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I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli

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(1)

A

LMA

M

ATER

S

TUDIORUM

U

NIVERSITÀ DI

B

OLOGNA

Dottorato di ricerca in Musicologia e Beni musicali

XIX ciclo

Esame finale L-ART/07

Musicologia e Storia della Musica

Anno 2007

I drammi musicali

di Giovanni Faustini

per Francesco Cavalli

Dottorando

N

ICOLA

B

ADOLATO

Coordinatore

prof. A

NGELO

P

OMPILIO

Relatore

prof. L

ORENZO

B

IANCONI

Correlatore

(2)

A conclusione di un triennio di studio, desidero ringraziare innanzitutto Lorenzo

Bianconi e Anna Laura Bellina, che con disponibilità, rigore e competenza mi hanno

guidato nella ricerca: a loro devo gli ammaestramenti, i suggerimenti, le sollecitazioni, gli

stimoli che mi hanno permesso di completare questo studio. Ringrazio di cuore inoltre

Carlo Caruso per gli spunti e le occasioni di approfondimento che mi ha fornito nell’ultimo

anno di lavoro.

Un ringraziamento va inoltre a tutto il Collegio dei docenti del dottorato in Musicologia

e Beni musicali, ai coordinatori Paolo Gozza e Angelo Pompilio, a tutti i colleghi che mi

hanno accompagnato nel percorso dottorale. Un grazie particolare alla Fondazione

Bottrigari di Bologna, che ha sostenuto il primo biennio del mio dottorato.

Il lavoro di questi anni non sarebbe stato possibile senza l’appoggio paziente e

incondizionato della mia famiglia e di mia moglie Maria.

(3)

(1)

I

NTRODUZIONE

1a.

Giovanni Faustini e Francesco Cavalli

p. 9

1b.

Le fonti di Faustini

p. 12

1c.

Le tecniche di scrittura

p. 33

1d.

Sulla morfologia delle arie

p. 55

(2)

I

LIBRETTI

2a.

Criteri di edizione

p. 71

2b.

La virtù de’ strali d’Amore (1642)

p. 73

2c.

L’Egisto (1643)

p. 113

2d.

L’Ormindo (1644)

p. 147

2e.

La Doriclea (1645)

p. 187

2f.

Il Titone (1645)

p. 229

2g.

L’Euripo (1649)

p. 257

2h.

L’Oristeo (1651)

p. 297

2i.

La Calisto (1651)

p. 327

2j.

La Rosinda (1651)

p. 363

2k.

L’Eritrea (1652)

p. 393

2l.

Nota ai testi

p. 429

(3) Bibliografia

p. 434

(4)
(5)

1a. Giovanni Faustini e Francesco Cavalli

Per l’entità, la regolarità e la qualità della sua produzione, Francesco Cavalli (1602-1676)

è senza dubbio figura dominante per i primi trent’anni del teatro d’opera veneziano. La

carriera teatrale di Cavalli ha inizio nel 1639 con le Nozze di Teti e di Peleo (su libretto di

Orazio Persiani) e scorre ininterrotta fino al 1673 col Massenzio di Giacomo Francesco

Bussani. Oltre a lavorare per i principali teatri d’opera di Venezia, nei primi anni ’50

incrementò il suo prestigio con numerose commissioni in Italia e all’estero (Milano 1652,

Firenze 1654, Parigi 1659). La sua fama di operista, sia in vita sia nei primi anni dopo la

morte, è testimoniata anche dalle numerose attribuzioni di testi anonimi.

1

Cavalli di fatto

musicò una trentina di melodrammi, quasi tutti conservati in partiture manoscritte

provenienti dalla collezione privata del patrizio veneto Marco Contarini successivamente

acquisite nel 1843 dalla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

2

Nel primo decennio della sua attività teatrale Cavalli lavorò al Teatro S. Cassiano, sede

della prima rappresentazione d’opera veneziana: attivo come compositore, finanziatore e

organizzatore, egli si inserì nella compagnia del poeta-librettista fiorentino Orazio Persiani,

della cantante Uga di Roma (che proveniva fra l’altro dalla compagnia di canto che già

aveva allestito l’Hermiona di Padova e l’Andromeda del S. Cassiano nel 1637) e del ballerino

Giovanni Battista Balbi. Sui primi anni ’40, contestualmente all’impegno al S. Cassiano,

Cavalli fu coinvolto anche nella direzione del S. Moisè, nella cui prima stagione era stato

rappresentato il suo Amore innamorato (1642). La decennale collaborazione con il giovane

librettista-avvocato Giovanni Faustini prende avvio proprio nel Teatro S. Cassiano con la

Virtù de’ strali d’Amore (1642); oltre a quest’opera nel medesimo teatro allestiranno insieme

altri quattro dei loro dieci lavori: Egisto (1643), Ormindo (1644), Doriclea e Titone (1645).

Insieme al fratello Marco, Giovanni Faustini (1615-1651) fu senza dubbio una figura di

rilievo anche nella gestione economica dell’opera. Figli di Angelo Faustini e Isabetta

Vecellio (sorella del pittore Cesare Vecellio cugino di Tiziano), entrambi intrapresero gli

studi giuridici presso l’università padovana e come giuristi trovarono impiego, seppur con

alterne vicende, presso gli uffici amministrativi di Venezia. Marco, il maggiore dei due

(1606-1676), svolse a tutti gli effetti la professione di avvocato presso il Magistrato del Sal,

organo preposto al controllo dei traffici commerciali del sale, e dal 1628 divenne membro

della Scuola Grande di S. Marco. A partire dal 1633 anche Giovanni entrò nella stessa

influente confraternita, e di lì in poi divenne assiduo frequentatore degli uffici di molti

cittadini veneziani

3

comparendo regolarmente su molti atti notarili, pur senza mai dedicarsi

toto corde alla professione di avvocato. Dal 1631 i fratelli Faustini affittarono una casa nei

1 Sono di dubbia paternità Deidamia (1644), Il Romolo e ’l Remo (1645), La prosperità infelice di Giulio Cesare dittatore

(1645), Torilda (1648), Bradamante (1650), Armidoro (1651) e Helena rapita da Teseo (1653). Sicuramente illegittime Narciso ed Ecco immortalati (1642, forse di Marco Marazzoli) e Alessandro vincitor di se stesso (1651, di Antonio Cesti).

2 Si veda a questo proposito il contributo di T. WIEL, I codici musicali contariniani del secolo XVII nella R. Biblioteca

di S. Marco in Venezia, Venezia, 1888. Sulle partiture manoscritte di Francesco Cavalli si veda P. JEFFERY, The Autograph Manuscripts of Francesco Cavalli, Princeton University, diss., 1980.

3

Quello di cittadino era uno dei tre status sociali in cui si suddivideva la popolazione di Venezia nel Seicento. Al vertice della gestione della città stava la nobiltà, i cui membri sedevano nel Maggior consiglio, tra i Provveditori sopra le Pompa, nel Senato, fra i Dogi. I cittadini si collocavano nel gradino immediatamente successivo: lavoravano soprattutto come avvocati, notai, segretari spesso al servizio delle famiglie patrizie o impiegati nella pubblica amministrazione (dunque ancora alle dirette dipendenze della nobiltà). Alla base della piramide sociale, i popolani. Maggiori ragguagli in D. E. QUELLER,Venetian Patriciate: Reality and Myth, Urbana, University of Illinois, 1986 e in A. ZANNINI,Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna. I cittadini originari. (sec. XVI-XVIII), Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Memorie, Classe di Scienze morali, lettere ed arti, vol. 47, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1993.

(6)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Giovanni Faustini e Francesco Cavalli

pressi della Parrocchia di S. Vidal, strategicamente poco distante dai due principali poli

amministrativi e commerciali della città: S. Marco e Rialto (Francesco Cavalli abitava poco

lontano).

Nel 1647 Giovanni Faustini è l’impresario e il librettista di quel Teatro S. Moisè dove

Cavalli aveva già lavorato cinque anni prima. Il contratto privato tra il librettista e Almorò

Zane, proprietario del S. Moisè, fu firmato nel settembre 1647 e impegnava Faustini ad

allestire opere nei successivi tre anni:

4

nella stagione 1647/48 scrisse e produsse l’Ersilla

(musica di vari compositori fra cui, forse, lo stesso Cavalli) e l’anno seguente (1648/49)

andò in scena l’Euripo. Portato a termine il contratto col S. Moisè, Faustini assunse la

gestione del Teatro S. Aponal, di proprietà di Francesco Ceroni e Zanetta Diamante,

recentemente dato alle rappresentazioni operistiche;

5

Cavalli lo seguì per mettere in musica

l’Oristeo (1651), la Calisto (1651) e la Rosinda (1652). Per quell’ultima stagione teatrale

1651/52 Faustini aveva steso anche il libretto dell’Eritrea, ancora con Cavalli: ma la morte

lo colse già nei preparativi della Calisto

6

e il controllo della compagnia fu assunto totalmente

dal fratello Marco, che era già entrato nell’impresa almeno a partire dall’estate precedente

per rimanervi fino al 1657. Nell’arco di pochi anni Marco Faustini allargherà i propri

interessi prima sul S. Cassiano (1657-1660) e successivamente sul SS. Giovanni e Paolo

(1660-1668).

7

Le opere su libretto di Faustini rappresentano il tronco della produzione di Cavalli e

coprono, come s’è visto, l’arco cronologico 1642-1652. Il decennio del sodalizio

Faustini-Cavalli si dimostrò cruciale per la codificazione e il consolidamento delle principali

tendenze di scrittura del teatro musicale veneziano: le tecniche di composizione degli

intrecci, molto diversificate agli esordi dell’opera, sono sottoposte da Faustini ad un

processo graduale di standardizzazione.

8

Il dramma è costruito sulla base di alcuni loci

letterari comuni che vengono inseriti in una scrittura duttile e sempre permeabile alle

esigenze della varietà musicale. Gli intrecci propongono la struttura che di lì in poi diverrà

canonica della doppia (in qualche caso tripla) coppia di amanti dapprima divisi infine

ricongiunti dopo mille peripezie; il libretto assume definitivamente la forma in tre atti; colpi

di scena, canti nel sonno, lettere falsamente rivelatrici, coppie intrecciate, liete agnizioni

4 Dettagli in B. L.GLIXON,J. E. GLIXON, Marco Faustini and Venetian Opera Production in the 1650s: Recent

Archival Discoveries, «Journal of the American Musicological Society», X, 1992, p. 49.

5 Sulle vicende di questo teatro si veda J. GLOVER, The Teatro S. Apollinare and the Development of

Seventeenth-century Venetian Opera, diss. di laurea, Università di Oxford, 1975.B.L.GLIXON,J.E.GLIXON, Oil and Opera don’t Mix: The Biography of S. Aponal, a Seventeenth-Century Venetian Opera Theater, in S. PARISI,(a cura di), Music in the Theater, Church and Villa: Essays in Honor of Robert Weaver and Norma Wright Weaver, Warren, Mich., Harmonie Park Press, 2000, pp. 131-144.

6 «Mentre una finta morte d’Eritrea lusingherà a V. S. Illustriss. dolcemente l’orecchio, la purtroppo vera del

Sig. Giovanni Faustini le commoverà dolorosamente l’anima. Morì pochi giorni sono questo celebre litterato, e dopo la tessitura di undeci opere ha lasciato sotto il torchio quella della sua cara Eritrea. Questa povera Regina, tutta abbattuta per gl’incontri sinistri, per la stravaganza delli accidenti, compare alla fine alla luce obligata d’ubbidire a quel genitore che la promise nella Calisto.» Così il tipografo Giacomo Batti nella prefazione all’Eritrea, qui a p. 393.

7 Dettagli sui primi anni ’50 e sulle dinamiche di gestione impostate da Marco Faustini in B.L.GLIXON,J.E.

GLIXON, Marco Faustini and His Companies, in Inventing the Business of Opera: The Impresario and His World in Seventeenth-Century Opera, New York, Oxford University Press, 2005, pp. 34-65, in part. 34-40. Degli stessi autori cfr. anche Marco Faustini and Venetian Opera Production in the 1650s, cit., pp. 48-73 e Oil and Opera don’t Mix: The Biography of S. Aponal, a Seventeenth-Century Venetian Opera Theater, in S. PARISI,(a cura di), Music in the Theater, Church and Villa: Essays in Honor of Robert Weaver and Norma Wright Weaver, Warren, Mich., Harmonie Park Press, 2000, pp. 131-144

8 Cfr. almeno P. FABBRI,Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera nel Seicento, Bologna, Il Mulino, 1990 (in

particolare le pp. 147-244) ora Roma, Bulzoni, 2003; J. GLOVER,The Peak Period of Venetian Public Opera: The 1650s, «Proceedings of the Royal Musical Association», vol. 102, 1975-76, pp. 67-82.

(7)

costruiscono la narrazione e diventano man mano convenzioni irrinunciabili. Solo

apparentemente creati dal nulla – come si avrà modo di vedere nei capitoli successivi di

questo lavoro – gli intrecci derivano più probabilmente dall’abilissimo mascheramento di

soggetti analoghi precedenti, nei quali si riconoscono gli stilemi narrativi tipici delle forme

letterarie e teatrali più in voga nella prima metà del Seicento.

Il presente lavoro affronta le problematiche relative allo studio e alla restituzione critica

della produzione di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli: dieci drammi musicali

concentrati nel decennio 1642-1652. Lo studio mira ad approfondire le caratteristiche

stilistiche di testi letterari destinati alla realizzazione musicale e teatrale, gli ipotetici “segreti di

bottega” che ne hanno guidato la stesura, il ruolo del librettista in rapporto al lavoro del

compositore e dello scenografo, il legame tra l’attività letteraria e quella musicale e teatrale

nel processo di istituzionalizzazione del teatro d’opera avviato a Venezia nel corso del

quarto e quinto

decennio del Seicento. I primi capitoli propongono un approccio

essenzialmente analitico che si articola 1) nell’indagine sulle fonti dei soggetti modellati da

Faustini, nel tentativo di ricostruire l’orizzonte letterario e culturale entro il quale si muove

il librettista e gli eventuali modelli di riferimento; 2) nella formalizzazione degli intrecci e

delle tecniche di scrittura; 3) nell’analisi morfologica delle arie. Ai capitoli di stampo

analitico segue l’edizione dei testi rigorosamente guidata dai principii della filologia italiana

arricchiti dalle competenze necessarie alla riproduzione dello statuto esecutivo del testo, nel

rispetto delle sue peculiarità e nella distinzione delle sue caratteristiche tecniche.

(8)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Le fonti di Faustini

1b. Le fonti di Faustini

Nella storia del teatro d’opera solo di rado il librettista si pone lo scrupolo di palesare al

lettore-spettatore le fonti alla base delle proprie scelte poetiche. L’insieme dei materiali che i

librettisti possono sfruttare in vista delle loro rielaborazioni drammaturgiche è

estremamente eterogeneo: oltre che alle fonti antiche (note solitamente sia per via diretta

sia per scelta antologica o per citazione di seconda mano), gli autori si rivolgono anche alla

scienza antiquaria, all’erudizione sul mondo antico, al teatro contemporaneo, alla commedia

dell’arte, alla novella, al romanzo.

Agli esordi del teatro musicale veneziano i librettisti si limitano sostanzialmente a

rimodellare soggetti perlopiù mitologici o magico-romanzeschi, sceneggiando linearmente

le situazioni in cui si scandiscono quelle storie affollate di personaggi in ambientazioni

sceniche spesso mutanti. I primi testi di Benedetto Ferrari come L’Andromeda (1637), La

maga fulminata (1638), L’Armida (1639), Le nozze di Teti e Peleo di Orazio Persiani e La Delia

di Giulio Strozzi (entrambe del 1639), Il Bellerofonte di Vincenzo Nolfi (1642) e La Venere

gelosa di Niccolò Enea Bartolini (1643) confermano questa propensione.

Ben presto però i drammi musicali manifestano un’inclinazione per intrecci più

aggrovigliati e per procedimenti drammaturgici più articolati, analoghi a quelli di strutture

narrative più sofisticate e di più consolidata tradizione, prima fra tutte la commedia nelle

sue varie sottospecie: pastorale ridicolosa improvvisata, di cui l’opera in musica si avvia a

prendere il posto tanto nel favore degli spettatori quanto, materialmente, nelle sale in cui

avvenivano le recite. Varianti e filoni diversi dello stesso soggetto, anche mitologico,

entrano nei drammi musicali per trasformarsi in altrettanti spunti di variazione e

divagazione rispetto all’intreccio originario. Storie e racconti differenti sono intrecciati o

addirittura fusi insieme nello stesso titolo attraverso procedimenti combinatori

estremamente vari. Per i soggetti più antichi i librettisti potevano basarsi tanto su

compilazioni erudite e sillogi quanto sulla lettura diretta delle fonti. Di certo gli scrittori

veneziani del Seicento dovettero avere ben presenti i contributi della grande tradizione

antichistica dell’Umanesimo e del Rinascimento europei. La presenza della poesia latina, ad

esempio, resta decisiva anche nelle biblioteche dei letterati dediti al teatro musicale.

Le

Metamorfosi

di Ovidio e di Apuleio costituirono a lungo serbatoi assai fecondi e fonti

primarie di ispirazione per la costruzione delle trame operistiche basate su soggetti desunti

dal mito. Circolavano ampiamente ancora nel Seicento due delle più celebri volgarizzazioni

del testo ovidiano: Le Metamorfosi di Ovidio ridotte da Gio. Andrea dell’Anguillara in ottava rima,

di nuovo dal proprio auttore rivedute e corrette con gli Argomenti di m. Francesco Turchi (Venezia,

appresso Francesco de’ Franceschi sanese, prima edizione 1561) e le Trasformazioni di

Lodovico Dolce (Venezia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1557).

1

1 Altre traduzioni molto diffuse sono: NICCOLÒ DEGLI AGOSTINI, Tutti li libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti

dal litteral al volgar verso con le sue allegorie in prosa, Venezia, Nicolò Aristotele Zoppino, 1522; GABRIELE

SIMEONI, La vita et metamorphoseo d’Ovidio figurato ed abbreviato in forma d’epigrammi, Lione, Giovanni di Tornes, 1559. Sull’influenza delle Metamorfosi nell’arte barocca, e dunque anche nel teatro in generale e nell’opera barocca in particolare si veda G. ROSATI, Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio, Firenze, Sansoni, 1983; C. MARTINDALE, Ovid Renewed. Ovidian Influences on Literature and Art from the Middle Ages to the Twentieth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1998; E. PARATORE, L’influenza della letteratura latina da Ovidio ad Apuleio nell’età del manierismo e del barocco, in Manierismo, barocco, rococò: concetti e termini, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1962, poi in ID., Antico e nuovo, Roma-Caltanissetta, Sciascia, 1965; F. W. STERNFELD, The Birth of Opera: Ovid, Poliziano and the «lieto fine», «Analecta musicologica», XIX, 1978, pp. 48-50.A propositodei soggetti storici nell’opera veneziana cfr. G.MORELLI,Il filo di Poppea. Il soggetto antico-romano nell’Opera veneziana del Seicento, osservazioni, in Venezia e la Roma dei Papi, Milano, Electa, 1987, pp. 245-274.

(9)

Riesce tuttavia difficile credere che gli autori di drammi per musica ricorressero

regolarmente alle edizioni di testi classici quale fonte per i loro libretti: dati i tempi stretti

cui di norma la produzione librettistica soggiaceva e considerati gl’intenti innovativi dei

librettisti nel trattare i miti più celebri, è di gran lunga più plausibile che gli autori

ricorressero a miscellanee, compendi, volgarizzazioni, traduzioni. In questa prospettiva i

Mythologiae sive Explicationis fabularum libri decem

di Natale Conte – prima edizione Venezia

1568, ristampati almeno fino all’edizione Frambotto del 1637 – rappresentano quanto di

più meticoloso e accessibile un lettore di metà Seicento potesse reperire a proposito di

informazioni desunte da fonti antiche e medievali. Secondo la tradizione del genere, già

cinquecentesca, i testi racchiusi nel trattato di Conte vengono compulsati e sintetizzati

attraverso un’esposizione in latino. In più, ogni passo riportato nell’originale greco viene

puntualmente tradotto in latino.

2

Deve molto all’opera del Conte un altro compendio assai

diffuso nel Seicento, le Imagini dei dèi degli antichi di Vincenzo Cartari (numerose edizioni

veneziane dal 1556 al 1674), vero e proprio trattato mitografico in volgare che narra le

infinite vicende dei più diversi personaggi divini o eroici del mito e della storia antica

.

Un

altro prodotto tipicamente umanistico della mitografia rinascimentale italiana (da cui Cartari

dichiara di aver tratto molte delle informazioni riportate nel suo lavoro) sono i De Deis

Gentium libri sive syntagmata XVII del ferrarese Lilio Gregorio Giraldi (princeps Basilea, 1548)

il quale peraltro associa spesso al tesoro delle fonti libresche il soccorso delle immagini,

fornendo sovente ampie ed appropriate informazioni iconografiche.

3

Come la stragrande maggioranza degli autori di drammi musicali Giovanni Faustini non

dichiara apertamente le fonti di cui si serve; la sua opera tuttavia denota una serie di

aderenze letterarie probabilmente comprensibili e visibili soltanto ad una ristretta cerchia di

intenditori, ad un uditorio certamente esperto di poesia e letteratura, forse vicino

all’ambiente dell’Accademia degli Incogniti. Probabilmente non è un caso (o forse lo è) che

presso Francesco Valvasense, tipografo molto famigliare agli Incogniti, siano stati stampati

i libretti faustiniani del Titone (1645) e dell’Ersilla (1648). La Calisto e L’Eritrea (1652) furono

poi stampati e venduti presso Giacomo Batti, tipografo e libraio anch’esso legato alla

consorteria del Loredan e già processato nel 1648 dal Sant’Uffizio per la stampa di libri

proibiti.

4

2 Cenni biografici su Conte in R. RICCIARDI, voce Conte, Natale, in Dizionario biografico degli italiani, Roma,

Istituto della Enciclopedia italiana, vol. XXVIII, 1983, pp. 455-457. Si farà qui riferimento all’edizione padovana del 1637. La narrazione di Natale Conte è comunque soltanto un derivato di una tradizione di studi particolarmente florida in area veneta già da un secolo a quella parte: le varie edizioni delle Lectiones antiquae di Celio Rodigino, al secolo Ludovico Maria Ricchieri (Venezia, Aldo Manuzio, 1559) documentano un’indagine enciclopedica condotta sulla cultura antica. Si vedano, a questo proposito, M. MARANGONI, L’armonia del sapere: i “Lectionum antiquarum libri” di Celio Rodigino, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1997; V.MARCHETTI,Detestanda libido. Le sessualità anomale nei “Lectionum antiquarum libri” di Ludovico Ricchieri, in Eresie, magia, società nel Polesine tra ’500 e ’600, Atti del 13° Convegno di Studi Storici, Rovigo 21-22 novembre 1987, a cura di A. Olivieri, Rovigo, Minelliana, 1989, pp. 23-31.

3 Le Imagini del Cartari si leggono in una buona edizione moderna a cura di G. Auzzas, F. Martignago, M.

Pastore Stocchi, P. Rigo (Vicenza, Neri Pozza, 1996). Tra le fonti più feconde di questa come di tutte le altre compilazioni vi è di certo la Periegesis di Pausania, diffusa nel secolo XVI nella traduzione latina di Romolo Amaseo (Veteris Graeciae descriptio, Firenze 1551). Per un’introduzione generale ai mitografi rinascimentale si veda P.RIGO, Mitologia e Mitografia, in Dizionario critico della letteratura italiana, vol. 3, diretto da V. Branca, Torino, Einaudi, 19862, pp. 182-194.

4 Cfr. M. MIATO,L’accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan, Venezia (1630-1661), Firenze, Olschki,

1998, pp. 176 e 188. Sull’Accademia degli Incogniti e sul clima culturale libertino cui si possono ascrivere le esperienze intellettuali in essa maturate si vedano S. BERTELLI,Ribelli, libertini e ortodossi nella storiografia Barocca, Firenze, La Nuova Italia, 1973; G. SPINI,Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1983.Le Accademie, in Storia della cultura veneta, a cura di G. Arsaldi e M. Pastore Stocchi, Il Seicento, 4/1, Vicenza, Neri Pozza, 1983, pp. 131-162; A. N. MANCINI,La narrativa libertina degli

(10)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Le fonti di Faustini

Ad uno sguardo preliminare, dei dieci drammi scritti per Francesco Cavalli La virtù de’

strali d’Amore

(«opera tragicomica» musicale del 1642) e L’Egisto («favola dramatica

musicale» del 1643) paiono riallacciarsi più chiaramente alla tradizione pastorale; di

argomento propriamente mitologico sono Il Titone (1645) e La Calisto (1651); si mostrano

più vicini al poema epico-cavelleresco L’Ormindo (1644), La Doriclea (1645), L’Euripo (1649)

e La Rosinda (1651); dai toni più propriamente romanzeschi L’Oristeo (1651) e L’Eritrea

(1652).

Ben poco si può dedurre dalle dichiarazioni di Faustini ai suoi lettori: le sue sporadiche

indicazioni si riferiscono perlopiù a singoli episodi contenuti nei drammi. Dal libretto

dell’Egisto (1643) ricaviamo ad esempio il passo seguente:

L’episodio d’Amore che vola a caso nella selva de’ mirti dell’Orebo [II, IX-X], ove lo prendono quelle Eroide ch’uscirono per amore miseramente di vita, quali lo vogliono far perire di quella morte ch’egli fece loro morire, ti confesso d’averlo tolto d’Ausonio con quella licenza ch’usarono i poeti latini di togliere l’invenzioni da’ greci per vestire le loro favole ed i loro epici componimenti.5

Il riferimento va al poemetto Cupido cruciatus di Decimo Magno Ausonio, poeta della

tarda latinità attivo alla corte dell’imperatore Valentiniano come istitutore del di lui figlio

Graziano tra il 364 e il 383 d.C. Il libello latino è preceduto da una dichiarazione

dell’autore, il quale avverte il lettore di esser giunto alla scrittura dopo aver ammirato la

scena della flagellazione di Eros dipinta in un affresco a Treviri.

6

Il tema della flagellazione di Eros ripreso nell’Egisto è molto caro alla tradizione letteraria

antecedente a Faustini. Due accenni, oltre alla dichiarata derivazione da Ausonio, si leggono

nell’Adone di Giovan Battista Marino e nell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna.

Dove però Cupido è percosso dalla madre Venere adirata.

7

Tali agganci potrebbero

testimoniarci alcuni ammiccamenti di Faustini alla raffinata cultura alessandrineggiante

tanto in voga nei circoli letterari veneziani – Incogniti in testa – e alle loro numerose

frequentazioni nella letteratura erotico-erudita, soprattutto nel genere del romanzo

ellenistico: tra il 1620 e il 1670 circolavano infatti a Venezia numerose traduzioni di

romanzi greci e latini nonché miscellanee ancora cinquecentesche contenenti frammenti di

Achille Tazio, Nonno Panopolita, Apollonio Rodio, Eliodoro, oltre a Ovidio, Stazio,

Incogniti. Tipologie e forme, «Forum Italicum», 1982, 2, pp. 203-229;B.PORCELLI,Le novelle degli Incogniti: un esempio di «dispositio» barocca, in «Studi secenteschi», XXVI, 1985, pp. 129-139; ACCADEMIA DEGLI INCOGNITI,Cento novelle amorose dei signori Accademici Incogniti divise in tre parti, Venezia, Guerrigli, 1643-1651.

5 G. FAUSTINI,L’Egisto, Venezia, Pietro Miloco, 1643, Al lettore, p. 3 (qui a p. 113).

6 Il Cupido cruciatus si legge oggi nell’edizione di A. PASTORINO, (a cura di), Opere di Decimo Magno Ausonio,

Torino, UTET, 1971 e sgg., pp. 596-605.

7 L’episodio di ‘Amore battuto’ compare nel canto I dell’Adone: «Amor pur dianzi, il fanciullin crudele |

Giove di nova fiamma acceso avea. | Arse di sdegno e ’l cor d’amaro fiele | sparsa, gelò la sua gelosa dea, | e ’ncontro a lui con flebili querele | richiamossi del torto a Citerea; | onde il garzon sovra l’etade astuto | dalla materna man pianse battuto». Nell’Hypnerotomachia Poliphili,misterioso romanzo pubblicato a Venezia da Aldo Manuzio nel 1497 e attribuito a Francesco Colonna, si trova una scena di bassorilievo rappresentante Cupido bastonato dalla madre (tabella secunda dextra del tertio caeleste triunpho k8r): «Nella faccia anteriore vedevasi el potente Cupidine che, cum l’aurea sagitta sua verso li stelliferi caeli trahendo gutte d’oro amorosamente faceva piovere et una infinita turba di omni conditione vulnerata stavano di ciò tanto stupefatti. In opposito vidi Venere irabonda, soluta cum uno armigero da uno fatale rete el filiolo per le ale prenso havea vindicabonda et volevalo dispennare; havendo già pieno el pugno delle volante plumule et il fanciullo piangendo uno cum gli talari mandato dallo excelso Iove sopra di uno throno sedente, dalle forcie materne illaeso lo liberava et poscia cusì ad quello l’offeriva». Una buona edizione del testo si legge in F.COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, a cura di G. Pozzi e L. A. Ciapponi, Milano, Editrice Antenore, 1980.

(11)

Lucano, Claudiano

.8

Un riferimento al tema della Venere flagillifera si ha peraltro ancora in

Faustini nella Virtù de’ strali d’Amore (II,

II

,

685-691):

VENERE Prendilo, Marte, ei vola,

ei fugge, e nel fuggir è tanto ardito che ci mira sdegnoso e morde il dito. Oh quante volte, oh quante,

acciò cangiasse il perfido costume, provò ne l’aurea culla

i miei rigori, né giovò mai nulla.

Dell’episodio sfruttato nell’Egisto e della sua fonte originale riferisce invece Vincenzo

Cartari nelle sue Imagini dei dèi degli antichi, alla voce Amore tormentato: l’autore dapprima

sintetizza l’argomento del libello di Ausonio e poco oltre lo traduce in terza rima.

9

Quanto al tema della flagellazione in generale, si noterà poi che la scena della ‘tortura’ di

uno dei personaggi era già presente nella Virtù de’ strali d’Amore (1642), opera prima di

Faustini per Cavalli: il giovane Darete – siamo nell’ultima scena del prim’atto, versi 599-610

– è vittima di un incantesimo operato per vendetta dalla maga Ericlea, in forza del quale si

ritrova trasformato in una pianta entro una Selva orrida incantata (si veda la didascalia in I,

VI

):

‹ERICLEA› Eh troppo al suo demerito pia sono e mite vindice de le offese mie proprie; sù sù con queste fiaccole, amiche, fiero scempio facciassi di questo empio. CORO DI MAGHE Sì sì, s’abbrucia omai...

DARETE Ahi.

CORO DI MAGHE ...chi d’Ericlea sprezzò le preghiere e la fé.

DARETE Ohimè.

CORO DI MAGHE Degn’è d’eterni guai...

DARETE Ahi.

CORO DI MAGHE ...chi amato non amò, chi accese e non ardè.

DARETE Ohimè.

L’impianto dell’episodio richiama da vicino quello che nell’Egisto sarà della flagellazione

di Eros; ed è arricchito di precedenti illustri. Come non affiancare infatti la condizione di

Darete a quella, per la verità ben più tragica, del virgiliano Polidoro e del dantesco Pier delle

Vigne?

10

Qui però l’intento di Faustini è certamente parodistico: la triste condizione di

8 L’antologia Il romanzo antico greco e latino, Firenze, Sansoni, 1973 (a cura di Q. Cataudella) reca testimonianza

di alcune traduzioni ed edizioni a stampa cinque-secentesche di Senofonte Efesio, Giambico, Achille Tazio, Longo Sofista, Eliodoro. Ancora Davide Conrieri nel suo saggio La rielaborazione teatrale di romanzi nel Seicento, in Sul romanzo secentesco, Atti dell’incontro di studio di Lecce, Galatina, Congedo, 1987, pp. 29-100, parla espressamente di episodi di “derivazione di testi drammatici da romanzi ellenistici” tra Cinque e Seicento, citando Gli straccioni (1543) di Annibal Caro e I morti vivi (1576) di Sforza Oddi dalle Avventure di Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio e La Carichia (1627) di Ettore Pignatelli dalle Etiopiche di Eliodoro. Del Caro si può leggere anche in edizione moderna la traduzione degli Amori pastorali di Dafne e Cloe (a cura di L. Silori, Roma, Salerno Editrice, 1982).

9 V. CARTARI,Imagini, cit., pp. 455-462. Per la diffusione del testo di Ausonio in edizioni e traduzioni dal

secondo Quattrocento al tardo Cinquecento si rimanda alla Nota bibliografica nelle Opere di Decimo Magno Ausonio a cura di A. Pastorino, op. cit., p. 124.

10 L’episodio di Polidoro mutato in cespuglio di sterpi si legge nell’Eneide, III, 22-46; quello di Pier delle Vigne

(12)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Le fonti di Faustini

Darete è infatti destinata a risolversi felicemente (Virtù III,

XI

-

XII

)

per dar corso al canonico

lieto fine delle vicende intrecciate nell’opera. In più la scena assume i connotati tipici del

topos operistico dell’incantesimo: Ericlea, maga, si esprime come tante sue ‘colleghe’ in quei

versi sdruccioli che convenzionalmente identificano sulle scene operistiche sia i personaggi

infernali sia quelli dotati di poteri magici sia quelli appartenenti alla sfera dionisiaca (satiri e

satiretti del corteo di Dioniso e di Pan).

11

Ancora nel Titone (1645) il giovane ritroso è

incatenato ad una roccia e flagellato dai Venti per volontà di Zefiro che lo ritiene amante

della consorte Flora (III,

II

,

923-948):

TITONE Cielo, cielo spietato, a qual orrido fine ohimè m’hai destinato.

CORO PRIMO Vo’ che tra doglie acerbe a un tronco avvinto lasci costui la delicata pelle:

così fece di Marsia il dio di Cinto. CORO SECONDO Tropp’è mite il castigo: a poco a poco

di bitume e di zolfo un misto fatto in più giorni s’abbrusci a lento foco. CORO TERZO Il mio senso de’ vostri è più crudele: esposto ignudo a’ rai del sole ardenti lo divorin le vespi unto di mele. TITONE Ohimè, ch’odo infelice. CORO PRIMO Acchetatevi voi,

inesperti che siete, e al mio parer cedete. CORO SECONDO Da superbo tu parli.

Tanta arroganza, tanta tu racchiudi nel petto? Vo’ ch’il tormento mio l’uccida a tuo dispetto. CORO TERZO Amboduo v’ingannate, morrà questo mal nato com’Africo ha narrato. TITONE Soccorretemi, o stelle.

Dalla disamina complessiva del corpus dei libretti composti per Francesco Cavalli, emerge

uno scarso impiego di soggetti propriamente mitologici: soltanto Il Titone (1645) e La Calisto

(1651) si rifanno apertamente a questa tradizione, nell’accezione di una fabula chiaramente

desunta dal mito classico. Diverso è il caso dell’Egisto, con cui Faustini rivela sì la

conoscenza di una tradizione classica assai complessa, ma decide di non sfruttarla appieno.

Etimologicamente legato ai significati di ‘sveglia’/‘veglia’ ma anche legato al significato di

‘nutrito da una capra’, l’antico nome di Egisto richiama alla mente una storia di lotte

fratricide per la conquista del potere. L’Egisto del mito è il frutto di un atto incestuoso tra

Tieste e la figlia Pelopia.

12

Ora, in Faustini il personaggio ha caratteristiche completamente

Annibal Caro, completata ed edita tra il 1563 e il 1565 (ora in Versione dell’Eneide di Annibal Caro, a cura di A. Pompeati, Torino, UTET, 1954).

11 A proposito dell’impiego degli sdruccioli si veda W. OSTHOFF, Musica e versificazione: funzioni del verso poetico

nell’opera italiana, in L. BIANCONI, (a cura di), La drammaturgia musicale, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 77-162.

12 L’usurpatore Atreo durante un falso atto di pace aveva propinato al fratello Tieste la carne dei figli e aveva

in un secondo tempo reso edotto il fratello dell’orribile fatto, per farlo impazzire. A questo punto l’oracolo di Delfi istruì Tieste a compiere con la figlia sopravvissuta, un atto generativo incestuoso. Tieste aveva raggiunto la figlia Pelopia a Sicione e aveva progettato di compiere l’incesto durante le feste di Atena. Pelopia stava guidando la danza delle giovani; cadendo macchia il suo abito col sangue della vittima sacrificale. Al fiume, mentre sta lavando le sue vesti, Pelopia viene sedotta dal padre completamente vestito e col capo avvolto in

(13)

opposte. Non ha infatti origini così oscure, anzi si proclama della genìa d’Apollo

13

e

dimostra presto di non aderire affatto al destino che il nome gli vorrebbe assegnato. Non

solo l’Egisto faustiniano non è il personaggio tragico, vendicatore e assassino della saga

micenea, ma anzi risulta una sorta di antieroe, patetico, buono, addirittura fragile di nervi.

14

Analogo destino tocca, onomasticamente, anche agli altri personaggi della vicenda. Il nome

di Climene non possiede la forza storiografica di Egisto: esso compare, nella variante

maschile Climeno, soltanto nelle pagine di Diodoro Siculo, che fa riferimento al per nulla

noto fratello di Meleagro e Deianira. A Clori e Lidio tocca un destino simile: la prima porta

il nome della Niobide madre di Nestore di Pilo; l’altro è poco più di un toponimo. Il nome

di Ipparco è forse il più ‘classico’ di tutti; pur tuttavia non è portatore di alcun contenuto

mitografico, derivando da una felice costruzione etimologica che accenna al tono regale e al

ruolo del personaggio (etimologicamente ‘guidatore di cavallo’ ossia per estensione ‘capo’,

‘condottiero’).

Il rapimento di Titone da parte di Aurora è nelle fonti antiche, ed è poi strettamente

connesso al dono dell’immortalità – ma non dell’eterna giovinezza – concesso da Giove al

fanciullo. Faustini però farà propria soltanto la prima parte del mito, quella dell’unione

amorosa tra Aurora e Titone.

15

Il mito greco originario si legge nell’inno omerico ad

Afrodite.

16

La figura di ‘Titone antico’ si è imposta successivamente, a partire da

Properzio,

17

e poi beninteso nel nostro medioevo con Dante. Non si hanno però notizie di

traduzioni, né latine né volgari, o edizioni degli inni omerici in epoca rinascimentale. Ne

avranno parlato certamente i soliti manuali di mitologia cinque e secenteschi. Certo è che

proprio nei versi di Omero è ravvisabile lo spunto dell’argomento del dramma:

Così, poi, l’Aurora dai fiori d’oro rapì Titone, della vostra stirpe [di Afrodite], simile agl’immortali;

[...] E in verità, fin quando egli era nella molto amabile giovinezza, godendo l’amore dell’Aurora dai fiori d’oro, che sorge di buon mattino, dimorava presso le correnti dell’Oceano, ai confini della terra.18

La tradizione antica è anche in questo caso filtrata da Natale Conte, che nella Mythologia così

riporta la fabula di Titone:

Tithonus, quem ob corporis elegantiam amatus fuisse ab Aurora inquiunt,

Laomedontis fuit filius, fraterque Priami, ut fama est [...] Inquiunt Tithonum in coelum

Titone, di cui dicono che per l’avvenenza sia stato amato da Aurora, fu figlio di

Laomedonte e fratello di Priamo, come è noto [...] Dicono che Titone sia stato elevato in

una fascia.Tale mito di antropofagia a sfondo politico condito di una vicenda famigliare a sfondo incestuoso, non viene considerato adatto ad essere trasmesso da Eschilo, che infatti non vi fa alcun cenno nell’Orestea. È però raccontata con ampio gusto romanzesco e teatrale nelle Fabulae attribuite a Igino.

13 «Io nacqui in Delo e pronepote io sono | di quel Nume che ruota il quarto giro, | de le stelle rettore, |

abisso di splendore», G.FAUSTINI,Egisto, I, III, 177-180.

14 Si veda per questa impostazione di analisi il programma di sala di G. MORELLI, Scompiglio e lamento (simmetrie

dell’incostanza e incostanza delle simmetrie): “L’Egisto” di Faustini e Cavalli, Venezia, Teatro La Fenice, maggio 1982, pp. 595 sgg.

15 Prima di Faustini, Titone compare sulle scene musicali soltanto nel Rapimento di Cefalo di Gabriello

Chiabrera, dove canta quattro strofe di endecasillabi e dove, però, non è direttamente l’oggetto del desiderio di Aurora, ora invaghita di Cefalo. Tra i testi dedicati ad Aurora citiamo L’Aurora ingannata di Ridolfo Campeggi (intermedi per il Filarmindo, Bologna 1608 e Venezia 1625-27-28), dove la dea è sì autrice di un rapimento ma ai danni di Cefalo, e L’Aurora di Dionisio Rondinelli (favola pastorale del 1628).

16 OMERO,Inno ad Afrodite, vv. 218-276, in Inni omerici, a cura di F. Càssola, Milano, Fondazione Lorenzo

Valla/Arnoldo Mondadori, 19915, pp. 271-275. 17 PROPERZIO,2,18.

(14)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Le fonti di Faustini fuisse portatum cum ab Aurora amaretur:

illique a Parcis immortalitatem fuisse impetratam: sed cum oblita fuisset Aurora petere etiam ne senesceret, Tithonus in tantam venisse senectum dicitur, ut infantulorum more in cunis agitatus quiesceret [...] Hanc fabulam ita attigit Horatius lib. 2 Carminum.19

cielo essendo amato da Aurora: e che per lui sia stata impetrata l’immortalità dalle Parche: ma essendosi Aurora dimenticata di chiedere anche che non invecchiasse, si dice che Titone sia invecchiato a tal punto da piagnucolare agitato come gli infanti in culla [...] Così narra Orazio nel secondo libro dei Carmina.

Delle vicende di Calisto – ninfa del seguito di Diana sedotta da Giove, scacciata dalla

dea proprio a causa della seduzione divina, trasformata in orsa per punizione e infine

elevata al rango di costellazione celeste – ci parla Ovidio nelle Metamorfosi (II, 409-530). Il

testo ovidiano circolava tra Cinque e Seicento nelle traduzioni di Ludovico Dolce (1557),

Giovanni Andrea dell’Anguillara (1572), Niccolò degli Agostini, Gregorio Giraldi.

20

Del

mito danno notizia anche il già citato Cartari, seppur molto fugacemente e in modo

indiretto raccontando di Giove,

21

e la Mythologia di Natale Conte.

Sic etiam Callisto Lycaonis filiam in ursam conversa est, quia cum venaretur cum Diana a Iove fuit compressa, ne

discognosceretur, de qua natus est Arcas. Alii putant illum quem ferebat in utero, Mercurio datum esse servandum, ac matrem ad sempiternam memoriam in Iunonis contemptum in ursam maiorem conversam nitere inter sidera, quam obtinuit tantum Iuno non posse in unda descendere a Neptuno fratre. Id cum scribat Pausa in Arcadicis, miratus sum cur dicat unicam tantum filiam fuisse Lycaoni inter tot mares, quam etiam inquit in gratiam Iunonis fuisset sagittis transfixam: cum Dia etiam Dryopis mater filia eius fuerit, ut scripsit idem Hecataeus.22

Così dunque Calisto, figlia di Licaone, fu trasformata in orsa, affinché non fosse scoperta, poiché mentre era a caccia con Diana era stata sedotta da Giove, e da lei nacque Arcade. Alcuni ritengono che il bambino che portava in grembo sia stato affidato a Mercurio affinché lo salvasse; e che la madre , trasformata nell’orsa maggiore in eterna memoria del disprezzo di Giunone, risplendesse tra le costellazioni, e che Giunone abbia ottenuto dal fratello Nettuno ch’essa non potesse scendere tra le onde. Poiché lo scrive Pausania nelle Arcadiche, mi stupisce che dica esser stata Calisto tra tanti maschi l’unica figlia di Licaone, e dice anche che sia stata trafitta dalle saette per volontà di Giunone: essendo Dia, sua madre, la figlia di Driope, come scrisse lo stesso Ecateo.

Il primo a desumere dalla fabula di Calisto un testo drammatico è Luigi Groto: sua una

favola pastorale intitolata per l’appunto La Calisto, scritta intorno al 1561 e ristampata fino

al 1612 a Venezia.

23

Nella Calisto del Groto l’azione vede triplicato il tema dell’Amphitruo

19 Si veda il capitolo intitolato Tithonus raptus ab Aurora ac immortalitatem adeptus nella Mythologia di Conte (op.

cit., p. 303). Interessante il riferimento ai Carmina di Orazio.

20 Cfr. nota 1 per i riferimenti bibliografici.

21 Così si legge nelle Imagini: «Delle molte favole ancora che si leggono di Giove argomento di farlo in molti

modi, percioché raccontano che ei si cangiava sovente in diverse forme per godere de’ suoi amori, come quando si mutò in toro bianco per portarsene via Europa, in aquila per rapir Ganimede e per avere anco Asteria, in pioggia d’oro per passare a Danae, in cigno per starsi con Leda, in fuoco per ingannare Egina, in Anfitrione per giacersi con Alcmena, in Diana per godere di Calisto, et in altre figure assai tanto bestiali che umane». V. CARTARI,Imagini, op. cit., p. 152.

22 Callisto Lycaonis filia in ursa conversa et cur in N. CONTE,Mythologia, op. cit., p. 514

23 Le edizioni, tutte veneziane, della Calisto di Luigi Groto sono: Zoppini 1583, 1586; Zoppini e nipoti 1599;

Turrino 1612. Si ha notizia di due rappresentazioni: nel 1561 e nel 1582 (24 febbraio). L’esemplare qui preso a riferimento riporta l’ultima versione del testo voluta dall’autore, ossia La Calisto nova favola pastorale di Luigi Groto Cieco di Hadria, nuovamente stampata, in Vinegia, Appresso Fabio e Agostin Zoppini fratelli, 1586. Qualche ragguaglio sulla Calisto e su altre favole pastorali del Groto in M.PIERI,Ameni siti e “cannose paludi”: le favole pastorali, in Luigi Groto e il suo tempo (1541-1585), Atti del convegno di Adria 27-29 aprile 1984, Rovigo,

(15)

plautino, quello dell’inganno di Zeus en travesti, che rappresenta l’archetipo del genere

tragicomico insieme al Ciclope euripideo ed è citato esplicitamente dallo stesso Groto tra i

suoi modelli.

24

In un’Arcadia che ancora si chiama Parrasia Giove e Mercurio scendono

sulla terra per sedurre due castissime ninfe del séguito di Diana, Calisto e Selvaggia,

ricorrendo al solo espediente plausibile di trasformarsi rispettivamente nella stessa Diana e

nella sua devota ancella Isse. Al loro piano lungamente concertato si mescola Apollo,

esiliato sulla terra e privato dei suoi attributi divini a causa dei disastri combinati da Fetonte;

il dio ricopre il ruolo comico (che in Faustini sarà affidato al Satirino) di corteggiatore

respinto dalla vera Isse, sconcertata dagli incontri col suo doppio Mercurio. Anch’ella, dopo

una girandola di equivoci e colpi di scena di matrice più boccacesca che pastorale

(compreso un tête-à-tête amoroso fra Apollo e Mercurio creduto Isse) soccombe alla

prepotenza del dio, ripristinato infine da Giove nei suoi attributi soprannaturali. A questo

intreccio ‘divino’ si affianca il plot pastorale: due fedeli innamorati delle ninfe, dopo essere

stati variamente respinti ed aver meditato i soliti propositi suicidi, sono raggirati dagli dèi e

convinti da Apollo di aver mutato la volontà delle amate nei loro confronti. Felici e

riconoscenti essi consentiranno un matrimonio riparatore che sistema le cose; anche Isse

trova marito nel capraio Melio, sarcastico commentatore fuori campo dell’intera vicenda.

Nello stesso anno dell’opera di Faustini-Cavalli (1651) va in scena a Ferrara la Calisto

ingannata

di Almerico Passarelli; questa volta si tratta di un dramma musicale recitato nel

teatro degli Obizzi. La vicenda, meno intricata di quanto non lo fosse per il Groto ma pur

sempre più tortuosa della versione di Faustini, arricchisce il corteggiamento di Giove nei

confronti di Calisto di un doppio tentativo di inganno da parte del dio, che dapprima si

tramuta in una fonte, poi in Diana. Su piani secondari agiscono altre due coppie di

innamorati: Elisa e Florindo pastore, Eurilla e Satiro (quasi a sostituire le altre due coppie

del Groto, Mercurio-Selvaggia e Apollo-Isse). Il libretto ferrarese è temporalmente molto

vicino a quello veneziano: il primo andò in scena il 15 gennaio del 1651, il secondo a

Venezia il 28 novembre dello stesso anno. Riportiamo di seguito i frontespizi e l’elenco dei

personaggi delle tre Calisto (nell’ordine cronologico di pubblicazione:

Groto-Passarelli-Faustini).

LA | CALISTO | NOVA FAVOLA | PASTORALE | DI

LUIGI GROTO | Cieco di Hadria | Nuovamente stampata. |

In Vinegia, Appresso Fabio, & Ago- | stin Zoppini Fratelli, 1586

CALISTO | INGANNATA. | DRAMA | Del Signor Dottore |

ALMERICO PASSARELLI | Recitato in Musica in Ferrara, | NEL TEATRO | De l’Illusts. &

Eccel. Sig. Marchese | PIO ENEA OBIZZI. | Dedicato. | A

l’Illust. e Rev. Monsignor | PIO DI SAVOIA | CHIERICO DI CAMARA &c.| In Ferrara, per Gioseppe Gironi. | Con licenza

de’ Superiori. 1651.

LA | CALISTO | DRAMA PER MUSICA | DI | GIOVANNI

FAUSTINI. | FAVOLA DECIMA. | IN VENETIA, MDCLI | Per il Giuliani. | Si vende da Giacomo Batti Libraro |

In Frezzaria. |Con Licenza de’ Superiori, | e Privilegio.

PERSONE CHE PARLANO

GIOVE in forma di Diana. MERCURIO in forma d’Isse Ninfa. ISSE Ninfa. SILVIO pastore. INTERLOCUTORI ONESTÀ. Prologo. AMORE. GIOVE. INTERLOCUTORI LA NATURA

L’ETERNITÀ Prologo. IL DESTINO

GIOVE.

Minelliana, 1987, pp. 317-336; e in ID., Il “laboratorio” provinciale di Luigi Groto, «Rivista italiana di drammaturgia», XIV, 1979, pp. 6 sgg.

24 «Qui parleran gli dèi, come già in Plauto; | e come ne le selve già parlarono». L. GROTO,Calisto,cit.,

(16)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Le fonti di Faustini GEMULO pastore.

CALISTO. ROSALBA.

GIACINTA e MIRTILLA Ninfe. FEBO in forma di pastore. MELIO Capraio.

EUGENIO sacerdote. MONTANO ministro. DIANA in varii intermedii fra gl’atti.

La scena è in Parrasia, che si chiamò poi Arcadia, fu recitata la favola in Hadria nel 1561, ma poi è stata riformata dall’Autore e recitata pur in Hadria del 1582 il 24 di Febraio la festa di San Matthia sotto il Reggimento del Claris. Sig. Antonio Marcello.

CALISTO. DIANA. GIUNONE. MERCURIO. INGANNO. GELOSIA.

ELISA damigella di Calisto. EURILLA vecchia serva di Calisto. FLORINDO abitatore di selve d’Arcadia.

SATIRO. Coro di Ninfe. APOLLO eMUSE.

MERCURIO.

CALISTO figliuola di Licaone, Re di Pelasgia, vergine di Diana. ENDIMIONE pastore innamorato di Diana, cioè della Luna.

DIANA innamorata d’Endimione. LINFEA seguace di Diana. UN SATIRETTO.

PANE dio de’ pastori. SILVANO dio delle selve. GIUNONE.

LE FURIE.

Coro di menti celesti.

Coro di Ninfe arciere di Diana. Si rappresenta la favola ne’ contorni di Pelasgia, regione del Peloponneso che fu poscia detta Arcadia da Arcade figliolo di Giove e di Calisto.

Il soggetto della Calisto ebbe una discreta fortuna anche nell’arte figurativa: Palma il

Vecchio (ca. 1480-1528)

25

tra il 1525 e il 1528 dipinse una tela intitolata Diana e Calisto: in

essa è raffigurata la dea col suo corteggio al bagno, prima della cacciata della ninfa

ingravidata. Nell’omonima tela di Sisto Rosa Badalocchi (Parma 1585 – Bologna 1647)

l’episodio effigiato è invece quello in cui Diana scopre incinta Calisto. Il racconto ovidiano

aveva goduto di una nuova fortuna pittorica dopo che Annibale Carracci – o più

probabilmente i suoi allievi – aveva scelto di effigiarlo su una delle pareti della Galleria

Farnese (1604-6). Dosso Dossi, assistito dal fratello Battista, dipinge una Storia di Callisto tra

il 1529 e il 1530: il dipinto è ora conservato alla Galleria Borghese in Roma.

26

Di una pittura

su soggetto analogo ci è testimone anche Giovan Battista Marino, che nella Galeria (1620)

cita una Calisto di Guido Reni:

Calisto di Guido Reni Non languir, Verginella, scoprendo al fonte sacro,

spogliata a forza de la propria veste, l’inganno de l’adultero celeste; ché ’l vago simulacro

ti mostra, e nel lavacro e nel bosco e nel Cielo,

25 Si vedano A. BALLARIN, Palma il Vecchio, I maestri del colore, 64, Milano, Fabbri, 1965, p. 252; G.

MARIACHER, Palma il Vecchio, Milano, Bramante Editrice, 1968, p. 77; T. PIGNATTI, The Golden Century of Venetian Painting, Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art, 1979, pp. 60-61; P. RYLANDS, Palma il Vecchio, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.

26 A. MEZZETTI, Il Dosso e Battista ferraresi, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1965; L. PUPPI, Dosso Dossi,

Milano, Fabbri, 1965; F. GIBBONS, Dosso and Battista Dossi: Court Painters at Ferrara, Princeton, Princeton University Press, 1968, pp. 89-92, 132, 247; M. CALVESI, Recensione a Gibbons 1968, in “Storia dell’Arte”, 1-2, gennaio-giugno 1969, pp. 168-174; A. COLIVA, Galleria Borghese, Roma, Luce per l’Arte, 1994, pp. 116-119; A. BALLARIN, Dosso Dossi: la pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 1994-95, p. 349; P. HUMFREY, M. LUCCO, Dosso Dossi. Pittore di corte a Ferrara nel Rinascimento, Ferrara, Ferrara Arte, 1998, pp. 76-77, 203-212; P. DELLA PERGOLA, La Galleria Borghese, i dipinti, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995.

(17)

con forma umana e con ferino velo, e con luce immortal sempre più bella, e Ninfa ed Orsa e Stella.27

Mercurio coadiutore di Giove è naturalmente in diverse avventure della tradizione

classica, dove i due fanno coppia fissa. Nella storia di Calisto Mercurio entra solo al termine

– e solo in versioni trasmesse da fonti rare, ad esempio scolii, che all’epoca erano accessibili

ai non grecisti solo attraverso i repertorii mitografici – come colui che salva il figlio Arcade

(capostipite della popolazione dell’Arcadia) da Calisto morente o morta e lo dà a Maia per

allevarlo. Non v’è menzione di Mercurio né in Apollodoro né in Igino. Il dio agisce invece

solo a partire da Luigi Groto come assistente di Giove nell’ordire l’inganno ai danni della

ninfa. Ciò lascerebbe supporre che proprio della pastorale del Cieco d’Adria o del dramma

in musica di Passarelli sia quantomeno giunta notizia a Faustini, il quale avrebbe poi fatto

propri alcuni spunti dei suoi predecessori per comporre un libretto decisamente più snello.

La fonte ovidiana risulterebbe dunque ‘mediata’ da due suoi impieghi successivi, entrambi

di area estense.

28

L’immagine di Mercurio messaggero divino, orditore di inganni, protettore

dei ladri e dei mercanti è presente anche nel trattato di Vincenzo Cartari, che cita Plauto a

conferma di ciò:

Avevano i favolosi dèi de gli antichi così partiti gli offici fra loro, che a duo solamente fu dato carico di portare le divine imbasciate. L’uno era Mercurio nuncio di Giove e l’altra Iride che serviva a Giunone [...] e per le cose più piacevoli [Giove] mandava Mercurio, che ‘parola’ significa, il quale parimente non solo Giove ma di altri dèi ancora fu nuncio e messaggero secondo le favole [...] Ma lasciando queste sposizioni per ora, veggiamo come la vana credenza de gli antichi lo fece, avendolo per lo dio non solamente de i nunci ma che al guadagno ancora fosse sopra, secondo che egli di se medesimo dice appresso di Plauto:

Hanno a me gli altri di concessa e data la cura de i messaggi e del guadagno.29

E proprio con Plauto per la prima volta Mercurio appare sulle scene come orditore di

inganni al fianco di Giove. Luigi Groto lascia pensare che tale immagine del messaggero

degli dèi sia giunta ai lettori dei secoli XVI e XVII attraverso l’Amphitruo, noto nel

Cinque-Seicento anche attraverso la traduzione del pesarese Pandolfo Collenuccio.

30

Non compare in nessuna delle due ipotetiche fonti di Giovanni Faustini (Groto e

Passarelli) la vicenda, ancora mitologica, dell’amore tra Diana ed il pastore Endimione.

Posta su un piano secondario dell’azione, essa si rifà solo genericamente al mito, del quale

27 G.B.MARINO,La Galeria, a cura di M. Pieri, Padova, Liviana, 1979, p. 24.

28 Almerico Passarelli, si è visto, scrive a Ferrara e per un teatro di Ferrara; Luigi Groto scrive da Adria per le

scene ferraresi: nella lettera prefatoria alla princeps il poeta dedica La Calisto al duca Alfonso d’Este.

29 V. CARTARI,Imagini, cit., p. 277. Il riferimento plautino è all’Amphitruo, 11-12.

30 P. COLLENUCCIO,Anfitrione, commedia di Plauto tradotta dal latino al volgare (in terzine), in Venezia, per

Niccolò d’Aristotile detto Zoppino, 1530, riportato in L. ALLACCI, Drammaturgia accresciuta e continuata fino all’anno MDCCLV, Venezia, Pasquali,1755,p. 87 con riferimento all’Amphitriona, Comedia [...] tradotta dal latino al volgare, per Pandolfo Colonnutio, et con ogni diligentia corretta, et nuovamente stampata, In Vinegia, Nicolò d’Aristotile detto Zoppino, 1530. Un’ottima traduzione del testo si legge ora in T. M. PLAUTO,Anfitrione, a cura di R. Oniga, introd. di M. Bettini, Venezia, Marsilio, 1992. La fortuna del teatro plautino nel Cinque-Seicento è testimoniata da numerose traduzioni, tutte pubblicate a Venezia: Asinaria (Pentio 1528 e Nicolò d’Aristotile Zoppino 1530), Il Penolo (Bidoni e Pasini 1526), Mustellaria (Nicolò d’Aristotile Zoppino, 1530), Menechmi (Pentio 1528), Cassina (Zoppino 1530). Sul teatro plautino si vedano almeno G.PETRONE,Teatro antico e inganno: finzioni plautine, Palermo, Palumbo, 1983; E. FRAENKEL,Elementi plautini in Plauto, trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1960; C. QUESTA, R. RAFFELLI, Maschere, prologhi, naufragi nella commedia plautina, Bari, Adriatica, 1984; M. BETTINI, Verso un’antropologia dell’intreccio e altri studi plautini, Urbino, Quattroventi, 1991.

(18)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Le fonti di Faustini

esistono peraltro versioni differenti.

31

Endimione, figlio o nipote di Zeus, fu condannato al

sonno eterno e all’eterna giovinezza per aver tentato di sedurre Era; mentre dormiva sul

monte Latmo, nella Caria, la sua bellezza sedusse Diana che da allora ritornò ogni notte

presso di lui. Secondo un’altra versione del mito fu Selene (facies notturna di Diana) ad

addormentare Endimione, per poterlo visitare e baciare ogni notte senza ch’egli lo sapesse.

Un’altra tradizione immagina che Endimione stesso avesse chiesto a Giove l’eterno sonno

per rimanere eternamente giovane e non cessar di piacere a Selene/Diana. Faustini in realtà

sembra non accettare in pieno nessuna delle varianti sopra citate: piuttosto lavora per

sintesi, rielaborando il mito secondo le esigenze del dramma in cui vuole inserirlo. Ecco

allora che l’amore tra la dea e il pastore interagisce, seppur marginalmente, con la vicenda

principale, incrementando il gioco degli equivoci (in II,

X

Endimione è sconvolto

dall’indifferenza di Giove nelle vesti di Diana).

Forse la conoscenza del mito da parte di

Faustini può essere ricondotta ancora a Cartari, che cita per sommi capi la figura di

Endimione nel capitolo delle sue Imagini dedicato a Diana:

Questo dice perché le favole finsero che la Luna [Diana] s’innamorasse di Endimione pastore e l’addormentasse sopra certo monte solo per basciarlo a suo piacere. Ma, come riferisce Pausania, altro vi fu che basci fra loro, perché dicono alcuni che ei ne ebbe cinquanta figliuole [...] Et tutte sono favole, ma che hanno però qualche sentimento di verità, perché Plinio scrive che Endimione fu il primo che intendesse la natura della Luna e che perciò fu finto che fossero innamorati insieme. Et Alessandro Afrodiseo dice ne’ suoi Problemi che Endimione fu uomo molto studioso delle cose del cielo e che cercò con diligenza grande d’intendere il corso della Luna e le cagioni de i diversi aspetti che ella ci mostra; e perché dormiva il dì e vegghiava la notte fu detto che la Luna pigliava piacere di lui.32

O forse bisogna rivolgersi ancora una volta alla Galeria: in due occasioni il Marino cita

dipinti che raffigurano il pastore Endimione nelle sue due attività principali, ovvero il

sonno impostogli da Giove e l’osservazione della luna:

Endimione che dorme di Lodovico Civoli Sorge la notte ombrosa,

e verso il chiuso suo con pigra sferza il bifolco l’armento invola ai lupi: sol tutto solo in fra solinghe rupi in Lathmo (o Cinthia) Endimion si posa. Sol de la greggia insieme e del Pastore vigila in guardia Amore:

d’un fanciullo un fanciullo, un dorme, un scherza. Tu, che da’ sommi innargentati seggi

il tuo Vago vagheggi, scendi, che fai? deh scendi,

31 Così Natale Conte: «Endymion autem fuit Aetheij filius et Calices. Hic, ut scribit Pausanias in Prioribus

Elicis, a Luna fuit amatus, ex qua filias quinquaginta suscepisse fabulantur, cum tamen alii tre tantum filios inquiant, Paeonem, Epeum ac Aetolu, filiam Eurydicem ex Asterodia, vel Chromia, vel Hyperippe illum suscepisse [...] Fama est hunc in Latmo Cariae monte in antro quodam vesari solitum, ubi civitas erat Heraclea, ut scripsit Nicander in secundo Europae. Dicunt Lunam in illud antrum venire solitam, et cum Endymione congredi, quod ita attigit Ovidius in Epist. Leandri [...] Cicero tamen Libro primo tuscolanorum disputationum perpetuo dormientem Endymionem in Latmo Cariae Monte a Luna adamatum dicit sola oscula Lunae accepisse.» Segue una lunga disputa sul sonno di Endimione, che sarebbe in contrasto con altre fonti che vogliono il giovane pastore attento nelle speculazioni notturne. N. CONTE, Mythologia, op. cit., pp. 174-175.

32 V. CARTARI, Imagini, cit., p. 109. Per Cartari la Luna è personificazione notturna di Diana: su questa

identificazione si veda anche il capitolo Dianam et Lunam eamdem esse putat Cicero, in N. CONTE, Mythologia, op. cit., pp. 136 e ss. Il riferimento ad Alessandro di Afrodisia (Probl. 135) rimanda a Poliziano e Giraldi (De deis gent. 12, p. 305, 50-54).

(19)

e la cura ne prendi:

ché ’ntanto là nel Ciel per l’ombra oscura prenderà del tuo carro Amor la cura.33

Endimione che risguarda la Luna di Carlo Viniziano Sotto il freddo seren su l’erba assiso

presso il fidato Can, lungo l’armento stavasi Endimion col guardo intento il suo notturno Sol mirando fiso. E con selvaggio e rustico sorriso l’ombra additando del macchiato argento, notava sol fra cento raggi e cento le stampe de’ suoi baci entro il bel viso. E la scorgea per mezo il folto orrore rotar il carro lampeggiante e vago rossa di scorno e pallida d’amore.

Quando CARLO il ritrasse, e del suo Vago correndo Cinthia al dilettoso errore,

rifiutò ’l vero, ed abbracciò l’imago.34

In ogni caso la presenza di Endimione nel dramma potrebbe svolgere la funzione di una

tacita condanna della severità di Diana: votata alla castità, la dea predicava bene ma

razzolava male. O forse occorre semplicemente arrendersi al fatto di un Faustini “creativo”

o “contaminatore

”,

che lavora continuamente per sintesi di elementi eterogenei purché utili

alla costruzione del dramma (e in effetti, a ben guardare, dato che l’intreccio di base del

dramma per musica prevede di solito una doppia coppia di amanti, Endimione-Diana

potrebbero svolgere il ruolo della seconda). Il madrigale e il sonetto mariniani rimandano

assai verosimilmente alla prima scena del second’atto di Faustini: sulla cima del monte

Liceo Endimione sta scrutando la luna alta nel cielo ed immagina di scorgervi il viso

dell’amata Diana. Subito dopo la contemplazione dell’astro notturno il pastore si affida al

sonno sperando di ravvisare, almeno nel sogno, la dea per cui arde d’amore (II,

I

,

vv.

700-724).

Lucidissima face, di Tessaglia le note

non sturbino i tuoi giri e la tua pace. Là gl’atlantici monti

traboccando le rote

Febo del carro ardente omai tramonti. Il mio lume nascente

illuminando il cielo

più bello a me si mostri e risplendente. Astro mio vago e caro,

a’ tuoi raggi di gelo

nel petto amante a nutrir fiamme imparo. Qual sopor repentino

a dolce oblio m’invita su quest’erta romita? Sonno, cortese sonno,

s’a le lusinghe tue pronto mi rendo, deh fa’ tu che dormendo

amorosi fantasmi

mi felicitin l’anima svegliata. Baciatrice baciata,

33 G.B.MARINO,La Galeria, cit., p. 16 34 G.B.MARINO,La Galeria, cit., p. 16.

(20)

I drammi musicali di Giovanni Faustini per Francesco Cavalli Le fonti di Faustini mandami in sen la diva mia crudele

e stringendo i tuoi lacci in dolci inganni

fa’ che morto in tal guisa io viva gl’anni. ‹Si addormenta.›

Alla princeps della Galeria mariniana (Venezia, Ciotti, 1620) seguirono numerose altre

edizioni, anche postume:

35

l’opera costituì certamente, fino al primo Ottocento, un modello

tematico, stilistico, linguistico e metrico per la poesia epigrammatica ecfrastica in lingua

volgare; ma per il suo carattere enciclopedico e per la gran quantità dei soggetti artistici,

mitologici, religiosi e biografici che contiene ben si presta ad essere considerata come fonte

accessoria per un librettista come Faustini.

Rimanendo dentro l’ipotesi che il librettista avesse sottomano la Galeria, sembra

possibile ravvisare almeno un altro nesso Giovanni Faustini–Giambattista Marino nel

libretto del Titone (1645). Lasciata da parte la funzione puramente decorativa o encomiastica

di altri prologhi faustiniani, quello del Titone introduce il lettore-spettatore all’argomento del

dramma: sin dal principio siamo informati dell’amore di Aurora per il ritroso Titone, per il

cui felice coronamento la dea si rivolge alla divina coppia Pasitea e Morfeo (il Sonno per

Faustini). Quest’ultimo, come la consorte, non comparirà più nel corso dell’opera; ma farà

in tempo, nel prologo, ad accordare ad Aurora il suo supporto. Ora, nessuna fonte antica

lega il ratto di Titone ad un qualsiasi intervento di Pasitea o del consorte Morfeo; segno che

per Faustini l’episodio ha un significato puramente ornamentale, accessorio. Considerato

dunque autonomamente, senza nesso alcuno con la vicenda del Titone, il ‘quadretto’ iniziale

di Pasitea e Morfeo si lascia ipoteticamente agganciare a due componimenti della Galeria:

Il Sonno in grembo a Pasithea d’Hippolito Andreasi Or che piegate l’ali

il dolce Oblio de’ mali in braccio accoglie de le tre Grazie l’una

che tutte in sé le grazie insieme aduna, miseri amanti, o voi, che non potete ora mai di quiete

trovar fra tante doglie, perché, s’avete di posar desire nol venite a rapire?36

Il Sonno in grembo a Pasithea d’Hippolito Andreasi Sonno, che nel bel seno

di Pasithea ti giaci,

perché ritieni a la favella il freno, timido amante, e taci?

Non può forse chi pote al fratel de la Morte dar la vita, a la lingua spedita

articolar le note?

Ah se non parli, io non mi meraviglio: del Silenzio sei figlio.37

35 Giambattista Marino muore il 25 marzo 1625, ma la sua Galeria è ristampata nel 1626, 1630 e 1635 ancora

presso il Ciotti, nel 1647 presso il Tomasini, nel 1653 presso il Baba, nel 1664, 1667 e 1675 presso il Brigonci, nel 1674 presso il Pezzana (cfr. F. GIAMBONINI,Bibliografia delle opere a stampa di Giambattista Marino, Firenze, Olschki, 2000, pp. 60-69). Maggiori ragguagli in C. CARUSO, Retrospettiva mariniana, «Rassegna europea di letteratura italiana», 8, 1997, pp. 9-34 e ID.,Saggio di commento alla “Galeria” di G. B. Marino: 1 (esordio) e 624 (epilogo), «Aprosiana», X, 2002, pp. 71-89.

36 G.B.MARINO,La Galeria, op. cit., p. 22. 37 G.B.MARINO,La Galeria, op. cit., p. 21.

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