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Le batteriemie da Klebsiella Pneumoniae produttrice di carbapenemasi in terapia intensiva

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina

e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

LE BATTERIEMIE DA KLEBSIELLA

PNEUMONIAE CARBAPENEMASI

PRODUTTRICE IN TEREPIA INTENSIVA

RELATORE:

Prof. Francesco Forfori

CANDIDATO:

Greta Giuliano

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Sommario

1. INTRODUZIONE ... 4 2. LA SEPSI ... 6 2.1 Definizione ... 6 2.2 Fisiopatologia ... 8 2.3 Diagnosi... 15

3.INFEZIONE DA KLEBSIELLA PNEUMONIAE CABAPENEMASI PRODUTTRICE... 19

3.1 Epidemiologia ... 19

3.3 Colonizzazione: significato, contenimento, fattori di rischio ... 23

3.4 Fattori di rischio per l’infezione ... 29

3.5 Predittori di mortalità ... 31 3.6 Mortalità attribuibile ... 34 3.7 Trattamento ... 36 4.STUDIO CLINICO ... 47 4.1 Obbiettivo... 47 4.2 Materiali e metodi ... 47 4.3 Risultati ... 49 4.4 Discussione ... 58 5. CONCLUSIONI ... 69 6. BIBLIOGRAFIA ... 70

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1. INTRODUZIONE

Klebsiella pneumoniae (KP) è un saprofita dell’uomo e di altri mammiferi, che colonizza il tratto gastrointestinale. Si trova anche su cute, nasofaringe e vie aeree superiori dei pazienti ospedalizzati, ed è isolabile in nicchie ambientali come suolo e acque.

In passato era considerato responsabile di infezioni acquisite in comunità, incluse forme gravi di polmonite; oggi quest’ultime sono considerate rare e sono state descritte nuove manifestazioni di infezioni a livello comunitario, come ascessi epatici complicati da endoftalmiti o altre infezioni metastatiche.

Dagli anni ’70, sia l’epidemiologia che lo spettro delle infezioni da K. pneumoniae sono cambiati drammaticamente dato che il batterio si è stabilito nel microambiente ospedaliero ed è responsabile di importanti infezioni nosocomiali, complicate dalla resistenza alla maggior parte degli antibiotici a disposizione1.

La KP è costitutivamente resistente solo a pochi antibiotici, produce β-lattamasi di classe A ed è quindi costitutivamente resistente alle aminopenicilline (

http://ecdc.europa.eu/en/publications/Publications/antimicrobial-resistance-europe-2014.pdf), ma acquisisce molto facilmente plasmidi che gli conferiscono resistenza1.

Negli anni ’70 e ’80, si riscontrava in K. pneumoniae soprattutto l’espressione di plasmidi che gli conferivano resistenza verso gli aminoglisosidi. Poi, ha acquisito anche plasmidi codificanti per β-lattamasi a spettro espanso (EBLS), soprattutto TEM e SHV, in grado di idrolizzare penicilline e cefalosporine di terza generazione.

Questo, insieme alla rapida acquisizione di mutazioni cromosomiche che conferivano resistenza verso i fluorochinoloni, hanno lasciato i carbapenemici come antibiotici di prima scelta nei confronti delle infezioni nosocomiali da K. pneumoniae. Questo è rimasto vero fino circa al 2000, quando è cominciata una crisi di dimensioni globali per la disseminazione di ceppi di K. pneumoniae multidrug-resistant (MDR), producenti carbapenemasi codificate anch’esse da plasmidi trasferibili. Successivamente, altre specie di Enterobacteriaceae clinicamente rilevanti, come E. coli, hanno acquisito i geni codificanti per le carbapenemasi. Le Enterobacteriaceae produttrici di carbapenemasi causano gravi infezioni in pazienti spesso debilitati e immunocompromessi, con conseguente prolungata ospedalizzazione e aumento della mortalità (tra il 24% e il 70%, a seconda della popolazione considerata).

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Dato le condizioni spesso critiche di questi pazienti, il trattamento dovrebbe essere precoce, aggressivo e rapidamente efficace. Tuttavia, le opzioni terapeutiche sono ovviamente limitate, nonostante il recupero di antibiotici “datate” come la colistina e la fosfomicina e l’introduzione di nuovi antibiotici come la tigeciclina prima e ceftazidime/avibactam più recentemente.1

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2. LA SEPSI

2.1 Definizione

A Febbraio 2016, la European Society of Intensive Care Medicine e la Society of Critical Care Medicine (SCCM) hanno pubblicato la terza definizione internazionale di sepsi.2 Viene

descritta come “life-threatening organ dysfunction caused by disregulated host response to infection”. Lo shock settico viene definito come un subset della sepsi in cui le alterazioni circolatorie, cellulari e metaboliche sono così profonde da essere associate ad un sostanziale incremento della mortalità.

La sepsi è una delle più antiche ma elusive sindromi cliniche in medicina3 ed non ha avuto

una definizione condivisa fino al 1991 quando l’American College of Chest Physicians (ACCP) e la Society of Critical Care Medicine (SCCM) hanno convocato una consensus conference, con l’obbiettivo di gettare le basi concettuali e pratiche per la definizione di sepsi, basandosi sul meccanismo patogenetico allora più accreditato ossia di sepsi come espressione dell’eccessiva risposta infiammatoria sistemica all’infezione4.

- Sepsi: infezione sospetta o accertata con presenza di almeno 2 criteri di sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS)

- Sepsi severa: sepsi complicata da disfunzione d’organo

- Shock settico: sepsi associata a ipotensione non spiegata da altra causa e refrattaria ad adeguata somministrazione di fluidi.

Nel 2001, riconoscendo le limitazioni di questa definizione di sepsi, è stata ampliata la lista dei criteri diagnostici, per esempio includendo anche variazioni del valore di procalcitonina o proteina C reattiva superiore a 2 DS rispetto al valore di riferimento, ma non sono state apportare sostanziali modifiche per l’assenza di evidenze sufficientemente forti5. In effetti,

quindi, i criteri diagnostici di sepsi e shock settico sono rimasti invariati per più una ventina d’anni.

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Alla luce delle sempre migliore, per quanto a tutt’oggi incompleta, comprensione della fisiopatologia della sepsi, le definizioni precedenti risultavano insoddisfacenti per varie ragioni:

1) l’eccessivo focus sul ruolo dell’infiammazione

2) il fuorviante modello di interpretazione di sepsi, sepsi severa e shock settico come un continuum.

3) l’inadeguata sensibilità e specificità dei criteri di sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS).

La sepsi è una sindrome più complessa di quanto racchiuso nel concetto di infezione e risposta infiammatoria sistemica, in quanto si associa allo sviluppo di disfunzione d’organo che riflette alterazioni biologiche cellulari profonde. Inoltre, il numero deileucociti, la temperatura corporea, la frequenza cardiaca e la frequenza respiratoria possono esprimere una risposta dell’ospite al “danno” inteso come infezione, ma una risposta biologicamente e clinicamente equivalente può essere attivata da trigger endogeni in altre situazioni come, ad esempio, la pancreatite e il trauma.

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In definitiva, i criteri di SIRS non individuano necessariamente una risposta dell’ospite disregolata e life-threatening, ma si riscontrano in molti pazienti ospedalizzati che non hanno un’infezione e né un peggioramento della prognosi come in presenza di sepsi, quindi non sono adeguati come base per la diagnosi di sepsi. Tanto più alla luce del fatto che talora pazienti con nota infezione e comparsa di disfunzione d’organo acuta non hanno il requisito minimo di due criteri della SIRS per rientrare nella vecchia definizione di sepsi, nonostante abbiamo la prognosi di pazienti settici.

La terza consensus conferance internazionale su sepsi e shock settico (Sepsi-3) ha, quindi, eliminato il termine di sepsi grave e relegato i criteri di SIRS a supporto della diagnosi di infezione. In effetti, i termini ‘sepsi’ e ‘sepsi grave’ erano a volte usati intercambiabilmente, rendendo solo più difficile una standardizzazione diagnostica e quindi anche studi sulla reale incidenza, fisiopatologia e prognosi della sepsi.

2.2 Fisiopatologia

Le infezioni sono un evento molto comune in persone di tutte le età, in tutto il mondo. Tuttavia, nella maggioranza degli individui, la risposta dell’organismo è adeguata a fronteggiare tale potenziale minaccia ed è sufficiente per la risoluzione poco più che un breve ciclo di antibiotico, se di origine batterica. Più raramente, invece, l’infezione può innescare una inadeguata o inappropriata risposta dell’ospite e, se a questo consegue lo sviluppo di disfunzione d’organo, si parla di sepsi6.

Nonostante siano stati compiuti molti progressi nella comprensione della sepsi da quando Ippocrate la descriveva come un processo caratterizzato dalla putrefazione dei tessuti o Galeno ne parlava come di un evento positivo, necessario per la guarigione delle ferite, ancora molto rimane sostanzialmente sconosciuto3.

Con la formulazione della teoria del germe da parte di Pasteur, venne elaborato il concetto di sepsi come espressione dell’invasione da parte di un patogeno dei tessuti dell’ospite. Successivamente, vedendo che molti pazienti morivano nonostante l’eradicazione del germe che aveva scatenato il processo, si comprese che era l’ospite, e non il germe, a guidare la patogenesi della sepsi (teoria dell’ospite)7 concludendo che la sepsi fosse l’espressione di

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Oltre 10 anni dopo, Bone et al.8 avanzarono l’idea che l’iniziale risposta infiammatoria desse

luogo ad una risposta antinfiammatoria compensatoria. A oggi, si ritiene che in risposta al trigger infettivo si attivino precocemente sia meccanismi pro- che anti- infiammatori dal cui bilanciamento consegue da una parte la clearance dell’infezione e la riparazione tissutale e dall’altra il danno d’organo e le infezioni secondarie3.

La specifica risposta di ogni paziente all’infezione dipende sia dal microrganismo responsabile (virulenza e carica infettante), sia dall’ospite. Per esempio, le donne hanno una più bassa incidenza di sepsi e così i caucasici rispetto agli afro-americani. A questo proposito, c’è sempre maggior interesse nel contributo delle caratteristiche genetiche dell’ospite allo sviluppo e all’outcome della sepsi e molti studi hanno focalizzato l’attenzione su polimorfismi di geni codificanti per citochine o altri mediatori dell’immunità innata, della coagulazione e della fibrinolisi, anche se, per ora, i risultati sono stati scarsi. Età avanzata, BPCO, neoplasie, immunodeficienze acquisite o congenite, malattie autoimmuni, splenectomia, cirrosi, diabete sono alcuni degli altri fattori di rischio ben noti per lo sviluppo di sepsi.3

Le caratteristiche della risposta dell’ospite cambiano nel tempo e parallelamente anche le manifestazioni cliniche della sepsi. In generale, la risposta proinfiammatoria, diretta all’eliminazione del patogeno, è quella responsabile del danno tissutale mentre la risposta antiinfiammatoria, il cui scopo sarebbe limitare il danno tissutale, è implicata nell’aumentata suscettibilità alle infezioni secondarie.

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Fig. 1 La risposta dell’ospite alla sepsi severa. La risposta dell’ospite alla sepsi è caratterizzata

sia da una risposta pro-infiammatoria (parte superiore dell’immagine, rosso) e una risposta anti-infiammatoria immunosoppressiva (parte inferiore dell’immagine, blu). La direzione, l’estensione e

la durata di queste reazioni sono determinate sia da fattori dell’ospite (per esempio caratteristiche genetiche, età, concomitanti patologie e terapie effettuate) e fattori propri del patogeno (per esempio carica virale e virulenza). La risposta infiammatoria è iniziata dall’interazione tra i pattern

molecolari associati ai patogeni e i pattern di riconoscimento espressi dalle cellule dell’ospite sia sulla superficie, sia negli endosomi, sia nel citoplasma. La conseguenza dell’eccessiva infiammazione è il danno tissutale e la necrosi cellulare, che portano al rilascio di pattern

molecolari associati al danno che perpetuano il danno agendo sugli stessi recettori di riconoscimento dei pattern che riconoscono i PAMPs3.

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L’attivazione del sistema immunitario avviene tramite i cosiddetti pattern-recognition receptors (PRR), ossia recettori che riconoscono strutture altamente conservate tra le diverse specie microbiche dette pathogen-assosiated molecular patterns (PAMPs).

Gli stessi recettori sono attivati dai PAMPs possono essere attivati anche da molecole endogene rilasciate durante il danno tissutale, le cosiddette damage-associated molecular patterns (DAMPs) o allarmine. Questo esalta il concetto che la patogenesi della multiple organ failure (MOFs) nella sepsi non differisce in modo sostanziale da quella conseguente ad altre condizioni critiche non infettive, come il trauma.

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I PRR si trovano sia sulla superficie cellulare che nel citoplasma di cellule dell’immunità innata e di cellule epiteliali e il legame determina la trascrizione di INF di tipo I e di citochine come TNFα, IL-1 e IL-6. Alcuni PRR, soprattutto i recettori NOD-like, possono assemblarsi ad altre proteine formando complessi molecolari detti inflammosomi, importanti per il rilascio di citochine quali IL-1β e IL-18 e come trigger di apoptosi mediante l’attivazione delle caspasi.

Il rilascio delle citochine è essenziale per il raggiungimento del controllo dell’infezione ma quando attivato in modo inadeguato causa danno d’organo per esempio tramite la produzione di specie radicali dell’ossigeno che danneggiano le proteine, i lipidi e il DNA cellulare nonché la funzione mitocondriale3. La disfunzione mitocondriale si associa ad una riduzione

dei livelli di ATP e le cellule, per evitare la morte, potrebbero entrare in uno stato simile all’ibernazione con riduzione dello svolgimento delle loro attività più specializzate, esacerbando ulteriormente il danno d’organo9.

Il sistema immunitario possiede meccanismi umorali, cellulari e neuromediati rivolti ad attenuare gli effetti potenzialmente dannosi della risposta pro-infiammatoria e che vengono attivati altrettanto precocemente ad essa. Per esempio, i fagociti possono assumere un fenotipo anti-infiammatorio che promuove la riparazione tissutale, i linfociti T regolatori e linfociti T soppressori producono citochine anti-infiammatorie3 come IL-10 sopprime la

produzione di IL-6 e di INF-gamma mentre stimola la produzione di recettore solubile del TNF e antagonisti del recettore dell’IL-1. Si attiva inoltre il cosiddetto riflesso neuro-infiammatorio: in risposta alle citochine liberate dopo il trigger infettivo, stimoli mediati dai chemocettori carotidei, dal nervo vago e dalle aree cerebrali dotate costitutivamente di una maggiore permeabilità della BEE afferiscono ai nuclei del tronco encefalo da cui si generano segnali efferenti che inibiscono la produzione di citochine infiammatorie da parte delle cellule dell’immunità innata nella milza, nell’intestino e in altri distretti9. In modelli animali

di sepsi, l’interruzione di questo meccanismo neuro-mediato mediante vagotomia aumenta la suscettibilità allo shock endotossinico, mentre la stimolazione delle efferenze del nervo vago o dei recettori colinergici α7 sui macrofagi attenuano l’infiammazione sistemica3.

I pazienti con sepsi possono sviluppare evidenza di immunosoppressione rilevabile dalla ridotta espressione di HLA-DR sulle cellule mieloidi, dalla ridotta risposta dei leucociti in circolo ai patogeni, ma anche da quanto evidenziato da studi su milza e polmone prelevati

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da pazienti morti per sepsi, dove si riscontra una aumentata espressione di ligandi per recettori inibitori delle cellule T sulle cellule del parenchima. L’esaltata apoptosi, specialmente dei linfociti B, CD 4 e delle cellule follicolari dendritiche è stata implicata nell’immunosopressione sepsi-associata e morte3.

Lonneke A. Van Vught et al. in uno studio osservazionale prospettico hanno osservato a questo proposito che il 13,5% delle ammissioni per sepsi in UTI era complicato da almeno 1 infezione nosocomiale con un incremento della mortalità attribuibile del 10,9% a 60 giorni. I pazienti con sepsi a maggior rischio per lo sviluppo di infezioni nosocomiali durante la degenza in terapia intensiva sono quelli con malattia più severa. In definitiva, i pazienti con sepsi severa all’ammissione in UTI hanno un maggior rischio di infezioni nosocomiali, rispetto a chi accede con una diagnosi diversa dalla sepsi, con conseguente contributo alla mortalità complessiva.10

Sebbene i meccanismi sottostanti la disfunzione d’organo nella sepsi sono stati solo parzialmente elucidati, l’alterata ossigenazione tissutale ha un ruolo chiave. Molti fattori, inclusa l’ipotensione, la ridotta deformabilità dei globuli rossi e la trombosi microvascolare, contribuiscono alla riduzione dell’oxygen delivery nello shock settico. L’infiammazione causa disfunzione dell’endotelio vascolare, associata a morte cellulare e perdita dell’integrità di barriera, determinando edema sottocutaneo e delle cavità corporee. Inoltre il danno mitocondriale da parte dello stress ossidativo e altri meccanismi alterano la capacità di utilizzo dell’ossigeno da parte delle cellule. I mitocondri danneggiati rilasciano alarmine nell’ambiente extracellulare che possono attivare i neutrofili e causare ulteriore danno tissutale3.

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Fig.2 Insufficienza d’organo, disfunzione dell’endotelio vascolare e mitocondriale nella sepsi. La sepsi è associata con lo sviluppo di trombosi microvascolare causata dalla

attivazione della coagulazione (mediata dal fattore tissutale) e dall’alterazione dei meccanismi della coagulazione come conseguenza della ridotta attività del sistema anticoagulante endogeno (mediato dalla proteina C attivata e dall’antitrombina) e del sistema fibrinolitico che porta ad un aumentato

rilascio di inibitore dell’attivatore del plasminogeno di tipo I (PAI-I). La capacità di generare proteina C reattiva è compromessa almeno in parte dalla ridotta espressione di due recettori endoteliali: la trombomodulina e il recettore endoteliale della proteina C. La formazione di trombi è

ulteriormente favorita dai ‘neutrophil extracellular traps’ (NETs), rilasciate dai neutrofili che muoiono. La formazione di questi trombi porta allo sviluppo di ipoperfusione tissutale che è aggravata dalla vasodilatazione, dall’ipotensione e dalla ridotta deformabilità dei globuli rossi.

L’ossigenazione tissutale è ulteriormente danneggiata dalla perdita della funzione di barriera dell’endotelio dovuta all’alterata espressione della caderina, alterazione delle tight junctions, alti

livelli di angiopoietina 2 e alterato equilibrio tra l’espressione del recettore 1 della sfingosina-1-fosfato (S1P1) e S1P3 a livello della parete vascolare che è, almeno in parte, all’induzione preferenziale di S1P3 da parte del recettore delle proteasi attivato (PAR1) come risultato di un ridotto rapporto tra la proteina C reattiva e la trombina. L’utilizzo di ossigeno a livello subcellulare

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La sfida per gli anni a venire sarà tradurre il rapido miglioramento della comprensione della fisiopatologia della sepsi da un punto di vista molecolare in nuovi presidi terapeutici da testare solo in quei pazienti con sepsi in cui il pathway su cui il farmaco agisce è alterato, sfruttando test che possano rapidamente, bed-side, selezionare i pazienti nonché monitorare l’effetto del trattamento nel tempo. In effetti, considerando la complessità della risposta dell’ospite nella sepsi, è difficile immaginare che farmaci che abbiano come target mediatori della risposta dell’ospite possano determinare un beneficio in tutti i pazienti settici. A questo proposito, per esempio, sono state descritte in uno studio due distinti tipi di risposta dell’ospite in pazienti con grave polmonite acquisita in comunità, basandosi sull’analisi del trascrittoma dei leucociti: una delle risposte dell’ospite era chiaramente di tipo immunosoppressivo e si associava a maggiore mortalità11.

2.3 Diagnosi

La task force che ha fornito la terza definizione internazionale di sepsi2 la riconosce come

una sindrome al momento senza un test diagnostico gold standard validato. Idealmente, i criteri clinici per la diagnosi dovrebbero identificare tutti gli elementi caratterizzanti la sepsi (infezione, risposta dell’ospite e disfunzione d’organo), essere semplici da ottenere e prontamente disponibili a costi ragionevoli.

Sono stati, comunque, formulati dei criteri clinici, che pur senza la pretesa di essere omnicomprensivi e descrittivi in modo esaustivo del fenomeno, sono semplici da usare per clinici, ricercatori e amministrativi.

La disfunzione d’organo, necessaria per la diagnosi di sepsi, viene identificata da un cambiamento nel SOFA score maggiore o uguale a 2 punti, come conseguenza dell’infezione. Il SOFA score basale viene considerato 0, a meno che non ci sia una disfunzione d’organo, acuta o cronica, preesistente allo sviluppo dell’infezione.

Di per sé la presenza di disfunzione d’organo segnalata dall’aumento del SOFA score non permette di fare diagnosi di sepsi ma è utile per indirizzare il sospetto. Questo è importante, dal momento che la diagnosi di sepsi si associa ad un aumento della mortalità intraospedaliera del 10%. Il riscontro di un SOFA score maggiore o uguale a 2 in un paziente con sospetta infezione significa necessità di instaurare un pronto e adeguato trattamento.2

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Il Sepsis-related Organ Failure Assessment (SOFA) score è stato formulato nel 1996 nel tentativo di costruire uno strumento per descrivere rapidamente in modo oggettivo e quantitativo il grado di disfunzione d’organo nel tempo e valutare la morbilità dei pazienti settici in terapia intensiva. Successivamente si è compreso che poteva essere applicato egualmente bene anche a pazienti non settici quindi venne mantenuto l’acronimo SOFA ma per riferirsi a Sequential Organ Failure Assessment. Lo score assegna un punteggio da 1 a 4 per ognuno dei seguenti 6 sistemi a seconda del livello di disfunzione d’organo: sistema respiratorio (P/F), cardiovascolare (MAP o vasopressori), renale (creatinina), ematologico (piastrine), epatico (bilirubina) e nervoso centrale (GCS). Sin dalla sua introduzione, il SOFA score è stato utilizzato anche per predire la mortalità anche sebbene non fosse stato sviluppato con questo proposito. Rispetto ad altri score come il LODS (Logistic Organ Disfunction System), è più semplice oltre che più noto.

L’importanza di individuare rapidamente i pazienti con sospetta o accertata infezione che sono a rischio di deterioramento delle condizioni cliniche e peggioramento della prognosi, anche al di fuori dei reparti di terapia intensiva, ha indotto gli autori ha formulare il cosiddetto quick SOFA (qSOFA) che considera solo tre parametri immediatamente rilevabili, senza necessità di esami ematochimici: pressione arteriosa sistolica > 100 mmHg, frequenza respiratoria > 22 atti/min, alterazione dello stato mentale (GCS < 13). La presenza di almeno 2 di questi criteri in un paziente con sospetta infezione, identifica un paziente che più probabilmente ha la sepsi. La presenza di un livello di lattati > 2 mmol/l associato ad 1 dei criteri suddetti è equivalente ad un qSOFA di 2. Si individuano così pazienti che

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necessitano di un rapido trattamento e che potrebbero aver bisogno di ambienti a maggior intensità di cura.

La precedente definizione di shock settico si focalizzava in modo pressochè esclusivo sulla disfunzione cardiocircolatoria presente in questa condizione, la nuova task force ha voluto sottolineare maggiormente l’importanza delle anomalie cellulari. Quindi, per la diagnosi di shock settico non è sufficiente il solo riscontro di ipotensione refrattaria all’adeguata somministrazione di fluidi o lattati maggiori di 4 mmol/l, ma sepsi con necessità di terapia con vasopressori per mantenere la pressione arteriosa media maggiore o uguale a 65 mmHg e lattati maggiore di 2 mmol/l, nonostante adeguata somministrazione di fluidi. Laddove non sia disponibile la misurazione dei lattati, può essere posta la diagnosi di shock settico in presenza di ipotensione e altri criteri indicanti l’ipoperfusione tissutale come il ritardato riempimento capillare. Questa condizione è associata con un tasso di mortalità ospedaliera maggiore del 40%.

Il SOFA e il qSOFA considerati in maniera isolata non sono sufficienti a fare la diagnosi di sepsi e il mancato riscontro dell’aumento di 2 o più punti del SOFA o del qSOFA non può portare a nessun ritardo nell’adozione di tutte le misure diagnostiche e terapeutiche ritenute opportune dal medico.2

A complicare la diagnosi, le manifestazioni cliniche della sepsi sono ampiamente variabili in relazione all’iniziale sito di infezione, al microrganismo responsabile, al pattern di disfunzione d’organo acuta, comorbidità e preesistente danno d’organo nonché l’intervallo prima dell’inizio del trattamento.

La task force sottolinea come i criteri di SIRS rimangano comunque utili nell’identificazione dell’infezione2.

In effetti però, la diagnosi di infezione (processo patologico causato dall’invasione di tessuti o fluidi o cavità corporee normalmente sterili da microrganismi patogeni o potenzialmente patogeni) e l’identificazione del microrganismo responsabile e della sua sensibilità antibiotica può rappresentare una sfida specialmente nel paziente critico. I tipici segni di infezione come febbre e aumento dei globuli bianchi, non sono specifici e possono riscontrarsi in molte altre condizioni in questi pazienti. Lo stesso si può dire per molti biomarkers, per esempio proteina C reattiva (PCR) o procalcitonina (PCT) che, benchè molto utili nell’escludere la presenza di infezione e nel guidare la terapia antibiotica, non sono specifici per infezione e possono essere alterati per varie cause nei pazienti ricoverati

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in terapia intensiva. Nei pazienti critici la diagnosi di infezione è ancora principalmente supportata da tecniche colturali che possono aver bisogno di giorni prima che il risultato sia disponibile e possono essere negative in pazienti che già ricevono antibiotici12. Le

emocolture sono positive solo in un terzo dei casi e in oltre un terzo dei casi le colture da tutti i siti sono negative3. In risposta a questo problema, probabilmente, in futuro si osserverà

una maggiore diffusione di metodi quali la Polymerase Chain Reaction (PCR) e la spettrofotometria di massa12.

Non c’è uno specifico trattamento nei pazienti con sepsi e la gestione si basa sul controllo dell’infezione con rimozione della sorgente e efficace antibioticoterapia nonché supporto d’organo. C’è una buona evidenza che il trattamento precoce è associato con un miglioramento dell’outcome in questi pazienti, quindi è essenziale giungere ad una diagnosi precoce in modo da cominciare il trattamento prima del deterioramento delle condizioni del paziente.6

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3.INFEZIONE DA KLEBSIELLA

PNEUMONIAE CABAPENEMASI

PRODUTTRICE

3.1 Epidemiologia

La prevalenza delle infezioni da Enterobacteriaceae Crbapenemasi-Resistenti (CRE) sono aumentate nell’ultima decade, specialmente in ambito nosocomiale e sono state riconosciute dall’ US Center for Desease Control and Prevention come seria minaccia per la salute pubblica globale. Il CDC stima che, ogni anno negli USA, più di 9000 infezioni healthcare-associated sono causate dai 2 più comuni tipi di CRE, Klebsiella pneumoniae e Escherichia coli resistenti ai carbapenemici.13

La prima KP produttrice di carbapenemasi è stata isolata nel 1996 in un ospedale in North Carolina (USA)14.

Successivamente ceppi di KPC-KP si sono diffusi soprattutto in Grecia, Israele, Italia, Cina e numerosi paesi del Sud America; mentre i ceppi produttori di VIM metallo carbapenemasi sono molto comuni in Grecia.

In effetti, l’incidenza di KPC-KP, come riportato dal Global Report della WHO del 2014 sulla sorveglianza, è globalmente bassa, ma allarmanti tassi- anche superiori al 50%- sono stati riportati in alcuni stati come la Grecia e l’Iran.

In Europa la percentuale di ceppi resistenti a fluorochinoloni, cefalosporine di III generazione, aminoglicosidi e ai carbapenemici è aumentata molto dal 2009 al 2014. Tuttavia, soprattutto per quanto riguarda la resistenza ai carbapenemici è osservabile una notevole differenza tra gli Stati. Grecia, Italia, Romania sono gli stati europei a maggior incidenza sia per la resistenza ai carbapenemici (62,3 %, 32,9 %, 31,5 %) che per le resistenze combinate a colistina e carbapenemici. E’ evidente un gradiente nord/sud nella distribuzione delle resistenze antibiotiche in Europa, con maggiori percentuali rilevate nelle

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( http://ecdc.europa.eu/en/publications/Publications/antimicrobial-resistance-europe-2014.pdf)

Oltre all’aumento dell’incidenza, c’è stato anche un importante cambiamento epidemiologico locale. Il problema della KPC-KP era maggiore nei reparti di terapia intensiva dove i pazienti sono esposti a maggiori devices invasivi e ad un’ampia gamma di antibiotici, ma il problema si è diffuso in altri reparti ospedalieri, causando severe infezioni15anche perchè la diffusione di KPC-KP non è più limitata ai grandi ospedali ma

coinvolge anche gli ospedali periferici.16 Attualmente più della metà delle infezioni da

KPC-KP sono riportate in reparti medici o chirurgici17.

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Fig. 4 Klebsiella Pneumoniae resistente a fluorochinoloni, aminoglicosidi e cefalosporine di terza generazione (dati ECDC)

( http://ecdc.europa.eu/en/publications/Publications/antimicrobial-resistance-europe-2014.pdf)

Studi condotti in realtà italiane hanno confermato questo trend di incremento dell’incidenza di ceppi multiresistenti. Alicino et al. in uno studio retrospettivo osservazionale condotto presso l’Ospedale San Martino di Genova dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2014, hanno rilevato 511 episodi di BSI da KP, di cui 349 casate da ceppi resistenti ai carbapenemici (68,3%). L’incidenza di BSI da KPC-KP è aumentata considerevolmente da 0,04/10000 paziente-giorni nel 2007 a 1,77/10000 nel 2014, con la massima incidenza riportata nei reparti di terapia intensiva. E’ stato registrato anche un lieve, ma significativo incremento delle BSI da KP sensibili ai carbapenemici.18

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3.2 Meccanismi di resistenza

La resistenza ai carbapenemici tra le Enterobacteriaceae è complessa.

Diversamente dalla resistenza alla meticillina che riscontriamo nello S. aureus che, per lo più, è un meccanismo di resistenza in una specie di batterio, tra le Enterobacteriaceae sono incluse oltre 70 differenti generi e molti meccanismi possono portare alla resistenza ai carbapenemici.

Infatti, la definizione fenotipica di CRE è genericamente Enterobacteriaceae non sensibili ai carbapenemici, ma essa include batteri la cui resistenza può dipendere da:

1) Produzione di carbapenemasi, ossia enzimi in grado di idrolizzare e rendere inattivi la maggior parte dei β-lattamici e questo probabilmente è il meccanismo maggiormente responsabile dell’incremento e della diffusione delle Enterobacteriaceae carbapenemasi-resistenti.

2) Combinazione di altri meccanismi tra cui frequentemente la produzione di una β-lattamasi come AmpC in combinazione con alterazioni della membrana cellulare, quali anomala espressione delle purine.

(https://www.cdc.gov/hai/organisms/cre/definition.html)

Le carbapenemasi sono spesso codificate da plasmidi, che essendo elementi trasferibili possono rapidamente passare da un ceppo ad un altro della stessa specie o tra differenti specie di batteri, anche nello stesso paziente (trasmissione orizzontale).

Le carbapenemasi sono classificate in varie classi sulla base di sequenze omologhe di aminoacidi:

1) Classe A di Ambler come le serina-carbapenemasi KPC, che sono le più frequenti in Italia. Ne esistono almeno 12 isoforme, tutte codificate da geni blakpc a livello

plasmidico.

2) Classe D di Ambler come le β- lattamasi di tipo OXA, tra cui OXA-48 con spiccata attività di idrolisi dei carbapenemici

3) Classe B di Ambler come le metallo β- lattamasi, tra cui VIM, IMP, NDM sono le più frequenti in K. Pneumoniae1.

Tutte le Enterobacteriaceae resistenti ai carbapenemici (CRE), indipendentemente dal meccanismo sottostante alla resistenza verso i carbapenemici, sono in genere

(23)

multidrug-resistant (MDR) rendendo molto difficile il trattamento. Ecco perché è necessario mettere in atto misure per prevenire la diffusione di questi ceppi.

Il problema delle resistenze antibiotiche è comunque tutt’altro che limitato alla K. pneumoniae. Nel 2008, in un editoriale pubblicato su The Journal of Infectious Desease, Luis Rice ha sottolineato che se è vero che la maggior parte dei patogeni sono ancora sensibili alla maggior parte dei nostri antibiotici, alcuni patogeni sono diventati in grado di resistere all’effetto letale degli antibiotici e sono i principali responsabili delle infezioni nosocomiali. Ha introdotto il termine di patogeni ESKAPE, acronimo per Enterococcus faecium, Staphylococcus aureus, Klebsiella pneumoniae, Acinetobacter baumanii, Pseudomonas aeruginosa, and Enterobacter species, proprio per enfatizzare il fatto che questi patogeni sono in grado di “sfuggire” (to escape) all’azione della maggior parte degli antibiotici in commercio.

L’autore sottolinea che la medicina come la conosciamo noi non esisterebbe senza la disponibilità di antibiotici efficaci.19

Questo richiama l’attenzione sulla necessità di prevenire la diffusione di questi batteri, oltre che cercare di scoprire nuovi antibiotici. A questo proposito varie iniziative sono state lanciate dalla Infectious Diseases Society of America-ISDA (per esempio, ‘Bad bugs, no drugs’ o ‘10x’20’)

3.3 Colonizzazione: significato, contenimento, fattori di

rischio

La colonizzazione è la presenza di un germe sulla cute, sulle mucose, nelle ferite aperte o nelle secrezioni, senza invasione e senza risposta dell’ospite nei suoi confronti. E’ quasi un prerequisito per il successivo sviluppo di infezione.17,20 La colonizzazione di per sè non

aumenta la mortalità complessiva dei pazienti ricoverati in terapia intensiva.21

Dato che le Enterobacteriaceae sono parte della flora microbica enterica, una volta che ceppi multiresistenti hanno colonizzato il tratto gastrointestinale, lo stato di portatore può persistere a lungo1. La colonizzazione intestinale rimane la principale sorgente per la

disseminazione epidemica di KPC-KP e si associa ad un rischio di sviluppo di successiva infezione di circa il 10%.

(24)

Feldman et al. hanno valutato la durata dello stato di portatore di KPC- KP a distanza di 3 e 6 mesi dalla dimissione dall’ambiente ospedaliero apprezzando come il 48% (60/125) fosse portatore persistente, con percentuali diverse a seconda del momento di acquisizione dell’infezione (61% dei recenti colonizzati ossia portatori da < di 4 mesi e 28% dei colonizzati già da più di 4 mesi). Il fattore di rischio principale in questo studio è essere portatore di qualsiasi tipo di catetere,22 ma anche aver ricevuto una terapia antibiotica nei

precedenti 3 mesi è un fattore di rischio per la persistente colonizzazione.23

Una prolungata durata della colonizzazione significa un più ampio resevoir di pazienti colonizzati, che si traduce in un più alto tasso di trasmissione da paziente a paziente, favorendo, per altro, la diffusione del germe non solo tra pazienti nell’ambito della stessa struttura ma anche tra strutture diverse nella stessa regione.

Una delle principali via di trasmissione per questi microrganismi è rappresentata dalle mani degli operatori.24

La trasmissione da paziente a paziente si verifica, infatti, maggiormente dove le pratiche di controllo della diffusione delle infezioni sono scarse e questo fattore assume tanta più rilevanza quanto maggiore è l’intensità di cura e al grado di assistenza di cui i pazienti necessitano25. In uno studio condotto in una U.O. chirurgica in cui la compliace verso

l’igiene delle mani da parte del personale era del 21%, la probabilità di colonizzazione è risultata del 7,1% per ogni settimana di ospedalizzazione e l’incidenza di nuove colonizzazioni è stata del 9,1/1000 pazienti/giorni1. In effetti, è stato dimostrato che è

possibile ridurre il tasso dei pazienti colonizzati all’ammissione del 30% entro 8-12 settimane mediante sorveglianza attiva, isolamento da contatto e igiene delle mani26.

In realtà, gli operatori sanitari non contaminano le loro mani solo dopo diretto contatto con i pazienti ma anche toccando le superfici inanimate e gli strumenti nelle immediate vicinanze del paziente e su cui alcuni batteri sono in grado di sopravvivere a lungo. Anche le superfici inanimate potrebbero avere un importante ruolo per la colonizzazione in ambiente ospedaliero.27

Vari studi hanno evidenziato come la colonizzazione può passare largamente inosservata ed essere evidenziata solo grazie all’esecuzione di colture di sorveglianza, che quindi assumono un ruolo essenziale perché la pronta identificazione dei pazienti colonizzati e/o infetti è critica per l’interruzione della trasmissione di KPC-KP, mediante la messa in atto di misure apposite come l’isolamento da contatto. Il mancato riconoscimento dei pazienti colonizzati è uno dei principali determinati della diffusione intraospedaliera e in comunità di CRE nelle

(25)

aree endemiche28. Sapere i germi che colonizzano un paziente assume rilevanza anche nel

momento in cui diventi necessario impostare una terapia antibiotica empirica, la cui inadeguatezza, secondo alcuni autori, è indipendentemente associata con la mortalità a 30 giorni.16 Per questo appare essenziale l’esecuzione di uno screening dei contatti per rilevare

i portatori asintomatici di KPC-KP e limitare l’ulteriore diffusione29. Alla luce di quanto

detto è facilmente comprensibile che la colonizzazione da KPC-KP del paziente che ha precedentemente occupato lo stesso letto e dei pazienti nelle postazioni adiacenti è un fattore di rischio per la colonizzazione.21

Papadimitriou et al. in uno studio osservazionale prospettico su 226 pazienti ammessi in terapia intensiva sui quali veniva effettuato il tampone rettale al 1°, 4° e 7° giorno e poi settimanalmente, ha individuato un intervallo medio per lo sviluppo della colonizzazione da KPC-KP di 9,1 giorni e nessun paziente era positivo prima di 4 giorno21. Anche, Debby et

al., hanno condotto uno studio in pazienti ammessi in un reparto di terapia intensiva riscontrando un intervallo medio tra l’inizio del ricovero e la colonizzazione da KPC-KP di 9,6 giorni, ma oltre il 50% dei pazienti acquisiva la colonizzazione nella prima settimana. In effetti questo potrebbe realmente rispecchiare il momento dell’acquisizione della colonizzazione, ma anche essere l’espressione della pressione selettiva di antibiotici ad ampio spettro in pazienti che già avevano KPC-KP a livello gastro-intestinale ma in misura tale da non essere rilevabile ai tamponi rettali30. D’altra parte, sono stati descritti casi di

batteriemia da KPC-KP entro 5 giorni dall’ospedalizzazione in pazienti in cui non era nota la colonizzazione, quindi, in pazienti a rischio, si dovrebbe considerare la KPC-KP come potenziale patogeno responsabile di BSI anche all’inizio dell’ospedalizzazione31. In genere

tuttavia, il tasso di colonizzazione aumenta in modo direttamente proporzionale alla durata dell’ospedalizzazione.32

Oltre alle misure di igiene e isolamento del paziente indicate, la decontaminazione intestinale selettiva (SDD) potrebbe rappresentare un presidio aggiuntivo per ridurre la diffusione del microrganismo e il rischio di infezione, specialmente in sottogruppi di pazienti che devono essere sottoposti a procedure chirurgiche soprattutto addominali o orofaringee, trapianto d’organo o altri interventi medici maggiori che possono predisporre a serie infezioni come chemioterapia e immunosoppressione.23,33 In effetti, la SDD è stata introdotta nei reparti di

terapia intensiva da circa vent’anni ed è utilmente utilizzata nei pazienti critici in UTI per diminuire la morbilità (riduzione delle infezioni del tratto respiratorio, delle batteriemie soprattutto nei pazienti chirurgici) e la mortalità complessiva33 34,35. Il uso routinario,

(26)

tuttavia, rimane controverso per il timore dello sviluppo di antibioticoresistenze. Allo stato attuale, non ci sono sufficienti evidenze né per scoraggiare l’uso della decontaminazione intestinale selettiva per l’evidenza di una relazione con lo sviluppo di resistenze,36 né per

raccomandarne l’uso, se non in setting in cui il tasso di resistenze antibiotiche è basso34.

Per quanto riguarda la sua applicazione in relazione alla KPC-KP, si è visto che l’eradicazione spontanea di KPC-KP si verifica in tempi lunghi (mediana di follow up 140 giorni) e decisamente maggiori di quelli ottenibili con un’efficace decontaminazione. Inoltre, si verifica in una percentuale di pazienti significativamente minore: uno studio ha mostrato che l’eradicazione era ottenuta nel 7% dei pz non trattati vs il 44% dei pazienti trattati con antibiotico orale non assorbibile verso cui CRE era sensibile (colistina, gentamicina o entrambi con simili tassi di successo).37

Inoltre, Tascini et al.23 hanno valutato l’outcome microbiologico e clinico dopo

decontaminazione intestinale (gentamicina orale 80 mg 4 volte die) in 50 pazienti colonizzati con ceppi di KPC -KP sensibili alla gentamicina. Il tasso complessivo di decontaminazione è stato del 68% (34/50) di cui il 96% dei pazienti che ricevevano solo gentamicina orale contro il 44% di quelli che ricevevano gentamicina orale e concomitante terapia antibiotica sistemica. Probabilmente la concomitante terapia antibiotica sistemica favorisce la persistenza della contaminazione da KPC-KP per la pressione selettiva sul microbioma intestinale o semplicemente è un marcatore di maggiore gravità della malattia e di pazienti più debilitati, che di per sé hanno un maggior rischio di persistente colonizzazione. Dopo 6 mesi di follow up, lo sviluppo di una infezione da KPC-KP si è osservata solo nel 15% dei pazienti in cui si era avuta la decontaminazione, contro il 73% dei pazienti portatori persistenti.

Un altro utilizzo della decontaminazione intestinale selettiva potrebbe essere per prevenire la colonizzazione. Sapendo che il più alto rischio di colonizzazione intestinale da KPC-KP è in pazienti ricoverati in UTI per chirurgia addominale, è stato condotto uno studio caso controllo su pz sottoposti a resezione epatica non colonizzati al momento dell’ammissione in ospedale e in UTI, evidenziando che il tasso di colonizzazione intestinale in pazienti trattati con gentamicina orale è stato 3% (1/31) mentre nel gruppo di controllo 29% (9/31). La colonizzazione è stata registrata dopo 4 gg nel pz trattato e dopo 15 giorni (8-30) nei controlli. L’unico ceppo di KPC-Kp isolato dai pz che avevano svolto profilassi con gentamicina non era resistente alla gentamicina, anche se questo probabilmente deriva dal

(27)

fatto che la durata della profilassi antibiotica per la colonizzazione è di durata minore di quella necessaria per ottenere la decontaminazione38.

Ancora a proposito della SDD, Oren et al.37 hanno rilevato batteriemie persistenti nonostante

l’appropriato trattamento antibiotico per via endovenosa in pazienti con neoplasie ematologiche e trapianto di midollo osseo. Ipotizzando che la persistente batteriemia potesse essere secondaria alla ripetuta invasione del circolo ematico da parte di CRE localizzate nel resevoir gastrointestinale attraverso la mucosa danneggiata durante le severe mucositi, nel tentativo di eradicare la sorgente di CRE a livello gastro-intestinale, hanno effettuato la decontaminazione selettiva del tratto gastro-intestinale mediante somministrazione, in formulazione orale, di gentamicina, colistina o entrambi gli antibiotici, a seconda della sensibilità dell’isolato. Questo studio ha dimostrato un tasso di eradicazione del 66% e una risoluzione della batteriemia persistente nel 62,5% dei pazienti dopo l’eradicazione dello stato di portatore.

Per quanto riguarda i fattori di rischio per la colonizzazione da KPC-KP, oltre a quanto già detto, sono stati individuati come fattori di rischio indipendenti:

1) recente ricovero in terapia intensiva17,39

2) catetere urinario, CVC e/o drenaggi chirurgici39 o più in generale, il numero di

cateteri invasivi inseriti21,

3) 2 o più recenti ospedalizzazioni39 o più in generale durata della precedente

ospedalizzazione.17

4) neoplasie ematologiche39,

5) tracheotomia21,

6) recente terapia antibiotica con fluorochinoloni e/o carbapenemici39,

β-lattamici/inibitori delle β-lattamasi17 (tra cui aminopenicillina25), anche se secondo

alcuni autori sarebbe più rilevante il numero di antibiotici somministrati della specifica classe di antibiotico21.

A proposito della recente terapia antibiotica, è interessante quanto emerso dallo studio prospettico di Papadimitriou et al.17 che ha coinvolto 405 pazienti ammessi in terapia intensiva in un periodo di 22 mesi e su cui è stato effettuato il tampone rettale entro 12- 48 ore. Tra le KPC-KP isolate da pazienti con precedente ricovero in UTI rispetto a quelle isolate da pazienti che non hanno avuto precedente ricovero in UTI, è stata riscontrata una maggiore resistenza alla gentamicina (59,4% vs 10%.

(28)

P<0,001) e colistina (50% vs 15% p<0,001), mentre non è stata riscontrata differenza nella resistenza alla tigeciclina e ai carbapenemici. Gli autori sostengono che ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che i pazienti con precedente ricovero in terapia intensiva sono stati estesamente trattati con gentamicina e colistina. Più precisamente, 12 (31,6%) e 14 (36,8%) su 38 pazienti con precedente ricovero in UTI hanno ricevuto colistina e gentamicina, mentre solo 1 (0,8%) e 4 (3,1%) dei 129 pazienti che avevano avuto un precedente ricovero in reparto medico o chirurgico. Quindi la terapia antibiotica effettuata potrebbe influenzare anche la sensibilità della KPC-KP.

7) BPCO40 anche se, secondo alcuni autori, la correlazione tra colonizzazione e BPCO potrebbe essere stata sovrastimata in passato dalla presenza di fattori confondenti quale il maggior numero di precedenti ospedalizzazioni, spesso presente in questi pazienti17.

Più in generale, soprattutto in pazienti con precedente ospedalizzazione, è risultato associato alla colonizzazione da KPC-KP il numero di comorbidità17.

8) Allettamento e provenienza da ospedali di comunità. Questi fattori di rischio sono emersi da un studio caso-controllo condotto da Borer et al. Altri studi rivolti ad individuare i fattori di rischio per la colonizzazione, spesso sono stati svolti in popolazioni selezionate, per esempio pazienti ricoverati in terapia intensiva, ematologici, neoplastici ecc, invece Borer et al. hanno considerato tutti i pazienti ammessi nel loro ospedale. La maggior parte dei pazienti colonizzati avevano serie comorbidità (come demenza, malattia cerebrovascolare, scompenso cardiaco, malattia vascolare periferica) così come device gastrointestinali quali PEG o sondino naso-gastrico, cioè erano pazienti non autonomi in cui c’è un alto rischio di colonizzazione tramite gli strumenti contaminati e il personale di assistenza. Inoltre, questi pazienti frequentemente vengono ricoverati e dimessi dalle strutture ospedaliere e, in mancanza di un riconoscimento della colonizzazione, possono contribuire alla trasmissione della KPC-KP tra ambiente ospedaliero e comunità25. In generale, è un fattore di rischio lo scarso status funzionale41.

9) Recente chirurgia e SOFA score sono stati descritti come fattori di rischio indipendenti per la colonizzazione da KPC-KP in terapia intensiva30.

(29)

3.4 Fattori di rischio per l’infezione

La colonizzazione è quasi un pre-requisito per lo sviluppo di infezioni nosocomiali, ma solo una minoranza di pazienti colonizzati sviluppa effettivamente l’infezione. Questo dipende da vari fattori, inclusa la virulenza del patogeno, i meccanismi di difesa dell’ospite, le procedure mediche e l’esposizione agli antibiotici.

L’identificazione dei fattori di rischio per lo sviluppo di infezione tra i pazienti colonizzati è importante sia per favorire il controllo dei fattori di rischio modificabili sia per indirizzare la terapia antibiotica empirica, quando diventi necessaria42, in attesa che il risultato degli

esami colturali e dell’antibiogramma siano disponibili43.

Solo circa il 7,8% -9% dei pazienti colonizzati da KPC-KP sviluppa successivamente un’infezione25,42,44.

Schechner et al.42 evidenziano anche che l’intervallo di tempo tra lo screening e lo sviluppo

di infezione è relativamente breve (< 30 giorni in tutti i casi e < 14 giorni nel 75% dei casi), indicando che con il passare del tempo, il rischio di progressione da portatore a infetto si riduce.

Giannella et al. hanno riscontrato un intervallo medio di tempo dal primo tampone rettale alla batteriemia di 19 giorni44.

In uno studio condotto tra il gennaio 2012 e l’agosto 2014 presso l’ospedale di Genova su 182 BSI da KPC-KP, Giacobbe et al.28 hanno fatto notare come, sebbene la diagnosi di BSI

si sia verificata dopo una mediana di 22 giorni dall’ammissione in ambito ospedaliero, 14 episodi si sono verificati molto prima, addirittura entro le 48 ore. Sono stati indagati i possibili fattori che potessero spiegare questo rapido onset e si è riscontrato che il 79% di questi pazienti non era stato sottoposto a screening per la colonizzazione dato la provenienza da reparti a basso rischio per infezioni da KPC-KP, in cui non è raccomandata lo screening universale. Questi riscontri sono importanti alla luce del fatto che nelle aree endemiche, il mancato riconoscimento dei pazienti colonizzati da KPC-KP è uno dei principali responsabili della diffusione in ambito ospedaliero e comunitario.18

I fattori di rischio per lo sviluppo di batteriemia in pazienti portatori di KPC-KP a livello rettale sono:

(30)

1) Charlson score ≥ 3,39 più in generale gravità della malattia di base (diabete mellito42,

tumori solidi sono indipendentemente associati allo sviluppo di batteriemia da KPC-KP)25

2) Catetere urinario25, CVC39,42

3) Tracheotomia15,25, ventilazione meccanica25,45

4) Recente chirurgia39

5) Procedure invasive25 soprattutto a livello adoominale,44 compresi interventi

chirurgici e numero di cateteri invasivi15 perché alterano la continuità di cute e

mucose

6) Neutropenia39, in particolare l’esecuzione di chemioterapia e radioterapia in pazienti

con neoplasie ematologiche è associato con danno gastrointestinale e traslocazione di Enterobacteriaceae nel sangue, soprattutto durante i periodi di neutropenia43

7) 2 o più recenti ospedalizzazioni39 o più in generale, lunga ospedalizzazione43,45

8) Terapia antibiotica effettuata42, in particolare dopo la colonizazzazione. Sono stati

associati al rischio di infezione soprattutto i fluorochinoloni39, le penicilline

anti-pseudomonas (piperacillina-tazobactam) e i carbapenemici. In effetti, l’uso dei carbapenemici potrebbe potrebbe creare un ambiente favorevole (pressione selettiva) alla crescita e alla persistenza di KPC-KP e quindi favorire l’infezione25. Anche, più

generale, l’utilizzo di antibiotici per più di 14 giorni è stato associato ad un aumentato rischio di infezione in pazienti colonizzati46

Dato quindi che la terapia antibiotica nel paziente colonizzato è un fattore di rischio modificabile per lo sviluppo di infezione,42 bisognerebbe attentamente ponderale

l’uso delle classi di antibiotico specificatamente correlate ad un aumento del rischio di infezione in pazienti colonizzati25

9) Colonizzazione da KPC-KP in multipli siti, anche se gli stessi autori, che hanno riscontrato la relazione tra questo e l’infezione, sottolineano che il modo con cui lo studio è stato disegnato potrebbe aver determinato una sovrastima della rilevanza di questo fattore perché la valutazione dell’eventuale colonizzazione in altri siti non era fatta in modo sistematico a tutti i pazienti coinvolti ma a discrezione del medico44

10) Precedente chemioterapia e radioterapia44

11) Chirurgia e immunosoppressione legata a trapianto di organo solido43. Il 3-10% dei

pazienti che subiscono un trapianto di organo solido in area endemica sviluppa un’infezione da CRE, con elevata mortalità associata47. Anche il trapianto di cellule

(31)

12) Ammissione in terapia intensiva44. In particolare, la relazione tra il ricovero in terapia

intensiva e lo sviluppo di infezioni da batteri MDR in pazienti colonizzati probabilmente è riconducibile al frequente uso di devices invasivi, di antibiotici ad ampio spettro, alla severità delle condizioni cliniche sottostanti e agli eventi acuti. La ‘malattia acuta’ potrebbe favorire il passaggio dalla colonizzazione all’infezione, infatti, spesso i pazienti in terapia intensiva sviluppano l’infezione entro pochi giorni dall’ospedalizzazione e hanno meno frequentemente precedenti ricoveri42

In realtà, molte comorbidità, permanente catetere urinario, precedenti procedure chirurgiche sono condizioni predisponenti a colonizzazione/infezione anche da parte di altri microrganismi multiresistenti come S. aureus meticillino-resistente, VRE, Candida spp e Clostridium difficile.

3.5 Predittori di mortalità

La mortalità nelle infezioni da CRE varia ampiamente in un range tra 22% e 72% sia a seconda della popolazione in studio, che può essere ampiamente eterogenea per età e comorbidità, che dei criteri usati per distinguere la colonizzazione dall’infezione vera e propria48, che della sede di infezione e delle caratteristiche del batterio, come tipo di

carbapenemasi prodotta e profilo di resistenza dell’isolato.

L’alta mortalità osservata nelle infezioni da KPC-KP è, almeno in parte, attribuibile al ritardo nella somministrazione della terapia appropriata e alla mediocre attività e non ottimale farmacocinetica di alcune delle opzioni terapeutiche disponibili per il trattamento43.

Fattori associati alla mortalità emersi da studi caso-controllo, considerando pazienti con infezione da KPC-KP deceduti (caso) e pazienti con BSI da KPC-KP non-deceduti (controllo) sono:

1) Severità della condizione sottostante43,49,50: in particolare età avanzata (predittore

indipendente di mortalità15,51,52), alto Charlson score (predittore indipendente53),

insufficienza renale cronica (probabilmente è correlato alla mortalità anche perché riduce le opzioni terapeutiche, in quanto antibiotici nefrotossici come la colistina e la gentamicina, soprattutto se in combinazione verranno evitati54), epatopatia, ma

(32)

più alto tasso di mortalità tra i pazienti con malattie ematologiche comparate con altre comorbidità.

2) APACHE II all’ammissione51 e allo sviluppo dell’infezione48,55 che sono predittori

indipendenti di mortalità51

3) Fattori correlati alla gravità dell’infezione: Sepsi severa51, shock

settico15,48,50,51,54(predittore di mortalità indipendente a 30 giorni43), alto SOFA score

e necessità di ventilazione meccanica43, SAPS II15, AKI52.

4) Monoterpia, anche quando appropriata48,51,56

5) Ricovero in terapia intensiva43,53. Anche Zarkhotou et al.51 hanno rilevato una

mortalità minore tra i pazienti con BSI da KPC-KP ricoverati in terapia intensiva rispetto agli altri reparti medico/chirurgici (28,9% vs 46,7%; p 0,22). Secondo gli autori, questo potrebbe essere imputabile al più stretto monitoraggio dei pazienti in terapia intensiva e al più alto sospetto di infezione da KPC-KP, con pronto trattamento empirico appropriato.

6) Sensibilità dell’isolato, in particolare è stato evidenziato un aumento della mortalità per infezioni da KPC-KP resistenti alla tigeciclina, alla gentamicina15 e alla

colistina54. In particolare, Capone et al., in uno studio prospettico, hanno riscontrato

che l’infezione da KPC- KP colistino-resistenti è predittore indipendente di mortalità ed è associato ad un aumento della mortalità di 4 volte rispetto a pazienti con ceppi sensibili53. Come per altri batteri MDR, la maggiore mortalità, durata

dell’ospedalizzazione e costi delle infezioni da KPC-KP e per KPC-KP resistenti agli antibiotici last-resort come la colistina sarebbe dovuta principalmente alla inadeguata e/o ritardata terapia antibiotica e alla gravità dello stato di salute del paziente in cui in genere si sviluppano queste infezioni57. Infatti, sebbene l’aumentata virulenza

potrebbe spiegare l’impatto negativo delle infezioni da MDR sull’outcome clinico, a oggi, nessuno studio ha dimostrato questa associazione, se non per infezioni da MRSA acquisite in comunità, anzi l’acquisizione di resistenze antibiotiche nei bacilli Gram negativi potrebbe determinare una riduzione della fitness biologica57.

7) Chemioterapia e terapia immunosoppressiva48

8) Alcuni autori hanno anche evidenziato una maggiore mortalità nei pazienti che hanno una più lunga ospedalizzazione prima dello sviluppo della batteriemia, probabilmente perché in questi pazienti le comorbidità e la pressione selettiva degli antibiotici sul microbioma intestinale sono maggiori.31,55 Anche la recente

(33)

9) Batteriemia polimicrobica50.

Mentre sono fattori associati alla sopravvivenza:

1) Appropriatezza della terapia antibiotica, intendendo la somministrazione di antibiotici attivi in vitro per almeno 48 ore. L’inappropriatezza della terapia antibiotica è un fattore di rischio modificabile indipendente per la mortalità.43,51

2) Terapia con combinazione di antibiotici attivi50,51. In particolare Tumabarello et al.

hanno riscontrato un miglioramento della sopravvivenza quando viene effettutata una terapia con due o più antibiotici attivi in vitro48,54.

La terapia di combinazione potrebbe essere importante anche per prevenire l’insorgenza di ulteriori resistenze53, frequenti con la monoterapia.

3) Batteriemia catetere-relata51

4) Interventi terapeutici per il controllo della sorgente di infezione51 che è un fattore

indipendentemente associato a un miglior outcome e modificabile45. Al contrario,

una batteriemia secondaria ad infezione polmonare è associata ad una maggiore mortalità56, probabilmente anche perché la sorgente dell’infezione è di difficile

controllo oltre che per la minore efficacia di alcuni farmaci a quel livello (colistina ev43, gentamicina58).

5) Precedente chirurgia o catetere venoso centrale al momento della diagnosi51

6) Appropriatezza e tempestività della terapia antibiotica empirica43,48,54. Anche se non

tutti gli autori sono concordi su questo, per esempio Zarkhotou et al. non hanno rilevato differenza significativa nella mortalità di chi non ha ricevuto un adeguato trattamento empirico rispetto a chi lo ha ricevuto (mortalità 35,7% vs 33,3%; p 0,87), tuttavia gli autori spiegano che probabilmente questo è una conseguenza del fatto che i pazienti che hanno ricevuto un trattamento empirico adeguato si presentavano più frequentemente con sepsi severa.

Dato che molti predittori di mortalità sono importanti fattori di rischio non modificabili non solo per la mortalità ma anche per la colonizzazione/infezione, si comprende come le misure di prevenzione e controllo della diffusione della KPC-KP siano fondamentali43.

Una volta che l’infezione si è sviluppata, il management terapeutico rimane la prima variabile modificabile sulla mortalità e in particolare sono associati a minore mortalità il controllo della sorgente e l’adeguato trattamento antibiotico, soprattutto con terapia combinata43.

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3.6 Mortalità attribuibile

Determinare l’impatto delle infezioni da KPC-KP sulla mortalità nei pazienti ospedalizzati rappresenta una sfida perché si tratta in genere di pazienti con molte comorbidità. Inoltre, le infezioni sono associate alle procedure e ai devices invasivi usati durante l’ospedalizzazione e al ricovero in UTI che sono indipendentemente associati ad un aumento della mortalità, anche in assenza di infezione.

La mortalità complessiva di un paziente che muore in ambito ospedaliero in seguito a infezione da KPC è la somma della mortalità correlata all’infezione e della mortalità non correlata all’infezione e questa è molto maggiore in pazienti colonizzati con ceppi resistenti rispetto a quelli colonizzati con microrganismi più sensibili. Dato che alcuni fattori di rischio per la colonizzazione sono anche fattori con un impatto sulla mortalità, la stima della mortalità non correlata all’infezione può essere approssimata a quella dei colonizzati che non hanno sviluppato l’infezione.

Stimare la mortalità correlata all’infezione sottraendo la mortalità non relata all’infezione è importante perché qualsiasi tipo di intervento messo in atto per migliorare il trattamento dell’infezione avrà un impatto solo sulla mortalità attribuibile all’infezione. Quindi, anche in seguito all’uso di un antibiotico perfetto o di un trattamento che riduca la mortalità infezione-relata nei pazienti infettati da CR-KP a 0%, ci si aspetta una riduzione del tasso di mortalità ospedaliera tale da raggiungere quella dei controlli, cioè i pazienti colonizzati da CR-KP. Chi ha la polmonite da KPC-KP muore 3 volte in più del colonizzato, chi ha la batteriemia 2 volte in più. In questi pazienti si riscontra anche una maggiore durata dell’ospedalizzazione con conseguenti maggiori costi, aumento del rischio di infezioni intraospedaliere e loro complicanze nonché presenza di una sorgente per infezione di altri pazienti vulnerabili da parte di KPC-KP59.

Falagas et al. hanno condotto una meta-analisi per valutare la mortalità attribuibile alle infezioni da Enterobacteriaceae usando studi pubblicati prima del 9 aprile 2012, in particolare 9 studi sono stati inclusi nella meta-analisi. La mortalità attribuibile è stata definita come la differenza di mortalità per tutte le cause tra i pazienti con infezioni da K. Pneumoniae resistenti ai carbapenemici e le infezioni da K. Pneumoniae sensibili ai carbapenemici. La mortalità attribuibile a KPC-KP è risultata tra il 26% e il 44% in 7 studi e in 2 studi, che tuttavia includevano batteriemie e altri tipi di infezione, la mortalità attribuibile alla resistenza ai carbapenemici degli isolati è stata tra il 3% e il 4%.

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Il numero di morti tra i pazienti con batteriemia da CR-KP è risultato 2 volte maggiore che tra i pazienti con batteriemia da CS-KP. Ma questa significativa differenza di mortalità non è stata riportata in studi su pazienti con infezioni diverse dalla batteriemia o comunque in cui la sede di infezione non era riportata. Questo suggerisce, che il maggiore tasso di mortalità in pazienti con infezioni da CR-KP rispetto a quella in pazienti con CS-KP è soprattutto espressione dell’elevata mortalità in pazienti con batteriemia da CR-KP.

Le comorbidità e la gravità delle condizioni del paziente al momento della diagnosi sembrano molto rilevanti al fine della mortalità delle infezioni da CR-KP. Infatti in 3 studi inclusi nella meta-analisi effettuata da Falagas et al. non risultava esserci una significativa differenza tra i pazienti con infezioni da CS-KP e CR-KP, probabilmente proprio perché le popolazioni di entrambi i gruppi erano molto simili.

Comunque, altri fattori, oltre alle comorbidità e alla severità della malattia al momento della diagnosi, possono essere responsabili dell’alto tasso di mortalità in pazienti con infezioni da CRE. In particolare, si è visto anche che i pazienti con infezioni causate da CRE molto più frequentemente rispetto a quelli con infezioni da CSE ricevono un trattamento empirico inappropriato e quest’ultimo è un fattore indipendentemente associato con la mortalità in pazienti. Inoltre, gli antibiotici usati per il trattamento (carbapenemici, colistina, fosfomicina, tigeciclina) potrebbero essere meno efficaci contro le infezioni da ceppi resistenti, anche perché alcuni degli antibiotici a disposizione per queste infezioni, per motivi di farmacocinetica, potrebbero raggiungere concentrazioni subottimali per il trattamento di infezioni severe da CRE, soprattutto per le batteriemie.

5 studi inclusi in questa meta-analisi, tuttavia, hanno mostrato che la resistenza ai carbapenemici o la produzione di KPC è un predittore di mortalità indipendente dopo l’aggiustamento per le condizioni intercorrenti e la severità della malattia49.

Anche Hoxha et al.60, valutando la mortalità attribuibile come differenza di quella da

CR-KP e CS-CR-KP su 98 pazienti di cui 49 con CS e 49 con CR-CR-KP, riscontrano che i pazienti con l’infezione da CR-KP hanno effettuato più procedure invasive durante l’ospedalizzazione, prima dell’isolamento di CR-KPC, e sono più gravi (SAPS II più alto), anche se la mortalità dei pz CR è risultata 3 volte superiore dopo aver corretto per possibili fattori confondenti come condizioni critiche e comorbidità. Per cui, avere un’infezione da CR-KP è un fattore di rischio di morte indipendente.

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Mortalità cruda a 6 e 30 giorni per infezioni da CR-KPC e CS-KPC era rispettivamente 24% vs 8% e 61% vs 20%.

L’impatto delle comorbidità sulla mortalità complessiva nelle infezioni da KPC-KP viene sottolineato anche da Sbrana et al.61 che nel loro studio su 26 pazienti politraumatizzati

ricoverati in terapia intensiva hanno rilevato un tasso di sopravvivenza dell’88%, cioè circa il 20% maggiore di quanto generalmente riportato, ipotizzando che ciò sia riconducibile alle diverse caratteristiche della popolazione considerata: pazienti più giovani e senza comorbidità importanti.

Anche Daikos et al., in pazienti con infezione da KPC-KP, evidenziano una mortalità a 28 giorni per tutte le cause più alta di quella osservata in pazienti con infezioni da altri microrganismi (non CR-KP), probabilmente per la presenza di altri fattori, non dipendenti dalla virulenza del microrganismo. Infatti, natura e severità delle patologie sottostanti così come shock settico sono fondamentali per prognosi.50

3.7 Trattamento

Il trattamento ottimale per le infezioni da Enterobacteriaceae resistenti ai carbapenemici (CRE) non è a tutt’oggi stato definito con certezza. La maggior parte dei dati provengono da studi retrospettivi o prospettici osservazionali nonchè aneddotici case reports, solo pochi studi randomizzati controllati sono pubblicati sull’argomento62.

Il gene responsabile della produzione di KPC carbapenemasi, blakpc, frequentemente è

localizzato su un largo plasmide che conferisce resistenza non solo ai carbapenemici ma anche alle cefalosporine a spettro esteso, aztreonam, fluorochinoloni e alcuni aminoglicosidi. Conseguentemente, il trattamento delle infezioni da K. Pneumoniae produttrice di KPC è limitato all’uso di pochi antibiotici, generalmente colistina, tigeciclina, gentamicina, fosfomicina63.

La terapia di combinazione si è spesso dimostrata superiore alla monoterapia per trattare infezioni causate da KPC-KP, anche quando il microrganismo è suscettibile in vitro al singolo antibiotico somministrato e, in alcuni studi, è risultata indipendentemente associata alla sopravvivenza. Inoltre, la monoterapia è associata ad un più alto rischio di sviluppo di resistenze48,50-52,64,65. L’efficacia terapeutica della monoterapia appare tanto minore tanto più

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