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Generalizzazione algebrica nella scuola secondaria superiore: l'uso di Patterns a Mosaico per mediare le nozioni di variabile algebrica e di equivalenza algebrica

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Academic year: 2021

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Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali Corso di Laurea Magistrale in Matematica

Tesi di Laurea

Generalizzazione algebrica nella scuola secondaria

superiore: l’uso di Patterns a Mosaico per mediare le

nozioni di variabile algebrica e di equivalenza algebrica

Relatore: Candidato:

Prof. Anna Baccaglini-Frank Andrea Cavallo

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«Quando si arriva all’algebra e si deve operare con x e y, c’è il desiderio naturale di sapere cosa siano realmente x e y. Questo, almeno, era il mio sentimento: io ho sempre pensato che l’insegnante sapesse cosa fossero x e y, ma che lei non me l’avrebbe mai detto.» — B. Russell

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Indice

Introduzione e sguardo alla letteratura vii

1 Quadro teorico 1

1.1 Abilità di visualizzazione . . . 1

1.2 La teoria della mediazione semiotica . . . 2

1.2.1 Patterns a mosaico . . . 3

1.2.2 La discussione matematica . . . 7

1.3 Teoria delle situazioni didattiche . . . 8

2 Domande di ricerca 11 3 Metodologia 13 3.1 Gestione del lavoro in classe . . . 13

3.2 Analisi a priori . . . 15

3.2.1 Incontro 1 . . . 15

3.2.2 Incontro 2 . . . 25

3.2.3 Incontro 3 . . . 32

3.3 Verifica dell’efficacia . . . 39

3.3.1 Opportunità di mediazione semiotica . . . 39

3.3.2 Test INVALSI . . . 40

4 Analisi a posteriori 45 4.1 Incontro 1 . . . 45

4.1.1 Strategie risolutive . . . 45

4.1.2 Osservazioni sulla visualizzazione . . . 59

4.1.3 Opportunità di mediazione . . . 60 4.2 Incontro 2 . . . 64 4.2.1 Strategie risolutive . . . 64 4.2.2 Opportunità di mediazione . . . 78 4.3 Incontro 3 . . . 82 v

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4.3.1 Strategie risolutive . . . 82 4.3.2 Opportunità di mediazione . . . 91 4.4 Incontro di verifica . . . 95 4.4.1 Problema 1 . . . 95 4.4.2 Problema 2 . . . 97 4.4.3 Problema 3 . . . 97 4.4.4 Problema 4 . . . 99 Conclusioni 101 Appendice 107 Bibliografia 113 Ringraziamenti 117

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Introduzione e sguardo alla

letteratura

La transizione dal linguaggio aritmetico a quello algebrico in matematica rappresenta un tema particolarmente delicato nella scuola secondaria. Gli studi in didattica della matematica hanno confermato da più parti come «per molti studenti l’introduzione del simbolismo algebrico [...] rappresenta da una parte lo stacco dai problemi studiati per anni nell’ambito dell’aritmetica e dall’altra l’inizio di studi matematici più avanzati» (Arzarello 1994). Indubbiamente riconosciuto è il ruolo fondamentale che il formalismo algebrico assume nell’apprendimento della matematica: prova di ciò sono le Indicazioni Nazionali e le

Linee Guidaper l’insegnamento della matematica nella scuola secondaria di secondo grado in Italia che, indipendentemente dalla tipologia di istituto, insistono fin da subito sul fatto che «il primo biennio sarà dedicato al passaggio dal calcolo aritmetico a quello algebrico»1.

D’altra parte da più voci viene sottolineato il fatto che tale importanza vada di pari passo con l’emergere di numerose difficoltà :

«Many studies have shown the difficulties of students at several school levels with respect to the concepts focused on in the various ways of introducing algebra: equation solving, the manipulation of algebraic expressions, problem solving, and the handling of fundamental concepts such as that of variable [...] Some of these studies point to important conceptual changes that students must make in negotiating the passage to algebra and its development.»

(Bednarz et al. 1996) Di particolare interesse si rivelano gli studi in letteratura relativi a due specifici ambiti riguardanti l’apprendimento dell’algebra.

Il ruolo della variabile nei processi di generalizzazione

Il percorso di sviluppo del formalismo algebrico è giunto, nel suo travagliato dipanarsi lungo la storia delle scienze matematiche, ad eleggere l’utilizzo di simboli specifici (ad

1Indicazioni nazionali per il liceo scientifico, MIUR, 2010

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esempio le lettere dell’alfabeto) per perseguire l’obiettivo di esprimere e rappresentare quantità e concetti. Questa evoluzione non è rimasta limitata alla semantica, ma ha coinvolto in un’ottica epistemologica anche la definizione stessa di algebra e le sue specificità come disciplina a sé: se infatti, agli albori della matematica, gli studiosi arabi utilizzavano veri e propri componimenti letterari per esporre metodi risolutivi (che sarebbe giusto definire algoritmici) per problemi riconducibili a ciò che oggi chiameremo col nome di equazione di 1e 2grado, dopo la rivoluzione dell’opera di Viète (1591) e l’affermazione del simbolismo algebrico, l’algebra passa dall’essere una mera arte di risolvere problemi riguardanti la determinazione di una quantità ignota allo studio delle relazioni generali tra quantità.

È in quest’ottica che ha senso la distinzione concettuale che in algebra si effettua tra

variabileed incognita, distinzione che ha dunque origine da una questione che riguarda esclusivamente il modo in cui il "risolutore" che si approccia alla relazione algebrica la interpreta e alle finalità che con essa vuole perseguire. Come dunque sostengono ad esempio Usiskin (1988) e Janvier (1996), l’utilizzo simbolico delle lettere è legato alla visione stessa dell’algebra come disciplina e strumento, e ciò ci permette dunque di effettuare distintamente le seguenti definizioni:

Definizione 0.1. Un simbolo all’interno di un’espressione algebrica assume il ruolo di variabile qualora essa rappresenti una quantità che varia tra gli elementi di un certo insieme o classe di elementi, svolgendo quindi un’azione di generalizzazione nei confronti della relazione sottesa all’espressione.

Definizione 0.2. Un simbolo all’interno di un’uguaglianza algebrica assume il ruolo di

incognitaqualora essa rappresenti delle quantità che è necessario determinare come soluzioni del problema che è stato modellizzato in tale uguaglianza.

Per comprendere a fondo la definizione di variabile è necessario chiarire anche cosa si intenda per generalizzazione (Arzarello 1994):

«La funzione di generalizzazione propria del formalismo algebrico riguarda la possibilità di intervenire, tramite l’uso delle lettere e già a livello elementare, nel passaggio dai casi particolari ad una formula generale.» Numerosi studiosi concordano nell’attribuire a questa funzione un’importanza vitale nel definire il ruolo epistemologico di una disciplina come l’algebra, a partire da Anna Sfard (1995), secondo cui: «Generality is one of these salient characteristics that make algebra different from arithmetic. [...] I use the term algebra with respect to any kind of mathematical endeavor concerned with generalized computational processes, whatever the tools used to convey this generality».

La distinzione incognita/variabile nel modo di interpretare un simbolo all’interno di un’espressione algebrica è forse la più immediata, ma non è da intendersi in modo

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esclusivo: ad esempio Janvier (1996) sottolinea come, nell’utilizzo (corretto e funzionale) di una formula come A= π · r2, non sia per nulla detto che le lettere siano intese come variabili. L’utilizzatore potrebbe benissimo considerare r come un "segnaposto" che ha il solo scopo di occupare uno spazio nella formula fino a che il problema fornisca un dato determinato a cui poterlo sostituire: lettera come "numero qualsiasi" più che come quantità che varia.

Molti studi confermano che le questioni ora affrontate siano alla base di alcuni dei problemi che coinvolgono l’apprendimento dei concetti elementari dell’algebra fin dai primi approcci. Tali problemi riguardano sia l’ambito semantico, in cui si assiste uno scollamento tra simbolismo e controllo dei significati (Clement 1982) che si realizza nell’«incapacità di dar senso ai simboli algebrici come simboli di un linguaggio, che non sia una pura sintassi» (Burton 1988) o anche in ciò che Davis (1975) chiama mancanza

del referente numerico, fenomeno in cui operare con espressioni algebriche perde di significato qualora il soggetto non veda le lettere come rappresentative di numeri; sia l’ambito del formalismo, dove si riscontrano ad esempio (Boero e Shapiro 1992) usi della stessa lettera per simboleggiare variabili diverse ed estensioni indebite di proprietà.

La risposta scolastica a queste problematiche spesso si rivela inefficace. Una strategia consiste nell’introdurre il formalismo algebrico simbolico utilizzando dapprima le lettere esclusivamente come incognite: come affermano Kieran et al. «molti curricoli di algebra introducono le lettere come incognite prima di presentarle come variabili» (Kieran et al. 1996, traduzione in italiano dell’autore). Alla base di questa scelta sta la convinzione che i processi di generalizzazione richiedano «l’abilità di pensare simultaneamente su intere famiglie di numeri piuttosto che su una qualsiasi quantità specifica, nonché sulle reciproche relazioni tra famiglie di numeri» (Arzarello 1994) e che dunque «il raggiungimento di un livello di concettualizzazione della variabile in algebra è legato allo sviluppo di strutture cognitive di alto livello» (Booth 1984, traduzione in italiano dell’autore). Tuttavia adottare tale scelta potrebbe sfociare in ulteriori difficoltà ancora legate all’interpretazione simbolica: gli studi di Chevallard (1989) mostrano come siano particolarmente rare in ambito scolastico le attività in cui l’insegnante faccia utilizzare le lettere con finalità diverse da quelle della risoluzione di problemi che contengono incognite (ad esempio come parametri) e da ciò potrebbe risultare «un’inibizione di quelle forme di pensiero anticipatorio sulle formule, che l’uso delle lettere nelle varie accezioni (incognite, variabili, parametri) può indurre e che è essenziale per lo sviluppo del pensiero algebrico» (Arzarello 1994).

Qualora invece si introducano le lettere volendo fin da subito effettuare distinzioni tra i diversi utilizzi, si incorre non raramente in una scarsa attenzione alla fase della

nominalizzazione: dare il nome più adatto alle quantità in gioco tramite le variabili diventa «cruciale sia per il processo di costruzione dell’espressione globale in grado di interpretare la situazione problematica in gioco, sia per orientare successivamente il processo di manipolazione

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simbolica in relazione allo scopo espresso nell’enunciato del problema» (Arzarello 1994). Quello che può succedere è che le attività svolte in classe, povere di varietà, favoriscano una identificazione tra il nome e l’oggetto considerato, fino alla costruzione di veri e propri

designatori rigidi(per la cui definizione si rimanda a Kripke (1980)): si veda ad esempio i protocolli di Arzarello (1994) riguardanti la nominalizzazione generalizzata dei numeri dispari e pari, in cui limitarsi a scritture del tipo 2 · n e 2 · n+ 1 porta all’identificazione rigida dei numeri con tali espressioni, tanto da non riconoscere in qualcosa del tipo k+ 1 un numero pari qualora k sia dato come dispari.

Un altro problema che potrebbe emergere relativamente alla nominalizzazione, a cui abbiamo già fatto riferimento, riguarda il possibile «uso scorretto di una stessa lettera per designare più variabili», riscontrabile ancora nei protocolli di Arzarello (1994).

Legati a doppio filo con i processi di generalizzazione sono inevitabilmente quelli che riguardano la trasformazione (Arzarello 1994):

«La funzione di trasformazione propria del formalismo algebrico consente di generare una formula equivalente a partire da una data.» Osservazione 0.3. Con il termine equivalente si intende, secondo la teoria della semantica intensionale di Frege (1977), che l’oggetto mantenga la stessa denotazione.

L’insieme delle trasformazioni applicabili ad un’espressione contenente una variabile costituisce un vero e proprio linguaggio, con le proprie regole formali e sintattiche, che contiene in sè un germe procedurale spesso considerato come elemento esclusivo (come accade in aritmetica), a scapito di una visione strutturale propria della dimensione algebrica, con cui invece l’ottica meccanica e algoritmica dovrebbe collaborare dialet-ticamente. Dalla poca solidità di tale rapporto vengono alla luce alcune tipologie di problematiche nelle attività degli studenti, che si realizzano talvolta in utilizzi errati di proprietà delle operazioni; altre volte emergono invece criticità di più complessa genesi, come quella definita da Collis (1974) difficoltà nell’accettare la mancanza di chiusura, ovvero la riluttanza ad accettare come prodotto di un certo numero di trasformazioni legate alla risoluzione di un problema un risultato non numerico, che contenga al suo interno una variabile. Più in generale, quello a cui spesso si assiste analizzando le credenze implicite sul significato delle trasformazioni di espressioni simboliche è «un chiaro orientamento a vedere la formula come stringa di simboli arbitrari, legati da regole altrettanto arbitrarie. [...] risposte corrette [...] dettate il più delle volte dall’abitudine, piuttosto che da una comprensione profonda dell’aspetto relazionale. [...] avevano trattato le formule algebriche con estrema rigidità, non come strumenti di pensiero su cui fare le trasformazioni sintattiche secondo gli scopi impliciti nel problema. Per loro [...] (sono) regole sintattiche che non operano alcuna base di conoscenza.» (Linchevski e Sfard 1991, in Arzarello 1994).

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Il ruolo dei patterns nell’apprendimento dell’algebra

«The history of science of algebra is the story of the growth of a technique for representation of finite patterns. [...] Mathematics is the most powerful technique for the understanding of pattern, and for the analysis of the relationships of patterns [...] thus algebra in its initiation involved an immense advance in the study of pattern»

(Whitehead 1947) Molti studiosi concordano sul fatto che lo studio di schemi che si ripetono (a cui ci riferiremo spesso col termine inglese pattern) sia una sovrastruttura comune a tutti i campi delle scienze matematiche, in particolar modo quando si parla di algebra, tanto che ad esempio Lee (1996) afferma: «algebra and indeed all of mathematics is about generalizing patterns». Non a caso torna dunque a riproporsi in modo primario il tema della generalizzazione, affrontato in precedenza: è grazie agli strumenti simbolici che l’algebra mette a disposizione (in particolar modo la variabile) che è possibile rappresentare in modo finito schemi che ipoteticamente possono essere replicati all’infinito. Sono queste le convinzioni che stanno alla base dell’idea diffusa che «introdurre l’algebra lavorando con i patterns non è solamente possibile, ma contiene alcuni elementi molto stimolanti sia per gli insegnanti che per gli studenti» (Lee 1996, traduzione in italiano dell’autore) e la vasta letteratura a riguardo ha confermato che attività legate al pattern-generalising (a cui ci riferiremo a volte con la sigla PG), ovvero il compito di esprimere in modo formale e finito uno schema derivante da sequenze (numeriche, grafiche, etc.), contribuiscono (Lee 1996):

• ad approcciarsi alla funzione di generalizzazione abituando fin da subito gli studenti ad utilizzare le lettere come variabili;

• a definire facilmente espressioni equivalenti come quelle che generano lo stesso pattern (come vedremo formalmente più avanti).

Così come molta letteratura si mostra concorde sulle potenzialità di un approccio orientato al PG, analogamente riconosciute sono le possibili difficoltà ed insidie che si celano all’interno di esso: «over recent years there has been an increasing body of research related to generalising problems that has broadly suggested that the route from perceiving patterns to constructing algebraic representations is rather complex and fraught with potential problems for students» (Noss et al. 1997). Le principali criticità potrebbero essere così sintetizzate (Noss et al. 1997; Lee 1996):

• possibili ostacoli nella percezione visiva dei patterns;

• possibili ostacoli nel verbalizzare ed esprimere a parole i patterns;

• possibili ostacoli nel rappresentare in linguaggio simbolico formale le regole che sottendono ai patterns;

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• non tutti i patterns che è possibile percepire in una sequenza sono formalizzabili univocamente in senso matematico;

• difficoltà nel provare e dimostrare rigorosamente le regole sottendenti ai patterns che sono state trovate;

• le formulazioni in linguaggio algebrico delle regole sottendenti ai patterns diven-gono spesso del tutto scollegate dalle azioni e dalle rappresentazioni che le hanno prodotte;

• la formulazione di una soluzione per un problema di PG potrebbe non avere niente a che vedere con un ragionamento matematico sistematico, soprattutto qualora le sequenze in gioco siano collegate alla realtà empirica.

Una strategia volta a risolvere alcuni di questi problemi si basa sul prestare particolare attenzione alle attività che coinvolgono strumenti di tipo grafico/visuale: in effetti «durante il problem solving molti matematici [...] utilizzano il ragionamento visuale [...] come base per le loro intuizioni» (Noss et al. 1997, traduzione in italiano dell’autore). Secondo Arzarello (1994) esse «possono contribuire a disambiguare il tipo di riferimento che si stabilisce tra gli oggetti in gioco nella enunciazione del problema e possono guidare verso un utilizzo appropriato delle variabili». Noss et al. attribuiscono ad esse «il potenziale [...] di enfatizzare l’aspetto strutturale del lavorare coi pattern, piuttosto che quello puramente numerico» (Noss et al. 2009, traduzione in italiano dell’autore). Alcuni esempi di suddette attività si segnalano in letteratura negli studi di Lee (1996) e Mason (1996). Non è però sufficiente limitarsi a proporre unità didattiche contenenti tali tipologie di strumenti: spesso infatti accade che, di fronte a problemi che riguardino contenuti grafici, gli studenti tendano a preferire mettere in atto strategie di problem solving fondate prevalentemente sulla percezione piuttosto che sulle loro conoscenze formali, non effettuando collegamenti tra ciò che viene osservato e il pensiero analitico (Hillel e Kieran 1987).

È principalmente a partire dalle problematicità appena descritte che trovano genesi una serie di lavori sul PG, in cui convergono contributi anche in ambito informatico: ci riferiamo in particolare agli studi di Geraniou et al. (2009), Chua et al. (2009), Noss et al. (2009), Mavrikis et al. (2013). Tali studi perseguono l’obiettivo di «sviluppare un ambiente di apprendimento esplorativo ed intelligente per supportare gli studenti nell’effettuare generalizzazioni matematiche [...] relativamente [...] alla genesi e all’analisi di patterns» (Geraniou et al. 2009, traduzione in italiano dell’autore), dando la possibilità di «riflettere su ciò che di generale c’è nello specifico [...] e, in modo reciproco, ciò che di specifico c’è nel generale» (Noss et al. 2009, traduzione in italiano dell’autore).

Il punto di partenza consiste nell’individuazione dei principali fattori che influiscono sulle performance degli studenti nell’affrontare attività di PG (Chua et al. 2009):

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2. il tipo di funzioni coinvolte nella regola sottesa al pattern (lineare, quadratica etc.); 3. il numero di variabili (indipendenti) coinvolte;

4. il grado di esplicitazione con cui dal pattern sia possibile ricavare ciò che genera la variabile, per esprimere algebricamente le relazioni in gioco;

5. il numero di dimensioni spaziali messe in gioco nella rappresentazione del pattern (bidimensionale, tridimensionale).

Focalizzando l’attenzione su questi nodi critici il presente filone di studi ha portato alla creazione di un ambiente interattivo su calcolatore, un «microworld» chiamato eXpresser: all’interno di esso è possibile costruire ogni tipo di pattern a partire dalla disposizione di alcune unità base, ovvero dei tasselli colorati di forma quadrata, potendo scegliere il numero di ripetizioni della figura da cui sarà costituito il pattern e la distanza orizzontale e verticale tra una figura e la successiva (Figura 1). Le sessioni didattiche sperimentali che

Figura 1:L’interfaccia di eXpresser, con evidenziate due diverse possibili costruzioni dello stesso pattern (Geraniou et al. 2009)

utilizzano tali mezzi basano le richieste da proporre agli studenti sulle fasi di costruzione personale di un pattern dato e sulla scoperta di una regola che permetta di determinare il numero totale di tasselli che compongono il pattern, per un qualsiasi numero di ripetizioni della figura di cui esso è costituito. Tutti gli autori sottolineano l’importanza dello svolgere le attività su un supporto tecnologico come il calcolatore, alla cui base sta la seguente convinzione: «dynamically presented tasks [...] would draw students’ attention to the general problem, rather than the inevitable static (and therefore specific) problem» (Noss et al. 2009).

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Il presente lavoro di tesi, che dunque riteniamo essere rilevante in tali contesti, vede la luce a partire da tutti gli studi citati fino ad ora: studieremo gli effetti dell’utilizzo di un particolare tipo di pattern visivo, mediante attività di classe, per l’apprendimento dell’algebra elementare.

Nel Capitolo 1 delineeremo il quadro teorico sulle cui fondamenta si svilupperà il lavoro sperimentale; nel Capitolo 2 formuleremo le domande di ricerca che ne costituiranno il motore; nel Capitolo 3 espliciteremo l’impalcatura metodologica su cui esso si regge, compresi i criteri che ci permetteranno di dare una risposta alle domande di ricerca; nel Capitolo 4 analizzeremo i dati raccolti durante la sperimentazione, per poi tirarne le somme nelle dovute Conclusioni.

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Quadro teorico

In questo capitolo vogliamo strutturare l’impalcatura teorica su cui si basa il nostro lavoro, andandone ad approfondire alcuni architravi già consolidati in studi precedenti e definendo formalmente le nozioni che utilizzeremo per portarlo avanti.

1.1

Abilità di visualizzazione

In questo lavoro di tesi risulta fondamentale l’utilizzo di immagini, su cui si baseranno molte delle attività che andremo a strutturare. Ci riferiremo dunque spesso a quelle che chiameremo col nome di abilità di visualizzazione proprie di ogni singolo individuo: «[...] the ability, the process and the product of creation, interpretation, use of and reflection upon pictures, images, diagrams, in our minds, on paper or with technological tools, with the purpose of depicting and communicating information, thinking about and developing previously unknown ideas and advancing understandings.»

(Arcavi 2003) Sarebbe dunque corretto dire che, nell’interpretazione di una figura con cui è necessario interagire in un contesto di problem-solving, entra in gioco la singola persona nella sua interezza, compresi i propri vissuti, idee, sensazioni. Nel caso dei bambini o adolescenti in una classe questo aspetto è amplificato dal fatto che, spesso, la mente di un adulto esperto si dimostra abituata a riconoscere somiglianze e preferisca utilizzare certi schemi visivi e metodi "standard": invece, come ricorda anche Mason, le menti giovani presentano un livello maggiore di plasticità neurale, con il risultato che esse «sono particolarmente capaci nel trovare strade nuove» (Mason 1996, traduzione in italiano

dell’autore).

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1.2

La teoria della mediazione semiotica

Le nozioni che vogliamo utilizzare appartengono al quadro teorico impostato da Bartolini Bussi e Mariotti (2009); chiariamo innanzitutto cosa si intende con il termine mediazione: «[...] un processo con una complessa struttura semantica che include i seguenti partecipanti e

circostanze che sono potenzialmente rilevanti in questo processo: • qualcuno che media, il mediatore;

qualcosa che viene mediato [...];

• qualcuno/qualcosa soggetto alla mediazione, il ricevente a cui la mediazione apporta qualche differenza;

la circostanza della mediazione;i mezzi della mediazione;

il luogo [...] in cui la mediazione può avvenire.»

(Hasan 2002, in Bartolini Bussi e Mariotti 2009) Risulta necessario specificare il significato dei primi due punti: nel contesto didattico che considereremo, ovvero la classe di un istituto di istruzione secondaria, ciò che verrà mediato saranno i saperi di riferimento per cui si vuole impostare un percorso di apprendimento. Relativamente al mediatore, non ci si riferisce al compito, comunque fondamentale, dell’insegnante, che ha il ruolo di guida esperta nell’ottica di favorire tali processi di apprendimento. Il compito di mediare il sapere risiede in ciò che chiameremo con il termine artefatto:

Definizione 1.1. Un artefatto è uno strumento didattico che, utilizzato coerentemente nel-lo svolgimento di determinate attività connesse ad esso e basate sul sapere di riferimento, può svolgere la funzione di mediatore tra esso e chi è soggetto alla mediazione.

Un artefatto ha allora di per sè «una duplice natura, da un lato è messo in relazione ad un compito specifico a cui fornisce mezzi di soluzione adatti, dall’altra parte esso è collegato ad un particolare sapere matematico» (Tedeschi 2015). L’aspetto fondamentale di questa dualità, ultimo contributo della teoria della mediazione semiotica che considereremo per il presente lavoro, è che essa si realizza in un legame di natura semiotica tra l’artefatto e i saperi: gli alunni, soggetti alla mediazione, nello svolgere le attività con l’artefatto produrranno, in modo più o meno consapevole, alcuni segni (parole, gesti, disegni etc.) che è possibile suddividere in due categorie.

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(S1) Da una parte possiamo trovare quei segni, detti segni situati, derivanti direttamente dallo svolgimento delle richieste assegnate nelle attività e quindi rappresentanti della relazione suddetta tra artefatto e compito assegnato.

(S2) Dall’altra si considerano quei segni, detti segni matematici, che hanno la loro genesi nel sapere formalizzato che sottende alle attività svolte e che dunque rappresentano la relazione tra artefatto e saperi matematici.

Tali segni offrono l’opportunità all’insegnante di promuovere il processo di mediazione tra l’artefatto e il sapere: sarà su queste occasioni che si baserà uno dei criteri di efficacia del nostro lavoro, come vedremo nel Capitolo 3.

In questo lavoro di tesi ci riferiremo a due saperi matematici che abbiamo introdotto in precedenza:

1. il concetto di variabile algebrica

2. la nozione di equivalenza tra espressioni

Dunque, con gli elementi fino ad ora introdotti, definiremo un artefatto che svolga la funzione di mediatore tra questi saperi e gli studenti.

1.2.1 Patterns a mosaico

Definiamo quindi l’artefatto che abbiamo utilizzato in questa tesi:

Definizione 1.2. Chiamiamo Blocco Base (BB) una figura composta, a partire da una griglia piana quadrettata, colorando alcuni dei tasselli che compongono la griglia (un esempio in Figura 1.1).

Figura 1.1: Un esempio di Blocco Base

Fissiamo dunque un BB e poi un vettore direzione v= (a; b) ∈ Z × Z.

Definizione 1.3. Per n ∈ N componiamo, in una griglia piana quadrettata, n ripetizioni del BB scelto, disposte secondo le indicazioni contenute nel vettore v: ovvero ogni ripetizione va aggiunta alla griglia spostandosi rispetto alla precedente di |a| sull’asse

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orizzontale, verso destra se il segno è positivo verso sinistra altrimenti, e di |b| sull’asse verticale, verso l’alto se il segno è positivo verso il basso altrimenti (un esempio in Figura 1.2). Chiamiamo Figura n di un Pattern a Mosaico (FnPM)una figura generata a partire

da questo procedimento e ammettendo inoltre che ad una e una sola ripetizione del BB possa essere aggiunto (o rimosso da quelli già contenuti nella ripetizione considerata) un insieme di tasselli, che chiameremo coda.

Figura 1.2:Una F3PM con direzione (4; 0) e una F4PM con direzione (3; 2) con una coda

rimossa

Osservazione 1.4. Si noti che un BB genera la stessa FnPM, ad eccezione dell’eventuale

coda, qualora, come direzione, venga preso −v al posto di v.

Dunque una FnPM si concretizza di fatto in una sequenza composta da n ripetizioni

di una figura base (un BB) e quindi, per utilizzare la terminologia introdotta da Mavrikis parlando di eXpresser, consiste in «un elemento ripetuto, [...] un "blocco costruttore"[...], che è fatto raggruppando alcuni tasselli» (Mavrikis 2013, traduzione in italiano dell’autore).

Definizione 1.5. Utilizzeremo la nomenclatura Pattern a Mosaico (PM) per indicare una generica sequenza visiva, con un qualsiasi numero di ripetizioni del BB, generata con i metodi appena descritti. Con la dicitura PM composto inoltre ci riferiremo, eventualmente, ad una sequenza generata dall’incastro di due o più PM composti da diversi BB (vedi Figura 1.3).

Figura 1.3:Un PM composto con 3 e 2 ripetizioni: in evidenza i diversi BB (in differenti tonalità di verde)

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Si noti subito che queste definizioni non escludono affatto eventuali sovrapposizioni di alcuni tasselli dei BB (vedi Figura 1.4)

Figura 1.4:Una F5PM con direzione (2; 1) e con una coda aggiunta (di diverso colore): in

scuro si evidenziano le sovrapposizioni tra diversi BB

Alla stregua delle definizioni proposte fino ad ora, facciamo notare che la nozione di

variabile algebricaemerge, in tale contesto, quando si va ad indicare il numero variabile di ripetizioni del BB in un PM.

In precedenza abbiamo già utilizzato termini come "regola" o "formula" sottendente ad un pattern: formalizzeremo ora queste idee relativamente all’artefatto appena definito.

Definizione 1.6. Una regola o formula sottendente a un PM è una relazione algebrica generale, esprimibile in notazione aritmetica standard (dieci cifre, quattro operazioni, lettere dell’alfabeto, parentesi etc.), che rappresenta il numero di tasselli colorati che compongono un PM in funzione del numero delle ripetizioni del BB, tenendo conto del fatto che, nel caso vi siano sovrapposizioni dei BB, i tasselli coincidenti saranno contati una sola volta.

Osservazione 1.7. Spesso, quando parleremo della regola di un PM, per semplicità ci riferiremo implicitamente alla relazione lineare ridottaα · n + β, α ∈ N, β ∈ Z, ottenibile effettuando le classiche semplificazioni algebriche.

La proprietà fondamentale di una regola così definita riguarda in particolar modo la sua generalità : «The important thing about a rule is that should account for all the terms shown, and be capable of being extended indefinitely. This is one major aspect of mathematical sequences» (Mason 1996).

Vediamo qualche esempio di regola (in questo lavoro utilizzeremo molto spesso n per esprimere il numero di ripetizioni del BB, ovvero la variabile indipendente):

• i PM rappresentati in Figura 1.2 possono essere identificati rispettivamente dalle regole 12n e 12n − 2;

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• il PM rappresentato in Figura 1.4 può essere identificato dalla regola 12n−4·(n−1)+2, visto che i tasselli sovrapposti, che sono 4 tra una ripetizione e l’altra del BB, vanno contati una sola volta; si noti che n − 1 deriva dal fatto che le sovrapposizioni avvengono una volta in meno rispetto alle ripetizioni del BB;

• nel caso di un PM composto, poiché non è detto che il numero di ripetizioni dei BB sia lo stesso per i singoli patterns, sarà necessario esplicitare quale pattern costituisca il collegamento con la variabile, come nella definizione, ed esprimere in funzione di essa le variabili relative ai rimanenti PM; dunque il PM composto in Figura 1.3 può essere rappresentato dalla regola 12n+ 4 · (n − 1), scegliendo come variabile il numero di ripetizioni del PM in verde scuro.

Si osservi innanzitutto che i PM si legano a regole che rappresentano necessariamente relazioni lineari tra la variabile indipendente e il numero totale di tasselli. Fondamentale risulta poi osservare che, per uno stesso PM, sono molteplici le regole che è possibile scoprire: ad esempio, considerando nuovamente il PM in Figura 1.4, si potrebbe visualizzare un pattern che non prevede sovrapposizioni, come quello in Figura 1.5; tale scelta, che dunque prevede un cambiamento della coda del PM, genera una regola della forma 8 · n+ 6.

Figura 1.5: In verde un BB alternativo che può essere scelto; in arancione i tasselli che compongono la nuova coda

Una definizione così fatta apre le porte, oltre che ad un’esteso ventaglio di possibilità nella creazione di un PM, anche ad un’ampia varietà di interpretazioni di uno stesso PM: in effetti ciò che ci interessa in questo lavoro riguarderà tutte le possibili strategie messe in gioco per risolvere problemi con l’artefatto, di cui è doveroso qui dare una definizione rigorosa che, tuttavia, non è necessario proporre agli studenti. La causa di questa possibile varietà sta quindi nel fatto che il BB utilizzato dall’ideatore per generare il PM non è evidente da parte di chi si trova davanti una qualsiasi FnPM senza

(21)

contesto del genere quelle che abbiamo chiamato, nel paragrafo precedente, abilità di

visualizzazione.

L’ampio spettro di possibilità che la determinazione di una regola per un PM offre va di pari passo con un’osservazione ovvia ma importante:

Osservazione 1.8. Nonostante la struttura sintattica e la genesi completamente di ffe-rente, tutte le regole determinate correttamente per un PM risultano algebricamente

equivalenti tra di loro.

Analizzeremo dunque in questa luce le possibilità che tale strumento possa mettere a disposizione, affrontando l’apprendimento delle trasformazioni su espressioni algebriche. In sintesi, ripercorrendo la classificazione dei fattori relativi alle attività di PG effettuata da Chua et al. (2009) e vista nel secondo paragrafo, possiamo affermare di aver creato un artefatto i cui patterns:

• sono di tipo grafico;

• sottendono a relazioni lineari tra le variabili; • coinvolgono una sola variabile indipendente;

• contengono al loro interno gli elementi necessari per la determinazione di ciò che fungerà da variabile, con, dunque, un buon livello di esplicitazione;

• sono bidimensionali.

1.2.2 La discussione matematica

Si è fatto riferimento in precedenza al ruolo fondamentale che, nel contesto della me-diazione semiotica, l’insegnante riveste nel favorire l’apprendimento. In dettaglio, il ruolo del docente riguarda il passaggio tra i due diversi sistemi di segni, situati e matematici, emergenti dalle attività proposte: scopo del processo di apprendimento legato alla doppia natura dell’artefatto impiegato è infatti la costruzione di relazioni parallele tra i segni situati e quelli matematici. Poiché queste relazioni sono spesso tutt’altro che esplicite, deve entrare in gioco una figura esperta che guidi il passaggio con consapevolezza:

«Noi sosteniamo che la funzione di mediazione semiotica di un artefatto possa essere utilizzata da un esperto (in particolare l’insegnante) che sia consapevole del potenziale semiotico dell’artefatto sia in termini di significati matematici sia in termini di significati personali.»

(Bartolini Bussi e Mariotti 2009) Per permettere all’insegnante di farsi promotore della mediazione risulta centrale il ruolo di un momento di classe a cui Bartolini Bussi et al. (1995) si riferiscono

(22)

con il nome di discussione matematica, introdotto originariamente in letteratura da Pirie e Schwarzenberger (1988), riferendosi ad un «discorso mirato su un argomento di matematica in cui ci sono contributi originali degli allievi ed interazione». Bartolini Bussi et al. (1995) definiscono alcune strategie comunicative specifiche particolarmente efficaci nell’intraprendere una discussione matematica in un’ottica di mediazione:

• le domande aperte, volte a far riorganizzare o ampliare i ragionamenti, si rivelano molti più funzionali rispetto alle domande chiuse o che prevedono risposte molto vincolate, che invece sono «inefficaci, perché bloccano l’allievo», oppure «efficaci (provocano cioè una reazione), ma poco indicative»;

• le varie tecniche di rispecchiamento, che consistono nella «ripresa di un contributo informativo presente in una battuta senza aggiungervi una propria valutazione esplicita, ma, eventualmente, modificandone parzialmente la formulazione»; ad esempio l’eco (ripetizione di un intervento breve), la ricapitolazione (riassunto di più interventi) e l’informazione (rispecchiamento con integrazione);

• la parafrasi, che ha lo scopo di trasformare i contributi degli studenti avviando movimenti sia di generalizzazione sia di particolarizzazione, transitando dal contestualizzato al decontestualizzato e viceversa.

Durante le attività che andremo a svolgere nella sperimentazione prevista in questo lavoro, adotteremo dunque alcune scelte, esplicitate nel Paragrafo 3.1, che si rifaranno ai contributi di cui sopra e che conseguiranno in modo naturale da due strategie generali che Bartolini Bussi et al. (1995) impiegano nelle loro sperimentazioni:

1. proporre sistematicamente discussioni;

2. richiedere continuamente di accompagnare la soluzione dei problemi con accurate verbalizzazioni del processo e commenti individuali.

1.3

Teoria delle situazioni didattiche

L’ultimo tassello del contributo della letteratura a cui ci rifaremo in questo lavoro è la teoria delle situazioni didattiche elaborata da Guy Brousseau (1986) nel contesto dell’aula, per il quale egli distingue tra tre tipologie di circostanze.

• Situazione didattica: ogni aspetto della vita scolastica (gli obiettivi degli insegnanti, dell’istituto) è esplicito ed organizzato; legata al fenomeno del «contratto didattico» (Brousseau 1980).

• Situazione non didattica: non c’è alcun tipo di organizzazione, né obiettivi specifici, sebbene possa comunque esserci apprendimento.

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• Situazione a-didattica: l’insegnante costruisce situazioni in cui gli alunni possano costruire il loro rapporto con la conoscenza specifica in risposta alle esigenze dell’ambiente (chiamato da Brousseau il «milieu») e non dell’insegnante. Per realizzare ciò si devono proporre problemi, «situazioni fondamentali», di cui non si abbia soluzione immediata e per cui gli strumenti di base si rivelino inefficienti, costringendo a una qualche modifica del sistema di conoscenze. Una situazione a-didattica si articola in quattro fasi principali:

Azione L’insegnante propone il problema, di cui gli allievi si facciano carico personalmente, e si sfila dalla scena.

Formulazione A seguito delle attività si promuovono discussioni matematiche in cui si instaura un confronto tra gli studenti e avviene una prima comunicazione della conoscenza acquisita, che è personale e, per essere decontestualizzata, deve essere condivisa, anche con l’insegnante, ma soprattutto con i pari. Il contratto didattico si rompe perché il docente scompare nel momento di elaborazione della conoscenza personale, che avviene in risposta ad obblighi non didattici, ma relativi al sapere stesso; egli poi ritorna, in qualità di portatore del sapere istituzionalizzato, nel momento di validazione.

Validazione L’insegnante interviene nella discussione da moderatore, per mettere in ordine gli interventi e le idee; incoraggia alla precisione; stimola, fa domande e osservazioni. La discussione viene da egli guidata, come in un ambito di dibattito accademico, verso la scelta condivisa di una conoscenza da validare.

Istituzionalizzazione L’insegnante, portatore del sapere istituzionalizzato, infor-ma gli studenti sulla terminologia, le definizioni, i risultati accademicamente accettati dalla comunità scientifica riguardo a quel determinato sapere. Nella pratica comune si riscontra (Brousseau 1986) una propensione all’instaurazione di situazioni didattiche o a-didattiche che vedono però una degenerazione delle prime tre fasi proposte, ad esempio:

• l’azione perde di efficacia quando l’insegnante fa intendere subito il risultato voluto;

• la formulazione viene snaturata nel suo obiettivo quando l’insegnante dà fin da subito giudizi sulle congetture e sul linguaggio utilizzato dagli studenti;

• la validazione degenera qualora sia l’insegnante a scegliere la conoscenza da istituzionalizzare.

Basandoci su tali teorie e problematiche nella Sezione 3.1 elencheremo alcune scelte, rela-tive alla gestione del lavoro di classe, che riteniamo consone alla nostra sperimentazione. Inquadrato il contesto teorico, procediamo a formulare gli obiettivi di questo lavoro.

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(25)

Domande di ricerca

A partire dalla cornice teorica che abbiamo introdotto nel precedente capitolo vogliamo ora formulare le domande di ricerca che hanno guidato questo lavoro. La letteratura presentata in precedenza e alcune riflessioni preliminari provenienti anche dal contesto appena introdotto hanno fatto emergere la seguente ipotesi:

(H1) attività di tipo grafico/visuale riguardanti il PG si rivelano efficaci nel far emergere i concetti di variabile algebrica e di equivalenza algebrica

A partire da essa sono state formulate dunque le seguenti domande di ricerca.

Domanda 1: È possibile che l’utilizzo di unità didattiche contenenti attività con Patterns a Mosaico contribuisca allo sviluppo di un’idea anticipatoria del concetto di

variabile algebrica? Se sì, in che modo?

Domanda 2: È possibile che l’utilizzo di unità didattiche contenenti attività con Patterns a Mosaico contribuisca allo sviluppo di un’idea anticipatoria del concetto di

equivalenza algebrica? Se sì, in che modo?

Durante tutte le fasi di ogni incontro la nostra attenzione si focalizzerà sui segni

situatie matematici che verranno prodotti dagli studenti nell’interazione con l’artefatto, nonché nelle attività e nelle discussioni ad esso collegate: essi ricopriranno un ruolo cruciale nell’analisi dei dati (vedi Paragrafo 3.3.1). Nello specifico, per definire quali saranno i segni legati alle due conoscenze principali che vogliamo mediare, ci porremo le seguenti domande:

• Quali segni vengono utilizzati come indicatori di pensiero generalizzato? • Con quali termini vengono indicati i BB?

• In che modo viene espressa la ripetizione dei BB nella sequenza? Come ci si riferisce ad una generica ripetizione n-esima del PM?

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• Quali parole e gesti vengono utilizzati nel momento del confronto tra espressioni diverse?

• È emerso il riconoscimento dell’analogia tra le diverse regole corrette relative ad uno stesso PM? Quali segni vengono prodotti per riferirsi ad esse?

• Quali giustificazioni sono state date alla presenza di diverse regole per uno stesso PM?

Formulate le domande di ricerca possiamo entrare nel dettaglio dell’unità didattica, esplorando la metodologia impiegata dalla sperimentazione.

(27)

Metodologia

Per affrontare le domande di ricerca ci siamo posti i seguenti obiettivi.

(O1) Sviluppare e sperimentare in alcune classi prime delle scuole secondarie di secondo grado, precedentemente all’introduzione in classe dei primi concetti di algebra elementare, un’unità didattica di 6 ore basata sui PM.

(O2) Sviluppare alcuni criteri di verifica che permettano di valutare l’efficacia dell’unità didattica nell’affrontare le problematiche descritte in precedenza, con l’ottica di poterla proporre agli insegnanti che vorranno farne uso.

Nel perseguire tali finalità si tenterà, in conclusione e a solo scopo "completistico", anche un breve confronto delle riflessioni e dei risultati emersi dalle due tipologie di istituto (Liceo Scientifico ed Istituto Professionale) a cui appartengono le classi in cui si è effettuata la sperimentazione.

3.1

Gestione del lavoro in classe

La sperimentazione dell’unità didattica, che andremo a presentare nei dettagli nel prossimo paragrafo, si svolgerà in tre classi prime di altrettante scuole secondarie di secondo grado della Toscana: nel dettaglio, un liceo scientifico e due istituti professionali. Si lavorerà quindi con studenti che hanno già visto, nel proprio percorso scolastico, l’utilizzo delle lettere in matematica, rispettando però l’intenzione, a cui si è già fatto cenno in precedenza, di intraprendere questo breve percorso in modo tale che risulti incastonato in un momento dell’anno scolastico antecedente alla reintroduzione dell’algebra letterale. Per ogni classe si svolgeranno tre incontri da due ore ciascuno, in ognuno dei quali si proporranno due attività distinte: lo sperimentatore guiderà tutte le attività svolgendo il ruolo del docente. Tutte i momenti di classe saranno registrati1: in seguito i vari spezzoni

1Ottenute le liberatorie dai genitori degli studenti.

(28)

saranno numerati in ordine temporale di acquisizione per ogni singolo incontro. Si instaurerà, per lo svolgimento di tutte le attività, un contesto d’aula di tipo laboratoriale, il più possibile legato alla creazione di situazioni a-didattiche, come visto nella Sezione 1.3. Per far ciò abbiamo suddiviso in passaggi l’attuazione di ogni attività, in parallelo alle analoghe fasi esplicitate da Brousseau:

1. dopo un momento iniziale di discussione sulle consegne, si chiederà di lavorare su di esse individualmente o in coppie (o comunque gruppi molto piccoli di massimo tre studenti) −→ "azione"

2. in seguito si avvierà un primo momento di discussione collettiva, in cui gli alunni si confronteranno tra di loro e in cui avverrà una prima comunicazione della conoscenza acquisita −→ "formulazione"

3. durante la discussione lo sperimentatore entrerà in gioco da moderatore e da stimolatore nei confronti della classe che, come una comunità scientifica (ed infatti spesso ci riferiremo alla classe come comunità ), si avvicinerà a condividere una conoscenza da validare −→ "validazione"

Con consapevolezza abbiamo scelto di non inserire quella che sarebbe l’ultima fase di questo percorso, ovvero quella relativa all’ "istituzionalizzazione": la motivazione risiede nel fatto che uno dei criteri di efficacia che definiremo alla fine di questo capitolo riguarderà le occasioni e gli spunti offerti dai segni prodotti dagli alunni nei loro processi di creazione delle conoscenze, sia in quello individuale e personale che in quello attuato con i compagni di classe. Il motivo, inoltre, dell’aver preferito il lavoro individuale o i gruppi molto piccoli riguarda il fatto che il lavoro con gruppi di un numero più consistente avrebbe richiesto un percorso di crescita della classe articolato su tempi più lunghi: nel caso in cui la classe, infatti, non abbia una solida esperienza di lavoro in team, potrebbe emergere il rischio di soffocare sul nascere alcune produzioni individuali.

Le strategie adottate nella pratica per realizzare dunque gli scopi ora descritti, rifacendosi alla letteratura citata nelle Sezioni 1.2 e 1.3, sono state:

• lasciare più spazio possibile alle parole degli studenti, alimentando le discussioni tra pari e stimolando la formulazione e la condivisione di opinioni da parte di tutti; • lasciare più spazio possibile alle idee e conoscenze emergenti dagli studenti, senza mostrare preferenze per alcune strade adottate in confronto ad altre, o etichettare immediatamente alcune strategie come "inefficienti" o "sbagliate" (o analogamente come "esatte");

• guidare le discussioni in modo tale che il riconoscimento da parte della comunità classe di eventuali soluzioni corrette o errate provenga inizialmente da una

(29)

negoziazione e cooperazione dell’intero gruppo, e solo in seguito dalle parole dello sperimentatore;

• non parlare esplicitamente di variabile, algebra, equivalenza, formula, ma utilizzare i termini utilizzati dagli stessi alunni;

• non mostrare preferenze per le convenzioni linguistiche, nomi, simboli, terminolo-gie adottate e scelte dalla comunità classe, anzi promuovere la collaborazione nel prendere decisioni concordate a riguardo.

Un discorso a parte merita l’adozione di un altro espediente didattico riguardante le abilità di visualizzazione di cui si è parlato nel Paragrafo 1.2.1: ogni attività in cui sia presente un elemento grafico, infatti, è stata introdotta da una domanda e una discussio-ne preliminare per stimolare la condivisiodiscussio-ne delle proprie sensazioni e raffigurazioni riguardo le immagini stesse.

Andiamo dunque ora a descrivere nel dettaglio lo svolgimento dei vari incontri: precisiamo che il ciclo di sperimentazione svolto nella prima classe è servito come banco di prova per capire se le consegne fossero formulate in modo non ambiguo e comprensibile, dunque, prima di affrontare i due cicli successivi, sono state apportate alcune modifiche al testo che, qualora siano significative, verranno segnalate in seguito. Le schede degli incontri, complete delle modifiche a cui si è appena fatto riferimento, si trovano in Appendice.

3.2

Analisi a priori

3.2.1 Incontro 1

Il primo incontro prevede lo svolgimento di due attività , analoghe per quanto riguarda la finalità delle richieste e differenti solo nel PM considerato e sui dati numerici messi a disposizione: per questo motivo è stato scelto di suddividere l’incontro in tre fasi, che si snodano in parallelo su entrambe le attività .

Osservazione 3.1. Ho scelto di suddividere così l’incontro anche per un motivo di pratica didattica: visto che il lavoro di ogni incontro è pensato sempre per essere intrapreso in due ore consecutive, alternando più volte lo sforzo individuale con la discussione potrebbe risultare più facile mantenere un livello di concentrazione accettabile.

Osservazione 3.2. Quando dovrò utilizzare, in questo testo, una variabile per esprimere una relazione algebrica che non derivi direttamente dalle produzioni orali o scritte di uno studente userò sempre, per semplicità , la lettera n.

(30)

Fase 0: Visualizzazione [Tempo previsto: 10 minuti]

Consegno a tutti un foglio a due facciate contenente le due immagini in Figura 3.1.

Figura 3.1:I due PM della prima attività , con direzioni rispettivamente (3; 0) e (2; 0): in evidenza i BB utilizzati per generarli.

Chiedo dunque, prima per una e poi per l’altra: Ditemi cosa vedete in questa immagine.

Raccolgo le loro opinioni a riguardo e qualora qualcuno faccia riferimento a delle pluralità di oggetti, chiedo:

Quanti ne vedi?

Inoltre, nel caso in cui non sia chiaro, chiedo di spiegare nel dettaglio come sia composto l’oggetto a cui viene fatto riferimento. Ad esempio se qualcuno, riferendosi al primo PM, dice di vedere cinque note musicali, dico:

Indica da quali tasselli è composta una singola nota.

In questo modo si può già avere anche una primissima idea dei BB, per ora impliciti, che con tutta probabilità saranno utilizzati per affrontare le richieste. Quando tutti hanno liberamente espresso la propria opinione, affermo:

Bene, adesso che mi avete detto la vostra, anche io faccio lo stesso: per me queste due immagini rappresentano cinque note musicali collegate tra loro e composte da 43 quadratini, nel primo caso, e un castello con quattro portoni e composto da 38 quadratini, nel secondo. Le mie interpretazioni hanno lo stesso valore delle vostre: non sono né più né meno importanti. Nel testo delle attività troverete scritto questo mio modo di vedere, che ci servirà per metterci d’accordo e per parlare più facilmente degli oggetti rappresentati in queste immagini.

Fase 1: Esplorazione dell’artefatto

[Tempo previsto: 40 minuti, 20 di lavoro a gruppi e 20 di discussione collettiva]

Si formano dunque i piccoli gruppi (o si lascia il lavoro individuale) e chiedo di rispon-dere alle domande a) e b) di entrambe le attività che troveranno sulla scheda.

(31)

Attività 1 Attività 2

a) Quanti quadratini servono per rap-presentare una sequenza dello stesso

tipocon 6 note?

a) Quanti quadratini servono per rap-presentare un castello dello stesso

tipocon 5 portoni? b) Quanti quadratini servono per

rap-presentare nello stesso modo una sequenza dello stesso tipo con 10 note?

b) Quanti quadratini servono per rappresentare nello stesso modo un castello dello stesso tipo con 9 portoni?

Contemporaneamente chiedo di pormi tutte le eventuali domande di chiarimento sul testo delle consegne e di chiamarmi per qualsiasi altra questione. Durante il lavoro giro costantemente nella classe ascoltando le riflessioni derivanti dalle prime discussioni all’interno dei gruppetti e rispondendo alle domande.

Le richieste di questa prima fase, che si riducono ad una sola dal punto di vista formale, hanno l’obiettivo di far prendere familiarità con i PM.

Osservazione 3.3. Si noti che, nell’Attività 1 (e non nella 2), il pattern è stato espresso in un modo volutamente ambiguo rispetto alla definizione formale che abbiamo dato di PM: si è detto infatti che siano «5 note», ma non si riesce a definire un unico BB per questo PM che si ripeta 5 volte senza rimuovere code. Abbiamo fatto questa scelta con lo scopo di osservare se emergano domande sul modo in cui vada vista una "nota" da parte degli studenti, del tipo: Cos’è una nota, come deve essere fatta?

Mi aspetto che le strategie messe in atto per riuscire a rispondere alle domande a) siano di tipo procedurale e di conteggio: credo che la maggior parte degli alunni proverà a capire come dovrebbe essere la nuova figura e aggiungerà alla destra del disegno, o immaginerà di aggiungere, i tasselli necessari a comporla. Dunque per rispondere correttamente alla domanda si può sommare, al numero di tasselli iniziale fornito dalla scheda, il numero di quelli aggiunti, ad esempio scrivendo rispettivamente per i due PM:

43+ 9 = 52 ; 38 + 8 = 46

Un’alternativa ad un percorso di questo tipo si baserebbe sull’utilizzare fin da subito una strategia generalizzante, andando quindi ad anticipare le risposte alle domande

(32)

successive, per poi applicarla al caso specifico contemplato dalla richiesta: nel caso in cui ciò dovesse avvenire, nonostante un tale procedimento possa far pensare che la persona in questione abbia già soddisfatto l’obiettivo delle attività, assumerò lo stesso atteggiamento che avrei nei confronti di una qualsiasi altra risposta, senza confermare subito l’eventuale correttezza o erratezza dei ragionamenti, né mostrare preferenze. Ad esempio se qualcuno dovesse esporre i propri ragionamenti, oltretutto possibil-mente corretti, utilizzando già lettere, o parlando di "formule", "espressioni", mi porrò in atteggiamento di ascolto esattamente come farei per una risposta che esponga un eventuale ragionamento di conteggio errato: chiedendo chiarimenti, ponendo stimoli se necessario e lasciando alla discussione tra pari il ruolo di formulazione della cono-scenza. Lascerò che arrivi il momento di discussione che sarà intrapreso nella Fase 2 di questo incontro, in cui si vuole giungere esplicitamente ad un primo vero tenta-tivo di generalizzazione, per intervenire in modo più diretto sui segni prodotti dai alunni.

Le domande b) variano di poco la casistica attesa nei ragionamenti; principalmente suppongo che ci sarà:

• chi disegnerà (o immaginerà di farlo) ancora una volta i tasselli mancanti per arrivare alla nuova figura, cosa nuovamente fattibile, vista la relativa limitatezza del dato fornito;

• chi svilupperà il proprio ragionamento rispetto alle tattiche di conteggio, iniziando a percepire la presenza di uno schema che si ripete e dunque, prendendo come esempio il primo PM, basandosi sulla risposta precedente, dirà qualcosa del tipo «poiché prima per aggiungere una nota ho dovuto sommare nove quadratini a quelli che

avevo, per aggiungerne altre tre ad arrivare a dieci dovrò sommare altri 9 · 3 [o anche 9+ 9 + 9] quadratini a quelli che ho trovato nella risposta alla a)»;

• chi, come osservato prima, utilizzerà un metodo generale e vedrà questa domanda come un caso particolare.

Nel momento di discussione relativo a questa prima fase innescherò e stimolerò il confronto chiedendo di condividere con gli altri le risposte e le soluzioni ideate, lasciando più spazio possibile al dibattito inter-classe: suppongo che già da questi primi dialoghi emergano le prime concezioni personali dell’artefatto, i primi tentativi di creazione di un linguaggio e di una terminologia appropriata, i primi segni (situati e matematici). Tuttavia mi limiterò ad osservare tutto ciò ed attenderò la seconda fase di discussione per intervenire direttamente in questo processo.

Osservazione 3.4. Poiché questi primi quesiti sono formulati in modo da ottenere risposte finali (non ragionamenti) esclusivamente di tipo numerico, nel caso in cui dai vari gruppi siano proposti risultati diversi, interverrò dicendo:

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Come vedete sono usciti risultati differenti alla stessa domanda: secondo voi può andare bene, sono tutte risposte esatte, o il numero corretto dovrebbe essere soltanto uno? Perché?

Far riflettere su questo aspetto, che sfocia anche in un ambito meta-matematico, può essere interessante e funzionale a quando si affronteranno successivamente le discussioni relative all’idea di equivalenza algebrica.

Fase 2: Prime generalizzazioni

[Tempo previsto: 60 minuti, 25 di lavoro a gruppi e 35 di discussione collettiva]

Si chiede nuovamente di lavorare nei gruppetti creati in precedenza, questa volta rispon-dendo alle domande c) e d) di entrambe le attività che troveranno sulla scheda.

Attività 1 Attività 2

c) Quanti quadratini servono per rap-presentare una sequenza dello stesso

tipocon 100 note?

c) Quanti quadratini servono per rap-presentare un castello dello stesso

tipocon 80 portoni? d) Trova una regola per calcolare il

numero dei quadratini necessari a co-struire una sequenza dello stesso tipo con un numero qualsiasi di note.

d) Trova una regola per calcolare il numero dei quadratini necessari a co-struire un castello dello stesso tipo con un numero qualsiasi di portoni.

La domanda c) è analoga alle precedenti per formulazione, ma fa un passo in avanti: il numero elevato di ripetizioni che vengono messe in gioco impedirà il puro conteggio e il disegno della sequenza completa. Per rispondere, se non lo si è già fatto nelle precedenti richieste, è necessario mettere in moto un processo di generalizzazio-ne, seppur possibilmente embrionale e confusionario, che rimarrà comunque legato al caso specifico in questione visto che ancora una volta si richiede una risposta numerica. Sarà, presumibilmente, con la domanda d) che emergeranno più esplicitamente tutte le credenze, conoscenze, idee generate fino ad ora. Innanzitutto, la formulazione del quesito è del tutto diversa dai precedenti e non risulta evidente, come lo era per a), b) e c), quale tipologia di risposta possa essere considerata come corretta. Inoltre, per rispondere coerentemente i meccanismi di conteggio si rivelano insufficienti: la risposta

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numerica non è più contemplata e sarà necessario elaborare processi di pensiero che puntano alla generalizzazione.

Per entrambi i motivi appena descritti mi aspetto, indipendentemente dalla corret-tezza, una casistica molto varia relativamente alle produzioni degli alunni, sia a livello scritto che orale: suppongo che molti troveranno difficoltà, perlomeno inizialmente, sia nel formulare che nell’esprimere i propri ragionamenti; credo anche che molti si concentreranno sul tentativo di espandere i meccanismi di conteggio utilizzati even-tualmente in precedenza. Suppongo ci si debba aspettare che alcuni utilizzeranno da subito variabili, in modo corretto o non corretto, e dunque ci saranno risposte che si basano su un’espressione algebrica; oppure ci sarà chi racconterà , in forma del tutto verbale, il proprio ragionamento, servendosi quindi di frasi del tipo (ad esempio per il primo PM) «Aggiungo 9 quadratini ogni volta che si ripete una nota e poi ne tolgo due alla fine»; altri ancora forse mescoleranno le due forme. In ogni caso, nel momento in cui ognuno dovrà condividere con gli altri le proprie proposte, tutti dovranno spiegarle in un modo discorsivo/narrativo. Infatti, se qualcuno dovesse spiegare la propria risposta alla domanda d) esclusivamente con un’espressione algebrica, chiederei:

È chiara a tutti la spiegazione del vostro compagno? [In caso nessuno intervenga] Potresti spiegarci come mai hai usato questa lettera, cosa significa per te? Come mai hai somma-to/moltiplicato (etc.)?

Relativamente alla possibilità che alcune delle soluzioni ideate non siano matema-ticamente corrette, chiedere sempre esplicitamente alla classe, nel caso vi siano pochi interventi, se quello che è stato detto dai propri compagni sia chiaro, o se secondo loro sia corretto, credo possa costituire una prima valida possibilità di far emergere l’erratezza dalla stessa comunità classe, senza forzature da parte di chi conduce l’attività. D’altra parte, chiedere lo stesso tipo di conferma anche qualora la risposta sia giusta può fungere da validazione senza che debba essere necessariamente lo sperimentatore a farlo.

Un aspetto fondamentale di quest’ultimo quesito è che da qui prenderanno forma, nel caso in cui non sia ancora successo rispondendo alle altre domande, i diversi Blocchi

Baseutilizzati per trovare lo schema di ripetizione del Pattern a Mosaico su cui si sta lavorando. Infatti, per elaborare una soluzione al problema ogni studente dovrà effettuare, in modo implicito od esplicito, una personale suddivisione del PM che metta in evidenza un elemento figurale costante che si ripete tante volte quanto indicato nel testo. Per capire meglio cosa potrebbe accadere, tenendo però presente che non è possibile descrivere in modo esaustivo la casistica, consideriamo ad esempio il secondo PM:

• in certi casi questo elemento figurale non conterrà code di alcun tipo (vedi Figura 3.2);

(35)

Figura 3.2: Tale scelta genererebbe una regola del tipo 14n − 6 · (n − 1)

• potrebbe succedere che lo studente veda il PM come composto e venga scelto più di un BB (vedi Figura 3.3); il risolutore in tal caso dovrà prestare attenzione alla variabile, visto che non tutti i BB scelti si ripetono lo stesso numero di volte per formare il PM;

Figura 3.3:Tali scelte genererebbero regole del tipo 2 · [7n − 3 · (n − 1)] e 2n+ 6 · (n + 1) • qualcuno potrebbe effettuare una suddivisione del PM che preveda, oltre alla

ripetizione di un BB, l’aggiunta o la rimozione di code (vedi Figura 3.4).

Figura 3.4:Tali scelte genererebbero una regola del tipo 8 · n+ 6

Per il primo PM invece la casistica potrebbe essere differente, per quanto affermato nell’Osservazione 3.3. Mi aspetto che molti cercheranno di attenersi comunque alle indicazioni del testo, che parlano di 5 ripetizioni:

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• potrebbe succedere che venga scelto più di un BB (vedi Figura 3.5);

Figura 3.5: Tale scelta genererebbe una regola del tipo 7n+ 2 · (n − 1)

• qualcuno potrebbe, per cercare di compensare l’incompletezza di una quinta ripetizione del BB scelto, aggiungere alla figura alcuni tasselli di coda che fungano da "supporto" per il ragionamento, per poi rimuoverli alla fine del processo (vedi Figura 3.6).

Figura 3.6:Tale scelta genererebbe una regola del tipo 9n − 2

D’altra parte, non essendo formalmente definibile un BB unico ripetuto 5 volte nell’immagine, sussiste la possibilità che qualcuno non segua le indicazioni del testo e risponda alle domande considerando l’immagine di partenza come ripetizione di 4 BB:

• in certi casi l’elemento figurale non comprenderà code, ma risulterà ripetuto 4 volte (vedi Figura 3.7); la risposta al quesito potrebbe contenere, se la variabile non viene opportunamente traslata, discrepanze nell’espressione algebrica nei confronti di chi nell’immagine ha considerato invece 5 ripetizioni, come indicato nel testo;

Figura 3.7: Tale scelta genererebbe una regola del tipo 16n − 7 · (n − 1), che diventa 16 · (n − 1) − 7 · (n − 2) traslando opportunamente la variabile

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• qualcuno potrebbe effettuare una suddivisione del PM in modo tale da considerare una coda (vedi Figura 3.8); anche in questo caso però la variabile andrebbe "aggiustata" nei confronti del numero di ripetizioni indicate nel testo.

Figura 3.8: Tali scelte genererebbero una regola del tipo 9n+ 7, che diventa 9 · (n − 1) + 7 traslando opportunamente la variabile

Durante il momento di lavoro la mia impostazione sarà la stessa della prima fase: interverrò miratamente, invece, nel momento comunitario finale. Infatti suppongo che sarà nel corso di questo dibattito, sulle soluzioni delle domande c) e d), che emergerà la maggior parte dei segni situati e matematici che possono fare da ponte verso i saperi costituiti dai concetti di variabile e di equivalenza algebrica.

Da una parte mi aspetto che vengano usati termini, simbologie, gesti che siano indicatori di un pensiero generalizzato: ad esempio, credo che emergeranno delle parole per indicare i BB. Innanzitutto, approfitterò di questi termini per chiedere, qualora non sia esplicito dalla spiegazione:

Cosa è per te [termine utilizzato]? Indicalo a me e ai tuoi compagni utilizzando il disegno sulla scheda.

In questo modo si concretizzeranno le visualizzazioni personali che all’inizio dell’incontro erano stati in parte indagate. Dopo i dibattiti che saranno scaturiti sulle soluzioni, una delle cose che dirò alla classe, nel caso non sia già uscita, sarà:

Ascoltando le vostre risposte, ho notato che molti di voi, per arrivare ad una soluzione, hanno scelto alcuni quadratini della sequenza, formando dei "blocchi" che si ripetono, anche se diversi per ciascuno di voi. Li avete chiamati, ad esempio... [elenco i vari termini o simboli utilizzati] Visto che siete stati tanti a usare questa strategia, decidiamo un nome per questi "blocchi" che vada bene per tutti...

La scelta di un tale nome condiviso può essere un ponte solido per una eventuale istituzionalizzazione della nozione di variabile.

Una volta che il dibattito avrà portato ad avere un insieme di proposte di soluzione, alcune corrette altre no, alcune espresse in modo formale altre in modo verbale, interverrò partendo da quelle che contengono un qualche tipo di espressione algebrica e le scriverò alla lavagna, dicendo:

Come vedete, alcune di voi hanno risposto in un modo che assomiglia ad un’espressione, utilizzando numeri e operazioni: secondo voi, è possibile scrivere in modo simile anche le altre

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idee?

In questo modo vorrei arrivare ad avere un quadro completo delle risposte, scritte in una forma comune a tutte e con cui si possano attuare bene i passi successivi. Infatti a questo punto chiederei:

Visto che, da quello che avete detto prima, secondo voi le soluzioni e i ragionamenti che avete esposto sono tutti corretti, come mai sembrano così diversi? C’è qualcosa che li lega tutti? Mi aspetto che dal dibattito che ne scaturirà emergano principalmente due categorie di riflessioni.

1. Ragionamenti sulle variabili, sul fatto che tutti hanno dovuto appoggiarsi ad un qualcosa, a cui hanno dato un nome comune in precedenza, che si può trasferire in un’espressione sotto forma, ad esempio di lettera dell’alfabeto: credo riconosceranno l’arbitrarietà della lettera scelta, e quindi la totale analogia tra espressioni del tipo 9a − 2 o 9n − 2 (relativi al primo PM)

2. Ragionamenti sull’equivalenza di vario tipo: ci sarà chi avanzerà argomentazioni relative all’artefatto, ovvero che le varie regole, anche se formalmente diverse, poiché il PM è lo stesso e dunque anche il numero dei tasselli che compongono ogni ripetizione, esse hanno lo stesso valore risolutivo; d’altra parte mi aspetto che qualcuno proponga un ragionamento puramente algebrico, magari passando da un’espressione ad un altra mediante trasformazioni algebriche. Affiancando entrambi queste tipologie di idea credo si possa costruire un buon ponte verso l’istituzionalizzazione del sapere formalizzato dell’equivalenza algebrica. Se il tempo lo permette, infatti, sarà interessante vedere se la discussione potrà portare a trasformare ogni espressione in un’altra: suppongo che le espressioni molto simili, ovvero differenti solo per parentesi, ordine degli addendi o dei fattori (per esempio 2n+ [6 · (n + 1)] e 6 · (n + 1) + 2n), saranno subito riconosciute come del tutto analoghe, dunque potrebbe essere possibile usare la conoscenza formale delle proprietà delle operazioni per aiutare il passaggio verso il concetto di equivalenza. Questa discussione, che porterà alla fine dell’incontro, potrebbe avere come ulteriore conseguenza il riconoscimento da parte dell’intero gruppo classe di eventuali proposte risolutive errate che non erano ancora state riconosciute come tali.

Poiché si tratta del primo incontro della sperimentazione intrapreso con la singola classe, mi aspetto che i tempi si dilateranno rispetto al previsto, dunque potrebbe non esserci abbastanza spazio per affrontare questo ultimo nodo fondamentale della discussione, che d’altra parte necessita di un tempo adeguato, allo stesso livello di tutte le altre fasi. In ogni caso, se non dovesse rimanere abbastanza tempo, la prima fase della seconda attività riproporrà, con PM diversi, l’occasione di potercisi dedicare in modo doveroso. Dunque qualora sia necessario, per evitare di dedicare poco tempo a tutti i passaggi, preferirò rimandare quest’ultimo ad una trattazione dedicata all’inizio del

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secondo incontro: potrei in ogni caso concludere l’incontro ponendo e lasciando aperta la domanda.

Modifiche apportate dopo la prima sperimentazione

Alla luce delle domande relative al testo che sono state poste durante il primo ciclo di sperimentazione, abbiamo deciso di apportare alcune modifiche.

• In tutte le domande si è aggiunta la precisazione «in totale» relativa ai tasselli: infatti alcuni studenti credevano di dover calcolare il numero dei tasselli in più da aggiungere alla figura.

• Si è aggiunto, dopo la formulazione della domanda a), un suggerimento relativo al disegnare i tasselli necessari a comporre l’immagine successiva: infatti alcuni alunni, che inizialmente non avevano chiaro il da farsi, hanno trovato utile tale consiglio, dato a voce dopo l’inizio del lavoro.

3.2.2 Incontro 2

Il secondo incontro, come il primo, prevede lo svolgimento di due attività, analoghe per quanto riguarda la finalità delle richieste e differenti solo nel PM considerato e sui dati numerici messi a disposizione: per questo motivo è stato scelto di suddividere nuovamente l’incontro in tre fasi, che si snodano in parallelo su entrambe le attività, e che prevedono sia il lavoro individuale che il confronto di classe.

Fase 0: Visualizzazione [Tempo previsto: 10 minuti]

Consegno a tutti un foglio a due facciate contenente le due immagini in Figura 3.9.

Figura 3.9: I due PM della seconda attività, con direzioni rispettivamente (2; 2) e (2; −1): in evidenza i BB utilizzati per generarli.

Riferimenti

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