che ne sono affette.

La sequenza patologica delle anomalie dei vasi retinici nella DR include un precoce e progressivo ispessimento della membrana basale e una disfunzione e perdita di cellule endoteliali, periciti e muscolatura liscia vascolare. La progressiva mancanza di perfusione capillare e la conseguente ischemia della retina diabetica possono indurre up-regulation di citochine e fattori di crescita ipossia-correlati, come il VEGF, e questo provoca aumento della vasopermeabilità (DME) e/o neovascolarizzazione anormale.

L'ambiente diabetico è altamente dannoso per l'endotelio capillare retinico e risulta in un significativo maggior turnover di queste cellule rispetto agli equivalenti non diabetici. L'esaurimento della capacità di replicazione delle cellule endoteliali e delle cellule che raggiungono il cosiddetto limite di Hayflick significa che è stata compromessa la capacità rigenerativa della vascolatura retinica. Ciò sottolinea la natura degenerativa progressiva della DR nella maggior parte dei pazienti diabetici.

L'ischemia retinica è coinvolta nella comparsa delle due principali complicazioni della DR, cioè DME e PDR. Tuttavia, si sa poco sull'ischemia retinica nella DR e come viene modificata dalle terapie. L'ischemia può colpire diverse aree della retina, ma le sue implicazioni nello sviluppo di complicazioni nella DR possono dipendere dalla sua distribuzione topografica e anche dalla sua estensione. Non è chiaro il motivo per cui in alcuni pazienti le aree di ischemia retiniche sono per lo più ristrette

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alla macula, mentre in altri la vascolarizzazione retinica è relativamente intatta nella macula, ma sviluppano una marcata ischemia retinica medioperiferica.

Clinicamente, l'ischemia retinica può essere adeguatamente identificata e la sua estensione misurata mediante angiografia del fundus a floresceina (FFA), ma sono state sviluppate tecniche di tomografia a coerenza ottica (OCT) che permettono la visualizzazione dei vasi retinici senza la necessità di iniezioni di coloranti.

Utilizzando FFA è stata osservata una risoluzione spontanea delle aree di ischemia retinica nella DR, sebbene i meccanismi alla base della riperfusione non siano stati chiariti. Attualmente, non è stato identificato nessun trattamento per invertire l'ischemia retinica, infatti l'attuale trattamento per fotocoagulazione laser distrugge la retina ischemica ma non la riperfonde. Le cellule endoteliali progenitrici (EPC) circolanti potrebbero giocare un ruolo nella riperfusione vascolare e nella rigenerazione dei tessuti, rappresentando una potenziale strategia terapeutica. Le EPC, infatti, svolgono un ruolo importante nella rigenerazione dei tessuti, favorendo la riparazione dei vasi sanguigni e aiutando nella riperfusione delle aree ischemiche. Le EPC sono anche state proposte come biomarker cellulari della malattia.

In risposta all'ipossia, le EPC hanno la capacità di mobilitarsi dalla circolazione e raggiungere la sede dell'ischemia, con meccanismi che vedono coinvolto anche VEGF, oltre ai segnali rilasciati dalle cellule endoteliali apoptotiche. Dal momento che il processo di migrazione è ipossia-mediato, non sorprende che HIF-1 sembri avere un ruolo cruciale nel richiamo delle EPC al sito di insufficienza vascolare.

Ipertensione, diabete, fumo e farmaci come le statine, insulina e inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina possono influenzare la produzione e il rilascio di EPC.

Molte evidenze supportano il concetto che pazienti diabetici di tipo 1 e 2 hanno un alterato numero di EPC circolanti e, quando isolate, mostrano risposte disfunzionali, tra cui un alterato potenziale vasoriparativo e senescenza prematura. Tuttavia, sono stati segnalati risultati discordanti riguardo ai livelli di EPC circolanti nelle persone con diabete. In ogni caso, uno scarso controllo della glicemia, come determinato dai livelli di HbA1c, sembra essere associato ad una riduzione di EPC circolanti9.

Il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS) ha un collegamento diretto con i cambiamenti microvascolari patologici che si verificano nella DR. Studi in vitro hanno dimostrato che l'angiotensina 2 stimola direttamente la secrezione di VEGF in cellule coltivate muscolari lisce e nelle cellule endoteliali cardiache. Pertanto, la

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costrizione del microcircolo retinico potrebbe causare un aumento della produzione di VEGF locale, causando angiogenesi. Il percorso dettagliato che collega l’angiotensina 2 e l’aumento della sintesi di VEGF è ancora da chiarire, ma HIF-1α ha dimostrato di essere coinvolto nella via di segnalazione cellulare8.

Terapia della DME

Il controllo glicemico intensivo è la più importante strategia per ridurre il rischio di perdita della vista a seguito di DME. E’ stato infatti dimostrato che riduce il rischio di sviluppo di DME del 23%.

La fotocoagulazione laser è la seconda più importante linea di azione. Gli studi clinici DRS ed ETDRS hanno dimostrato che l’intervento laser tempestivo può ridurre la perdita visiva del 90%. Tuttavia, l’ETDRS ha dimostrato che, nonostante il trattamento laser, il 12% dei soggetti ha continuato ad avere perdita visiva moderata. Inoltre, il trattamento laser è una procedura distruttiva che causa danni al tessuto stesso. Per la retinopatia diabetica proliferativa, la fotocoagulazione laser panretinale (PRP) è il trattamento di scelta. Tuttavia, le aree di retina trattate con PRP mostrano cicatrici e perdita di funzione.

Le iniezioni intravitreali di trimcinolone acetonide (IVTA) inibiscono l’espressione di VEGF e diminuiscono l’angiogenesi. Sono una procedura abbastanza sicura, ma comportano un rischio intrinseco di complicazioni importanti come cataratta, glaucoma, endoftalmite (sia infettiva che sterile), emorragia del vitreo e distacco di retina.

Nei casi avanzati di DR con complicazioni quali l’emorragia del vitreo, il distacco di retina trazionale e la proliferazione fibrovascolare, l’approccio chirurgico è la procedura di scelta. Lo studio DRV ha stabilito che dopo 4 anni di follow-up, una vitrectomia precoce consente un più rapido recupero visivo5. La vitrectomia è importante per rimuovere il VEGF e le citochine, iperespressi a livello vitreale. Mediante il meccanismo di rimozione del vitreo si aumenta l’ossigenazione della retina ipossica e si riducono soprattutto le complicanze neovascolari relative all’ipossigenazione6.

Gli agenti anti-VEGF hanno dimostrato di essere di gran lunga superiori ai trattamenti laser, che sono associati ad una serie di danni ai tessuti. Inoltre,

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l’incidenza di glaucoma e cataratta da iniezioni intravitreali di corticosteroidi può essere evitata con l’uso di anti-VEGF8.

1.1.3 Occlusione venosa retinica

L'occlusione venosa retinica (RVO) è la più comune malattia invalidante che colpisce la retina dopo la retinopatia diabetica. Anche se è più comune nella popolazione di mezza età e negli anziani, nessun gruppo di età ne è immune e nonostante la sua entità clinica sia nota dal 1878, la sua gestione rimane subottimale.

La patogenesi della RVO è multifattoriale e sono eziologicamente importanti sia fattori locali che malattie sistemiche. Molti studi caso-controllo hanno esaminato le caratteristiche cliniche e i fattori di rischio di questa malattia. Fattori di rischio noti per la RVO sono la malattia vascolare sistemica, ipertensione, diabete mellito, iperlipidemia e glaucoma. Sono associati ad RVO anche stati di ipercoagulabilità primari (con un difetto nel meccanismo anticoagulante fisiologico) e secondari (associati ad un aumentato rischio di trombosi). Tuttavia, ci sono ancora molte lacune nella comprensione dell'eziologia e della patogenesi dei disturbi circolatori della vena centrale della retina e delle sue diramazioni10.

La RVO è di solito classificata in occlusione della vena centrale della retina (CRVO) e occlusione venosa retinica di branca (BRVO).

I principali meccanismi fisiopatologici alla base della perdita della vista nella RVO sono l'ischemia o l'edema maculare. La forma ischemica della RVO è spesso complicata dall'edema maculare e della retina e dalla neovascolarizzazione dell'iride. L'ischemia induce la produzione di diverse citochine che stimolano la formazione di nuovi vasi sanguigni e aumentano la permeabilità vascolare. I primi studi hanno mostrato che VEGF è up-regolato nelle retine di pazienti con RVO. Inoltre, è stato evidenziato che VEGF e IL-6 hanno alte concentrazioni nei pazienti con RVO e sono altamente correlati con la gravità dell'edema maculare6.

L'edema maculare comporta la rottura della barriera emato-retinica interna a causa di una restrizione del flusso di sangue, con aumento della pressione, e consiste in una anormale permeabilità vascolare con conseguente accumulo di liquidi e ispessimento maculare, rivelabile con OCT10.

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Una infiammazione locale a livello oculare è anche coinvolta nella patogenesi della RVO. La valutazione in vivo del fluido vitreo in pazienti con RVO ha mostrato elevati livelli di mediatori pro-infiammatori e bassi livelli di citochine anti-infiammatorie. In particolare in uno studio, pazienti con RVO avevano elevati livelli di IL-6 e IL-8 e proteina 1 chemiotattica per i moniciti e pazienti con CRVO avevano elevati livelli di VEGF. Negli studi di follow up, i pazienti con BRVO e CRVO hanno mostrato di avere aumentati livelli di molecola solubile di adesione intracellulare 1 (pro-infiammatoria) e diminuzione dei livelli di pigment epithelium derived factor (anti-infiammatorio). Non sorprende che la letteratura suggerisca che nelle interruzioni della vena centrale o dei suoi grandi rami ci sono maggiori aumenti e riduzioni, rispettivamente, delle citochine pro-infiammatorie e anti-infiammatorie, rispetto ai piccoli rami. Recenti studi hanno anche suggerito che VEGF, che notoriamente promuove l'angiogenesi, abbia un ruolo pro-infiammatorio, permettendo l'infiltrazione leucocitaria nella retina11.

Altri importanti fattori di rischio solo le alterazioni reologiche (ematocrito aumentato, aumentata viscosità del plasma, aumentata aggregazione dei globuli rossi, ridotta deformabilità dei globuli rossi). Infatti, i capillari della periferia retinica presentano un calibro inferiore rispetto alle dimensioni degli eritrociti e solo eritrociti molto elastici, in grado di deformarsi, riescono ad attraversarli.

Inoltre, sono estremamente importanti alterazioni della viscosità del plasma: nelle sindromi da iperviscosità si possono presentare quadri bilaterali di occlusione centrale della vena della retina.

Inoltre, esistono importanti fattori di rischio locali: glaucoma (rischio di CRVO 5-7 volte superiore rispetto al soggetto sano); trauma (generalmente presente nell’anamnesi dei pazienti con CRVO); vasculite retinica; occlusione dell’arteria centrale; tutte le condizioni che provocano una riduzione del canale della lamina cribrosa come drusen e papilledema; malformazioni artero-venose che sono causa di ipertensione venosa; sindrome di iperviscosità (policitemia, macroglobulinemia, mieloma, leucemia). Quando si instaura il restringimento del lume, il flusso di sangue attraverso la vena centrale retinica diventa sempre più turbolento e provoca una riduzione della velocità di circolo. Pertanto, in presenza di altri fattori reologici o alterazioni parietali si creano i presupposti della triade di Virchow, che determina l'occlusione. L'aumento della stasi provoca un aumento della pressione endovasale che causa l'edema e spiega l'emorragia; contemporaneamente, si ha una riduzione

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del flusso che provoca ischemia, aumento del VEGF e danno endoteliale. Il quadro si completa con aumento dell'edema e accentuazione dell'ischemia fino al quadro del glaucoma neovascolare12.

Terapia della RVO

Sono stati proposti diversi trattamenti chirurgici per la RVO, alcuni caratteristici per CRVO, altri per RVO. Le evidenze attualmente disponibili in letteratura derivano da piccoli studi di bassa qualità, che non consentono conclusioni definitive. L’approccio chirurgico non è giustificato da evidenze forti; tuttavia, esistono alcune situazioni cliniche particolari nelle quali evidenze di compartecipazione vitreale possono giustificare l’approccio chirurgico.

Il laser non è una strategia terapeutica atta a curare l’RVO, ma esclusivamente per il trattamento delle sue complicanze (edema maculare o neovascolarizzazione). Il trattamento laser ha rappresentato lo standard of care per edema maculare secondario a BRVO; in caso di CRVO ischemiche o neovascolarizzazione retinica secondaria ad occlusione di una branca della vena centrale retinica, il trattamento laser periferico è utile per controllare la neoangiogenesi. Il laser può determinare un limitato miglioramento dell’acuità visiva o nessun miglioramento, a seconda delle sottocategorie di pazienti. In ogni caso, a causa dei suoi limiti (possibili danni visivi a livello centrale), risultano indispensabili nuovi approcci terapeutici.

L’uso dei farmaci anti-VEGF induce un miglioramento dell’acuità visiva ed una riduzione dello spessore maculare, a breve termine, ma necessita di un numero di iniezioni multiple per la gestione della patologia. Sempre a breve termine, è stato dimostrato un indubbio profilo di sicurezza sia oculare che sistemico. Il trattamento anti-VEGF potrebbe rivelarsi utile nella gestione delle complicanze dell’RVO come il glaucoma neovascolare.

Gli steroidi sono ritenuti utili nella CRVO, mentre il trattamento laser è da preferire a triamcinolone nella BRVO. Tra gli steroidi, l’impianto intravitreale di desametasone (Ozurdex) ha dimostrato un miglioramento dell’acuità visiva e una riduzione dello spessore maculare12.

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1.2 Patologie secondarie

1.2.1 Glaucoma neovascolare

Il glaucoma neovascolare (NVG) è una malattia che causa cecità, spesso associata a patologie oculari preesistenti. La retinopatia diabetica, l’occlusione venosa retinica centrale ischemica (CRVO) e la sindrome ischemica oculare sono le più comuni cause di NVG. Cause meno comuni sono radiazioni, tumori e uveiti.

NVG può essere una manifestazione avanzata della retinopatia diabetica ed è frequentemente associata a neovascolarizzazione.

Inoltre, è ormai noto che i pazienti con CRVO sono a rischio di sviluppare NVG, ma solo nel tipo ischemico di CRVO, a meno che non vi siano associate retinopatia diabetica o sindrome ischemica oculare.

Il VEGF è ritenuto in diversi studi il fattore predominante nella patogenesi della neovascolarizzazione intraoculare e di NVG. E' stato dimostrato che i livelli di VEGF sono correlati alla progressione della neovascolarizzazione in pazienti con NVG secondaria alla CRVO e che sono più elevati in pazienti con DME.

La neovascolarizzazione dell'angolo e dell'iride si sviluppa quasi sempre prima dell'aumento della pressione intraoculare. Questo è associato allo sviluppo di una membrana fibrovascolare sulla superficie anteriore dell'iride e dell'angolo iridocorneale della camera anteriore. Lo sviluppo della membrana è seguito dallo sviluppo progressivo di sinechie anteriori (aderenze) e dalla chiusura dell'angolo. Questo provoca un brusco aumento della pressione intraoculare, con conseguente riduzione della pressione di perfusione e del flusso di sangue e peggioramento dell'ischemia13.

1.2.2 Edema maculare cistoide

L'edema maculare cistoide (CME) è causa di una grave perdita visiva e si verifica in molteplici condizioni patologiche, come la degenerazione maculare legata all'età, la retinopatia diabetica, l'occlusione venosa retinica centrale o di branca, la trazione della membrana epiretinale o vitreomaculare e la chirurgia oculare. La CME è la combinazione di due componenti: la raccolta anomala di liquido extracellulare e la formazione di uno spazio cistoide14.

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La CME si sviluppa quando il liquido in eccesso si accumula all'interno della retina maculare, probabilmente a causa della rottura della barriera emato-retinica. L'accumulo di liquido extracellulare disturba la funzione delle cellule e l'architettura della retina. Anche nelle cellule di Muller, solitamente deputate al mentenimento della macula disidratata, può verificarsi l'accumulo di liquido intracellulare, con ulteriore riduzione della funzione della retina maculare15.

La formazione di cisti si verifica come risultato della distribuzione radiale delle fibre di Henle nello strato plessiforme esterno16.

1.2.3 Neovascolarizzazione coroideale miopica

La maculopatia patologica è associata ad un allungamento progressivo del globo oculare (tipicamente 26,5 mm, corrispondente ad un errore di rifrazione di almeno -6,0 diottrie) che si traduce in cambiamenti patologici del fundus nell'area maculare.

La maculopatia miopica è caratterizzata da una progressiva degenerazione maculare e dalla formazione di neovascolarizzazione coroideale (CNV), insieme allo sviluppo di foro maculare, stafiloma posteriore e retinoschisi. CNV si verifica in circa il 5% degli occhi con miopia patologica e può portare alla perdita della visione centrale. La coesistenza di foro maculare e CNV è un evento molto raro. Tuttavia, in occhi fortemente miopi nella fase atrofica di CNV, è’ stato dimostrato che l’incidenza di fori maculari è relativamente alta e che si verifica una perdita del pigmento retinico e dello strato esterno della retina.

Occhi con miopia patologica e foro maculare sono quasi sempre associati al distacco di retina, come possibile conseguenza dell’alterazione della permeabilità dell’epitelio retinico, dell’attività della CNV e della presenza di mediatori infiammatori (VEGF)17.

1.3 Diagnosi

La misurazione dell’Acuità Visiva (AV) per lontano, specialmente nei pazienti con malattia maculare e visus basso, è il punto di partenza per un’accusata valutazione della performance visiva. Pertanto, il test utilizzato deve rispondere fondamentalmente a due scopi: precisione e riproducibilità2.

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1.3.1 Esame del visus

Le tavole ottotipiche tradizionali di Snellen a scala decimale non sono standardizzate e certificate per misurazioni dell’AV con visus bassi. Sono usate soprattutto a scopo diagnostico con finalità di screening veloce su un considerevole numero di pazienti e per la valutazione di AV comprese tra 1,2 e 0,05.

L’ottotipo ideale per eseguire l’esame dell’Acuità Visiva (AV) è l’ETDRS (Early Treatment Diabetic Retinopaty Study) in quanto è dimostrato che, al di sotto dei 5/10, il test dell’AV con tavole di Snellen risulta inaffidabile. L’ottotipo ETDRS permette una misurazione precisa dei livelli di AV, soprattutto di quelli più bassi, in modo standardizzato e riproducibile. Di contro, necessita di un tempo più lungo rispetto alle tavole di Snellen.

La velocità di lettura e la sensibilità al contrasto sono esami utili, ma al momento non sono disponibili dati solidi per considerarli esami fondamentali nella decisione terapeutica o nel follow-up.

L’ottotipo l’ETDRS (Early Treatment Diabetic Retinopaty Study) è il sistema di valutazione dell’AV per lontano più accreditato dalla comunità scientifica internazionale. Il test è il gold standard nella ricerca clinica perché consente la misurazione molto precisa di bassi livelli di AV con metodo standardizzato e la valutazione della minima variazione dell’AV dopo una terapia, è obiettivo, riproducibile e scientificamente rigoroso. Nella pratica clinica si è visto che ci può essere una differenza nell’eseguire il test a 4 metri o a 2 metri. I pazienti con ipovisione si stancano facilmente e prima che se il test viene eseguito a 2 metri. In questi pazienti, il test dovrebbe essere effettuato alla distanza di 2 metri dalla tavola ottopica. Ciò può incidere grandemente nei trials clinici, dove è necessario rilevare con obiettività scientifica una variazione estremamente precisa del visus nei pazienti con acuità visive basse2.

1.3.2 Fluoroangiografia

L’angiografia retinica con fluoresceina costituisce l’esame utilizzato in tutti gli studi clinici randomizzati sulla AMD18. La fluoroangiografia (FAG), preceduta da retinografia a colori e con filtri preferenziali, è l’esame fondamentale per la diagnosi.

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Sulla base dell’aspetto fluoroangiografico, le lesioni subfoveali possono essere classificate in lesione prevalentemente classica, minimamente classica e occulta. La forma occulta viene trattata in caso di recente progressione che implica la presenza di lesioni emorragiche, diminuzioni dell’AV, aumento della lesione alla FAG e infine ispessimento retinico o progressione del danno visibile all’OCT2.

1.3.3 Angiografia con verde indocianina

L’angiografia con verde indocianina (ICGA) è da effettuarsi in tutti i casi in cui sia necessario verificare la presenza di lesioni vascolari particolari che potrebbero beneficiare di altre terapie o per evidenziare lesioni subfoveali occulte mal visibili alla FAG.

FAG e ICGA devono essere effettuate al baseline a tutti i pazienti con lesione neovascolare.

L’ICGA, con l'avvento degli oftalmoscopi a scansione laser, ha consentito di visualizzare in modo dinamico il flusso vascolare, quindi non solo vedere la circolazione coroideale, ma anche monitorare il progressivo riempimento di una neovascolarizzazione. Nello studio di queste patologie, la presenza di una neovascolarizzazione occulta in fag impone come supplemento diagnostico l'ICGA. Infatti, neovascolarizzazioni occulte sono la causa più frequente di AMD essudativa2.

1.3.4 Tomografia a coerenza ottica

La tomografia a luce coerente permette di visualizzare e misurare in vivo lo spessore della retina e talora dei diversi strati retinici. L’OCT documenta la presenza di sollevamenti del neuroepitelio, dell’epitelio pigmentato retinico e la presenza di edema intraretinico. E’ uno strumento diagnostico utile per completare la diagnosi di AMD sia nella forma iniziale che avanzata, ma non sufficiente ad ottenere una definizione completa della malattia. E’ potenzialmente utile nella definizione della tempistica del trattamento o del ritrattamento nella forma neovascolare18.

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1.4 Farmaci anti-VEGF

1.4.1 Razionale dell’uso di farmaci anti-VEGF

La neovascolarizzazione è un processo patologico comune a vari disturbi vascolari retinici, tra cui la retinopatia diabetica, la degenerazione maculare correlata all’età e l’occlusione venosa retinica. La neovascolarizzazione è caratterizzata dalla crescita di vasi sanguigni funzionalmente e morfologicamente anormali, altamente proliferativi, ma spesso strutturalmente carenti e poco organizzati rispetto al normale. Questo può comportare lo sviluppo di aree neovascolari fragili che tendono a crescere sulla superficie della retina portando a complicazioni quali emorragia del vitreo, formazione di tessuto fibrovascolare e distacco della retina conseguente a trazione, con perdita della visione. Le alterazioni strutturali e funzionali specifiche presenti nei neovasi forniscono obiettivi per la progettazione di nuove strategie terapeutiche.

Finora lo standard di cura per la maggior parte delle patologie retiniche era rappresentato dalla fotocoagulazione laser, che si è mostrata efficace in grandi studi clinici randomizzati per indurre la regressione a lungo termine della neovascolarizzazione. Tuttavia, tale trattamento ha lo svantaggio di provocare effetti collaterali potenzialmente minacciosi per la vista e molti pazienti continuano a sviluppare neovascolarizzazione attiva.

L’uso di agenti antiangiogenici per il trattamento di varie malattie retiniche è recentemente emerso come una aggiunta alle cure oftalmiche standard per la neovascolarizzazione oculare. Gli agenti antiangiogenici con evidenza di efficacia clinica in questo momento, generalmente inibiscono il fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF). Le terapie anti-VEGF hanno infatti dimostrato di essere molto efficaci nel prevenire la perdita della vista causata dalle complicanze essudative e neovascolari, in particolare nell’AMD. Inoltre, hanno anche il vantaggio, a differenza della fotocoagulazione laser, di non essere intrinsecamente distruttive per la retina, e di non aumentare la pressione intraoculare o provocare la cataratta, come gli steroidi.

Fattori angiogenici hanno dimostrato di essere centrali nella patogenesi delle retinopatie proliferative. Di questi, VEGF sembra essere il maggior responsabile dell’angiogenesi intraoculare di origine ischemica. VEGF è inoltre associato a rotture

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della barriera ematoretinica e ad un aumento della permeabilità vascolare del letto vascolare6.

1.4.2 VEGF e recettori del VEGF (VEGFR)

I fattori di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) sono una sottofamiglia di fattori di crescita che funzionano come proteine di segnalazione sia per la vasculogenesi (formazione de novo del sistema circolatorio embrionale) che per l’angiogenesi (crescita dei vasi sanguigni da vasi preesistenti).

La sottofamiglia VEGF comprende VEGF-A, B, C, D e il fattore di crescita placentare (PGF). VEGF-A è una proteina glicosilata di 36-46 kD che deriva dallo splicing alternativo del RNA messaggero a singolo filamento del gene codificante per VEGF, contenete 8 esoni.

Lo splicing alternativo degli esoni risulta nella generazione di cinque diverse isoforme, a seconda del numero di amminoacidi presenti: isoforme 121, 145, 165, 189 e 206. Le isoforme più grandi (isoforme 189 e 206) possiedono una maggiore capacità di legare l’eparina, che si riflette nella loro capacità di legarsi alla superficie cellulare e alle membrane basali. Per contro, hanno anche limitata o nessuna diffusibilità. Le isoforme più piccole (isoforme 121 e 145) sono invece facilmente diffusibili, ma hanno una limitata capacità di legare l’eparina. L’isoforma VEGF165 ha livelli intermedi di diffusibilità e di legame all’eparina, è la forma principalmente secreta ed ha un ruolo critico nello sviluppo patologico dell’angiogenesi19.

VEGF A promuove la crescita e la sopravvivenza delle cellule vascolari endoteliali (promuove l'angiogenesi) e distrugge le giunzioni tra le cellule endoteliali (promuove la permeabilità vascolare) favorendo, rispettivamente, la neovascolarizzazione della retina e l'edema maculare8. Gli altri membri della sottofamiglia VEGF hanno probabilmente un ruolo maggiore nei tumori19.

La sintesi di VEGF-A è drammaticamente indotta dall’ipossia, come anche da altri fattori di crescita (TGF, IGF e PDGF) e alcuni ormoni (TSH, ACTH, hCG e ormoni sessuali)6.

Tutti i membri della famiglia VEGF stimolano risposte cellulari legando recettori tirosin chinasici sulla superficie delle cellule endoteliali, che dimerizzano e si attivano tramite transfosforilazione. VEGF-A ha due recettori: il VEGFR di tipo 1 e 219. Sia

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VEGFR1 che VEGFR2 si trovano nell’endotelio vascolare, nella retina neurosensoriale e nelle cellule dell’epitelio pigmentato retinico7.

VEGFR2 sembra essere il recettore primario che media la quasi totalità delle risposte cellulari al VEGF-A. I recettori VEGF sono composti da tre regioni: una porzione extracellulare costituita da sette domini immunoglobulino simili, una regione transmembranaria idrofobica e una porzione intracellulare contenente un dominio tirosin-chinasico. Quando la molecola VEGF si lega alla porzione extracellulare del recettore VEGF, la porzione intracellulare provoca fosforilazione dei residui di tirosina e trasduzione di un segnale cellulare. I segnali intracellulari comprendono l’attivazione della proteina chinasi C (PKC). Altri meccanismi inducono l’angiogenesi attraverso la sintesi di ossido nitrico e l’induzione della proliferazione cellulare19.

Figura 3. Diagramma di flusso della cascata VEGF che mostra la catena molecolare di eventi che si verificano dopo l’ipossia del tessuto retinico, culminando nell’angiogenesi.

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Il blocco dell’angiogenesi nel trattamento delle retinopatie proliferative è attuabile principalmente attraverso tre meccanismi: l'inibizione del VEGF mediante legame diretto, l'inibizione della sintesi di VEGF e l'inibizione della segnalazione VEGF6.

Attualmente sono quattro gli agenti che inibiscono VEGF mediante legame diretto: pegaptanib (inibitore del VEGF extracellulare), bevacizumab e ranibizumab (due anticorpi anti-VEGF4) e aflibercept (inibitore dell’espressione del recettore VEGF)19.

Figura 4. Meccanismi di legame di VEGF da parte dei quattro farmaci anti-VEGF. Il legame con i dimeri solubili di VEGF impedisce la dimerizzazione dei recettori e l’attivazione della cascata di segnali che induce l’angiogenesi.

Bevacizumab, ranibizumab e pegabtanib neutralizzano in maniera specifica il dimero VEGF solubile, inibiscono la dimerizzazione dei recettori transmembranari VEGFR1 e VEGFR2 e prevengono l’attivazione delle cellule endoteliali vascolari. Sono state utilizzate due strategie ricombinanti: la creazione di un aptamero VEGF-A165 specifico (pegaptanib) e la sintesi di un anticorpo o di un frammento di anticorpo legante tutte le forme di VEGF-A (bevacizumab e ranibizumab)20. Aflibercept, invece, è una proteina di fusione ricombinate totalmente umanizzata che lega tutte le forme di VEGF-A e PGF6.

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Le quattro molecole anti-VEGF sono state testate negli animali e negli uomini, ma non sono stati ottenuti dati completi, in particolare sulla farmacocinetica negli uomini. Alcune caratteristiche farmacocinetiche, tuttavia, sono comuni in tutte le molecole.

Poiché il vitreo ha una consistenza simile ad un gel, composto da collagene e glucosaminoglicani, rappresenta un ostacolo alla rapida distribuzione del farmaco. A seguito di iniezioni intravitreali, ognuno dei farmaci anti-VEGF abbandona l’occhio con una cinetica di primo ordine. Le molecole vengono eliminate dal vitreo attraversando la retina e l’RPE verso la circolazione coroideale, passando attraverso il corpo ciliare e l’iride o muovendo verso la camera anteriore per diffusione. Nessuno dei farmaci sembra subire degradazione all’interno dell’occhio. L’emivita sistemica varia notevolmente (da ore a settimane) prima dell’eliminazione del farmaco attraverso filtrazione glomerulare o eliminazione pinocitotica20.

1.4.3 Ranibizumab

Ranibizumab è un frammento Fab ottimizzato dell'anticorpo bevacizumab, che si lega ed inibisce tutte le isoforme di VEGF-A. Rispetto a bevacizumab, ranibizumab è stato sviluppato da un differente anticorpo monoclonale murino legante VEGF ed è prodotto in cellule di Escherichia coli, pertanto non possiede siti di glicosilazione7,21. La molecola consiste di una catena leggera e una catena pesante con un sito legante l’anticorpo ed ha un peso molecolare di circa 48 kD. La porzione Fab di bevacizumab (Fab-12) ha dimostrato di avere una maggiore diffusibilità e penetrazione attraverso la retina fino alla coroide rispetto all’anticorpo completo. Per aumentare la potenza e l’affinità di legame del Fab-12 nei confronti delle molecole VEGF-A, sono stati sostituiti 5 amminoacidi nel dominio variabile e 1 nel dominio costante, ottenendo così una molecola 100 volte più potente del Fab-1221.

Su base molare, ranibizumab è risultato essere da 5 a 20 volte più potente dell’anticorpo completo bevacizumab. In virtù delle sue ridotte dimensioni, la molecola può penetrare tutti gli strati della retina più facilmente dell’anticorpo bevacizumab (peso molecolare 148 kD). Inoltre, l’assenza della porzione Fc dell’anticorpo nel ranibizumab elimina anche la possibilità di citotossicità complemento-mediata o cellulare innescata dall’interazione con le cellule infiammatorie21.

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Quindi esistono cinque importanti differenze tra bevacizumab e ranibizumab: bavacizumab (149 kD) contiene i frammenti Fab ed Fc dell’anticorpo di origine, mentre ranibizumab (48 kD) contiene solo il frammento Fab; la sequenza di ranibizumab differisce dalla sequenza corrispondente di bevacizumab per 6 amminoacidi; ogni molecola di ranibizumab ha un sito di legame per VEGF, mentre bevacizumab ne ha due; ranibizumab è prodotto in una cellula procariotica di Escherichia Coli e pertanto non possiede siti di glicosilazione, mentre bevacizumab è prodotta in una linea eucariotica ed è glicosilata nella regione Fc; ranibizumab costa circa 40 volte di più rispetto a bevacizumab.

Ranibizumab è stato sviluppato come frammento Fab perché si pensava che una molecola di dimensioni minori rispetto all’anticorpo integrale potesse permettere di raggiungere una maggiore diffusione dal vitreo, alla retina e alla coroide. Tuttavia, studi successivi hanno suggerito che il vantaggio dimensionale non si traduce in un vantaggio terapeutico per i pazienti. Era anche previsto che l’aumento dell’affinità di legame con VEGF per ranibizumab risultasse in un incremento dell’attività biologica rispetto a bevacizumab. Infatti, studi iniziali che hanno utilizzato il frammento Fab monovalente (da cui è derivato il bivalente bevacizumab) hanno suggerito che l’affinità di legame di bevacizumab è nettamente inferiore a quella dimostrata per ranibizumab. Tuttavia, in uno studio più recente utilizzando un anticorpo bivalente (che riflette i due siti di legame di bevacizumab), la costante di dissociazione (KD) di ranibizumab e bevacizumab per VEGF A165 era approssimativamente equivalente.

Un potenziale svantaggio del frammento Fc è che bevacizumab può essere più stabile sistemicamente rispetto a ranibizumab e gli studi su animali sembrano corroborare questa previsione. Tuttavia non è chiaro se i bassi livelli sistemici di entrambi siano sufficienti a provocare effetti sistemici indesiderati9.

Profilo farmacocinetico

Dopo iniezione intravitreale nei conigli, ranibizumab ha mostrato un’emivita intravitreale di 2.6-2.88 giorni e un picco di concentrazione nell’umor acqueo dopo 3 giorni. La massima concentrazione nell’acqueo è l’11% di quella del vitreo e l’esposizione totale al farmaco nell’acqueo è il 14% rispetto al vitreo. Ranibizumab penetra completamente la retina dopo 1 giorno dall’iniezione. Le concentrazioni del farmaco nel siero sono molto basse (1/10.000 rispetto al vitreo) o non rilevabili20.

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Studi farmacocinetici preclinici condotti nelle scimmie hanno dimostrato che una singola iniezione di 0.5 mg di ranibizumab raggiunge un picco di concentrazione nel vitreo dopo 6 ore. Vi è una rapida distribuzione del farmaco dal vitreo alla retina o all’umor acqueo e la concentrazione nella retina è circa un terzo che nel vitreo. Il farmaco viene poi eliminato in parallelo da tutti i compartimenti oculari.

L’emivita di eliminazione dal vitreo di ranibizumab stimata nell’uomo è di circa 7 giorni e l’emivita di eliminazione dalla circolazione sistemica è di circa 2 giorni. Dopo una singola iniezione intravitreale di 0.5 mg di ranibizumab in pazienti con AMD, la concentrazione sierica massima è stata rilevata dopo 1 giorno ad un livello 90.000 volte inferiore rispetto all’esposizione intravitreale ed è ben al di sotto della concentrazione necessaria ad inibire l’attività biologica di VEGF del 50%21.

Studi clinici

Nel trattamento dell’AMD, l’efficacia e la sicurezza di ranibizumab (Lucentis) sono state valutate in due studi di fase 3, MARINA e ANCHOR, per un periodo di 24 mesi.

Lo studio di fase 3 MARINA (Minimally classic/occult trial of Anti-VEGF antibody RhuFabV2 In the treatment of Neovascular AMD) è uno studio prospettico multicentrico della durata di 2 anni, in doppio cieco, controllato, che ha valutato la sicurezza e l’efficacia di ranibizumab in iniezioni intravitreali ripetute in pazienti con CNV minimamente classica o occulta associata ad AMD. Sono stati arruolati 716 pazienti di almeno 50 anni randomizzati 1:1:1 a ricevere ranibizumab 0,3 mg, 0,5 mg o una finta iniezione mensile per 2 anni (24 iniezioni) in un solo occhio. La terapia con veteporfirina è stata consentita se la CNV diventava classica. Il protocollo è stato successivamente emendato per consentire il trattamento con veteporfirina nella patologia minimamanete classico o occulta con lesioni non classiche non più larghe di 4 aree di disco ottico e accompagnate dalla perdita di 20 o più lettere rispetto al basale. E’ stata stabilita una prima analisi dell’efficacia dopo 12 mesi. L’endopoint primario di efficacia era la proporzione di pazienti che ha perso meno di 15 lettere rispetto all’acuità visiva basale, come valutato tramite la carta ETDRS ad una distanza di 2 metri.

Più del 90% in ogni gruppo di trattamento è rimasto nello studio al 12° mese e approssimativamente l’80-90% è rimasto fino al 24° mese. Dei pazienti sottoposti a

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finta iniezione, 12 pazienti sono passati a ranibizumab 0,5 mg: 5 pazienti a 22 mesi, 7 a 23 mesi, l’ultima possibile visita. Durante il periodo di trattamento di 2 anni, 38 pazienti del gruppo di finta iniezione (16.0%), 2 pazienti nel gruppo trattato con ranibizumab 0.3 mg (16,0%) e nessuno nel gruppo che ha ricevuto 0.5 mg di ranibizumab sono stati trattati con veteporfirina almeno una volta. Nel secondo anno, 13 pazienti (5.5%) nel gruppo di finta iniezione hanno scelto di interrompere il trattamento in studio e di ricevere pegaptanib sodico, approvato nel dicembre 2004 per il trattamento dell’AMD. Di questi 13 pazienti, 8 sono rimasti nel gruppo di follow up a 24 mesi.

Lo studio ha raggiunto l’endpoint primario a 12 mesi. Tra i pazienti trattati con ranibizumab, il 94.5% di quelli trattati con 0.3 mg e il 94.6% di quelli trattati con 0.5 mg ha perso meno di 15 lettere di acuità visiva rispetto al basale (p<0.001 per entrambi vs 62.2% del gruppo di finta iniezione). A 24 mesi, questo endpoint è stato raggiunto dal 92.0% dei pazienti che hanno ricevuto ranibizumab 0.3 mg e dal 90% di quelli che ne hanno ricevuto 0.5 mg, rispetto al 52.9% del gruppo di finta iniezione (p<0.001 per entrambi). Il beneficio nell’AV associato con ranibizumab è stato indipendente dalla dimensione delle lesioni basali, dal tipo di lesione e dalla AV basale.

A 12 e 24 mesi, approssimativamente ¼ dei pazienti trattati con ranibizumab 0.3 mg e 1/3 di quelli trattati con 0.5 mg ha guadagnato 15 o più lettere di AV , rispetto al 5.0% dei pazienti nel gruppo con finta iniezione. (p<0.001 per entrambi).

Ad entrambe le dosi di ranibizumab, il miglioramento medio rispetto al basale del punteggio di AV è stato evidente 7 giorni dopo la prima iniezione (p=0.006 per la dose di 0.3 mg e p=0.003 per 0.5 mg), mentre l’AV media nel gruppo di finta iniezione è diminuita costantemente nel tempo ad ogni valutazione mensile (p<0.001 per entrambi). A 12 mesi, il miglioramento medio della AV è stato di 6.5 lettere nel gruppo ranibizumab 0.3 mg e 7.2 lettere nel gruppo 0.5 mg, rispetto ad una perdita di 10.4 lettere per il gruppo con finta iniezione (p<0.001 per entrambi). Il beneficio nell’AV è stato mantenuto a 24 mesi. Il beneficio medio associato a ranibizumab rispetto alle finte iniezioni è stato approssimativamente di 17 lettere in ciascuno dei due gruppi di trattamento a 12 mesi e di 20/21 lettere a 24 mesi.

Pochissimi pazienti trattati con ranibizumab hanno avuto gravi perdite della vista (30 lettere o più) rispetto al basale (0.8% nel gruppo 0.3 mg e 1.2% nel gruppo 0.5 mg), rispetto al 14.3% nel gruppo sham a 12 mesi; a 24 mesi, il 3.4% dei trattati con

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ranibizumab 0.3 mg e il 2.5% di quelli con 0.5 mg ha avuto una grave perdita della vista, rispetto al 22.7% del gruppo sham (p<0.001 per entrambi i dosaggi a 12 e 24 mesi).

Il trattamento con ranibizumab è stato associato all’arresto della crescita delle perdite dalle neovascolarizzazioni coroideali. La variazione media rispetto al basale in ciascuno dei gruppi trattati con ranibizumab differiva statisticamente da quella del gruppo sham a 12 e 24 mesi (p<0.001 per ciascun confronto).

Casi di presunte endoftalmiti si sono verificati in 5 pazienti su 477 (1.0%) o, in alternativa, nello 0.05% delle iniezioni (totale 10443 iniezioni). Infiammazioni (compreso endoftalmite) si sono verificate in tutti i trattati con ranibizumab. Ranibizumab non ha avuto alcun effetto a lungo termine sulla pressione intraoculare, valutata mensilmente prima dell’iniezione.

Durante i 2 anni si sono verificati 17 decessi: 6 nel gruppo sham, 5 nel gruppo trattato con 0.3 mg di ranibizumab e 6 nel gruppo trattato con 0.5 mg di ranibizumab.

L’incidenza complessiva di tutti gli eventi avversi sistemici gravi o non gravi, tra cui quelli associati alla terapia anti-VEGF, come eventi tromboembolici arteriosi e ipertensione, è risultata simile tra i due gruppi. Il tasso di eventi tromboembolici arteriosi tra i pazienti del gruppo sham è stato del 3.8%, quello tra i pazienti trattati con ranibizumab è stato del 4.6% per 0.3 mg e 4.6% per 0.5 mg (nessuna statisticamente significativa).

I tassi cumulativi di emorragia non oculare sono aumentati durante il secondo anno di trattamento in tutti i gruppi, ma maggiormente nei gruppi trattati con ranibizumab.

Tuttavia, lo studio non è stato progettato per rilevare piccole differenze nei tassi, quindi non è possibile trarre conclusioni sulle differenze22.

Lo studio ANCHOR (Anti-VEGF Antibody for the Treatment of Predominantly Classic Choroidal Neovascularization in Age-Related Macular Degeneration) è un studio internazionale di 2 anni, multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, controllato con trattamento attivo.

Sono stati arruolati 423 pazienti con CNV prevalentemente classica per AMD neovascolare e randomizzati 1:1:1 a ricevere terapia fotodinamica con veteporfirina (PTD) oppure una iniezione intravitreale mensile di 0.3 mg o 0.5 mg di ranibizumab più una finta terapia con veteporfirina. Ranibizumab è stato somministrato

Figura

Figura 1. Sequenza temporale dello sviluppo ipotizzato della degenerazione maculare correlata all’età  in prospettiva di una riparazione tissutale CNV= neovascolarizzazione coroidale
Figura 2. Patofisiologia dello sviluppo di edema maculare diabetico
Figura 3. Diagramma di flusso della cascata VEGF che mostra la catena molecolare di eventi che si  verificano dopo l’ipossia del tessuto retinico, culminando nell’angiogenesi
Figura  4.  Meccanismi  di  legame  di  VEGF  da  parte  dei  quattro  farmaci  anti-VEGF
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