Indice
I. Poesia e prosa: questioni di metodo. ...2
I.1 Poesia in forma di prosa. ...2
I.2 Il ritmo come peculiare configurazione prosodica...9
I.2.1 Il ritmo...9
I.2.2 La melodia, o unità melodica...11
2. La lingua e lo stile di Cesare Pavese...13
2.1 Considerazioni preliminari. Alcuni accenni sulla lingua e lo stile di Cesare Pavese. ...14
2.2 La parola nuova di Cesare Pavese...17
2.3 Dialoghi con Leucò. ...20
2.4 Calvino commenta Pavese...23
3. «Una grande verità». Il ritmo della prosa dei Dialoghi con Leucò...25
3.1 Riflessioni preliminari sul ritmo della prosa dei Dialoghi con Leucò. ...26
3.2 I titoli dei Dialoghi: riflessioni linguistiche...29
3.3 I campi semantici dei titoli dei dialoghi...30
3.4 Le didascalie: marche linguistiche e marcatori di veridizione. ...31
3.4.1 Proposizione subordinata in posizione enfatica...33
3.4.2 Uso della prima persona plurale come marcatore di veridizione del testo. ...34
3.4.3 Commenti introduttivi come convinzioni generali...35
4. I Dialoghi con Leucò: un tentativo di spoglio prosodico...39
4.1 Brandelli ritmici. Un tentativo di spoglio prosodico: forme di ritmicità ne La nube. ...39 4.2 La Chimera...44 4.3 I ciechi...48 4.4 Le cavalle...51 4.5 Il fiore...56 4.6 La belva...61 4.7 Schiuma d'onda...68 4.8 La madre...74 4.9 I due...79 4.10 La strada...86 4.11 La rupe...91 4.12 L'inconsolabile...96 4.13 L'uomo-lupo...102 4.14 L'ospite...107 4.15 I fuochi...112 4.16 L'isola...116 4.17 Il lago...120 4.18 Le streghe...124 4.19 Il toro...127 4.20 In famiglia...131 4.21 Gli Argonauti...135 4.22 La vigna...139
4.23 Gli uomini...143
4.24 Il mistero...146
4.25 Il diluvio...149
4.26 Le Muse...152
4.27 Gli déi...155
5. Fra la metrica del racconto e la metrica del canto...156
5.1 Spoglio prosodico: numeri e percentuali...156
5.1.2 Tabella delle percentuali...157
5.2 La presenza del verso breve e del verso lungo: dalla poesia alla prosa...157
5.3 Una lettura trasversale delle strutture metriche nella prosa dei Dialoghi. ....159
5.4 Prima tipologia ritmica: il settenario, il decasillabo, la tetrapodia, la pentapodia, l'esapodia e il segmento di tredici sillabe. ...159
5.4.1 Il settenario. ...160
5.4.2 Il decasillabo...163
5.4.3 La tetrapodia anapestica, la pentapodia anapestica e l'esapodia anapestica. ...165
5.4.4 Il segmento di tredici sillabe...171
5.5 Seconda tipologia ritmica. Le forme metriche della tradizione italiana: il senario, l'ottonario, il novenario, l'endecasillabo e il dodecasillabo...173
5.5.1 Il senario e il dodecasillabo...174
5.5.2 L'ottonario...176
5.5.3 I due tipi di novenario. ...177
5.5.4 L'endecasillabo. ...180
Conclusioni. ...183
I. Poesia e prosa: questioni di metodo.
I.1 Poesia in forma di prosa.
Prosa e poesia sono state da sempre considerate come due forme letterarie ontologicamente diverse tra loro. Questa premessa non vuole mettere in luce i pregi di una e i difetti dell'altra, ponendo, quindi, le stesse in una gerarchia di valori.
La nostra premessa vuole sottolineare il fatto che, nella storia della linguistica e della critica letteraria, non solo italiana, ma anche straniera, un posto ragguardevole abbia sempre avuto il problema della collocazione di tutti quei testi che si pongono al confine tra i due poli della definizione tradizionale dei generi: la poesia e la prosa, appunto.
Il problema del confine tra poesia e prosa riguarda soprattutto i testi del Novecento, quelli che Aldo Menichetti chiama “testi di frontiera”1. A questi testi è infatti difficile applicare i canoni tipici di riconoscimento della poesia, come ad esempio la rima, il ritmo, l'isosillabismo. Va precisata la definizione, a questo punto, di poesia. Autorevole è il punto di vista di Costanzo Di Girolamo2, al quale non soltanto rimandiamo, ma dal quale prendiamo spunto per la nostra ricerca sulla presenza metrico-prosodica nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese -sebbene alcune delle riflessioni dello studioso strideranno con la nostra scelta di indagine. Costanzo di Girolamo, nel paragrafo Poesia e prosa in Teoria e prassi della versificazione3, afferma che la discriminante principale tra poesia e prosa va ricercata in un dato tecnico ben preciso, e cioè quello del “versificato-non versificato”4. Ma non è solo il dato grafico che va preso in considerazione per definire un testo poetico. Riportiamo la definizione precisa di poesia che ne da Di Girolamo:
[…] Chiameremo quindi poesia ogni testo che si componga di unità (versi),
1 Aldo Menichetti, Testi di frontiera tra poesia e prosa, in Saggi metrici, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2006, p.354.
2 Costanzo Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione, Bologna, Il Mulino, pp. 102 e ss. 3 Vedi nota precedente.
chiaramente individuate:
(a) da un artificio fonico (rima , assonanza, allitterazione), o ritmico; e/o
(b) dal modello ritmico (ricorrenza di un certo numero di ictus; a intervalli fissi o variabili); e/o
(c) dal modello metrico (numero delle posizioni o, nei sistemi quantitativi, dei piedi); e/o
(d) dalla disposizione grafica.
Di Girolamo continua dicendo che nella poesia moderna il solo elemento (d) basterebbe per definire la poeticità di un testo.
Vi sono anche altri elementi che possono caratterizzare la lingua poetica, come ad esempio un lessico particolare, la libertà sintattica, l'uso di figure fonetiche o della metafora. Ma sono, questi, fatti che possono appartenere anche alla prosa, o che, viceversa, possono mancare senza che però un testo perda la sua poeticità. Siamo, dunque, arrivati alla questione chiave:
[…] Le definizioni di cui sopra, non escludono tuttavia la possibilità di riscontrare “frammenti metrici” in prosa. Versi veri e propri possono affiorare in una scrittura prosastica a volte per calcolo preciso dello scrittore (per dare incisività ad una frase); altre volte per processi mnemonici o inconsci, che possono verificarsi anche in prosatori che non abbiano mai scritto di poesia. 5
Né bisogna escludere a priori l'eventualità di combinazioni del tutto casuali del materiale linguistico. […]
Il nostro lavoro trova quindi una giustificazione in queste parole. Tuttavia, sentiamo di doverci discostare dalla conclusione a cui arriva Di Girolamo, e cioè che nessuna forma di prosa può presentare elementi di tensione metrica, e anche quando ci trovassimo di fronte a veri e propri frammenti metrici, si sentirebbero nella lettura
5 Di Girolamo, in nota, precisa che la retorica classica prescrive la regolazione prosodica di almeno parte del discorso in prosa (e anche la rima, e alcuni procedimenti allitterativi, sono diffusi prima nella prosa che nella poesia); tuttavia precisa anche che il cursus è sempre ben distinguibile dalla
semplicemente le pause della sintassi. Sicuramente questo principio vale per tanta parte di prosa-poetica che presenta casi di frammenti ritmici-metrici-prosodici, ma non vale per il testo del nostro studio, i Dialoghi con Leucò, in quanto è fuori di dubbio che le strutture metriche sono presenti in grande numero, e in forme fisse. E questo lo capiremo nel corso della nostra trattazione.
Ma continuiamo il nostro excursus sulla questione del confine tra prosa e poesia. E continuiamo prendendo le mosse dal concetto di tensione, in particolar modo da quello di tensione messo in relazione al concetto di competenza linguistica e a quello di competenza metrica. La tensione tra metrica e lingua viene messa a fuoco da Brioschi6:
[…] la competenza linguistica è comune a tutti i parlanti, è radicata al fondo del nostro essere sociale e sfiora (ma l'ipotesi è giustamente discussa) le soglie della stessa costituzione antropologica. La competenza metrica presuppone un processo specifico di apprendimento (sia pure anch'esso inconsapevole), di natura diversa, più accentuatamente storico-istituzionale[...]. Il metro in sostanza mette a fuoco, all'interno del continuum costituito dalla comunità dei parlanti, un particolare rapporto dove il lettore è chiamato non solo a riconoscere, ma ad attuare la dimensione letteraria del testo. La ricezione non è garantita dalla competenza linguistica indifferenziata, ma da un'acquisizione culturale. Né può sfuggire l'evidente natura sociale di questo rapporto: il verso esiste solo all'interno di una congruenza tra la volontà dell'autore e la disponibilità, l'intervento del suo uditorio; e tale congruenza è assicurata dal permanere di una convenzione letteraria all'interno del più vasto ambito dello scambio sociale.7
La posizione di Brioschi, come è evidente, si concentra sul problema della comunicazione intesa come fatto storico-sociale. Lo studioso sottolinea un dato interessante, che arricchisce il complesso processo di fruizione di un testo, fruizione
6 Brioschi, 1973. 7 Ibidem, p. 630.
che sarà sempre più profonda a livello delle stratificazioni ermeneutiche del testo stesso: la ricezione non è garantita dalle competenze linguistiche di base del ricevente, ma da più complessi processi culturali. Brioschi introduce anche il concetto di congruenza e dunque, in un certo senso, di osmosi creativa tra le intenzioni dell'autore e le capacità interpretative del fruitore.
Bisogna, ora, capire dove cominci e dove finisca un testo poetico, e soprattutto dov'è che risiede il confine che separa la poesia dalla prosa.
Jakobson afferma che la funzione poetica può essere presente anche fuori della poesia propriamente detta (nella quale questa funzione si impone su tutte le altre), e anche quando altre funzioni appaiono predominanti. Lotman, in Struttura del testo poetico, afferma che non si può tracciare un preciso limite tra i versi e la prosa. E questa constatazione avviene sulla scia di Tomasevsky, il quale scrive che
[…] è più naturale e fecondo esaminare il verso e la prosa non come due campi separati da un rigido confine, ma come due poli, due centri di gravità, intorno ai quali si dispongono storicamente i fatti reali. […] E' legittimo parlare di fenomeni più o meno in prosa, e più o meno in versi. […] E poiché diverse persone possiedono un diverso grado di ricettività verso i singoli segni del verso e della prosa, le loro affermazioni: “questo è un verso”, “no, questa è prosa rimata” - non sono in contraddizione l'una con l'altra. Da ciò si può trarre una conclusione: per risolvere il problema fondamentale della differenza tra il verso e la prosa è più fecondo studiare non i fenomeni di confine e definirli stabilendo qual è tale confine, probabilmente falso; bisogna primariamente rivolgersi alle forme più tipiche, più espresse, di verso e prosa.8
A un tale approccio dialettico è molto vicino anche J. Hrabak. Nell'articolo Osservazioni sulla corrispondenza del verso e della prosa, in particolare nelle cosiddette forme transitorie, l'autore parla dell'idea di prosa e di versi come di due poli di un'opposizione. Sebbene Hrabak parta da una base teorica che vede le due forme ben distinte tra di loro e soprattutto codificate da leggi determinate, in seguito allarga il suo punto di vista sottolineando che solo per lo scrittore contemporaneo la
prosa e la poesia si “proiettano” a vicenda, e cioè non sono riconoscibili confini netti tra le due forme: non vi è tra le due forme, quindi, in questi casi, una vera differenza codificabile con leggi certe. In questo modo Hrabak prova a risolvere il problema del confine tra prosa e poesia sulla base del fatto evidente che nella coscienza dell'autore e del lettore le strutture della poesia e della prosa sono fortemente divise, e scrive:
Nei casi in cui l'autore sottolinea nella prosa gli elementi tipici del verso, il confine non è eliminato ma, al contrario assume una maggiore attualizzazione. […] Quanto minore è nella forma in versi il numero degli elementi che distinguono i versi dalla prosa, tanto più chiaramente bisogna distinguere se si tratta non di prosa, ma di versi. D'altra parte, nelle opere scritte in versi liberi alcuni singoli versi, isolati e tolti dal contesto, possono essere percepiti come prosa.9
Non ci addentriamo nella ancora viva questione della codificazione linguistica del verso libero, in quanto non è questo il nostro campo di analisi.
Ancora una voce d'oltralpe va ricordata, ed è quella di Roland Barthes, il quale nel suo Il grado zero della scrittura definisce la poesia come una sorta di “equazione decorativa” di una prosa che giace in essa in potenza, e arriva a tale definizione a partire dal concetto che in epoca classica si aveva di testo poetico: esso era una inflessione particolare di una tecnica verbale di base, la prosa appunto. Barthes riporta la doppia equazione di Jourdain: se chiamiamo prosa un discorso minimo, e cioè il veicolo più economico del pensiero, e se chiamo a,b,c, gli attributi che si aggiungono ad un determinato linguaggio, inutili ma decorativi, come ad esempio il metro, la rima, si avrà questa “equazione”:
Poesia = Prosa +a+b+c. Prosa = Poesia -a-b-c.
Risulta che, sì, la poesia è sempre diversa dalla prosa, ma questa diversità risiede nella quantità. La poesia classica, ad esempio, era sentita come una variazione ornamentale della prosa, il risultato di una tecnica, che non possedeva un linguaggio
diverso dalla prosa, ma aveva un qualcosa in più che la distingueva dalla stessa. Riteniamo utilissima questa “equazione” per comprendere al meglio la presenza poetica, e soprattutto metrica, nei Dialoghi, in quanto nonostante risultino essere scritti in prosa, presentano quegli attributi che Jourdain chiamava “a,b,c”, cioè quel qualcosa che si aggiunge alla base del linguaggio prosastico.10
Ci si chiede, quindi, se esistano criteri oggettivi capaci di distinguere la poesia dalla prosa, e, se tali criteri non sono sufficienti, quanto e come i due generi si sono influenzati tra di loro, tanto da formare un genere tutto nuovo.
Vedremo, nel dettaglio, il caso di Pavese, in particolar modo il caso dei Dialoghi con Leucò, quel testo così disperatamente amato dall'autore, che finisce per essere la pietra miliare di tutta la sua opera, il “quarto di luna”, come lui stesso lo definisce nella premessa alla raccolta. Vi confluiscono, infatti, tutti quei testi che Pavese leggeva quand'era a scuola, «[…] i libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge.»11 Il riferimento è rivolto alla lettura dei classici greci, da Omero a Esiodo, ai tragici, Eschilo, e così via. Ma di questo parleremo approfonditamente più avanti. Bisogna precisare che in aree culturali diverse dalla nostra -in Francia, in Inghilterra, in Germania, nel mondo slavo – la riflessione teorica su questo argomento è stata messa a punto con maggiore chiarezza e precisione che in Italia.
E' utile, a questo punto, citare una nota che si trova nel capitolo introduttivo del libro di Beccaria sul ritmo della prosa, Note introduttive di critica e metodica12. Si tratta di
una nota bibliografica quanto mai esplicativa e che ben ci informa sugli studi esteri a proposito della presenza di un ritmo nella prosa, di una prosa d'arte che si fa melodia, che nasconde in se il ritmo poetico, e, soprattutto, che rivela la presenza delle forme metriche in un testo in prosa. Tanti i lavori citati sulla prosa inglese, francese e tedesca.13
Tra tutti spiccano i nomi di P. Fijin Van Draat, Rhythm in English Prosei, in «Anglia», XXXVI (1912) e di Paul F. Baum, The Oder Harmony of Prose, Durham, N.C., 1952, sul ritmo della prosa inglese; J. Brommel, Der Rhythmus als Stilelement
10 Cfr. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 2003 (I. ed. 1953), pp. 31 e ss. 11 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1999, Presentazione.
12 Gian Luigi Beccaria, Ritmo e melodia nella prosa italiana, studi e ricerche sulla prosa d'arte, Firenze, Olschki, 2013 (I ed. 1964).
in Morikes Prosa, Lipsia, 1941, sul ritmo della prosa tedesca; H.F. Muller, On the Origin of French Word Orderi, in «The Romantic Review», XXX, 1931 e A. Blikenberg, L'odre des mots en français moderne, Copenhagen, 1928-1933 sul ritmo della prosa francese.
Un dato di fatto emerge: anche la prosa ha un suo ritmo, una sua codificazione melodica e prosodica. Questo dato viene fuori proprio attraverso lo studio del ritmo del linguaggio, della varietà dei fenomeni musicali che in esso si presentano. Così concepito il ritmo può essere studiato in ogni tipo di linguaggio, e quindi anche nella prosa.14
Anche tra gli studi italiani si parla spesso di musicalità, e se ne parla nel senso di scorrevolezza, di armonia, con un'accezione forse troppo limitata; l'aggettivo “musicale”, infatti, viene spesso associato alla melodia che può possedere un particolare suono consonantico o vocalico, o può essere ricollegato alla dolce armonia delle parole che si susseguono, all'organizzazione degli accenti in un contesto ritmico-prosastico fluido. Ma questo non è lo studio linguistico del ritmo del testo in prosa.
Ci sforzeremo, quindi, di dare criteri di giudizio quanto più oggettivi da un punto di vista linguistico-semantico.
I.2 Il ritmo come peculiare configurazione prosodica. I.2.1 Il ritmo.
Poiché questo lavoro si occupa del ritmo (e in particolare del ritmo metrico prosodico nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese) è opportuno chiarire preliminarmente il più possibile il concetto di ritmo. La parola ha una storia etimologica molto travagliata. Il linguista francese Émile Benveniste, ne La notion de «rythme» dans son expression linguistique (in Problèmes de linguistique générale, Paris, 1966 -traduzione italiana, Milano 1971), ha studiato la storia della parola alla luce della sua etimologia: a partire greco ρέω, lo studioso si è posto il problema di come sia
derivata, dalla nozione originaria di flusso o di scorrimento la successiva idea di pulsazione o di ricorrenza seriale di intervalli di tempo. Attraverso una serrata indagine diacronica, Benveniste ha messo in luce che il vocabolo ρυθμός, nelle sue prime attestazioni risalenti alla scuola atomistica, i cui principali esponenti furono Leucippo e Democrito, aveva come significato quello di forma distintiva, disposizione proporzionata, caratteristico arrangiamento delle parti di un tutto. Da queste considerazioni, Emile Benveniste è arrivato a stabilire la precisa carica semantica della parola ritmo, la quale designa
[…] La forme dans l'istant qu'elle est assumée par ce qui est mouvant, mobile, fluide […] C'est la forme improvisée, momentanée, modifiable.15
La definizione di ritmo, quindi, racchiude in sé, già dal suo primo apparire, una sostanziale bivalenza, una bipolarità: da un lato, infatti, il ritmo si applica a fenomeni colti nella loro mobilità, nella loro trasformazione. Dall'altro lato, invece, il ritmo è il principio organizzatore di tale mobilità, la sua precisa regola, la sua forma, un vero e proprio pattern dinamico, una organica disposizione degli elementi in un corpo dotato di inarrestabile mobilità.
Da un lato, quindi, una “ordinata disposizione”, e dall'altro lato il principio di una “successione temporale”.16
Queste considerazioni presuppongono la presenza di una precisa intenzionalità organizzatrice da parte di chi scrive. L'ordine, e quindi il ritmo che ne deriva, non può essere il frutto di una successione casuale di elementi. Il ritmo, e in particolare il ritmo poetico, è il frutto di un vero e proprio artificio, introdotto nel fluire del materiale linguistico.
Pier Marco Bertinetto, in Ritmo e modelli ritmici, precisando che si tratti di ritmo della poesia, ha definito il ritmo come:
[…] la peculiare configurazione prosodica realizzata in ciascun testo dalla specifica successione degli accenti delle parole che costituiscono il verso. [...]17 15 E. Benveniste, opera citata, p. 133.
I.2.2 La melodia, o unità melodica.
A queste considerazioni preliminari sul concetto di ritmo vanno aggiunte quelle messe a punto da Gian Luigi Beccaria in Ritmo e melodia nella prosa italiana (-Studi e ricerche sulla prosa d'arte, Firenze, Leo S. Olschki Editore, I edizione 1964, ristampa 2013). Beccaria parla di presenza, di vera e propria esistenza nella prosa di un certo ritmo, che, quindi, non è limitato soltanto al campo della poesia. Critici e linguisti manifestano tendenzialmente un certo scetticismo a tal proposito, probabilmente per l'insufficienza dei mezzi di studio davanti alla vastissima varietà dei fenomeni da analizzare, mettendone così in evidenza la dubbia obiettività scientifica.
Ma di ritmo nella prosa si può, anzi è necessario che si parli. E' fuori da ogni dubbio che un qualsiasi testo letterario ha un suo ritmo linguistico ben riconoscibile.18
Beccaria mette a punto nel suo saggio alcune tabelle che delimitano le unità melodiche presenti in determinati testi di autori italiani. Da precisare il concetto di unità melodica:
[…] L'unità melodica è dunque per noi quella porzione del discorso con senso proprio e con forma musicale determinata, compresa fra due pause sospensive, rilevate quasi sempre dai segni d'interpunzione, che delimitano un'unica gittata sonora, senza soluzioni di continuità fonica. [...]19
Sulla base di questa definizione è fondamentale, quindi, rispettare i naturali confini sintattici di ogni segmento preso in analisi, i quali coincidono nella maggior parte dei casi con segni d'interpunzione.
Tornando invece all'importanza delle tabelle, una di queste, in particolare, risulta essere di notevole interesse per la nostra indagine sulla cantabilità delle battute nei Dialoghi pavesiani. Mi riferisco alla Tabella V che il Beccaria inserisce a p. 137 del
18 Importantissima in questo senso è la vasta bibliografia estera sulla funzione e sull'importanza del ritmo della prosa, per la quale rimando a Beccaria (op. cit.), Note introduttive di critica e metodica, p.23 N.1.
suo saggio.20
Si tratta del conteggio delle unità melodiche in varie pagine di autori del Novecento, in particolare di D'Annunzio, Pirandello, Pavese, Manzini e Cecchi. Si notano alcune costanti, e cioè: la costante graduazione intorno alla unità melodica predominante (il novenario in D'Annunzio, l'ottonario in Pavese, il settenario in Manzini, il novenario in Cecchi); il concentrarsi frequente delle unità melodiche impiegate, nei limiti costanti compresi tra le 6 e le 11 sillabe; la varietà di unità melodiche impiegabili, che raggiungono anche le grandi unità di 27 sillabe.
Nella nostro lavoro, in particolare nello spoglio prosodico di tutti i Dialoghi, abbiamo posto all'attenzione del lettore proprio questo aspetto, e cioè l'unità melodica, il brandello ritmico, delimitato dal segno d'interpunzione. I risultati sono stati sorprendenti per quanto riguarda la presenza massiccia di forme metriche che vanno dal quinario, e quindi segmenti di cinque sillabe, a esapodie anapestiche, che contano ben 19 sillabe (18 posizioni e sei accenti principali). Ma tutto questo lo affronteremo nel paragrafo successivo.
20 Per la compilazione della tabella il Beccaria si è servito dei seguenti passi:
G.D'Annunzio, Il piacere, Milano, Treves, 1889, pp.124-128; Trionfo della morte, Milano, Treves, 1894, pp.132, 269, 340; Le vergini delle rocce, Ed. Naz. 1930, pp.278-79; Il Fuoco, Milano, Treves, 1900, pp. 73-74, 317, 336-37, 406-407; Le Novelle della Pescara, Ed. Naz., 1930, p.122;
Forse che sì forse che no, Ed. Naz., 1927, p.476; La Leda senza cigno, Ed. Naz., 1930, p. 65; Notturno, Ed.Naz., 1931, pp.263-64, 321; La riscossa, Milano, Treves, 1918, pp. 32 e ss.; Le Faville del Maglio, Milano, Treves, 1924, Tomo I, pp.25 e ss.
L. Pirandello, Novelle per un anno, Milano 1938, passi da La mano del malato povero, La
maestrina Boccarmé, La patente, Il treno ha fischiato.
C. Pavese, Prima che il gallo canti,Torino, Einaudi, 1949, passim; La bella estate, Torino, Einaudi, 1949, passim; La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950, passim.
G. Manzini, La sparviera, Milano, Mondadori, 1956, passim; e poi i passi tratti da Animali sacri e profani, Roma, 1953.
2. La lingua e lo stile di Cesare Pavese
2.1 Considerazioni preliminari. Alcuni accenni sulla lingua e lo stile di Cesare Pavese.
Risulta difficile ridurre a norma lo stile della prosa di Cesare Pavese, e ancora più arduo è il compito di chi si avvicina all'analisi linguistica e stilistica di un'opera pavesiana, che sia in prosa o in poesia. Certo è che in Pavese la prosa non è tale senza la sua contropartita poetica, e viceversa.
Il linguaggio prosastico di Pavese, per essere compreso fino in fondo, va messo in relazione con quello poetico, il quale è sostanzialmente antiermetico21, caratteristica, questa, che cristallizza il parlato e rende la poesia fortemente narrativa.
Come analizza il Mengaldo in Storia della lingua italiana, va precisata una questione prima ancora di entrare nelle trame del linguaggio pavesiano22: nonostante Pavese abbia, in un certo senso, autorizzato una sostanziale interpretazione neorealistica della sua prosa, l'effettiva messa in pratica del suo stile era tutt'altra: neorealismo e naturalismo sono, si potrebbe dire, punti di partenza, anche e soprattutto per influsso della letteratura inglese e americana, alle quali Pavese riservava tutto il suo interesse non soltanto di studioso ma anche di lettore e scrittore23.
Degli scrittori inglesi e d'oltreoceano Pavese invidiava soprattutto la soluzione del problema del parlato, dello slang, cosa molto difficile da rendere nella nostra lingua, se non ricorrendo a dialettismi, i quali, tuttavia, riflettevano la lingua parlata di una determinata regione, nel caso di Pavese, il Piemonte. Quindi non si trattava di uno slang comune a tutti i parlanti, ma di una lingua parlata che variava da zona a zona.
21 Considerazione parecchio riduttiva. Questo aspetto dell'opera di Cesare Pavese verrà approfondito più avanti.
22 Cfr. P.V. Mengaldo, Storia della lingua italiana, il Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 157 e ss.
23 Pavese fu il primo ad occuparsi di Walt Whitman, e lo fece con non poche difficoltà. Lo scrittore americano era l'oggetto della sua tesi di laurea. Pavese fu contrastato nell'impresa non solo al momento dell'assegnazione della tesi stessa, ma anche nella discussione, a conferma dell'ostilità
Come tralasciare la nota presa di posizione di Pavese a proposito del dialetto:
Il dialetto è sottostoria. Bisogna invece correre il rischio e scrivere in lingua, cioè entrare nella storia, cioè elaborare e scegliere un gusto, uno stile, una retorica, un pericolo. Nel dialetto non si sceglie – si è immediati, si parla d'istinto. In lingua si crea. Beninteso il dialetto usato con fini letterari è un modo di far storia, è una scelta, un gusto ecc.24
Gioanola afferma che tutta la ricerca stilistica di Pavese è impostata in direzione di una lingua, senza alcun compromesso nei confronti del mimetismo gergale.
E nonostante ciò il dialetto costituisce, dalle poesie ai romanzi, una realtà di partenza con cui la lingua deve fare i conti. Si trattava di assimilare gli elementi di una sotto-lingua ad un sotto-linguaggio che accettava le strutture fondamentali del volgare colto italiano.
La questione dialettale, quindi, si poneva fin dall'inizio nei termini di strumento di una variatio stilistica, con l'apparente funzione di unione con la realtà oggettiva, e la funzione autentica di espressione originale di un modo lirico e tutto soggettivo di rapportarsi con il mondo circostante.25
Pavese è alla ricerca di un parlato antiborghese, che sia non un dialetto mimato, ma un dialetto alluso, il quale passa attraverso un processo sociale e culturale. E ciò si può riscontrare dai fenomeni sintattici dialettal-popolari che l'autore mette in pratica. Gian Luigi Beccaria, nell'articolo pubblicato nel 1964 sulla rivista SIGMA -i cui numeri 3 e 4 furono interamente dedicati a Cesare Pavese- Il lessico, ovvero la questione della lingua in Cesare Pavese, riporta una serie di esempi interessanti dal punto di vista dell'innovazione stilistica pavesiana in senso antiermetico, stile, questo, essenzialmente lontano dalla letteratura a lui contemporanea. Riportiamo alcuni esempi di dialettismi ai quali si aggiungono elementi colloquiali e popolari della lingua. Si tratta anche di espressioni del parlato neo-standard. Sono esempi tratti dalle poesie di Lavorare stanca, a titolo esemplificativo; fanno la loro comparsa
24 Mestiere di vivere
termini dialettali veri e propri: «Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa, / isolati nel fumo, e beviamo» (Gente spaesata); «Dalla piola, di notte, con cinque minuti di prato, /uno è a casa...» (Atlantic Oil); «Compare / finalmente alla svolta un gorbetta che fuma» (Ritratto d'autore). Ancora più significativi per documentare l'influsso del dialetto, la forma aferetica del dimostrativo: «Se faceva sto caldo in città, si fermavano a pranzo / nell'albergo» (Città in campagna); l'uso irregolare dell'avverbio di luogo ci: «Comprò un pianterreno / nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento...» (I mari del Sud); l'uso irregolare del pronome relativo: «Stupefatto del mondo mi giunse un'età, / che tiravo dei pugni nell'aria e piangevo da solo...» (Antenati); l'uso frequente della forma verbale singolare in luogo del plurale: «Sull'asfalto c'è due mozziconi...» (Due sigarette); l'impiego del pronome personale obliquo gli anche per il femminile e per il plurale: «E alla figlia, che gira di sera, e ai ragazzi, che tornano / quand'è buio, smarrita una capra, gli fiaccano il collo» (Il dio-caprone). Ad una suggestione dialettale può essere ricondotto l'uso raddoppiato e insistito della negazione: «Qui, al fondo, nemmeno il fucile / non gli serve, perché dentro al buio non c'è che fogliami.» (Paesaggio)
Si tratta di una serie vastissima di dialettismi o di forme allusive calcate sul piemontese o sul gergo, in ogni caso popolari. E questo atteggiamento linguistico rispecchia l'intenzionalità da parte di Pavese di una
negazione più vistosamente polemica contro il “tono alto” della lingua ermetica e post-ermetica, o contro la parola letteraria della prosa d'arte, se in certi casi […] la lingua intende rispecchiare con voci dialettali e gergali appariscenti il linguaggio dei personaggi di una classe sociale ben delimitata, altri tipi […] s'inquadrano nei programmi di una “rivoluzione” più sottile, quando cioè la “trascrizione” discreta del dialetto fa acquistare senza sforzo a certe forme cittadinanza naturale nella lingua italiana.26
Allora, detto ciò, una domanda potrebbe sorgere spontanea: ci troviamo di fronte ad un abbassamento della lingua italiana a dialetto, oppure si tratta di un innalzamento
della forma dialettale a lingua, a norma?
Beccaria trova la risposta nel giusto mezzo. Infatti la lingua di Pavese è ossequio e ribellione al tempo stesso, e si colloca esattamente a metà strada tra dialetto e lingua standard. Pavese è alla ricerca di una lingua più vasta, che comprenda in sé dialetto e norma, e nel fare questo inserisce i suoi tentativi in una tradizione storica, con una «metamorfosi contenuta il più possibile entro il sistema»27, che sia allo stesso tempo
costruzione e libertà espressiva.
Da tutto ciò derivano gli effetti sulla superficie del linguaggio pavesiano della prosa, e di conseguenza sullo stile che egli stesso ha creato nel corso delle sue narrazioni. Risulta utile, a questo punto, ricordare quanto Beccaria, uno dei più grandi interpreti del linguaggio di Pavese, dice a proposito del suo stile:
L'ideale di Pavese […] era uno stile scarno, disadorno, rapido e netto, misurato, privo di fronzoli, e sempre calcolato, sostenuto e sostanzioso […] Prende le distanze […] da ogni tipo di prosa che avesse il grado zero della naturalezza discorsiva, della freschezza convenzionale, o il grado plurimo del libresco, del prezioso, dell'allusivo. Resta distante tanto dalla tradizione espressionistico-preziosa quanto dal neorealismo. E' scrittore severo in cerca della sublimità anche nell'umile: del fatto, del finito, del solido della forma; del dilagato da ricondurre all'immobile. La mira finale andava verso la sobrietà classica, verso il semplice monotono, il severamente ordinato, il solenne e il grave […] verso l'austero ritmico, il poetico nel prosastico.28
Ed è questa la chiave di lettura di tutta l'opera in prosa di Pavese: tutto è poesia, tutto è ritmo. La lingua e lo stile si fanno portavoce, sotto forma di testo narrativo, in prosa, di una poetica ritmica già, probabilmente, stabilita in partenza.
Pavese nasce poeta e muore poeta e tutto quello che c'è nel mezzo è anch'esso poesia, è ritmo, è melodia.
Il mio scopo è quello di capire quanta poesia c'è nella prosa, e quanto la poesia, con
27 Ibidem, p. 90.
le sue norme codificate, influisca sul ritmo del linguaggio della prosa.
2.2 La parola nuova di Cesare Pavese.
Pavese in Ritorno all'uomo, articolo pubblicato su L'Unità di Torino il 20 maggio 1945, e inserito, poi, in La letteratura americana e altri saggi, teorizza la sua ricerca linguistica, e lo fa con poche ma efficaci parole, utilissime come punto di partenza della mia analisi sulla prosa dei Dialoghi con Leucò:
Da anni tendiamo l'orecchio alle nuove parole. Da anni percepiamo i sussulti e balbettii delle creature nuove e cogliamo in noi stessi e nelle voci soffocate di questo nostro paese come un tiepido fiato di nascite. […] Proporsi di andare verso il popolo è in sostanza confessare una cattiva coscienza. Ora, noi abbiamo molti rimorsi ma non quello di aver dimenticato di che carne siamo fatti. Sappiamo che in quello strato sociale che si suole chiamar popolo la risata è più schietta, la sofferenza più viva, la parola più sincera. […] Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l'uomo e non l'uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l'uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all'uomo, le nuove parole ci commuovano e afferrino come nessuna delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra. Il nostro compito è difficile ma vivo. E' anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato.29
letteraria; passaggio obbligato qui è Pavese per il grande influsso esercitato dal suo stile sui neorealisti.»30 L'affermazione di Corti mette a fuoco il concetto che anche Pavese ha cercato di sistematizzare in Ritorno all'uomo, e cioè la novità sostanziale della sua prosa che si eleva a modello culturale di grande prestigio non solo per la prosa neorealista, ma anche per la narrativa delle generazioni successive, perché proprio quella sua prosa risulta essere carica e feconda di «singole norme stilistiche o nessi-modello che avranno vita autonoma rispetto al testo.»31
Alcuni studiosi hanno focalizzato la loro attenzione sull'andamento regolato e monotono della prosa pavesiana, e sul problema del ritmo della prosa, «sulla tendenza di spiccata letterarietà alla disposizione trimembre dei segmenti che possono, talvolta, assumere misura di versi.»32 Questo è l'aspetto dello stile che ci ha più colpito, infatti è proprio sul ritmo cadenzato dei segmenti di frase e fondamentalmente trimembre che si concentra la nostra trattazione.
Da quanto detto finora emerge un dato: Pavese dà prova e mostra in atto una lingua che «non finge di non essere scritta e non teme di sembrare parlata»33.
Un caso a parte, invece, è rappresentato dai Dialoghi con Leucò, i quali sono a metà strada tra la scelta della parola nuova, e la scelta di un periodare dallo stile classicheggiante e sostenuto, al cui interno sono facilmente riscontrabili fatti linguistici propri della lingua poetica di tradizione letteraria. Riteniamo, a questo punto, che possa essere significativo soffermare la nostra attenzione su alcuni fenomeni di natura nettamente letteraria presenti nel linguaggio dei Dialoghi, fenomeni che non riguardano il concetto di parola nuova di cui abbiamo in precedenza accennato - che riflettono la lingua parlata-, ma fenomeni che fanno parte di quell'atteggiamento pavesiano tipico di questo testo: Pavese predilige, in questo caso, un'unità di registro dall'andamento stilistico classicheggiante. La sintassi è regolare, priva di eccezioni o di irregolarità.
Spesso i fenomeni linguistici di natura classicheggiante e letteraria si inseriscono nella scelta da parte dell'autore di adattare il metro alla sintassi; queste scelte
30 M. Corti, Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978, p.87. 31 Ibidem, p. 88.
32 E.Soletti, Nota linguistica. Appunti sulla sintassi di Pavese, in Cesare Pavese, Tutti i romanzi, Torino, Einaudi, 2000, p.1148.
linguistiche potrebbero essere, quindi, le prove della volontà di Pavese di adattare allo stile dei dialoghi la presenza di segmenti metrico-prosodici.
Un primo esempio risiede nell'uso frequente del troncamento, elemento, questo, tipico del linguaggio poetico di Lavorare stanca, e in generale elemento tipico della scrittura poetica. I casi riscontrabili nel testo dei Dialoghi sono tantissimi, ne citiamo qualcuno a titolo di esempio: «Molte cose son mutate sui monti34»: in questo caso il troncamento del verbo permette all'autore di creare, in prosa, un endecasillabo, sebbene non canonico35. «Ma gli dei posson dare fastidio36»: il troncamento del verbo, anche in questo caso, ci permette di isolare un segmento di dieci sillabe, o meglio, un perfetto decasillabo anapestico con accenti di terza, sesta e nona sede. Stessa cosa avviene in questo caso: «Si dilania o si vien dilaniate37».
Un altro esempio di questi fenomeni sta nella costante prolessi dell'attributo e dell'avverbio, scelta assai difficile da attuare nella prosa, che rivela, così, la volontà di rendere poetico il testo in prosa: «C'è un divino sapore nel sangue versato38», «Tu hai molto giocato con loro?39»40.
Dunque, abbiamo da un lato la lingua nuova che Pavese costruisce nel corso dei suoi romanzi, e non solo, ma anche nella raccolta di Lavorare stanca; e dall'altro lato, il periodare classicheggiante, piano, regolato, volutamente poetico, che riflette le scelte linguistiche delle raccolte successive al '45, e cioè La terra e la morte e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Inevitabile, a questo punto, ammettere che i Dialoghi con Leucò siano un esperimento più che riuscito di quella volontà da parte dell'autore di unire alla forma del racconto la spinta linguistica, prosodica e metrica che è propria della poesia. Ma di questo aspetto parleremo approfonditamente nell'ultimo capitolo.
34 DL, La nube, p.11.
35 Una precisazione: si dovrebbe parlare di segmento di undici sillabe, più che di endecasillabo vero e proprio. Gli accenti, infatti, non sono quelli tipici di un endecasillabo propriamente detto. Mancando tale particolarità, sarebbe meglio parlare di segmento ritmico di undici sillabe.
36 DL, I ciechi, p.21. 37 DL, L'inconsolabile, p.80. 38 DL, Il lago, p. 109. 39 DL, Le streghe, p. 115.
2.3 Dialoghi con Leucò.
I Dialoghi con Leucò sono stati scritti negli anni tra il 1945 e il 1947 e pubblicati nel mese di novembre del 1947, dopo che a giugno Pavese aveva dato alle stampe einaudiane Il compagno, romanzo che segna il passaggio della sua narrativa dalla fase naturalistica a quella dei “miti”, già apparsa nel romanzo Paesi tuoi.
Il periodo che va dal '45 al '47 è una stagione feconda per Pavese: è in questi anni che si delineano con maggiore precisione il suo percorso creativo e poetico, fino a dargli l'opportunità di una più specifica determinazione del concetto di “mito”. Il mito è l'elemento irrazionale, è una
norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte; un luogo un gesto un evento assoluti e quindi simbolici che traggono il loro valore da questa unicità assoluta che li solleva fuori del tempo e li consacra rivelazione.41
E' proprio nei Dialoghi che Pavese passa ad una lettura interpretativa e squisitamente personale del mito come consapevolezza di un destino comune a tutta l'umanità che si esprime attraverso la conoscenza del dolore, della malattia, della sofferenza, della solitudine e della morte. Nei Dialoghi Pavese delimita e quasi esemplifica la sua personale mitologia ad un principio di mitologia universale, ai principi basilari della vita dell'uomo che è capacità e privilegio dei poeti di intuire ed esprimere, ma di cui nessuno è in particolare depositario. Il nodo centrale dell'indagine di Pavese sta nel problema universale della comunicazione: la condizione drammatica dell'uomo, socialmente chiamato a rompere l'originaria solitudine per adempiere ai suoi compiti e doveri verso gli altri suoi simili.
I Dialoghi sono apparsi subito troppo innovativi per i lettori italiani e poche furono le voci che sottolinearono la grandezza e la novità assoluta di questo poema in prosa. Per tradurre in forme poetiche la sua propria assidua meditazione sul mito, Pavese adotta la forma dialogica sul modello delle Operette morali leopardiane e reinterpreta la mitologia classica alla luce delle moderne scoperte etnologiche, con una
prospettiva insieme ironica e drammatica. Attraverso i ventisette brevi dialoghi, i protagonisti, gli eroi, gli dei del mito greco rievocano l'incontro con i mostri che popolavano la terra prima del loro avvento e denunciano la traccia indelebile che quell'esperienza ha lasciato. Il passaggio dall'infanzia alla maturità viene rappresentato qui come passaggio dal mondo dei titani, caotico irrazionale ma libero, a quello degli dei e degli eroi, razionale ma pieno di norme ed obblighi. Si tratta, secondo Pavese, di una transizione necessaria e inevitabile, e al contempo dolorosa. I personaggi che prendono parola sono sempre due, e le loro storie hanno per centro un momento significativo di ogni mito. Ogni dialogo è preceduto da una didascalia incisiva e informativa, spesso esegetica; in questo modo Pavese con una frase o con una sola parola riesce ad arrivare alla radice perenne de mito, quella che anche nel momento in cui scrive è vitale, e viene in qualche modo riscoperta in chiave moderna. I dialoghi sono brevi, dalle tre alle cinque pagine, e rispecchiano la volontà di narrare con uno stile composto, leggermente aulico. Non ci si stupisce, quindi, del loro linguaggio in un certo senso astratto, convenzionale. E' proprio qui che risiede la novità di questo testo, controcorrente rispetto non solo alla produzione letteraria contemporanea, ma anche rispetto ai precedenti romanzi. Il lettore avverte nella lettura dei Dialoghi un ritmo, non solo un ritmo metrico, cadenzato, ma anche un ritmo, per così dire, strutturale.
I Dialoghi costituiscono una svolta nell'opera di Pavese, ma allo stesso tempo rimangono un unicum, uno stranissimo prodotto in un momento storico particolare: nel 1946/47, quando tutti erano impegnati nel rielaborare una fase storica drammatica, Pavese riscrive la mitologia classica. Si tratta di una scelta irrealistica, antistorica, aristocratica, che porta inesorabilmente al poco successo di un'opera come questa. Dalle lettere si legge che i dialoghi «non piacciono a nessuno» (1947); «Leucò è un maledetto libro su cui nessuno sembra pronunciarsi» (1947); «sembra impossibile che Leucò non si capisca» (1948).42 Allo stesso tempo, nonostante la fredda accoglienza del libro, Pavese sente che quest'opera ha per lui un valore altissimo, decisivo: «Leucò è il mio biglietto da visita presso i posteri» (1950); «un libro che nessuno legge e, naturalmente, è l'unico che vale qualcosa, Dialoghi con
Leucò» (1950).43 E ancora, nell'intervista alla radio del 1950: «quei dialoghi che sono forse la cosa meno felice ch'io abbia messo sulla carta […] Pavese, con ragione, ritiene i Dialoghi con Leucò il suo libro più significativo».44
2.4 Calvino commenta Pavese
Il primo vero e proprio commento ai Dialoghi con Leucò si deve a Italo Calvino, che lo diffuse tramite il «Bollettino di Informazioni Culturali» di Einaudi45. Si trattava di un ciclostile destinato ai librai, e quindi di una collocazione editoriale del tutto secondaria.46
Non si trattava né di una nota linguistica, né di una nota ufficiale. La scheda era comunque puntuale ed incisiva, e offriva spunti di riflessione importanti per la comprensione della genesi dei Dialoghi e, in generale, per l'opera di Pavese.
Calvino esordisce con queste parole:
Qualcuno, a leggere i Dialoghi con Leucò (Einaudi, 1947), ci rimarrà disorientato: questa da Pavese non se l'aspettava. Chi lo conosce, no: sa che questo Pavese dei Dialoghi è sempre esistito accanto all'altro, quello dei romanzi; anzi senza questo l'altro non sarebbe possibile: sono un Pavese solo, insomma. Prima tutt'al più si discuteva se Pavese fosse più un narratore o più un poeta. C'è chi, cioè, vedeva muoversi anche nei poemetti di Lavorare stanca le invenzioni e i modi della sua narrativa: o chi, forse più sottile, vedeva i suoi romanzi e i suoi racconti basarsi su momenti lirici e sapore di paesaggi. Questo nuovo libro può servire a scoprire quanta fatica, quanta ricerca anche erudita costi la sua tecnica creativa: scopre cioè il Pavese umanista; perché là dove
43 Ibidem, II: 753, 769.
44 Cesare Pavese, 1971, pp. 287-289. A ciò si può aggiungere la testimonianza di Davide Lajolo, in Il
vizio assurdo, pp.320-321: «E' l'unico libro, tra quelli scritti, per il quale ogni giorno si recava
all'ufficio diffusione per conoscere come procedeva la vendita». 45 Si tratta del Bollettino numero 10, del 10 novembre 1947, pp. 2-3
46 Lo scritto di Calvino fu poi ripubblicato, senza ulteriori modifiche e senza firma – compare soltanto l'iniziale “c.” - nella rivista forlivese «Fiamma Garibaldina», del 15 dicembre 1947; fu poi pubblicato anche in inglese, con il titolo Pavese amongst the Gods, in «Publishers' Monthly», Number 2, February 1948, pp.1-2.
qualcuno crederebbe di trovare uno scrittore il più spregiudicatamente moderno, i cui interessi si fermano ai Vittoriani e a Melville, c'è invece un filologo che si traduce e annota il suo pezzo d'Omero ogni giorno, e uno scienziato che ha sviscerato tutta la più avanzata cultura mondiale in fatto di interpretazione delle religioni primitive. Di questo lavoro già erano avvisaglie certi capitoli di Feria
d'agosto in cui Pavese chiariva agli altri e a sé i concetti di simbolo, mito,
scoperta, infanzia, memoria, ecc, come le ragioni prime della narrativa e della poesia in genere, e della sua in particolare.47
Calvino è consapevole del fatto che l'interesse di Pavese per la mitologia non è un capriccio momentaneo (come invece lo definiva Pavese stesso nella Prefazione ai Dialoghi, parlando di quarti di luna48) , anzi sa che lo scrittore non solo si dedica allo
studio dei miti come immagini archetipiche immutabili e tuttavia capaci di dare vita a multiformi interpretazioni poetiche – come già in Feria d'agosto- , ma addirittura da molti anni si cimenta in prove di traduzione da lunghi brani di Omero e dei tragici, e perfino di frammenti poetici lirici come Saffo, Pindaro, misurandosi con la divina e terribile49 lingua greca con tenace pazienza e moltissima curiosità.
Lo scritto di Calvino, pur prescindendo dalle penetranti considerazioni di Mario Untersteiner, destinate ad essere pubblicate poco tempo dopo, ne anticipa tuttavia alcuni aspetti, e, volendo usare le parole del filologo classico trentino, si arriva a comprendere che
Pavese vuole conquistare all'uomo quello che ab origine gli appartiene: l'umanità […] risale alle radici primigenie della realtà, per rintracciarvi allo stato puro alcuni fondamentali valori necessari per l'autonomia dell'individuo.50
47 Ivi
48 […] Non c'è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la sua
musa nascosta […], cit. Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, (Presentazione), Torino, Einaudi,
1999, a cura di Sergio Givone.
49 Tale definizione della lingua greca come divina e terribile si trova nella lettera del 20 novembre 1947 a Mario Untersteiner (in Lettere II, cit., p. 195)
50 Untersteiner, recensione a Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, cit. p. 346. Nel ringraziare Untersteiner per la recensione, Pavese scrisse il 12 gennaio 1948: Certamente il senso di questo
La presentazione di Calvino si conclude nel modo seguente:
Così questo libro serve a chiarirci un altro volto di Pavese, che a moltissimi sarà passato inosservato: un oscuro culto faunesco e arvale che gli ispirò già liriche come “Il dio caprone” nonché quella specie di saga contadina, carica di miti sanguinari e incestuosi, che è Paesi tuoi. Poi, c'è nel libro anche un'attentissima arte di linguaggio e ritmo, imparata con uno studio di finezze su Luciano o su Leopardi. E c'è il Pavese lirico- narrativo che fa capolino spesso, appena può metter fuori qualche sobria nota di paesaggio, o qualche intimità di racconto (vedi, soprattutto, “I Fuochi”). Tanto che alla fin fine verrebbe voglia di dirgli che i suoi vagabondaggi per i secoli sono veramente fruttuosi quando gli servono per costruire delle nuove favole per noi, necessarie e semplici come quelle degli antichi.
Calvino conclude la sua presentazione (o meglio ancora “perorazione”), con un suggerimento per l'autore dei Dialoghi con Leucò: che i suoi vagabondaggi per i secoli possano servire per costruire nuove favole per noi, semplici, necessarie come quelle degli antichi.
Dunque Calvino parteggia per il Pavese scrittore, piuttosto che per il Pavese filologo ed etnologo; parla dei Dialoghi come di favole, non propriamente di miti, anche se da questi ultimi i Dialoghi stessi riprendono temi e personaggi.
3. «Una grande verità». Il ritmo della prosa dei Dialoghi con Leucò.
3.1 Riflessioni preliminari sul ritmo della prosa dei Dialoghi con Leucò.
Molti critici, da Beccaria a Di Girolamo, hanno spesso notato il ricorrere, nella prosa di Pavese, di strutture metriche e prosodiche proprie della sua produzione poetica precedente.51 Il primo a notare tali ricorrenze poetiche nella prosa fu Mario Untersteiner52,-grecista- e le vide proprio nei Dialoghi con Leucò.
Notava Untersteiner, recensendo nel 1947 i Dialoghi appena usciti per Einaudi, che spesso il tono poetico di ogni dialogo si sollevava a un vero e proprio ritmo poetico, e che in larghe parti dell'opera le parole si «lasciano ricomporre […] in staccati membri lirici»53 di tendenza sostanzialmente anapestica e generalmente riconducibili ad una misura sillabica compresa tra il senario e l'endecasillabo.
Nel 1947 Pavese era non solo amico, ma anche collaboratore di Mario Untersteiner, e questo giustifica, nell'epistolario del nostro Pavese, la presenza di una significativa lettera datata 12 gennaio 1948 e indirizzata proprio all'Untersteiner, lettera che, in qualche modo, contraddice e allo stesso tempo giustifica tutto il discorso che affronteremo sulla presenza di strutture metriche e prosodiche nei Dialoghi:
Con la trovata della stesura metrica anche su questo punto lei ha detto una grande verità. Badi però che, secondo me, questa contabilità delle battute è più un difetto che un pregio.54
51 Ci si riferisce, in particolar modo, alla raccolta di poesie Lavorare stanca, pubblicate per la prima volta nel 1936 per Einaudi.
52 2 agosto 1899 -6 agosto 1981, è stato un grecista, filologo classico e storico della filosofia italiano. Fu autore di numerosi saggi sulla filosofia antica, la sofistica, la spiritualità e la religione greca, di scritti sull'origine e sulla natura della commedia e della tragedia greca, di commenti e interpretazioni sofoclee, di edizioni critiche e commenti di opere filosofiche di Parmenide, Zenone di Elea, Senofane, Platone, Aristotele, di edizioni critiche di tragedie di Eschilo e Sofocle e delle
Storie di Erodoto.
Nonostante l'evidente e immediato rifiuto di tale artificio stilistico, la lettera rimane senza alcun dubbio fondamentale, in quanto si tratta dell'unico scritto in cui Pavese ammette la grande verità: l'evidente utilizzo, in prosa, di elementi ritmico metrici propri della poesia.
Costanzo di Girolamo, a proposito della scrittura in prosa di Pavese e delle sue caratteristiche ritmiche, arriva alla conclusione che la prospettiva da cui partire per analizzare le specificità ritmiche della narrativa pavesiana riguarda la prosodia: si parla quindi non tanto di contabilità delle battute (Pavese nella Lettera a Mario Untersteiner) quanto di cantabilità55.
Come per i versi, così per la prosa, possiamo individuare sintagmi ritmici, prevalentemente anapestici.
Tuttavia è evidente che non si tratta di versi veri e propri, non essendoci, per esempio, alcuna pausa di fine verso - come avviene in poesia - a delimitare i luoghi e le sequenze metriche. Di Girolamo sostiene che sarebbe più corretto parlare di brandelli ritmici56 , i quali per essere delimitati, hanno la necessità di essere
estrapolati dalle strutture sintattiche di cui sono parte.
Beccaria57 riconduce gli elementi prosodici e ritmici all'interno della prosa pavesiana a quell'ideale omerico di lingua letteraria che […] «nessuno parlò mai»58. Si riferiva
sicuramente ai primi grandi scrittori della modernità, i quali erano stati, prima di tutto, lirici, come Alfieri, Foscolo e Leopardi. La lingua poetica, quindi, inevitabilmente riaffiora nella lingua della prosa di Pavese, diventa un sistema attraverso il quale la lingua si arricchisce e lo stile si innalza.
Diverso il punto di vista di Mutterle nel suo saggio L'immagine arguta59, il quale
afferma che i Dialoghi con Leucò costituiscono il libro del tragico, il vero e proprio documento della lotta-accettazione con il destino. Mutterle parla di acquisizione del wit tragico60 (dove per witty si intende una scrittura arguta, spiritosa, brillante). E 55 La definizione è del Di Girolamo, Teoria e prassi della versificazione – Il verso di Pavese.
56 Ibidem.
57 Cfr G. L. Beccaria, ...ma perché vengo da molto lontano: Cesare Pavese, in Id., Le forme della
lontananza. La variazione e l'identico nella letteratura colta e popolare. Poesia del Novecento, fiaba, canto, romanzo, Milano, 1989, pp.68-100.
58 Ivi, p. 81
59 A. M. Mutterle, L'immagine arguta, Lingua stile e retorica di Cesare Pavese, Torino, Einaudi, 1977.
questo wit tragico si esprime attraverso il linguaggio dei dialoghi, estremamente colloquiale, tanto da continuare a renderne attuale la definizione di Operette morali del neorealismo. Attraverso questo linguaggio tragico e personalissimo Pavese riesce a emettere giudizi che suonano assoluti e definitivi; tramite la lingua riesce a disegnare sempre più l'intreccio della narrazione, e a raccontare storie universali attraverso la recitazione dei personaggi mitici che prendono la parola.
Importantissime per capire i legami con questo linguaggio tragico e però anche witty sono le parole di Mutterle nella conclusione del secondo capitolo del suo saggio:
Il compito affidato alla lingua witty, di costruire immagini possibili, di dare un'organizzazione alle lacerazioni dell'inconscio, è ormai esaurito. La scrittura pavesiana da questo momento sarà impegnata a rivelare, a distendersi in un monologo che ha più problemi di scorrevolezza ritmica, anziché a suggerire ed alludere. E' come se, dopo avere tentato una sintesi fra tutte le ragioni di crisi del linguaggio novecentesco, ci si rassegnasse a constatare la validità delle motivazioni e l'irrimediabilità della crisi stessa. La parola, cristallizzatasi e poi ridotta a costruire immagine con se stessa, per strappare la sostanza delle cose e ricostruirne una versione altrettanto e più valida dell'originale, ha bruciato tutte le possibilità combinatorie e persino le risorse di cui poteva disporre sdoppiandosi e moltiplicandosi. Liberata della funzione di essere segno, non potrà che aspirare ad essere pura realtà mitico-simbolica, condannata alla lotta contro la tentazione di spegnersi ed essere puro silenzio. Nell'esaurirsi rapido e incombente delle strutture del linguaggio pavesiano è da leggersi il riscontro di una crisi storica più generale, in cui il,ruolo assunto da Pavese consiste nell'aver puntato tutti i propri mezzi per comporre la disgregazione – questo l'aspetto peculiare – dall'interno della poesia stessa. In tal senso chiude tutta un'epoca, o quantomeno un modo di fare e concepire la poesia; ma la convergenza dell'ultimo Pavese su posizioni canoniche del linguaggio del Novecento, non riesce a cancellarne la provenienza e meno ancora a banalizzarne la stratificazione qualitativa. Infatti la responsabilità affidata alla parola poetica continuerà ad essere spropositata, perché si tenterà, più che di ri-costruire il mondo, di sostituire l'oggetto intero tramite la pura designazione.
Una scrittura, quella di Pavese, quindi, alla ricerca continua di se stessa all'interno della crisi della lingua del Novecento, crisi quanto mai viva e sentita dallo stesso Pavese.
3.2 I titoli dei Dialoghi: riflessioni linguistiche.
I titoli dei Dialoghi: La nube, La Chimera, I ciechi, Le cavalle, Il fiore, La belva, Schiuma d'onda, La madre, I due, La strada, La rupe, L'inconsolabile, L'uomo-lupo, L'ospite, I fuochi, L'isola, Il lago, Le streghe, Il toro, In famiglia, Gli Argonauti, La vigna, Gli uomini, Il mistero, Il diluvio, Le Muse, Gli dei.
Ipotesi di una microstruttura sintattica.
Una prima considerazione da fare a proposito dei Dialoghi riguarda i titoli. Ciascuno di essi è composto da un articolo determinativo seguito da un sostantivo, tendenzialmente un nome comune (eccetto che per tre casi, i quali comprendono nomi propri, o comunque nomi comuni maiuscolati: La Chimera, Gli Argonauti, Le Muse); l'eccezione a questa disposizione sintattica è costituita dal settimo dialogo, Schiuma d'onda, che ha un titolo relativamente più complesso, più evocativo: non c'è articolo davanti al nome comune, e c'è, unico caso, un complemento di specificazione. Inoltre, a differenza di altri, potrebbe rivelare un tentativo di onomatopea (nel gruppo sch-) e di allitterazione (d'ond- ). Come vedremo approfonditamente più avanti, questo dialogo possiede il maggior numero di strutture metriche e prosodiche, e suggerisce o manifesta più d'altri l'intenzionalità da parte di Pavese di dare un carattere ritmato al racconto in prosa.61
Altra eccezione è costituita dal titolo del ventesimo dialogo, In famiglia, il quale presenta la preposizione semplice in seguita dal nome comune.
La possibile microstruttura sintattica dei titoli è quindi individuabile nella sequenza simmetrica di articolo determinativo seguito dal nome comune (con le due eccezioni
61 Proveremo più avanti a sistematizzare le strutture ritmiche di ogni dialogo così da avere un quadro complessivo delle principali tipologie prosodiche.
di cui sopra).
E' lo stesso Pavese che ci indica il senso dell'uso dell'articolo determinativo (quando ci si aspetterebbe, leopardianamente, un vago indeterminativo):
[…] Neanche nella memoria dell'infanzia il prato la selva, la spiaggia sono oggetti reali fra i tanti,ma bensì il prato, la spiaggia come ci si rivelarono in assoluto e diedero forma alla nostra immagine. [...] Quest'unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unicità del gesto e dell'evento, assoluti e quindi simbolici, che costituisce l'agire mitico.62
3.3 I campi semantici dei titoli dei dialoghi
I titoli ci trasportano nel campo semantico complesso e misterioso del mito: La Chimera, I ciechi, La belva, L'uomo-lupo, eccetera.
Il luogo del mito non è tanto il singolo luogo,
[...]quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve, eccetera, e tutti li anima del suo brivido simbolico […].63
Come afferma Sergio Givone nell'introduzione ai Dialoghi, il mito è indispensabile e necessario perché ci sia poesia, e
senza poesia, non c'è vera chiarificazione del fondo oscuro della psiche.64
62 Cesare Pavese, Feria d'agosto, Torino, Einaudi, 2011, cit. Del mito del simbolo e d'altro, pp.149-150
I luoghi dei dialoghi, indicati dai titoli, e i personaggi che vi agiscono, diventano qui luoghi e personaggi unici, che vanno al di là dell'apparenza e che nascondono dietro di sé un archetipo. Dunque l'oggetto mitico indicato nei titoli si rivela come ripetizione, seconda volta di una precedente e ormai non identificabile conoscenza che ne abbiamo già avuto. Questa ripetizione è costante nella realtà. In questo consiste, secondo Pavese, la “monotonia” che appartiene ai simboli.
Ci troviamo, spesso, di fronte vere e proprie metaforizzazioni del mito, nel momento in cui, nel corso del racconto, uno dei protagonisti adopera un elemento significante del mito in senso non propriamente letterale. Un esempio potrebbe trovarsi nel dialogo La rupe: questo luogo mitico, la rupe, è il luogo reale e concreto dell'incatenamento e della tortura quotidiana di Prometeo; nel corso di tutto il dialogo l'immagine della rupe come luogo mitico ricorre più volte e diventa immagine metonimica della sofferenza tout court e della condanna al dolore eterno dell'uomo. Sarà poi la narrazione del mito a fungere da chiave interpretativa dell'espressione metaforica rupe.65
Un simile processo di «pertinentizzazione metaforica»66 lo troviamo nel dialgo
L'isola, il cui semema si configura come uno stato di stanchezza e rassegnazione; lo stesso concetto di isola prevede, in un certo senso, un modo di emarginarsi, di tagliare i ponti con la realtà circostante, di rinunciare a vivere nel tempo storico, di rifiutare il mondo e di immedesimarsi nell'istante.
Ancora, ne La strada (il cui protagonista è il vagabondo Edipo) è il luogo del mito ad essere metaforizzato e a diventare mito esso stesso e non il suo protagonista. Infatti vedremo che all'interno del dialogo Edipo mette a confronto, paragonandoli, lo scorrere del destino con la sua esistenza di vagabondo lungo le strade. Ragionare sul destino è come camminare sulla strada senza una meta:
[...]abbiamo tutti una montagna dell'infanzia. E per lontano che si vagabondi, ci si ritrova sul suo sentiero.[...]67
65 Cfr. il saggio di B. Van den Bossche, capitolo VI, Dialoghi con Leucò, leggibilità e resistenza. 66 Cfr. N. precedente.
3.4 Le didascalie: marche linguistiche e marcatori di veridizione.
Nei Dialoghi con Leucò assumono un ruolo rilevante le didascalie che introducono ogni singolo dialogo. Esse costituiscono non solo una introduzione al successivo svolgimento degli eventi, ma anche, allo stesso tempo, una spiegazione di fatti che sono avvenuti e che il lettore conosce perché universalmente riconosciuti.
Già dalle didascalie viene indicato al lettore il ruolo che ha la ricerca mitica anche attraverso il linguaggio. Tale ricerca deve portare a un linguaggio universale; per questo Pavese intende rivitalizzare i miti, e fa prendere loro la parola. E con questo, in un certo senso, risolleva la questione della lingua e pensa ad un linguaggio da ottenersi non tanto con un abbassamento della lingua, quanto con una rivisitazione e promozione dell'elemento dialettale e gergale. Pavese, quindi arriva a una nuova lingua che innalza lo strato basso, non letterario e orale di essa. E questo atteggiamento è in nuce nelle didascalie, le quali presentano aspetti sintattici e organizzativi singolari e di notevole importanza in un contesto linguistico come questo dei Dialoghi. Ci troviamo davanti a una prosa che possiede tutti gli slanci e le caratteristiche proprie, invece, della poesia, della lirica.
Il linguaggio, in un certo senso, si sviluppa su due piani: quello che potremmo definire “orizzontale” della prosa, inteso come la successione di sintagmi nominali e verbali che compongono le frasi di ogni capoverso; dall'altro lato, invece, c'è il piano, di contro, “verticale”, che è quello della poesia, quello del ritmo. E tale ritmo è presente anche nelle didascalie in questione.
Pavese, attraverso le didascalie, rimanda ad un evento accaduto una volta per tutte. E lo fa attraverso delle formule fisse, ricorrenti. Leggiamo nel MV:
[…] Nelle formule prese a prestito dorme un assoluto che, soltanto se accolto come rivelazione vitale, prima che poetica, può ridestarsi.[...]
Il linguaggio narrativo dei Dialoghi si muove, dunque, verso due direzioni: quella della rivitalizzazione mitico-simbolica di personaggi lontani nel tempo, e quella della elaborazione di una lingua ben strutturata che adopera il mito come plusvalore
espressivo attraverso una contenuta ricchezza del suo formulario. La matrice espressiva particolarmente sintetica del mito diventa il mezzo attraverso il quale lo scrittore articola i suoi messaggi con fortissima densità semantica per ogni singola frase, per ogni minimo elemento sintagmatico. E questo aspetto non è altro che una preziosissima ma contenuta ricchezza che il linguaggio del mito offre a Pavese. Afferma Pavese, in un abbozzo per una prefazione dei Dialoghi risalente allo stesso periodo della stesura, che il mito è un linguaggio cui appartiene
[…] una particolare sostanza di significati che null'altro potrebbe rendere. Quando riportiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, diciamo /esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, una cosa sintetica e comprensiva, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale. [...]68
Ma torniamo alle didascalie in questione. Il mito viene in questo modo trasmesso al lettore anche attraverso di esse, e si specifica nel presentare notizie mediante una serie di marche linguistiche69, spesso di carattere generico e, potremmo dire,
universale.
Ne forniremo, nei paragrafi seguenti, alcuni esempi.
3.4.1 Proposizione subordinata in posizione enfatica.
Le proposizioni subordinate -per lo più classificabili grammaticalmente come frasi soggettive- ricorrono spesso in posizione enfatica, in particolare in attacco di didascalia:
Che Issione finisse nel Tartaro per la sua audacia, è probabile (La nube, DL,
p.8)
68 MV 308-309, 20 febbraio 1946.
69 La definizione è di B. Van den Bossche, in Nulla è veramente accaduto. Strategie discorsive