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I percorsi letterari di Leonardo Sciascia e Roberto Saviano: dalla mafia alla camorra.

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale in Filologia

e letteratura italiana

Tesi di Laurea

I percorsi letterari di Leonardo Sciascia

e Roberto Saviano: dalla mafia alla

camorra.

Relatore

Prof.ssa Ricciarda Ricorda

Correlatore

Dott. Alessandro Cinquegrani

Correlatore

Prof. Aldo Maria Costantini

Laureanda

Carlotta Basso

Matricola 820802

Anno Accademico

2013/2014

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Indice

CAPITOLO I. Introduzione...4

CAPITOLO II. Leonardo Sciascia e la scrittura verità...7

2.1 La strada della verità...7

2.1.1 La mafia come condizione sociale...7

2.1.2 La reazione di Sciascia: verità, giustizia, libertà nelle Parrocchie di Regalpetra... 12

2.2 La strada della letteratura...20

2.2.1 Narrativa, saggistica: la funzione della scrittura...20

2.2.2 Il romanzo poliziesco di Sciascia...25

2.2.3 Scrivere di mafia: Il giorno della civetta...37

2.2.3.1 La struttura narrativa...41

2.2.4 L’espansione mafiosa dalla Sicilia all’Italia: A ciascuno il suo...83

2.2.4.1 La struttura narrativa...86

2.2.5 La degenerazione del potere: Il contesto...108

2.2.5.1 La struttura narrativa...112

2.2.6 La fine di ogni speranza: Una storia semplice...140

2.2.6.1 La struttura narrativa...142

CAPITOLO III. Roberto Saviano e la letteratura della realtà...153

3.1 Da Sciascia a Saviano: un’introduzione...153

3.2 Letteratura e realtà: Gomorra...158

3.2.1 La struttura del romanzo...158

3.2.2 Prima di Gomorra: fonti e modelli...179

3.2..3 La ricezione di Gomorra: i giudizi della critica e il ruolo dell’intellettuale oggi...194

BIBLIOGRAFIA...201

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4 CAPITOLO I Introduzione

Roberto Saviano e Leonardo Sciascia sono due scrittori che hanno saputo coniugare la dimensione etico-civile dei loro scritti con le peculiarità proprie del testo letterario. Può risultare, dunque, interessante seguirne i percorsi letterari e dimostrare come Gomorra, il cui impatto è paragonabile a quello di Cristo si è fermato ad Eboli nel 1945 o a quello dell’edizione Einaudi di Se questo è un uomo nel 1958,1

risenta dell’influenza del modello sciasciano a livello della struttura narrativa.

Il libro di Saviano, uscito nel 2006, ha, infatti, attirato l’attenzione della critica verso una stagione letteraria definita come ‹‹ritorno alla realtà››, che si è sviluppata a partire dagli anni Novanta, ponendo in primo piano il rapporto tra realtà e finzione e rivitalizzando la forma del romanzo classico attraverso una sua ibridazione con altre forme di prosa quali l’articolo giornalistico, il diario o il saggio. Tale stagione letteraria, tuttavia, ha un precedente importante nella figura di Sciascia, uno dei primi scrittori a sperimentare l’intreccio tra narrativa e saggistica come strumento atto a svelare le connessioni tra le azioni dell’uomo e il mondo. La prima parte del lavoro è, pertanto, incentrata sull’individuazione delle principali peculiarità dei testi sciasciani che si riflettono in Gomorra, dalla rivisitazione del genere poliziesco all’intreccio tra elemento narrativo ed elemento documentario, dall’idea di letteratura come luogo deputato a svelare la verità all’uso della finzione quale strumento necessario a raccontare la realtà e all’inserimento delle citazioni, attraverso l’analisi di quattro romanzi che si ricollegano al libro di Saviano anche dal punto di vista tematico: Il giorno della civetta, A ciascuno

il suo, Il contesto e Una storia semplice.

La seconda parte è, invece, interamente dedicata allo studio della struttura compositiva del romanzo-inchiesta sulla camorra, allo scopo di individuare analogie e differenze formali e di contenuto con il testo sciasciano. Con questo ultimo il libro di Roberto Saviano condivide la necessità di svelare la verità nascosta nella realtà attraverso il rinnovamento della forma romanzo quale strumento in grado di promuovere un diverso tipo di conoscenza del reale, basato non sulla mimesi ma

1

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piuttosto sull’interpretazione, sulla mediazione della finzione. L’opera di Sciascia è, in questo senso, illuminante: oltre a rappresentare, come osserva Raffaello Palumbo Mosca, la ‹‹la migliore via d’accesso ad una certa tradizione italiana, in primo luogo etica, di indagine letteraria della realtà››,2

essa mostra come la ricostruzione del vero significhi anzitutto comprendere ‹‹l’ordine delle somiglianze››, le corrispondenze, immaginare, come sottolinea Marco Belpoliti, per osservare e incontrare la realtà.3 Se l’evento reale, inteso come un fatto di cronaca o come avvenimento storico, è il punto di partenza del percorso dello scrittore di Racalmuto e di questa realtà la letteratura è trasposizione e demistificazione, Gomorra si muove nella stessa direzione: prendendo in esame i meccanismi che soggiacciono al sistema camorristico, Saviano offre una ricostruzione letteraria, creata attraverso l’uso abbondante di effetti di realtà quali il modello autobiografico e l’inserimento di stralci documentari, che ha il merito di aver fatto osservare da vicino all’opinione pubblica gli effetti devastanti sul piano sociale della criminalità organizzata e che si contrappone alla tradizionale finzione romanzesca, ormai ‹‹percepita in tutta la sua marginalità politica e sociale››.4

Conseguenza di questo modo di intendere la letteratura è la riproposta della figura dello scrittore-intellettuale partecipe delle dinamiche socio-culturali. A quest’ultima è dedicata la parte conclusiva della presente analisi, in cui si cerca di mettere in rilievo come sia necessario, se si vuole dare una valutazione critica del ruolo di intellettuale esercitato da Roberto Saviano, separare nettamente l’immagine di ‹‹icona›› e di showman, che è venuta a crearsi intorno all’autore napoletano, da quella di scrittore esponente di spicco di una tendenza che è contraddistinta dalla dimensione etica del racconto, cioè dal bisogno di aiutare ‹‹la formazione di un pensiero sulla morale››5

mediante la finzione. In altri termini, Saviano può essere considerato erede di Sciascia e Pasolini solo nel momento in cui viene posto in primo piano il suo tentativo di cercare la verità attraverso il romanzo, una verità che non è fattuale ma che svela le connessioni tra i fatti e l’universale e che mostra:

2

Raffaello PALUMBO MOSCA, Tra fatto e verità: narrazioni ibride e impegno, Tesi di dottorato, Chicago, University of Chicago, 2011, pp. 23-24.

3

Ivi, cit., p.26. Cfr. anche Marco BELPOLITI, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, pp. 3-27: p. 18.

4

Raffaello PALUMBO MOSCA, Tra fatto e verità: narrazioni ibride e impegno, cit., p. 7.

5

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6

‹‹ “Quel che è sembrato vero e importante alla coscienza” [...] alla nostra. Alla nostra di oggi, alla nostra di fronte alla “cosa” e alle cose di oggi››.6

6

Leonardo SCIASCIA, Cruciverba, in Id., Opere. 1971-1983, vol. II, a cura di Claude Ambroise, Milano, Bompiani, 1989.

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CAPITOLO II

Leonardo Sciascia e la scrittura verità

2.1 La strada della verità

2.1.1 La mafia come condizione sociale

Il 18 novembre 1990 il ‹‹Corriere della Sera››, nelle pagine del supplemento

Cultura, ha pubblicato alcuni estratti di annotazioni trovate sui registri di classe tenuti

da Sciascia quando insegnava alla scuola elementare di Racalmuto negli anni Cinquanta.1 All’inizio del documento si legge: ‹‹Non è senza timore che inizio la mia opera d’insegnante›› e, qualche pagina più avanti si registra da parte dello scrittore la constatazione che i suoi allievi sono ‹‹ragazzi che vengono fuori da un ambiente inconcepibile, tagliato fuori da ogni sviluppo; dove la conoscenza è soltanto superstizione o stramberia, lo studio ritenuto pressoché inutile››. Ancora, nell’ottobre del 1949, primo anno d’insegnamento, il giovane Sciascia riporta questa informazione:

‹‹Dedico non poco tempo e molte conversazioni a quello che è la vita di ciascun ragazzo: li ascolto raccontare quello che vogliono della loro vita, del lavoro dei genitori, di quello che i genitori possiedono o non possiedono››.2

È evidente che questi estratti si ricollegano a un’esperienza personale che precede e annuncia Le Parrocchie di Regalpetra. Tuttavia, tali documenti rappresentano anche l’occasione per riflettere sul valore assunto dalla professione di Sciascia, poiché è stato dimostrato da più parti che la mafia si sviluppa e prolifera laddove viene a mancare sia un sistema di sviluppo economico rispettoso della dignità e dei diritti dei lavoratori, sia un’educazione civile che possa garantire ai più giovani un miglioramento delle condizioni di vita e, di conseguenza, la possibilità di ascesa ai vari livelli della società. L’etimologia tardo latina del verbo insignare porta il significato di ‹‹incidere, imprimere dei segni (nella mente)››: pertanto, il giovane maestro è una persona che, alla

1

Tutte le citazioni degli estratti sono tratte da Claude AMBROISE, Cultura e segno, in * Sciascia,

scrittore europeo, Atti del Convegno internazionale di Ascona, 29 marzo – 2 aprile 1993, a cura di M.

Picone, P. De Marchi, T. Crivelli, Monte Verità, Birkhäuser Verlag Basel, 1994, pp. 9 – 30.

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lettera, deve iniziare i ragazzi ai segni. Si tratta di un compito tanto importante quanto angoscioso per la natura stessa delle menti su cui dovrà lavorare. Esiste, infatti, da parte degli allievi una sorta di resistenza al lavoro del maestro, un contrasto tra cultura e non - cultura: egli, infatti, è consapevole di impersonare la cultura mentre i suoi alunni, a causa di un condizione economica estremamente difficile, rappresentano la non – cultura e quindi sono incapaci di comprendere il senso dello studi. Affrontare il dato ambientale ascoltando quanto è detto dai ragazzi di se stessi e delle loro famiglie significa, dunque, essere attenti ai discorsi di una comunità, a come sono raccontati certi comportamenti. Pertanto le osservazioni del maestro di Racalmuto assumono il valore di testimonianza di una situazione realmente sperimentata e vissuta in prima persona e il modo in cui Sciascia ne rende conto esprime il dramma sociale di un paese situato nella provincia di Agrigento3. Osserva Claude Ambroise:

‹‹L’intelligenza della realtà consiste nel mettere a fuoco un conflitto che non è di ordine didattico ma ha radici socio–economiche, tra la cultura dell’insegnante, il suo bagaglio di segni imparati sui libri e l’anti – cultura degli allievi, i quali, però, a chi li ascolta, rivelano la loro sub cultura. Fondamentalmente, sono le condizioni materiali in cui vivono i ragazzi a ostacolare l’insegnamento, una loro partecipazione al mondo dei segni: alla cultura››.4

Ne consegue che il maestro insiste su come s’intrattiene con gli alunni non solo per conoscere la mentalità e le condizioni di vita ma per affrontare quanto ritiene essere ‹‹la prima difficoltà››, ossia ‹‹quella d’impartire una educazione civile››: insegnare che cos’è uno stato, con le sue leggi, quali sono i diritti e i doveri fondamentali.5

A fronte di questa mancanza di senso civico dovuta, come abbiamo accennato, alle precarie condizioni economiche, e in particolare ai soprusi subiti dagli zolfatari e dai solfatari da parte delle istituzioni statali, si accompagna una quotidiana gestione violenta della vita sociale. Ne deriva, di conseguenza, la difficoltà di instaurare un rapporto con lo Stato. La mafia, allora, non nasce per caso, ma trae la sua origine dal mancato esercizio delle garanzie costituzionali e le sostituisce con il suo ruolo di mediatore con i cittadini, tanto che Sciascia, in un dibattito con gli studenti di Palermo del 1973 dice: ‹‹La mafia non è come alcuni pretendono il vuoto dello Stato, non è che 3 Ivi, pp. 15 – 16. 4 Ivi, p. 17. 5 Ibidem.

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nel vuoto che fa lo Stato si inserisce il sistema mafioso. La mafia è lo Stato››.6 Aggiunge, poi:

‹‹Io conosco la mafia, l’ho respirata da quando sono nato. Ed era la mafia di un certo tipo, la mafia con il giudice di pace, così, coi vecchi patriarchi mafiosi che avevano una certa loro nobiltà, almeno come personaggi: letterariamente insomma. Mentre oggi ci troviamo di fronte a una mafia che non ha nemmeno questa patina di nobiltà letteraria››.7

Se la mafia ha cominciato a estendersi dopo il 1860,8 Sciascia incontra per la prima volta e in modo cosciente la questione mafiosa durante gli anni del fascismo, quando i legami tra il regime e l’organizzazione criminale si sono piuttosto complicati. Ai tempi del fascismo il problema della Sicilia è stato letto come una ‹‹questione di ordine pubblico›› e pertanto il regime si è limitato a inviare sul territorio siciliano qualche funzionario con poteri speciali con l’incarico di risolvere il problema mafioso con la forza. Per tale ruolo è stato scelto il prefetto di Palermo Cesare Mori che nel 1925 è stato dotato di mezzi speciali per combattere ‹‹i problemi di ordine pubblico in Sicilia››, come i fatti di mafia sono stati sempre definiti dal governo di Roma dall’Unità in poi. L’azione di Mori colpì gli esponenti più in vista dell’organizzazione criminale ma non riuscì minimamente a intaccare le sfere più alte del sistema mafioso9 che, invece, ripresero forza e influenza con lo sbarco degli Americani sull’isola del 1943. Questi ultimi, infatti, si preoccuparono di insediare nei vari paesi i mafiosi più noti, vanificando il lavoro del ‹‹prefetto di ferro›› e anzi, rafforzando il rapporto tra la mafia siciliana e quella americana. A tal proposito, nel saggio La mafia del 1957, Sciascia scrive:

‹‹Non finì, purtroppo, l’attività della mafia. Ma quando gli Americani sbarcarono, e subito si preoccuparono di insediare nei Comuni i mafiosi più noti, fu chiaro che la mafia avrebbe avuto una specie di estate di San Martino, tenace e prolungata quanto si vuole, ma comunque segnata da un destino effimero››.10

6

Lezione sulla mafia, resoconto di un dibattito fra Leonardo Sciascia e gli studenti del Magistero di

Palermo, in ‹‹L’Ora›› del 3 maggio 1973.

7

Ibidem.

8

Nicola FANO, Come leggere ‹‹Il giorno della civetta›› di Leonardo Sciascia, Milano, Mursia, 1993, pp. 15 – 16.

9

Ivi, p. 21.

10

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10 e qualche riga più sotto aggiunge:

‹‹Sarebbe interessante fare un elenco di tutti i capimafia che sotto l’AMGOT subito trovarono cariche e prebende; e dire come, sotto così esperte mani, subito si organizzò il mercato nero. C’è da chiedersi se ufficiali di Stato maggiore non portassero, insieme ai piani dello sbarco, precise liste di ‹‹persone di fiducia›› che – guarda caso! – erano poi il fiore dell’onorata società: nel qual caso avremmo la prova migliore della potenza della mafia americana e del rapporto da questa costantemente mantenuto con la mafia siciliana››.11

Come fa notare Valter Vecellio, Sciascia non era un mafiologo ma di mafia capiva, vedeva, sapeva al punto di dare esatta rappresentazione della situazione, che si era evoluta nel frattempo, condensandola in una breve dichiarazione12 che certifica quanto detto in precedenza:

‹‹Il 1946: fame, separatismo, mafia in rifioritura. I contadini andavano in galera, se le apposite squadre di polizia trovavano nelle loro case anche un tumolo di frumento in più del quantitativo che avevano il diritto di trattenere. Venivano processati per direttissima, condannati a due o tre anni. Ma i mafiosi commerciavano frumento e altro, a tonnellate: e da ciò traevano nuova forza. Molti fascisti, e tra i più fanatici, erano diventati antifascisti, sedevano nei comitati di liberazione. Tutto poteva sembrare peggio di prima, e tanti lo credevano. Ma non era così. C’era tanta speranza e specialmente in noi giovani. Ma invecchiano anche le speranze››.13

Dopo la liberazione, il sistema mafioso avviò una profonda trasformazione interna che le consentì di passare dal controllo del latifondo, e quindi del reddito rurale, al controllo dell’attività edilizia e del reddito cittadino, nato in seguito allo sviluppo economico degli anni Sessanta, con la complicità del potere politico che di tale organizzazione si è servita per mantenere il potere in Sicilia. Al riguardo, nel 1982 Sciascia dice:

‹‹Io in un paese di Mafia son nato: a Racalmuto, su 16.000 abitanti l’allora prefetto Mori ne ha arrestati più di 200. Ho respirato il fenomeno, credevo di conoscerlo... e forse in quel microcosmo del mio paese lo conoscevo, così come conoscevo la Mafia de “Il giorno della civetta”. Nel dopoguerra la Mafia l’ho vista tornare, quasi che i comandi americani avessero le liste dei mafiosi, e li avessero voluti a gestire il potere.

11

Ivi, p. 199 -200.

12

Valter VECELLIO, ‹‹Il giorno della civetta›› tra cronaca e metafora,in ‹‹Todomodo››, II, 2012, pp. 37 -47: p. 42.

13

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11

Ho fatto attenzione al fenomeno del latifondo, al suo trapasso dal reddito rurale a quello cittadino, quello dell’attività edilizia. L’ho colto nei suoi legami col potere, che era potere democristiano››.14

Alla luce di tali considerazioni la scelta di Sciascia di schierarsi contro il sistema mafioso attingendo alla scrittura e al potere della letteratura deve essere letta anche come una reazione inevitabile al peggioramento continuo dei rapporti umani, della vita letteraria e dell’ambiente sociale italiano. Infatti, agli inizi degli anni Settanta Sciascia si trova a operare in una realtà in cui ‹‹la mafia è lo Stato›› e dove tale ‹‹Stato-mafia›› è giunto a piena maturazione a causa della gravissima crisi economica ed energetica. L’organizzazione criminale, infatti, ha approfittato della crisi industriale, i cui effetti sono ricaduti sulle classi meno agiate, e dell’instabilità politica derivata anche dalle contestazioni degli anni precedenti (1968–1969) per allargare il proprio potere di controllo dalle sole attività agricole ed edilizie dell’isola al complesso dell’economia italiana. Inoltre lo sviluppo del mercato della droga sostituì rapidamente quello legato alle opere pubbliche. Superata, quindi, anche la stretta necessità di una protezione politica (anche se la connivenza tra le istituzioni e l’associazione criminale si è fatta sempre più drammatica e inquietante), la mafia iniziò la sua ascesa all’interno dell’economia italiana, sia in quella ufficiale, sia in quella illegale e ben sviluppata: il sistema mafioso è divenuto, dunque, una ‹‹multinazionale del crimine, in un certo senso omologabile al terrorismo e senza più regole di convivenza o connivenza con il potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere siciliani››.15

Da qui la crisi di quella ragione che produce libertà e giustizia in cui lo scrittore aveva sempre creduto fin dalla stesura delle Parrocchie di Regalpetra nel 1956.

14

Sciascia: ora per la mafia è arrivato il giorno dell’avvoltoio, a cura di Giovanni Cerruti, in ‹‹La Stampa - Tuttolibri››, 11 settembre 1982, p. 1.

15

‹‹L’Espresso››, 20 febbraio 1983, ora in Leonardo SCIASCIA, A futura memoria (se la memoria ha un

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2.1.2 La reazione di Sciascia: verità, giustizia, libertà nelle Parrocchie di Regalpetra

Le annotazioni tratte dai registri di classe del maestro Leonardo Sciascia che abbiamo citato nel paragrafo precedente inducono a qualche riflessione sulle Parrocchie

di Regalpetra, in cui l’autore dimostra come la sconfitta della ragione si annidi

soprattutto nella condizione di vita dei lavoratori sfruttati e nell’ingiustizia e nel sopruso della classe borghese e come tale violenza si leghi inesorabilmente al fenomeno mafioso. Nella Prefazione del 1956 Sciascia scrive:

‹‹Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse – un colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso. [...] Mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi16 per dare qualche buon colpo di penna: una “petizione alle due Camere” per i salinari di Regalpetra per i braccianti per i vecchi senza pensione per i bambini che vanno a servizio. Certo un po’ di fede nelle cose scritte ce l’ho anch’io come la povera gente di Regalpetra: e questa è la sola giustificazione che avanzo per queste pagine››.17

Come si può intuire dalla lettura del brano, il giovane maestro di Racalmuto è nato e vive in un paese della provincia di Agrigento in cui il massacrante sfruttamento dei lavoratori non scuote la coscienza della borghesia, classe sociale cui egli stesso appartiene. La sua voce si colloca certamente al di fuori di quest’atteggiamento e questa mentalità ma, allo stesso tempo continua a far parte della comunità. Si richiama all’esempio settecentesco di Paul Louis Courier e il suo dissenso è, ‹‹prima ancora che un attacco polemico, una difesa dall’ambiente nauseante››.18

Giuseppe Traina fa notare che questa voce polemica è in grado di articolare almeno quattro tipologie di discorso: il

16

Paul Louis Courier (Parigi, 1772–Véretz, 1825), ufficiale di carriera, non risparmiò osservazioni pungenti e giudizi amari sulle campagne napoleoniche in Italia (Lettere dalla Francia e dall’Italia). Giunto a Roma attese agli studi classici. Fu, in seguito, a Milano, Piacenza, Strasburgo, Firenze e, infine, in Calabria. Dal 1812, anno in cui lasciò l’Arma, visse in Touraine e gli episodi della vita locale gli diedero gli spunti per la stesura di opuscoli dal tono volterriani in cui espresse un atteggiamento polemico e liberale difendendo cause minori nell’età della Restaurazione di cui fu avversario e pamphlettista. Cfr. Luigi CATTANEI, Leonardo Sciascia. Introduzione e guida allo studio dell’opera sciasciana, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 6.

17

Leonardo SCIASCIA, Prefazione a Le Parrocchie di Regalpetra, in Id., Opere 1956 -1971, vol. I, a cura di Claude Ambroise, Milano, Bompiani, 1987, pp. 9 – 10.

18

Giuseppe TRAINA, Una problematica modernità. Verità pubblica e scrittura a nascondere in

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discorso storiografico, quello orale – aneddotico, quello sociologico e quello della prosa d’arte di matrice rondesca. Questa mescolanza perfettamente bilanciata consente al libro di superare l’esperienza degli scrittori neorealisti: come nel precedente Cristo si è

fermato a Eboli (1945) di Carlo Levi, Le parrocchie di Regalpetra intrecciano

all’aspetto documentario un forte interesse antropologico che si lega sia all’occhio indagatore di Sciascia sia alle letture dei primi libri di Ernesto De Martino.19

In secondo luogo il razionalismo cui fa cenno Sciascia è il frutto di un lungo tirocinio letterario che aveva portato all’allontanamento da quel ‹‹pirandellismo di natura››, che contraddistingueva patologicamente l’ambiente siciliano amplificandone l’irrazionalità. Tale tirocinio aveva anche dato origine a quella ‹‹specie di “nevrosi della ragione”›› declinata nei termini di libertà e giustizia. Per Sciascia, dunque, si tratta di lasciare spazio a una ragione intesa come valore paradigmatico, ossia alla ragione degli oppressi e dei più deboli, che costituivano la maggioranza della popolazione siciliana dell’epoca. Per liberare la Sicilia, dunque, la parola dello scrittore vuole tramutarsi in spada e rompere il silenzio.

I motivi che spiegano tale atteggiamento possono e devono essere ricercati nelle

Cronache scolastiche, vero punto d’inizio, logico e cronologico, delle Parrocchie. Lo

scrittore, infatti, confrontando la sua vicenda autobiografica con quella della collettività paesana risale alla radice del suo risentimento morale e civile che nasce da un profondo disagio esistenziale connesso, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, con la sua professione di maestro:

‹‹Nel turno pomeridiano, in questo mese di maggio, il sonno è una greve insidia. A casa non dormirei di certo, starei a leggere qualche libro, a scrivere un articolo o lettere agli amici. A scuola è diverso. Legato al remo della scuola; battere, battere come in un sogno in cui è l’incubo di una disperata immobilità, della impossibile fuga. Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro. Non nego però che in altri luoghi e in diverse condizioni un po’ di

19‹‹Gli echi dei concetti che quest’ultimo aveva espresso nel 1955, [...] si trovano alla fine della

Prefazione delle Parrocchie là dove Sciascia osserva che rispetto alla tragica condizione che ha rappresentato, nel paese “questo c’è di nuovo; l’orgoglio e l’orgoglio maschera la miseria, le ragazze figlie di braccianti e di salinari passeggiano la domenica vestite da non sfigurare accanto alle figlie dei galantuomini, e i galantuomini commentano – guardate come vestono, il pane di bocca si levano per vestire così-; e io penso – bene, questo è forse un principio, comunque si cominci l’importante è cominciare”››. Giuseppe TRAINA, Leonardo Sciascia, Milano, Mondadori, 1999, p. 168.

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14

soddisfazione potrei cavarla da questo mestiere d’insegnare. Qui, in un remoto paese della Sicilia, entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie››.20

La dura esperienza di insegnante elementare stride non poco con quella dell’uomo che nel tempo libero si dedica alla lettura, alla stesura di articoli e lettere agli amici. La prima condizione, nota Massimo Onofri, influenza la seconda, la problematizza e la carica di sensi di colpa fino a entrare in contrapposizione con essa:21

‹‹Leggo loro una poesia, cerco in me le parole più chiare, ma basta che veramente li guardi, che veramente li veda come sono, nitidamente lontani come in fondo a un binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di miseria e rancore, lontani con i loro arruffati pensieri, i piccoli desideri di irraggiungibili cose, e mi si rompe dentro l’eco luminosa della poesia. [...] E sento indicibile disagio e pena a stare di fronte a loro col mio decente vestito, la mia carta stampata, le mie armoniose giornate››.22

Questo episodio di vita scolastica, oltre a confermare definitivamente l’origine del risentimento civile e morale dello scrittore di Racalmuto, pone all’attenzione del lettore un’altra importante questione: la necessità di ripensare il rapporto tra la letteratura e la realtà ‹‹tra una letteratura come modo di razionalizzazione della realtà, ed una realtà che sembra in letteratura irrappresentabile, insomma, tra una letteratura che vuole redimere lo strazio della vita ed una vita che pare irredimibile››23

‹‹L’eco della poesia›› che s’infrange di fronte alla miseria degli alunni, allora, non è altro che una metafora per indicare il bisogno di rivedere compiti e funzioni del testo letterario. Con la stesura delle

Parrocchie Sciascia ha ampliato l’idea di letteratura come ordine razionale, inizialmente

opposta al ‹‹pirandellismo di natura››, a un ambito di realtà sempre meno soggettivo fino a comprendere i diseredati alunni di Regalpetra.24 Si tratta della prima tappa di quel percorso civile e letterario verso la verità intrapreso da Sciascia. Altre tappe, e lo vedremo nel corso del nostro discorso, si susseguiranno nella carriera dello scrittore e gli esiti saranno piuttosto differenti, soprattutto per quanto riguarda la concezione di letteratura, che da specchio della realtà e della verità dei fatti si farà portatrice della verità assoluta. Per il momento occorre ricordare che la scelta morale di collocarsi dalla

20

Leonardo SCIASCIA, Le Parrocchie di Regalpetra, cit., p. 93.

21

Massimo ONOFRI, Storia di Sciascia, Roma–Bari, Laterza, 2004, p. 40.

22

Leonardo SCIASCIA, Le Parrocchie di Regalpetra, cit., p. 103.

23

Massimo ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 41.

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15

parte degli sconfitti s’inserisce all’interno di una chiara idea riguardante il ruolo dello scrittore e le responsabilità sociali che esso comporta.25 A questo proposito Sciascia scrive:

‹‹Io penso – se fossi dentro la cieca miseria, se i miei figli dovessero andare a servizio [...]; se dovessi vederli gracili e tristi, già pieni di rancore; e i miei figli stanno invece a leggere il giornalino, le favole, hanno i giocattoli meccanici, fanno il bagno, mangiano quando vogliono, hanno il latte il burro la marmellata [...] Sento in me come un nodo di paura. Tutto mi sembra affidato ad un fragile gioco; qualcuno ha scoperto una carta, ed era per mio padre, per me, la buona; la carta che ci voleva. Tutto affidato alla carta che si scopre. Per secoli uomini e donne del mio sangue hanno faticato e sofferto, hanno visto il loro destino specchiarsi nei figli. Uomini del mio sangue furono carusi nelle zolfare, picconieri, braccianti nelle campagne. Mai per loro la carta buona, sempre il punto basso [...] Ad un momento ecco il punto buono, ecco il capomastro, l’impiegato; e io che non lavoro con le braccia e leggo il mondo attraverso i libri. . Ma è tutto troppo fragile, gente del mio sangue può tornare bella miseria [...]. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo, sempre, per tutti, ci sarà sempre questo nodo di paura››26

.

Lo scrittore, dunque, lega la sua vicenda personale a quella dei più poveri di Regalpetra e del mondo. L’emancipazione momentanea dei suoi familiari, conquistata dopo anni di fatica, non sarà mai consolidata fintanto che l’ingiustizia sarà presente nel mondo. Si tratta di una convinzione, osserva Massimo Onofri, mutuata da Gramsci e Lukàcs ma non accompagnata dalla fiducia nel progresso dell’umanità.27

In virtù di tali riflessioni, la sua condizione d’intellettuale non rappresenta più un privilegio di classe, poiché ha accettato di farsi portavoce dei deboli: ne consegue che potrà usare la penna come una spada contro quel Potere che opprime la vita dei cittadini siciliani.28 Dunque, all’interno del sistema sociale siciliano dominato dal sopruso, lo scrittore è in grado di contrapporre un altro potere, quello di imporre, con un colpo di penna, ‹‹un nuovo ordine in vista della ragione, la giustizia e la libertà, riguadagnando alla letteratura coloro che sono stati travolti dalla fiumana del progresso: e ciò in linea con la grande tradizione isolana inaugurata da Verga››.29

Se nelle Cronache scolastiche la vicenda autobiografica di Sciascia si misura in quella di una comunità determinata storicamente e geograficamente dalla miseria dei

25

Ibidem.

26

Leonardo SCIASCIA, Le Parrocchie di Regalpetra, cit., pp. 112 – 113.

27

Massimo ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 42.

28

Cfr. Claude AMBROISE, Invito alla lettura di Sciascia, Milano, Mursia, 1988, pp. 34 -39.

29

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16

lavoratori delle zolfare e delle saline, i capitoli La storia di Regalpetra, Breve cronaca

del regime, Sindaci e commissari e Diario elettorale analizzano le cause storiche,

recenti e lontane, che hanno generato tale oppressiva realtà. In tali capitoli sono sottoposte ad analisi le vicende di Regalpetra in un intervallo che va dal 6 maggio 1622, data della morte del conte Girolamo Del Carretto fino ai giorni della campagna elettorale per la terza legislatura dell’Assemblea Regionale Siciliana.

Scendendo nel dettaglio, la storia del paese inizia sotto il dominio della potente dinastia Del Carretto, una famiglia che trae profitto dalla violenza e dal sopruso e prosegue con la famiglia Sant’Elia sopravvenuta ai Del Carretto. Nonostante questo cambio di dinastia, la classe borghese si dimostra feroce e avida tanto quanto i vecchi signori. Nel passaggio dall’epoca del Regno delle Due Sicilie a quella del Regno d’Italia, dalla dittatura del regime fascista alla Repubblica le cose sono peggiorate ancora di più. Inoltre, i fatti e le vicende che ebbero un valore fondamentale per la storia d’Italia non sembrano sconvolgere la vita di Regalpetra.30

Esemplificativo è l’episodio in cui la spedizione dei Mille assume un tono tutt’altro che celebrativo agli occhi di un anonimo popolano:

‹‹Passarono i garibaldini da Regalpetra, misero un uomo contro il muro di una chiesa e lo fucilarono, un povero ladro di campagna fucilato contro il muro della chiesa di San Francesco; se ne ricordava il nonno di un mio amico, aveva otto anni quando i garibaldini passarono, i cavalli li avevano lasciati nella piazza del castello, il tempo di fucilar quell’uomo e via, l’ufficiale era biondo come un tedesco. Carusi e picconieri continuarono a lavorare nell’inferno della zolfara per quattordici ore al giorno, le terre non rendevano e i braccianti lavoravano tutto l’anno solo per pagare il debito del grano che i padroni avaramente anticipavano, la leva toglieva braccia per il lavoro››.31

Come si evince dal brano citato, il paese di Regalpetra ha registrato il passaggio dei garibaldini senza, però, alcun mutamento delle condizioni delle zolfare e delle saline. Ciò che cambia realmente è il nome delle famiglie che si alternano al Potere, perpetrando una serie infinita di crimini e ingiustizie, finchè, negli anni degli scontri parlamentari postunitari,

30

Ivi, pp. 44 – 45.

31

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17

‹‹per merito dei Lascuda [...], come in altri paesi della Sicilia, la mafia entrò nel gioco elettorale; la mafia reclutava gli elettori, il giorno che precedeva la votazione li raccoglieva tutti, li chiudeva nei magazzini dei Lascuda, arrosto e vino a volontà, per tutta la notte dentro i magazzini ubriachi marci, l’indomani come un branco venivano accompagnati alle urne, la scheda già pronta››.32

Ancora, qualche riga più avanti, lo scrittore aggiunge:

‹‹Tanto tenacemente la mafia si accagliò intorno ai Lascuda che nemmeno nel declinare della loro fortuna politica riuscirono a scrollarsela, la baronale famiglia continuò a fornire false testimonianze ed alibi ai delinquenti più noti, una tradizione alla quale nessuno dei Lascuda mai venne meno››.33

La mafia, dunque, ha svolto un ruolo decisivo nel mantenere, fino all’epoca in cui lo scrittore siciliano si trovava a scrivere, tale stato d’immobilità. Sin dal suo inserimento nella battaglia e nei ‹‹giochi›› elettorali, il fenomeno mafioso diventa protagonista della storia di Regalpetra in una vicenda costellata da paura e omertà, come testimonia l’assassinio del sindaco del 1944 narrato in Sindaci e commissari:

‹‹Il sindaco del ’44, l’uomo tirato su dagli americani, lo ammazzarono la sera del 15 novenbre di quell’anno;era sera di domenica, la piazza piena di gente, gli appoggiarono la pistola alla nuca e tirarono, il sindaco aveva intorno amici, nessuno vide, si fece vuota rosa di paura intorno al corpo che crollava››.34

Le parrocchie di Regalpetra, dunque, mostrano con estrema chiarezza che ogni discorso

riguardante l’ingiustizia in Sicilia non può prescindere da una rigorosa analisi del problema mafioso, un’analisi che Sciascia avvierà nei romanzi che occupano gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. È evidente che in tale quadro, ricostruito dal punto di vista di salinari e zolfatari con cui Sciascia si schiera, vengono meno le ragioni dell’ottimismo e la speranza. A tal proposito Massimo Onofri osserva: ‹‹La possibilità di una contro-storia sembra progressivamente sprofondare in una notte di secoli che non ha mai conosciuto un’alba di giustizia e libertà se non nei modi fieri della ribellione individuale››.35

In Sicilia sembra, dunque, non esistere alcuna possibilità di affermare la propria libertà, se non quella colta da pochi individui che, scegliendo l’emarginazione, hanno avuto il coraggio di opporsi al conformismo morale.

32 Ivi, p. 26. 33 Ivi, pp. 26 – 27. 34 Ivi, p. 66. 35

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18

Alla luce di questa continua ‹‹sconfitta della ragione›› e della libertà vanno lette anche le pagine del Circolo della concordia dove Sciascia, prendendo in esame la Regalpetra del presente, cerca di delineare il complesso meccanismo delle norme che governano la vita di nobili e zolfatari. In tali pagine il ‹‹circolo››, di natura pirandelliana e brancatiana, assume una precisa determinazione storica e sociologica poiché si presenta come luogo di divertimento di pochi nobili parassiti a fronte di un popolo che vive continuamente nell’inferno delle zolfare. In altri termini, lo scrittore rivela, con pungente ironia, la spietata dialettica di classe36 tra i due ceti con la conseguente indifferenza della classe borghese, sorda a ogni legittima richiesta dei lavoratori delle zolfare e delle saline.

Da un punto di vista linguistico e stilistico Le parrocchie di Regalpetra è un libro complesso, ricco di soluzioni letterarie che Sciascia sperimenterà successivamente. Questa prova, che intreccia saggistica e narrativa, consente, infatti, allo scrittore di cimentarsi con forme di scrittura che riutilizzerà nei lavori successivi: il racconto, il diario, il pamphlet, l’inchiesta storica, l’indagine d’archivio.37 Si inserisce all’interno di questa complessa impalcatura la pluridiscorsività, su cui ha insistito Onofrio Lo Dico, e il registro linguistico pluristratificato di matrice ‹‹regionale – dialettale – informale›› (nel lessico e nella struttura morfo –sintattica)38. La lingua, dunque, si rivela essenziale per una denuncia politica e sociale che raggiungerà gli esiti più felici nelle opere future. Qui occorre ricordare che nella limpida prosa di Sciascia si manifesta ‹‹una dialettica servo – padrone›› destinata a mantenersi immobile nella sua contraddizione e che se questa dialettica non si presenta alla coscienza di salinari e zolfatari, lo si deve al fatto che ‹‹le sue regole sono sancite da un Potere avvolto come una luce sacrale,

36

Ivi, p. 50.

37

Ibidem. Cfr. anche Francesca Bernardini Napoletano: ‹‹Sciascia inserisce all’interno del testo citazioni

tratte da documenti storici e cronachistici con una tecnica che ricorda quella manzoniana: la denuncia della violenza e dell’impostura perpetrate dal potere avviene sì attraverso i contenuti, ma ancor più efficacemente attraverso i documenti; [...] La denuncia ha anche una radice storica: Sciascia ha puntigliosamente riscritto la storia, evidenziando le menzogne che la storiografia ufficiale ha accreditato, per manipolazione o per omissione. Sul modello della Storia della Colonna infame, Sciascia ricostruisce casi ed episodi di cui nelle cronache si fa appena cenno o che sono trascurati affatto, attraverso l’analisi attenta dei documenti e degli atti, nella convinzione che sia sempre possibile riportare alla luce la verità anche quando l’estensore abbia usato la scrittura come strumento per la menzogna››. Francesca BERNARDINI NAPOLETANO, L’antirealismo della riscrittura in *Leonardo Sciascia. La mitografia

della ragione, a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Roma, Lithos Editrice, 1994, pp. 70–102: pp.

72-73.

38

Salvatore Claudio SGROI, Le parole di Sciascia, in Id., Per la lingua di Pirandello e Sciascia, Caltanissetta–Roma, Sciascia, 1991, pp. 369 – 411. Cfr. anche Onofrio LO DICO, La fede nella scrittura.

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incomprensibile e naturale quanto la morte o, meglio, intrinsecamente connesso ad essa››,39

un Potere che si incarna nello Stato. Nelle pagine di Sciascia, infatti, lo Stato diventa una sorta di entità trascendente, astratta e assente mai identificabile con il complesso sistema delle istituzioni ma piuttosto manifestazione di un Potere che si fa incomprensibile. Nelle Parrocchie, però, lo Stato continua a mantenere una sua identità storicamente e geograficamente determinata, anche se si può osservare che, seppure in una dimensione ancora lontana dall’identificazione del male radicale con il Potere, il disagio storico – sociale di cui abbiamo detto sembra sempre sul punto di precipitare in una desolazione esistenziale.

In virtù di queste riflessioni si capisce, allora, che il libro non costituisce la rappresentazione mimetica dell’ambiente e della società in cui Sciascia è nato e vissuto, ma disegna un contesto critico–esistenziale in cui vengono presentati i temi della verità, della giustizia e della libertà, accanto al rapporto tra il Potere e la Storia e al valore, il significato e i compiti della letteratura. Pertanto, si può dire che Le Parrocchie di

Regalpetra, contengono in nuce i temi fondamentali della scrittura sciasciana segnando,

come osserva Massimo Onofri, un ‹‹destino di scrittura››. Nella prefazione del 1967 Sciascia scrive:

‹‹È stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri variamente svolto. E l’ho detto anch’io. In questo senso quel critico che dalle Parrocchie cavò il giudizio che io fossi uno di quegli autori che scrivono un solo libro e poi tacciono (e se non tacciono peggio per loro) aveva ragione (ma aveva torto e sbagliava di grosso, nel non vedere che c’era nel libro un certo retroterra culturale che, anche in mancanza d’altro, sarebbe bastato a farmi scrivere altri libri››.40

Con quest’affermazione lo scrittore lascia intendere che Le parrocchie sono un libro ricco e stratificato, un ‹‹archetipo››41 di tutta la sua opera. Nei diversi capitoli, infatti, trova posto quella materia criminale che tanto spazio avrà nei romanzi polizieschi degli anni Sessanta e Settanta. Si può concludere, allora, che con tale opera Sciascia sembra aver delineato una precisa collocazione intellettuale che si esplica nell’autointerrogazione sulle ragioni del presente.42

39

Massimo ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 52.

40

Leonardo SCIASCIA, Le Parrocchie di Regalpetra, cit., pp. 4-5.

41

Massimo ONOFRI, Storia di Sciascia, cit., p. 56.

42

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2.2 La strada della letteratura

2.2.1 Narrativa, saggistica: la funzione della scrittura

Elemento peculiare dell’opera di Leonardo Sciascia è l’intreccio, a livello intertestuale e intratestuale, della saggistica con la narrativa. Tale connubio si giustifica con la necessità di dare una visione ampia, approfondita e non apologetica dei problemi che affliggono la Sicilia esemplificandone gli aspetti più macroscopici. Ne consegue che tutti i temi al centro dell’interesse dello scrittore siciliano sono tenuti assieme da una concordanza senza forzature e senza dispersioni tanto che lo scrittore stesso nella

Prefazione alle Parrocchie di Regalpetra del 1967 scrive:

‹‹Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti ed annientati››.43

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, l’indirizzo saggistico diventa, dunque, strumento d’analisi dei principali temi isolani, precedendo e affiancando i maggiori successi narrativi che a questa attività di scrittura devono non solo una sempre più consapevole sicilianità e l’allargamento da una visuale particolare a una universale, ma anche una corrispondenza concreta nel campo politico, sociale e storico del dato narrativo. Come sottolinea Claude Cazalé Bérard, la forma narrativa non è altro che il punto d’arrivo di un percorso esistenziale costruito sulla ricerca della libertà e sulla liberazione dell’uomo mediante la Verità44

, un processo conoscitivo che consente la verifica delle ipotesi sviluppate in ambito saggistico. Tale binomio, infatti, è costruito da un lato sull’organizzazione sull’asse narrativo di vicende concatenate logicamente, dall’altro su un’analisi di fatti e delle loro relazioni che consente di dare significato e concretezza alle vicende narrate. Da qui la stretta corrispondenza tra i due ambiti che Sciascia costruisce praticando la riscrittura interna e intrecciando materiali, modelli, figure. Da queste considerazioni è possibile comprendere lo scopo dell’operazione

43

Leonardo SCIASCIA, Prefazione a Le parrocchie di Regalpetra, cit., p. 5.

44

Claude CAZALÉ BÉRARD, Intervento conclusivo, in * Sciascia, scrittore europeo, Atti del Convegno internazionale di Ascona, 29 marzo – 2 aprile 1993, a cura di M. Picone, P. De Marchi, T. Crivelli, Monte Verità, Birkhäuser Verlag Basel, 1994, p. 365.

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21

letteraria di Sciascia, ossia il bisogno di potersi garantire la possibilità di ‹‹organizzare›› il reale, di ‹‹ordinare›› razionalmente la storia, di scegliere i momenti essenziali con l’obiettivo di trarre un’interpretazione e un esito definitivi e chiaro della realtà a fronte di una società che invece si impegnava a nascondere le sue ambiguità e le sue connivenze politico–mafiose.

Per questa ragione, subito all’inizio della carriera, Sciascia comincia a sperimentare diversi generi letterari, dalla favola di ispirazione classica e settecentesca (Favole della dittatura), alla poesia (La Sicilia, il suo cuore, cui segue l’antologia Il

fiore della poesia romanesca), dalla saggistica (Pirandello e il pirandellismo) alla prosa

narrativo-documentaria delle Parrocchie di Regalpetra. Questo libro, come già osservato, contiene al suo interno tutto il repertorio tematico proprio dell’opera sciasciana: la Sicilia e la ‹‹sicilitudine››, la cultura siciliana, in particolare Pirandello e Verga, che hanno saputo definire il carattere e l’anima siciliana (e in ciò, osserva Francesca Bernardini Napoletano, si può notare una visione della letteratura come ‹‹sedimentazione di esperienza e conoscenza45

), il potere come violenza e oppressione, ma anche come impostura, di cui l’Inquisizione e il fascismo sono, come vedremo, metafora, la mafia. In queste prime prove vengono, però, messi a fuoco anche i problemi critici che sottostanno alla valenza metaletteraria del discorso di Sciascia: significato, modi e funzione della scrittura, la memoria, il rapporto tra testimonianza autobiografica e invenzione, tra la realtà e la storia da una parte, la ricerca documentaria, la filologia e la letterarietà dall’altra.46

Si tratta di un problema centrale di tutta l’opera sciasciana ma che si presenta esplicitamente con la pubblicazione delle

Parrocchie, che furono lette e apprezzate per la loro valenza civile e di denuncia: già

Pasolini, però, rilevava la dimensione saggistica individuando i riferimenti stilistici al modello della prosa d’arte e del capitolo e notava che ‹‹la ricerca documentaria e addirittura la denuncia si concretano in forme ipotattiche, sia pure semplici e lucide››.47

Un discorso simile può essere fatto, però, anche per i quattro polizieschi che sono oggetto del nostro discorso: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto e

Una storia semplice. Se, infatti, nelle Parrocchie, come osserva ancora Francesca

45

Francesca BERNARDINI NAPOLETANO, L’antirealismo della riscrittura, cit., p. 70.

46

Ivi, p. 71.

47

Pier Paolo PASOLINI, La confusione degli stili, in ‹‹Ulisse››, 1957, ora raccolto in Id., Passione e

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Bernardini Napoletano, dalla memoria autobiografica e dall’esperienza personale è tratta la materia narrata in prima persona integrata dalla memoria storica e collettiva con testimonianze orali oppure scritte,48 nei romanzi la materia narrata, mediata dalla finzione che intreccia il livello oggettivo a quello letterario, è tratta, oltre che dalle pagine delle Parrocchie in cui il fenomeno mafioso è visto sotto un punto di vista sociologico, da un saggio del 1957 intitolato La mafia e da una serie di articoli pubblicati negli anni successivi in cui l’autore dà conto della sua analisi sul fenomeno49 che corroborano e rafforzano le tesi dei romanzi.

La necessità di ordinare razionalmente la realtà si accompagna, dunque alla ‹‹fede nella scrittura›› e all’impegno nella scrittura, di matrice culturale, come testimonia l’ampio numero di citazioni e modelli letterari. Non a caso, allora, nei romanzi l’elemento saggistico passa attraverso l’utilizzo del dialogo, delle citazioni, delle digressioni e degli inserti, tecniche letterarie che consentono all’autore di aprire un discorso metanarrativo all’interno di un discorso politico.50

Se le citazioni, come vedremo più avanti, sono la peculiarità di romanzi quali Il contesto e Todo modo che attenua lo spunto iniziale di natura saggistica51, e il dialogo si palesa come strumento di ricerca della verità che conduce invariabilmente, però, alla vittoria di una Verità assoluta detenuta dal Sistema di potere che reprime ogni voce ad esso contraria,52 l’inserto, elemento aggiuntivo del discorso narrativo, si qualifica come segnale di quella componente saggistica che, se si manifesta apertamente nei romanzi storici e nei saggi

48

Francesca BERNARDINI NAPOLETANO, L’antirealismo della riscrittura, cit., p. 72.

49

Cfr. Leonardo SCIASCIA, La mafia esiste? Segue dibattito, in ‹‹L’Espresso››, 23 novembre 1986; Id.,

Mafia, in ‹‹Storia Illustrata››, cit., p. 7; Id., Una repubblica nel cuore della Sicilia, in ‹‹Il Giorno››, 4

aprile 1960; Sciascia: Ora per la mafia è arrivato il giorno dell’avvoltoio, cit. Questi articoli sono indicativi del valore attribuito dallo scrittore all’attività giornalistica. Torneremo su questa questione nel capitolo dedicato a Roberto Saviano quando metteremo a confronto le modalità di scrittura dell’autore campano con quelle dello scrittore siciliano.

50

Ricciarda Ricorda osserva che questo tipo di tecnica di scrittura è giunto a Sciascia attraverso la mediazione neorealista: ‹‹risultano, infatti, particolarmente adatti a travasare nella produzione più propriamente narrativa quell’ansia di attualità, quell’esigenza civile di storicizzazione che Sciascia ha condiviso con gli scrittori neorealisti e in cui ha continuato a credere anche dopo il definitivo tramonto di quelle poetiche››. Ricciarda RICORDA, Sciascia ovvero la retorica della citazione, in ‹‹Studi novecenteschi››, VI (1977), 16, pp. 59 – 63: p. 66, ora anche in Ead., Pagine vissute. Studi di letteratura

italiana del Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995.

51‹‹Nel Contesto e in Todo Modo, nei quali tutto il sistema viene ad assestarsi in modo sostanzialmente

nuovo, anche il rapporto tra l’istanza saggistica e quella narrativa si struttura in forma particolari. Lo spunto iniziale, pur sempre di natura saggistica, finisce per stemperarsi in una serie di procedimenti fortemente allusivi in una scrittura che tende ad emblematizzare situazioni e personaggi proiettandoli su un piano atemporale e astratto con l’adozione di processi da cui la saggistica è aliena››. Ivi, pp. 66 – 67.

52

Cfr. Maria Alessandra GRAZIOLI, ‹‹Per null’altro che per amore della verità››. Il dialogo negato, in

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23

veri e propri, si ritrova costantemente in tutta la narrativa sciasciana. Del resto, il nucleo centrale dell’opera di Sciascia, come l’autore stesso ha affermato esplicitamente, è sempre una materia saggistica che può assumere o no i modi e le peculiarità del racconto senza che sia mai persa di vista la volontà di dimostrare qualcosa anche attraverso la rappresentazione di un fatto ‹‹inventato››, inventato nel senso di ‹‹trovato nella storia e nella cronaca››.53

In virtù di queste riflessioni diventa evidente il fatto che Sciascia non si pone l’obiettivo di perseguire una rappresentazione verosimile della realtà basata sulle categorie dello spazio e del tempo, ma ricerca il senso e la verità dei fatti procedendo tra due livelli che s’intrecciano tra loro perché reali e presenti: il livello oggettivo, incarnato dal saggio, e il livello letterario. Francesca Bernardini Napoletano osserva che:

‹‹Tra la realtà del mondo, materiale e pensante, e la finzione letteraria non c’è soluzione di continuità; sicchè la rappresentazione in Sciascia non è mai o quasi mai, diretta, mimetica, immediata, ma allusiva, di secondo grado, mediata da situazioni e personaggi fantastici, letterari; all’interpretazione non si giunge soltanto per mezzo di un ragionamento esplicito e rigoroso, ma per virtù della scrittura che accumula e giustappone dati, documenti e suggestioni letterarie ed infine li fonde: e tutti gli elementi, pur eterogenei e talvolta apparentemente persino incongrui trovano un ordine nella pagina e tendono necessariamente alla conclusione (e alla persuasione del lettore) con la stessa implacabile evidenza di una dimostrazione››.54

In Sciascia, dunque, la scrittura saggistica si mette al servizio della narrativa quale veicolo di trasmissione di una verità che sembra trovare spazio solo all’interno della letteratura. Grazie alla scrittura, che si serve direttamente o indirettamente di elementi saggistici e documentari, i fatti da ‹‹relativi››, consegnati non solo al gioco delle ipotesi, ma alle bugie del Potere diventano ‹‹quali veramente sono››, cioè ‹‹assoluti››55, alla luce di quella verità che è propria della letteratura, ‹‹la più assoluta forma che la verità possa assumere››.56

Vedremo che a tale assioma lo scrittore arriverà, accanto alla narrativa-documentaria propriamente detta, anche attraverso una profonda demistificazione del genere poliziesco. Per il momento occorre constatare che questa riflessione, innestata nell’ambito dell’impegno civile e delle responsabilità etico-politiche, sembra essere la

53Cfr. l’intervista premessa a Walter MAURO, Sciascia, Firenze, La Nuova Italia, 1971. 54

Francesca BERNARDINI NAPOLETANO, L’antirealismo della riscrittura, cit., p. 76.

55

Leonardo SCIASCIA, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, in Id., Opere. 1956 – 1971, cit., p. 1249.

56

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24

vera eredità di Sciascia: l’eredità di una coscienza critica e della conoscenza contenuta all’interno dell’ambito letterario, che ha assunto nel corso degli anni anche una funzione conoscitiva (‹‹nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende››)57

ed etica (‹‹non riesco a concepire lo scrivere se non come una buona azione››).58

57

Leonardo SCIASCIA, La strega e il capitano, in Id., Opere. 1983 – 1989, vol. III, cit., p. 207.

58

Leonardo SCIASCIA – Davide LAJOLO, Conversazione in una stanza chiusa, Milano, Sperling & Kupfer, 1981, p. 40.

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2.2.2 Il romanzo poliziesco di Sciascia

Un altro elemento centrale dell’attività letteraria di Leonardo Sciascia è la rivalutazione del romanzo poliziesco59 come genere della letteratura tourt court. Egli, infatti, si è adoperato sia per segnalare gli autori di più elevata qualità letteraria, in virtù del suo ruolo di saggista e consulente editoriale, sia per realizzare personalmente romanzi gialli di elevato spessore quali Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il

contesto, Todo modo, Il cavaliere e la morte e Una storia semplice. Inoltre, opere come Morte dell’inquisitore, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, La scomparsa di Majorana, I pugnalatori, l’Affaire Moro, anche se non rientrano nella sfera delle

investigazioni fittizie, contengono al loro interno il procedimento investigativo dell’autore il quale, a sua volta, invita il lettore a partecipare alla risoluzione del mistero. Quest’ultimo punto rappresenta un primo importante scarto rispetto alla tradizione del giallo in cui invece:

‹‹Il medio lettore di polizieschi, e cioè il miglior lettore di questo genere narrativo, è insomma colui che non si pone come antagonista dell’investigatore a risolvere in anticipo il problema, a “indovinare la soluzione”, a individuare il colpevole: il buon lettore sa che la soluzione c’era già alle ultimissime pagine, e che il divertimento, il passatempo consiste nella condizione – di assoluto riposo intellettuale – di affidarsi all’investigatore, alla sua eccezionale capacità di ricostruire un crimine e di raggiungerne l’autore››.60

Il lettore di romanzi polizieschi, infatti, è consapevole, fin dal momento in cui si accinge alla lettura, del fatto che l’enigma sarà ricomposto, i delinquenti saranno smascherati assicurandoli alla giustizia e il piacere che ne ricava è dato dalla decifrazione degli elementi a disposizione dell’investigatore. La ragione che soggiace a

59

Per un approfondimento sul giallo vedi: * Il giallo degli anni Trenta. Atti di un convegno Trieste 23-25 maggio 1985, Trieste, Edizioni LINT, 1988; Massimo CARLONI, L’Italia in giallo. Geografia e storia

del giallo italiano contemporaneo, Reggio Emilia, Diabasis, 1994; Ernesto G. LAURA, Storia del giallo da Poe a Borges, Roma, Nuova Universale Studium, 1981; Giuseppe PETRONIO, Il punto su il romanzo poliziesco, Roma – Bari, Laterza 1985; Giuseppe PETRONIO, Sulle tracce del giallo, Roma, Gamberetti,

2000; Antonio PIETROPAOLI, Evoluzione e rivoluzione del poliziesco: giallo, giallo ocra e giallo

infinito, in ‹‹Narrativa›› 2 (1992), pp. 7-52; Loris RAMBELLI, Storia del giallo italiano, Milano,

Garzanti, 1979; * Detective Fiction. A Collection of Critical Essays, Prentice – Hall, Englewood Cliffs, 1980; R. CREMANTE, L. RAMBELLI, La trama del delitto. Teoria e analisi del racconto poliziesco, Parma, Pratiche Editori, 1980; T. NARCEJAC, Il romanzo poliziesco, Milano, Garzanti, 1975; Franco FOSSATI, Dizionario del genere poliziesco, Milano, Garzanti – Vallardi, 1996.

60

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26

questo atteggiamento si può individuare nella struttura stessa del romanzo poliziesco: quest’ultimo, infatti, è costruito sulla contrapposizione tra il bene e il male, tra l’investigatore che rappresenta la giustizia, la moralità, l’ordine sociale e la legge e il criminale che incarna il male, l’ingiustizia, l’immoralità e la trasgressione contro l’ordine sociale e la legge. Nel detective troviamo la logica e la chiarezza totale, nel delinquente il mistero e l’ambiguità. Nello svolgimento dell’inchiesta la capacità logica e il ragionamento soccorrono l’investigatore, il quale verifica razionalmente tutti gli indizi e le circostanze che possono chiarire la sua ricerca: solo dopo aver raccolto tutti i dati e svelato i dettagli fondamentali per la risoluzione del caso, l’inquirente riesce a risolvere l’enigma e i fili del mistero vengono riallacciati. Come rileva Giovanna Jackson, da quando Edgar Allan Poe, nel 1838, ha creato il personaggio di Charles Auguste Dupin, gli investigatori che si sono susseguiti hanno seguito questo modello dimostrando la stessa abilità intellettiva e la stessa qualità analitica. Inoltre, come il loro predecessore, le motivazioni che li spingono a risolvere il mistero non nascono da una questione morale ma rappresentano, piuttosto, un esercizio intellettuale. L’investigatore, dunque, si presenta come emblema dell’intelletto: il suo vero nemico, allora, non è tanto il delinquente da assicurare alla giustizia quanto il mistero da risolvere. Di conseguenza, le questioni sulla moralità, sul senso della giustizia sono lasciate in disparte in favore della soluzione dell’enigma e del recupero dell’ordine dal caos.61

La particolare interpretazione che Sciascia ha dato del genere, oggetto, del resto, di molte ricognizioni critiche, si basa, invece, sul rovesciamento di questi presupposti. Si legga, a tal proposito, quanto lo scrittore di Racalmuto ha scritto in Breve storia del

romanzo poliziesco, sintesi dei diversi interessanti articoli sulla tradizione del romanzo

poliziesco che Sciascia aveva pubblicato negli anni Cinquanta:

‹‹Nella sua forma più originale ed autonoma, il romanzo poliziesco presuppone una metafisica: l’esistenza di un mondo “al di là del fisico”, di Dio, della Grazia – e di quella Grazia che i teologi chiamano illuminante. Della Grazia illuminante l’investigatore si può anzi considerare il portatore, così come santa Lucia nella Divina Commedia (“Lucia, nimica di ciascun crudele”). L’incorruttibilità e infallibilità dell’investigatore, la sua quasi ascetica vita (generalmente non ha famiglia, non ha ambizioni, non ha beni, ha una certa inclinazione alla misoginia e alla misantropia, quando apertamente non la dichiara e pratica), il fatto che non rappresenta la legge ufficiale ma la legge in assoluto, la sua capacità di

61

Giovanna JACKSON, Il giallo e il romanzo storico verso una nuova narrativa, in Id., Nel labirinto di

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leggere il delitto nel cuore umano oltre che nelle cose, cioè negli indizi, e di presentirlo, lo investono di

luce metafisica, ne fanno un eletto. E non è un caso che la storia del romanzo poliziesco, la nascita dell’investigatore, abbia nella Bibbia le sue prime origini; né è un caso che appunto con intenzioni metafisiche un grande scrittore cattolico, G. K. Chesterton, abbia scritto tutta una serie di racconti polizieschi in cui il ruolo dell’investigatore è tenuto da un prete cattolico in odore di santità, padre Brown››.62

Se, come abbiamo visto, alla base di un romanzo poliziesco c’è un mistero da risolvere, allora, come osserva Giuseppe Traina,63 alla base di ogni riflessione umana c’è il Mistero per antonomasia, l’esistenza o la non esistenza di Dio. Questo assioma vale anche per Sciascia che trasforma il romanzo poliziesco nello strumento di indagine sul problema della metafisica divenendo egli stesso, secondo l’aforisma critico di Gesualdo Bufalino, ‹‹poliziotto di Dio››. Alla luce di tale riflessione, il poliziesco metafisico di Sciascia è eretico poiché viola le regole canoniche sulle quali il romanzo poliziesco tradizionale è costruito: nei polizieschi di Sciascia, allora, il delinquente riceve appoggio e sostegno dalla società cui appartiene o, più specificatamente, molti settori della società formano collettivamente il corpo delinquenziale che sostiene il singolo criminale con reti e patti segreti. Inoltre il delitto non è mai personale, ma viene realizzato per mettere in atto altre azioni criminali che interessano grosse associazioni o partiti politici, non è mai singolo, ma avviene all’interno di una serie di altri delitti. Viceversa l’investigatore sciasciano64

è solo, non cede alla corruzione, e il suo movente, perciò, è astratto e quindi incorruttibile. Egli è alla ricerca della verità, vuole recuperare il senso della giustizia ed è mosso da ideali e non da tornaconti personali. Come osserva ancora Giovanna Jackson, la solitudine, gli ideali e la propensione all’insuccesso avvicinano il detective di Sciascia a don Chisciotte e lo inseriscono nella categoria degli antieroi.65 Sebbene l’investigatore sciasciano sia dotato di un’abilità intellettiva pari a quella degli inquirenti tradizionali, da Dupin a Sherlock Holmes a Poirot, egli non riesce a ricomporre l’equilibrio che l’assassinio ha rotto. Egli, infatti, si scontra contro la

62

Leonardo SCIASCIA, Breve storia del romanzo poliziesco, cit. p. 1183.

63

Giuseppe TRAINA, Leonardo Sciascia, cit., p. 116.

64Sull’isolamento del detective/intellettuale vedi Angelo CASTAGNINO, The intellectual as a detective:

from Leonardo Sciascia to Roberto Saviano, tesi di dottorato, Chapel Hill, University of North Carolina,

2013.

65

(28)

28

barriera eretta dalla criminalità ottenendo esclusivamente un fallimento totale, sconfitto da una criminalità collettiva.

Scendendo più nel dettaglio, è stato osservato che queste peculiarità dei polizieschi di Sciascia rompono con le venti regole necessarie per scrivere un romanzo poliziesco di qualità dettate da S.S. Van Dine, ideatore dell’investigatore dilettante estetizzante Philo Vance.66 Infatti, nei testi dello scrittore di Racalmuto il lettore non sempre ha le stesse possibilità di arrivare alla soluzione dell’enigma e, a volte, egli è ingannato dal narratore (Todo Modo).67 In A ciascuno il suo, come andremo a verificare, c’è una storia d’amore – unilaterale – che genera confusione e provoca la rovina dell’investigatore. In altri testi ancora, come Il contesto, Todo Modo, Una storia

semplice, accade che i poliziotti sono colpevoli oppure, ed è il caso dell’ultimo romanzo

sciasciano, il colpevole è scoperto accidentalmente e non solo per logiche deduzioni (Sciascia, infatti, lo si evince dai suoi articoli dedicati al poliziesco, non ama la logica astratta di Sherlock Holmes, preferendo l’intuitività partecipe del commissario Maigret).68 D’altronde, l’investigatore non sempre indaga, ma può utilizzare le intuizioni, e il colpevole non sempre è una persona affidabile come dimostra Il giorno

della civetta. Inoltre, il colpevole non è mai una singola persona ma è sempre collegato

a un’ambigua trama di complicità e connivenze: conseguentemente i delitti sono, spesso, di matrice politica. Come fa notare Giuseppe Traina, le uniche regole del poliziesco tradizionale che Sciascia rispetta sono la presenza di uno o più morti,69 l’assenza di strumenti speciali per la risoluzione del caso, la presenza della soluzione, (non sempre palese come nel Giorno della civetta), e il fatto che le morti non siano

66Nota Marta Chini: ‹‹Proprio attraverso il confronto, oppositivo, critico, ma anche ludico con i suoi

ipotesti “classici”, dalle novelle del ragionamento di Poe alle Venti regole di Van Dine, fino alla narrativa “di consumo” di Agatha Christie, Sciascia mira a dimostrare l’insensatezza di un genere che propone l’onnipotenza della ragione umana come strumento sufficiente, da solo, a comprendere il mondo››. Marta CHINI, L’‹‹aperto riscrvere›› di Sciascia, in ‹‹Italianistica››, XXXVI, 1-2, 2007, pp. 213-224: p. 214.

67Come precedente delle trappole del narratore al lettore, c’era Agatha Christie e il suo romanzo

Assassinio di Roger Ackroyd per cui Sciascia scrisse una prefazione e una postfazione. Cfr. Giuseppe

TRAINA, Leonardo Sciascia, cit., p. 116.

68

Ivi, p. 117.

69‹‹Nell’opera di Sciascia non si ha mai a che fare con un delitto solo ma sempre con una serie: tre nel

Giorno della civetta, tre ancora in A ciascuno il suo, tre in Todo modo Tredici vittime nel Contesto, se i

nostri conti non sono sbagliati: una decina di magistrati ordinari, il capo dell’opposizione, l’ispettore Rogas e il presidente della Corte suprema. Nel modo di raggruppare i delitti funziona una certa ripetitività: Rogas e Amar insieme nel museo, Riches a parte; il farmacista Manno e il medico Roscio a caccia insieme, il professor Laurana a parte. Isolata la morte di don Gaetano, collegate quelle dei due democristiani. Il modello che informa tutti i delitti è di tipo seriale, non è la morte violenta un fatto isolato››. Claude AMBROISE, Invito alla lettura di Sciascia, Milano, Mursia, 1988, p. 202.

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