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Precondizionamento ischemico remoto e prevenzione del danno renale da mezzo di contrasto

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e

Chirurgia

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN ANESTESIA, RIANIMAZIONE, TERAPIA INTENSIVA E DEL DOLORE

TESI DI SPECIALIZZAZIONE

“PRECONDIZIONAMENTO ISCHEMICO

REMOTO

NELLA PREVENZIONE DEL DANNO RENALE

DA MEZZO DI CONTRASTO”

Relatore Prof. Francesco Fortfori Candidato

Dr. Flavio Baroncini

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A mia Moglie, mio Padre, mia Madre, al Bempio, A mio nonno. La dedico a voi, dal profondo del mio cuore.

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INDICE

Capitolo I: Riassunto

Capitolo II: Complicanze del diabete

Capitolo III: La Rivascolarizzazione 3.1 Approccio Angioplasty first 3.2 Condizioni cliniche generali

3.3 valutazione delle lesioni da vasculopatia 3.4 Obiettivi della rivascolarizazzione

Capitolo IV: Il danno renale da mezzo di contrasto

Capitolo V: Introduzione al precondizionamento 5.1 basi molecolari del precordizionamento 5.1.1 ATTIVAZIONE DEI CANALI mKATP

5.1.2 UP-REGOLAZIONE DELL’ENZIMA 5’ NUCLEORIDASI 5.1.3 ATTIVAZIONE DELLO SCAMBIAORE Na/K

Capitolo VI: lo studio 6.1 Materiali e metodi 6.2 Risultati

6.3 Discussione

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RIASSUNTO

Il Precondizionamento Ischemico Remoto, o Remote Ischemic PreConditioning (RIPC), è una procedura che trae le sue basi dal più generico concetto di Precondizionamento Ischemico, che vede la sua applicazione clinica principalmente in ambito cardochirurgico. Il fascino del fenomeno di Precondizionamento Ischemico risiede proprio nella possibilità di istruire a livello molecolare l’organismo sottoponendolo a stress e danno sub-letale in modo da ottenere protezione qualora sopraggiungano stimoli effettivamente minacciosi o potenzialmente letali tramite l’induzione di un fenotipo stress-resistente.

Il RIPC è un mezzo ad oggi in via di sperimentazione nella pratica clinica delle Unità Operative di Cardiologia, Chirurgia e Terapia Intensiva come metodica cardio-protettiva sebbene se ne intravedano opportunità di utilizzo anche in ambito epatologico, neurologico e nefrologico.

Il Precondizionamento Ischemico sino ad oggi è stato scarsamente analizzato in ambito prettamente nefro-urologico sebbene il danno renale secondario ad interventi cardiochirurgici e da esposizione a mezzo di contrasto sia stato più volte interesse di studio

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e figuri fra i parametri più utilizzati sino ad oggi per valutare l’impatto del Precondizionamento sull’outcome dei pazienti.

Per questo motivo è utile iniziare a muoversi in tal senso, e una prima analisi sull’impatto del RIPC sull’emodinamica renale ci è sembrata un buon punto di partenza.

Dato che ad oggi non sussiste una chiara indicazione da Linee Guida internazionali che raccomandi l’utilizzo del RIPC nella pratica clinica quotidiana in Terapia Intensiva e dato il background in termini di studi sia prettamente clinici che squisitamente biochimici e molecolari abbiamo ritenuto interessante approfondire tutte le sfaccettature di questa metodica di semplice esecuzione, esente da effetti collaterali di alcun tipo e dai costi praticamente nulli.

Le complicanze croniche del diabete più diffuse sono quelle vascolari ed oculari.

Sono più frequenti nel diabete di tipo 2 rispetto a quello di tipo 1 nterlie si manifestano solitamente dopo 10-15 anni dalla comparsa della malattia.

Gli organi bersaglio sono l’occhio, il rene, il sistema nervoso e il sistema cardiovascolare. Il disturbo oculare più frequente è la retinopatia emorragico-essudativa, mentre il più importante è la retinopatia proliferativa, responsabile della perdita o di una grave riduzione della vista e che richiede, data la sua gravità, interventi tempestivi.

Gran parte dei diabetici presenta segni di retinopatia, una lesione dei vasi sanguigni nella parte posteriore dell’occhio, entro dieci anni dall’insorgenza della malattia diabetica. Un’ulteriore complicanza è rappresentata dalla nefropatia diabetica, che colpisce il rene al punto che questo organo non filtra adeguatamente le scorie del metabolismo. Nella sua forma più lieve interessa una buona percentuale di diabetici, di cui una quota degenera nell’insufficienza renale fino a richiedere il trapianto del rene.

La neuropatia è invece una malattia del sistema nervoso: colpisce circa il 30% dei diabetici e si presenta sotto forma di intorpidimento e formicolio agli arti con dolori ai polpacci simili a un crampo, specialmente notturni, diminuita sensibilità e comparsa di ulcerazioni alla pianta dei piedi. Questo disturbo può degenerare il piede diabetico, determinato da lesioni vascolari e nervose che provocano gravi deformazioni ossee e disturbi della vascolarizzazione terminale.

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Tradizionalmente la neuropatia periferica è stata considerata responsabile solamente del piede diabetico, in realtà i dati epidemiologici dimostrano una elevata prevalenza della vasculopatia periferica nei pazienti diabetici (1,2) ed in particolare associata o no a neuropatia periferica essa è presente nel 50% dei casi di lesioni agli arti inferiori (3).

La presenza di neuropatia può mascherare i sintomi clinici della vasculo- patia periferica come la claudicatio ed il dolore a riposo, per cui l’ulcera che non riesce a guarire e la gangrena stessa di aree piu’ o meno estese del piede possono essere le manifestazioni iniziali di una vasculopatia misconosciuta fino a quel momento.

L’approccio multidisciplinare a questo tipo di complicanza è risultato essere la formula vincente in tante esperienze riportate in letteratura (4,5).

L’ elevata prevalenza dell’ arteriopatia periferica (PAD) nei pazienti diabetici in generale (1-3), è dovuta alla natura stessa della malattia, considerata a tutti gli effetti un “equivalente di malattia cardiovascolare ”. Quindi non bisogna sottovalutare l’influenza dell’ allungamento della vita media e della maggiore durata di malattia e, nei diabetici in insufficienza renale terminale, il ruolo del trattamento dialitico, che rappresenta una condizione peggiorativa (6). Da questo quadro emerge il peso che questa complicanza viene ad avere sia per il singolo paziente, che per la collettivita’ data la cronicita’ del quadro ed il non infrequente ricorso all’ amputazione maggiore.

E’ necessario, a questo punto sottolineare, che nonostante il progressivo in- cremento della prevalenza della PAD nei pazienti diabetici, in Italia il nu- mero delle amputazioni maggiori si è ridotto a fronte di un progressivo aumento degli interventi di rivascolarizzazione distale (7).

A questo punto vanno fatte alcune considerazioni:

1) In Italia abbiamo una lunga tradizione in tema di rivascolarizzazione di- stale, e siamo tra i pochi paesi dove la rivascolarizzazione nei diabetici viene effettuata di routine (8-11). 2) Dati italiani indicano che la prevalenza delle amputazioni maggiori è tra le più basse in Europa (7).

3) I dati Eurodiale (ricavati da 14 centri di terzo livello presenti in Europa) pongono quelli italiani ai primi posti in termini di outcomes clinici quali : a) percentuale piu’ alta di guarigione delle lesioni,

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b) più bassi livelli di amputazione (3,12).

In virtu’ di queste considerazioni riteniamo opportuno produrre un docu- mento di consenso sul trattamento della vasculopatia periferica del paziente diabetico redatto sulla base dell’esperienza clinico-assistenziale italiana che dia alla comunità scientifica un indirizzo nella gestione di questa com- plicanza in termini di salvataggio d’arto.

Per la definizione del documento facciamo riferimento alla letteratura spe- cifica internazionale degli ultimi 20 anni ed in particolare alla letteratura internazionale prodotta da gruppi italiani nello stesso periodo che si carat- terizza per la particolare numerosita’ dei casi trattati e per il ricorso sempre piu’ frequente al trattamento endovascolare (8-11, 13-15).

I pazienti diabetici con patologia arteriosa periferica sono generalmente più giovani, presentano un BMI maggiore, sono più spesso neuropatici e ma- nifestano un maggior numero di co-morbilità di tipo cardiovascolare ri- spetto alla popolazione non diabetica. La peculiarità clinica dell’arteriopatia ostruttiva nel diabetico è la sua ra- pida progressione e, diversamente dalla popolazione non diabetica, la sua espressione topografica che è prevalentemente distale e bilaterale inoltre, le pareti arteriose sono molto spesso calcifiche e prevalgono le occlusioni rispetto alle stenosi.

La naturale risposta adattativa alla riduzione di flusso all’interno di un vaso arterioso è la neoangiogenesi ma nel soggetto diabetico questa risulta ridotta e con essa la capacità di generare circoli collaterali di compenso (23, 29).

L’endotelio svolge una funzione critica nel mantenimento del flusso san- guigno e della integrità parietale, in condizioni fisiologiche favorisce la va- sodilatazione, contrasta l’adesione dei monociti e presenta caratteristiche antitrombotiche e fibrinolitiche.

Le manifestazioni vascolari associate al diabete mellito (macroangiopatia diabetica) risultano da una disfunzione severa dei componenti fisiologici più rappresentativi quali le cellule endoteliali, le cellule muscolari liscie e le piastrine.

Sia nel diabete tipo 1 che tipo 2 i meccanismi alla base di una disfunzione va- scolare sembrano essere riconducibili alla iperglicemia, allo stress ossida- tivo, alla formazione di AGE (prodotti di glicosilazione avanzata) e ad alterati livelli di PCR (proteina C reattiva).

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In aggiunta nel diabete tipo 2 il costante e persistente stato di infiamma- zione dell’endotelio altera la funzione vascolare e di conseguenza riveste un importante ruolo nell’eziologia della patologia aterosclerotica. (30,31) Fisiologicamente l’ossido nitrico (NO) è un potente vasodilatatore che ini- bisce l’attivazione delle piastrine, la migrazione e la proliferazione delle cel- lule muscolari lisce. Nel diabete mellito la capacità di vasodilatazione mediata dall’ossido nitrico è compromessa risultando in una aumentata su- scettibilità della parete arteriosa a meccanismi di aterosclerosi (3).

E’ l’iperglicemia cronica che porta alla inibizione della produzione di ossido nitrico per inattivazione del suo enzima di sintesi, e porta anche ad un’au- mentata produzione di radicali liberi con incrementato stress ossidativo. Gli acidi grassi liberi, liberati in eccesso dall’insulino-resistenza, riducono ul- teriormente l’omeostasi dell’ossido nitrico.

Ruolo determinante nel danno endoteliale e nella progressione della placca aterosclerotica è la persistenza di uno stato pro-infiammatorio (16,32).

Il diabete inoltre favorisce uno stato procoagulativo per una maggiore ag- gregazione piastrinica stimolata da fattori intrinseci di attivazione delle pia- strine e non bilanciata dall’azione degli inibitori endogeni, che appaiono ridotti.

Inoltre i pazienti diabetici hanno una incrementata espressione di molecole di adesione sulla parete piastrinica. A queste anomalie si aggiunge una coa- gulazione alterata per incrementati livelli di fibrinogeno, PAI-1, fattore VII, fattore tessutale, tutti fattori procoagulativi e, per ridotti livelli di anti- trombina III e proteina C, anticoagulanti endogeni. Quindi in aggiunta ad un potenziamento della funzione piastrinica, l’anomalo stato coagulativo, aggrava la progressione della placca aterosclerotica e di conseguenza la pone a rischio di rottura, oltre a favorire un’occlusione trombotica dell’arteria. La trombosi è stata dimostrata sulle lesioni aterosclerotiche delle coronarie, dell’aorta e delle carotidi, mentre a carico degli arti inferiori è un evento estremamente raro (33, 34).

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CAPITOLO 3

LA RIVASCOLARIZZAZIONE

L’ischemia periferica è fattore di rischio per amputazione (80,81), per tale motivo la vasculopatia periferica necessita di una diagnosi precoce al fine di mettere in atto tempestivamente tutte le strategie terapeutiche atte ad evi- tare l’evento demolitivo.

Nel momento in cui ci si trova davanti ad una lesione ulcerativa in un paziente diabetico con vasculopatia periferica bisogna innanzitutto valutare l’utilità di un intervento di rivascolarizzazione ed in secondo luogo effettuare la scelta della metodica di rivascolarizzazione anche sulla base dei seguenti criteri clinici: il potenziale riparativo della lesione, le condizioni locali del piede e la sua funzionalità’ in fase post riparativa, le condizioni dell’albero vascolare ed infine le condizioni generali del paziente.

Per potenziale riparativo si intende la reale possibilità’ di guarigione che la lesione presenta in funzione della perfusione del piede. Da questo punto di vista l’ossimetria transcutanea e la valutazione della pressione all’alluce possono essere di aiuto in quanto registrano, al di la di stenosi, ostruzioni, circoli collaterali, con una certa precisione se il flusso ematico distale è sufficiente a garantire la riparazione tissutale. Secondo la TASC 2 (82) le lesioni a carico del piede vanno generalmente incontro a guarigione se la pressione all’alluce è > 50 mmHg e se la TcP02 è > 50 mmHg viceversa la possibilità’ di guarigione è remota se entrambi i parametri presentano va- lori < 30mmHg. Deve essere però puntualizzato che la TASC non fa riferimento specificatamente ai diabetici ed include quindi anche la popolazione non diabetica. Faglia, in una popolazione esclusivamente diabetica, rivede criticamente i livelli di TcPO2 e pone per i valori inferiori a 34 mmHg una indicazione assoluta alla rivascolarizzazione con una probabilità’ di amputazione pari ad 85% in caso di mancata rivascolarizzazione, per i valori di ossimetria compresi tra 34 e 40 mmHg una indicazione meno pressante alla (29) rivascolarizzazione, ma una considerevole residua probabilità’ di amputazione, quantizzabile intorno al 20%. Infine per i pazienti con valori ossimetrici > 40 mmHg l’indicazione ad una rivascolarizzazione può essere presa in considerazione laddove la perdita di tessuto è significativa ed in qualche maniera si vuole

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velocizzare la riparazione o laddove è presente una osteomielite che si vuole trattare in maniera conservativa (83).

In ogni caso una volta che è stato identificato un deficit di perfusione la rivascolarizzazione deve essere sempre presa in considerazione.

Un’altra evenienza da sottolineare è quella che si determina quando apparentemente l’arto è perfuso con valori di TcPO2 > 40 o la pressione all’alluce > 50mmHg, ma la lesione nonostante un ottimale trattamento locale non mostra segni di evoluzione verso la guarigione. Una volta escluse influenze negative di carattere generale, come ad esempio una condizione di malnutrizione, o condizioni locali come la presenza di una sottostante osteomielite, va sempre presa in considerazione la possibilità’ che le valutazioni non invasive abbiano sovrastimato la perfusione periferica e di fatto l’ulcera non evolve positivamente perché è presente una condizione ischemica non adeguatamente evidenziata. Quindi in presenza di ulcera che non evolve positivamente nell’arco di 4-6 settimane una componente ischemica va sempre sospettata.

Le condizioni del piede e le sue potenzialità’ di recupero funzionale in fase post riparativa possono innanzitutto condizionare la scelta terapeutica in termini di salvataggio d’arto o amputazione primaria. A volte una vasculopatia periferica nel diabetico può manifestarsi direttamente con un quadro di gangrena, indurre la falsa convinzione che un intervento di rivascolarizzazione sia tardivo e quindi inutile (84) e condizionare una scelta di tipo amputativo. Va sempre pero’ tenuta in considerazione la possibilità’ che il quadro clinico locale appaia più compromesso della realtà’, perché la componente infettiva (reversibile con idonea terapia) può condizionare pesantemente il quadro clinico ed in realtà’ è possibile salvare un arto che a prima impressione sembra definitivamente perso.

Esistono pero’ dei quadri clinici in cui il coinvolgimento è tale che non c’è praticamente alcuna possibilità’ di salvare il piede ed è necessario ricorrere ad una amputazione maggiore. Anche in tali casi pero’, come nei casi di amputazione parziale del piede è indispensabile studiare l’albero vascolare per- ché la correzione di una ischemia sottostante può innanzitutto permettere una distalizzazione dell’amputazione e garantire una migliore e tempestiva guarigione del moncone amputativo.

Le condizioni locali del piede non devono condizionare in maniera assoluta la scelta terapeutica né quando l’estensione della lesione sembra non per- mettere il salvataggio

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dell’arto ma nemmeno quando le lesioni sono piccole e per tale motivo sembrano non essere degne di approfondimento diagnostico. In realtà’ vari studi dimostrano che la dimensione dell’ulcera è un fattore di rischio per mancata guarigione e per amputazione maggiore ( 3, 11). Questa osservazione apparentemente ovvia e cioè che ad ulcera grande corrisponde un rischio aumentato di amputazione, in realtà’ sottende un aspetto estremamente importante della gestione del piede diabetico laddove si conviene che le lesioni del piede non nascono mai grandi ma lo diventano perché la cura è stata inadeguata e quindi inefficace o peggio ancora il quadro è stato completamente sottovalutato e cure non idonee sono state per- seguite per tempi troppo lunghi. Anche per il piede vale il concetto del “Time is tissue” per cui cure tardive o inadeguate comportano la perdita irreversibile di porzioni di tessuto del piede (85). In particolare è stato dimostrato che laddove un piede acuto con un flemmone venga inviato immediata- mente ad un centro di terzo livello gli esiti in termini di amputazioni sono sicuramente migliori rispetto a quando invece c’è un passaggio intermedio (31) in altra struttura ospedaliera non idonea alla gestione del caso, con relativa perdita di tempo. Tutto questo perché le cure necessarie e cioè, adeguato debridment chirurgico e rivascolarizzazione distale, vengono effettuate in maniera tempestiva (86,87).

Il coinvolgimento dell’albero vascolare è un elemento in grado di condizionare significativamente sia la scelta di effettuare una rivascolarizzazione sia la modalità’ con cui effettuarla. Sara’ importante valutare la condizione delle arterie iliache e femorali comuni per poter definire il tipo di intervento. Altrettanto importante è valutare il run-off distale. Una rivascolarizzazione anche ottimale non ha modo di persistere nel tempo se non viene garantito un adeguato flusso a valle della rivascolarizzazione stessa. In ogni caso qua- lunque sia la scelta endo luminale o chirurgica con by-pass la rivascolarizzazione deve permettere la ricostituzione di un flusso diretto fino alla pedidia e/o alla arcata plantare (88).

Un ulteriore aspetto è dato dalle condizioni generali del paziente su cui an- diamo a porre indicazione di intervento di rivascolarizzazione. Gli elementi che bisogna prendere in considerazione sono numerosi e tra questi ad esempio al primo posto l’aspettativa di vita e la presenza di comorbilita’. Appare chiaro quindi che il paziente va innanzitutto inquadrato dal punto di vista internistico generale.

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Uno degli argomenti dibattuti è quello relativo alla aspettativa di vita. I sostenitori della rivascolarizzazione periferica mediante by pass pongono 2 anni come aspettativa minima di vita per un approccio chirurgico, mentre ci sarebbe un generale atteggiamento negativo con entrambe le tecniche per i pazienti con aspettativa <6-12 mesi (89). Probabilmente è corretto non generalizzare e valutare di volta in volta anche in funzione dell’eventuale miglioramento della qualità di vita legato al controllo del dolore nel momento in cui l’ ischemia viene rimossa. Per quel che riguarda le comorbilità va tenuto in attenta valutazione tutto l’albero vascolare: un paziente con vasculopatia periferica può avere una concomitante patologia coronarica nella meta’ dei casi, una concomitante patologia carotidea in un altro terzo dei casi ed in circa 15-20% dei casi le due condizioni possono concomitare (90). Da quanto detto ne derivano delle considerazioni di carattere diagnostico e terapeutico.

Per quel che concerne la diagnostica non bisogna mai sottoporre un paziente diabetico ad una rivascolarizzazione distale se non è stato almeno sottoposto ad una valutazione cardiologica (stato emodinamico ed eventuale studio della riserva coronarica) ed ad un ecodoppler dei tronchi sovraortici (ricerca di placche emodinamicamente significative nel territorio della carotide interna). E’ evidente che, se il paziente dovesse avere in questi distretti una condizione meritevole di intervento, tale intervento avrebbe la priorità’ .

Il diabete e l’ insufficienza renale terminale sono fattori di rischio indipendenti di vasculopatia periferica. La prevalenza della PAD tra i pazienti con insufficienza renale in trattamento dialitico è stata riportata fino ad una percentuale del 77% (91). L’insufficienza renale predice in maniera indipendente la mancata guarigione di ulcere ischemiche e neuroischemiche e l’ amputazione maggiore (92,93)

Amputazioni primarie vengono riportate in percentuali comprese tra 22 e 44% per lesioni ischemiche in pazienti in dialisi. Questi pazienti sono difficili da trattare e la mortalità a breve termine è elevata e questo potrebbe influenzare negativamente la decisione di effettuare una procedura di rivascolarizzazione (94). In una casistica di circa 1000 pazienti diabetici con ulcere ischemiche o neuro-ischemiche, gli outcomes maggiori in termini di guarigioni, amputazioni maggiori e decessi erano peggiorativi per i pazienti che erano in dialisi rispetto agli altri (95). In un’altra casistica viene riportata una mortalità’ perioperatoria compresa tra 3 e 17 % dopo interventi di rivascolarizzazione chirurgica

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(prevalentemente per cardiopatia ischemica) e una bassa sopravvivenza anche a lungo termine (45%). Viene riportato anche un basso salvataggio d’arto con percentuali comprese tra 40 e 76% tra i pazienti sopravvissuti ed in genere la perdita dell’arto è dovuta alla ischemia persistente, all’estensione della gangrena, alla presenza di una infezione non controllata ed un esteso coinvolgimento del calcagno e dell’avampiede. Anche la bassa frazione di eiezione e lo scarso run-off distale sono elementi peggiorativi degli esiti (96,97).

Una delle valutazioni pi estese presenti in letteratura è quella di Venermo (98) che in una revisione della propria casistica di pazienti diabetici con PAD e lesioni agli arti inferiori conferma che i diabetici in generale hanno gli outcomes di salvataggio d’arto, amputazione e morte peggiori che nei non diabetici, ma poi andando a descrivere il limb salvage dei diabetici con diverso grado di compromissione della funzione renale (espressi come classi CKD) mostra come ad 1 anno il limb salvage rate dei diabetici in classe 1-2 è del 71 % ed invece quelli appartenenti alla classe 3-5 hanno un limb salvage rate del 56.5% che include un 61.4% di quelli che hanno un’ulcera rispetto al 40.7 di quelli che invece hanno gangrena. In genere i dializzati sottoposti a bypass sembrerebbero andare peggio di quelli trattati con PTA (99) e questo sarebbe confermato anche da una recente casistica giapponese(100). Per quel che riguarda in particolare il trattamento endovascolare nei pazienti diabetici con insufficienza renale Lepantolo (6) afferma che “sebbene non ci siano evidenze per supportare un trattamento endovascolare al posto del by-pass in questi pazienti ad alto rischio, la rivascolarizzazione endoluminale appare attraente come trattamento da considerare come prima opzione ammesso che il flusso adeguato possa essere portato all’area dell’ulcera”. In realtà’ i lavori non sono molti. Rabellino (101) utilizzando la tecnica endovascolare raggiunge un limb salvage del 58.6% con un follow- up medio di 15 mesi. Graziani (102) in una casistica contente pazienti in dia- lisi senza o con diabete (54%) registra un salvataggio d’arto intorno ad 80%. Infine in una casistica recente in cui sono stati seguiti pazienti diabetici con PAD e lesioni gravi del piede (11), i pazienti in dialisi hanno sicuramente degli outcomes peggiori rispetto ai diabetici non in dialisi, ma in ogni caso si riesce a registrare un limb salvage rate ad un anno del 57% ottenuta in una casistica non selezionata di casi conseguenti. (103)

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L’eta’ dei pazienti è un’ altra variabile da prendere in considerazione, anche se si tratta di “fattore di rischio non modificabile”. Ovviamente i soggetti adulti fino ai 65-70 anni non pongono alcun problema relativo all’eta’ ed una eventuale scelta chirurgica può essere effettuata più liberamente ovviamente quando l’eta’ clinica corrisponde a quella anagrafica. Diverso è il discorso per i soggetti anziani che hanno maggiori comorbilità. Nelle casistiche riportate sia con by-pass che con angioplastica l’eta’ non esercita mai un impedimento. I dati dimostrano che comunque anche le persone anziane hanno giovamento in termini di limb salvage dall’effettuare la rivascolarizzazione anche se pero’ l’aspettativa finale di vita non cambia (104)

In conclusione nel paziente diabetico, come nel paziente non diabetico, l’indicazione alla rivascolarizzazione nasce dal quadro clinico.

E’ indicato un intervento di rivascolarizzazione nei pazienti in cui è stata diagnosticata una arteriopatia ostruttiva cronica ed in cui siano presenti i seguenti quadri clinici:

- presenza di claudicatio invalidante e/o dolore a riposo

- presenza di lesione trofica in presenza di una TcPO2 < 30 mmHg o nei casi in cui la lesione trofica adeguatamente trattata per un mese non

tende a guarigione.

Possono essere valutati come criteri di esclusione (assoluti o relativi) per la rivascolarizzazione l’aspettativa di vita < 6 mesi, le patologie psichiatriche, la flessione antalgica della gamba sulla coscia non suscettibile di tratta- mento, l’allettamento cronico del paziente, l’assenza di deambulazione.

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3.1 APPROCCIO “ANGIOPLASTY FIRST”

Numerosi studi hanno valutato il ruolo della rivascolarizzazione percutanea (PTA) nei pazienti diabetici affetti da ischemia periferica critica, soprattutto legata a malattia dei vasi infrapoplitei (2, 10, 11, 13, 15, 105, 116) I risultati complessivi di questi studi sono favorevoli per quanto riguarda la fattibilità della procedura, l’efficacia tecnica, il ridotto numero di complicanze e le percentuali di salvataggio d’arto.

Se da un lato la rivascolarizzazione chirurgica garantisce una pervietà a distanza dei bypass migliore di quella dell’angioplastica, gravata da elevate percentuale di restenosi (117, 120), dall’altro l’angioplastica è proponibile anche in pazienti che non possono essere candidati al bypass a causa delle pesanti comorbilità, della ridotta aspettativa di vita, del coinvolgimento nella sofferenza tissutale dei possibili siti di anastomosi distale, della non disponibilità di vene adeguate o dell’assenza di un’adeguata “landing zone” (2,11,13,104,114).

Molti pazienti affetti da ischemia critica sono pazienti anziani con elevata comorbilità ed elevato rischio operatorio (27,121), in questi casi una procedura di rivascolarizzazione chirurgica non è proponibile, mentre una procedura percutanea, ridotta tecnicamente alla minima invasività possibile, può ancora essere considerata al fine comunque di migliorare la qualità di vita. La procedura di angioplastica non necessita di anestesia generale e può essere effettuata con modeste controindicazioni in soggetti cardiopatici e nefropatici con elevato rischio chirurgico - anestesiologico (2,13,114). In casi complessi la procedura può essere divisa in più step, onde ridurre lo stress ed i volumi di mezzo di contrasto somministrato, valutando dopo ogni fase il risultato clinico e la funzione renale e procedendo ad una rivascolarizzazione più approfondita solo in caso di necessità e dopo aver verificato il non deterioramento della funzione renale.

L’angioplastica può essere facilmente ripetuta in caso di restenosi - riocclusione o essere effettuata dopo fallimento di bypass (2, 122, 124) Esiste inoltre un grande sforzo industriale verso la creazione di strumenti nuovi (palloni a basso profilo e di grande lunghezza, palloni a rilascio di farmaco, aterotomi, stent non medicati e medicati etc.) che rendono l’angioplastica sempre più proponibile anche in situazioni di malattia estrema e soprattutto che garantiscono una migliore pervietà a distanza dei vasi trattati (124, 129).

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Nei pazienti che possono essere trattati con entrambe le metodiche, chirurgica o percutanea, qualora si decida per un approccio “angioplasty first strategy” deve essere seguita la regola fondamentale di rispetto delle cosiddette “landing zones” chirurgiche. In generale è possibile affermare che l’angioplastica non impedisce, in caso di fallimento, il successivo confezionamento di bypass (130). Esistono tuttavia segnalazioni contrarie indicative di come una procedura di bypass distale dopo fallimento della rivascolarizzazione percutanea sia più difficile ed associata con un incremento di complicanze e fallimenti (131, 132). E’ pertanto imperativo che la procedura di rivascolarizzazione percutanea venga eseguita da operatori esperti in grado pertanto di identificare correttamente e di rispettare tecnicamente le cosiddette “landing zones” per eventuali bypass distali di salvataggio da effettuarsi in caso di fallimento della procedura percutanea. Anche l’uso di stent va effettuato con estrema attenzione, in quanto un’eventuale restenosi/riocclusione rende il successivo trattamento problematico o impossibile sia dal punto di vista chirurgico che percutaneo. Viceversa è da segnalare come anche l’opzione chirurgica debba rispettare le ipotesi di futuro trattamento percutaneo: la chiusura definitiva della femorale superficiale mediante legatura, per esempio, rende impossibile un eventuale re intervento percutaneo volto a ristabilire pervietà della stessa in caso di fallimento dei bypass.

Anche nel contesto di un approccio “angioplasty first”, persistono alcuni quadri ostruttivi vascolari di pertinenza prevalentemente chirurgica:

La patologia ostruttiva coinvolgente la femorale comune e la sua biforcazione. Si tratta di una patologia generalmente non correlata all’arteriopatia diabetica (133), trattabile con un intervento chirurgico risolutivo, di scarso impegno anestesiologico e traumatico, proponibile praticamente in tutti i pazienti che ne sono affetti.

Occlusioni estremamente lunghe degli assi femoro-popliteo ed infrapopliteo. Sull’entità di tale estensione non esiste un parere univoco e l’expertise locale assume dunque una particolare rilevanza. Il trattamento percutaneo di tali lesioni è attualmente gravato da elevata incidenza di restenosi e di ripetizione della procedura (118,133,134), mentre il bypass distale in vena autologa si propone come la soluzione più efficace e duratura (117, 118, 135).

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La rivascolarizzazione chirurgica mediante bypass va effettuata dopo adeguato imaging dell’albero vascolare (ecocolordoppler angio-TC, angio RMN o angiografia) considerando una serie di importanti variabili che ne condizionano il successo e le complicanze come riportato nella flow chart allegata (Fig. 1).

3.2 CONDIZIONI CLINICHE GENERALI

In primo luogo vanno valutati i rischi connessi con la procedura chirurgica di bypass (tipo di bypass, tipo di anestesia) in rapporto alle condizioni cliniche globali del paziente in termini di età, comorbilità, aspettativa di vita.

3.3 VALUTAZIONE DELLE LESIONI DA VASCULOPATIA.

Mentre la rivascolarizzazione percutanea può essere proposta sostanzialmente in ogni tipo di lesione del piede, il confezionamento di un bypass richiede un’attenta valutazione della sede dell’anastomosi distale che (39) può essere o meno coinvolta da alterazioni tissutali. Entrambe le metodiche inoltre devono confrontarsi con il tipo di correzione chirurgica ortopedica programmata per il tipo di lesione: le amputazioni dell’avampiede infatti possono interrompere le comunicazioni vascolari tra i sistemi dorsale e plantare rendendo funzionalmente “terminali” le rispettive vascolarizzazioni.

3.4 OBIETTIVI DELLA RIVASCOLARIZZAZIONE

Il corretto riconoscimento del quadro anatomico vascolare del paziente in relazione alle lesioni tissutali è fondamentale nel guidare la strategia della rivascolarizzazione.

a. RIVASCOLARIZZAZIONE COMPLETA. Peregrin ha analizzato il successo clinico della PTA nei pazienti diabetici con ischemia critica d’arto considerando il numero di vasi infrapoplitei trattati con successo (138); il concetto che ne emerge è che la rivascolarizzazione “completa” è meglio della rivascolarizzazione parziale, il salvataggio d’arto ad un anno è stato 56% senza una linea di flusso diretto al piede (0 vasi infrapoplitei

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aperti) e, rispettivamente, 73%, 80% e 83% con 1, 2 o 3 vasi infrapoplitei aperti. Faglia inoltre ha dimostrato che l’angioplastica delle arterie tibiali ha un risultato migliore, in termini di salvataggio d’arto, della sola riapertura della peroniera (139).

b. “WOUND RELATED ARTERY”. Quando non è possibile ottenere una rivascolarizzazione completa per motivi tecnici o per la necessità di ridurre i tempi procedurali e la dose di mezzo di contrasto, gli sforzi vanno concentrati sulla cosiddetta “wound related artery”, cioè la rivascolarizzazione deve mirare alla riapertura dell’arteria che irrora l’angiosoma del piede sede delle lesioni ischemiche (140,141). La rivascolarizzazione della “wound related artery” si associa a percentuali migliori di salvataggio d’arto che non quella di arterie dirette ad altri angiosomi (142,143). Anche nel caso della rivascolarizzazione chirurgica mediante bypass distali Neville ha dimostrato che i bypass diretti sulla wound related artery portano a valori più elevati di salvataggio d’arto (137).

In caso di impossibilità tecnica di trattamento delle arterie tibiali, l’angioplastica dei rami perforanti distali della peroniera è un’opzione praticabile con successo.

La rivascolarizzazione completa e quella della wound related artery non devono essere perseguite in modo acritico: la procedura deve essere sempre personalizzata sulla base di una strategia tecnica realistica, sulla tipologia delle lesioni tissutali e del loro trattamento chirurgico ortopedico e sulle condizioni cliniche generali del paziente (144).

I MDC radiografici iodati sono classificati in ionici o non-ionici e monomerici o dimerici (Ta- bella 1). Hanno osmolalità e viscosità differenti. I MDC ionici ad elevata osmolalità (HOCM: High-Osmolar Contrast Media, es. diatrizoato) hanno una osmolalità compresa tra 1500 e 1800 mOsm/Kg, cioè pari a 5-8 volte l’osmolalità del plasma. I MDC non-ionici a bassa osmolalità (LOCM: Low-Osmolar Contrast Media, es. ioexolo) hanno un’osmolalità compresa tra

600 e 850 mOsm/Kg, cioè pari a 2-3 volte l’osmolalità del plasma. I MDC non-ionici iso- osmolari (IOCM: Iso-Osmolar Contrast Media, es. iodixanolo) hanno un’osmolalità di circa 290-300 mOsm/Kg, cioè la stessa osmolalità del plasma

I MDC iodati sono in genere innocui. I loro effetti collaterali sono generalmente modesti e transitori. Tuttavia, soprattutto nei pazienti con funzione renale ridotta e/o diabete mellito, i

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MDC possono causare la cosiddetta Nefropatia da mezzi di contrasto (CIN: Contrast-In- duced Nephropathy o CI-AKI: Contrast-Induced Acute Kidney Injury) [1] (full text). Si tratta di una malattia iatrogena indicata come la terza causa di Insufficenza Renale Acuta (IRA) acquisita in sede ospedaliera (dopo i casi di IRA da interventi chirurgici e da ipotensioni marcate e prolungate): costituirebbe il 12% di tutti i casi ospedalieri di IRA [5]. È stato anche affermato che la CIN si verifica nel 5% dei pazienti ospedalieri con normofunzione renale [6]. Nei pazienti extraospedalieri con clearance della creatinina (ClCr), quindi con il filtrato glomerulare (GFR: glomerular filtration rate), >45 ml/min per 1.73 m2, il rischio di CIN sarebbe invece molto basso (pari circa al 2%) [7] (full text). Più recentemente è stato sostenuto che la CIN è rara nei soggetti con normofunzione renale, mentre si verifica più facilmente nei soggetti con preesistente compromissione della funzione renale, soprattutto se diabetici [8].

La CIN può essere definita come un’IRA che si verifica da 24 a 72 ore dopo l’iniezione intra- vascolare di MDC e che non può essere attribuita ad altre cause. Si tratta in genere di una diminuzione della funzione renale non-oligurica, asintomatica e transitoria, raggiungendo la massima espressione tra il terzo ed il quinto giorno e tornando ai valori iniziali dopo 10-14 giorni. La compromissione della funzione renale è in genere indicata dall’aumento del valore assoluto di creatinina sierica (CrS) di 0,5 mg/dL (o più) o dall’aumento del 25% (o più) del valore della CrS basale; ma è noto che la CrS varia con l’età, il sesso e con lo sviluppo delle masse muscolari. È pertanto preferibile l’uso della clearance della creatinina (ClCr). Ancora migliore è l’utilizzo del filtrato glomerulare stimato (eGFR: estimated glomerular fil- tration rate) che è il calcolo della ClCr ottenuto o con la formula MDRD (Modification of Diet in Renal Disease) [9] o con l’equazione CKD-EPI (Chronic Kidney Disease Epidemiology Col- laboration) [10], oppure con la semplice e pratica formula di Cockcroft-Gault: (140 - numero anni di età) x Kg peso corporeo/ 72 / CrS (in mg/dL); nel sesso femminile il risultato deve essere moltiplicato per 0,85 [11]. La eGFR, oltre ad essere più corretta della ClCr misurata (passibile di vari errori), evita la tediosa procedura della raccolta delle urine di 24 ore per la misurazione della ClCr. Briguori et al [12] (full text) hanno proposto l’utilizzo dei nuovi biomarkers per riconoscere i primi segni di danno renale da MDC: kidney injury molecule-1 (KIM-1), interleukin-18 e soprattutto neutrophil gelatinase-associated lipocalin (NGAL). Gli Autori

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ritengono che il valore sierico di NGAL (che deriva dall’epitelio tubulare) sia il bio- marker più adatto a diagnosticare, entro poche ore, un inizio di danno renale, in una fase subclinica della CIN prima della alterazione della funzione renale.

La CIN è caratterizzata da una diminuzione del GFR a 30-60 mL/min o meno. In alcuni casi, la CIN è una grave IRA con oliguria (<400 mL/24 ore), che richiede la dialisi. In questi pazienti la mortalità è elevata [13].

Gli aspetti clinici ed il trattamento della CIN sono gli stessi dell’IRA dovuta ad altre cause La patogenesi della nefropatia da MDC (CIN) oggigiorno non è ancora completamente conosciuta. Molti fattori sono risultati essere coinvolti [3] (full text) [30].

Quando i MDC sono iniettati per via endovenosa o intra arteriosa, si verifica immediata- mente una risposta emodinamica renale bifasica: una immediata, rapida e transitoria vaso- dilatazione renale accompagnata da un aumento del flusso ematico renale (RBF: renal blood flow) che è seguita da una prolungata vasocostrizione renale con un aumento delle resi- stenza vascolari renali ed una riduzione del RBF. I vasi extrarenali mostrano una transitoria vasocostrizione seguita da una vasodilatazione stabile con diminuzione delle resistenza periferiche [30] [31] (full text) [32] (full text) [33] (full text). Ovviamente questi fenomeni sono accentuati dalle condizioni di disidratazione e/o di deplezione salina del paziente.

La diminuzione del RBF causerà una diminuzione del GFR.

Queste modifiche dell’emodinamica renale causano una importante ischemia renale che è particolarmente grave nella midollare renale per la sua peculiare anatomia e fisiologia. Infatti anche in condizioni fisiologiche normali la tensione di ossigeno (O2) a livello della midollare renale esterna è molto bassa per la sua notevole distanza dai vasa recta discendenti. Questo scarso apporto di O2 contrasta con l’elevato consumo di O2 di quest’area dovuto all’elevato fisiologico riassorbimento tubulare nei segmenti S3 dei tubuli renali prossimali e nei lembi spessi ascendenti delle anse di Henle contenuti proprio nella midollare renale esterna [30]. Prostaglandine, ossido nitrico (NO: nitric oxide) e adenosina, in condizioni fisiologiche, aumentando il flusso ematico regionale e diminuendo il trasporto tubulare, adeguano l’entità del riassorbimento tubulare al limitato apporto di O2 [34] (full text). Alte- razioni di uno o più di questi meccanismi protettivi causeranno

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un’ipossia midollare. E le alterazioni emodinamiche renali indotte dai MDC rendono l’ipossia midollare renale particolarmente grave [3] (full text) [30].

È stato dimostrato che, in cani con normale funzione renale, il MDC non-ionico ioexolo (Om- nipaque 300) induceva una vasodilatazione renale per l’attivazione prevalente dei recettori A2 dell’adenosina con aumento del RBF; invece in cani con ridotta funzione renale il MDC ioexolo induceva l’attivazione sia dei recettori A2 dell’adenosina (che si associava ad una iniziale vasodilatazione renale), che dei recettori A1 dell’adenosina (che era responsabile della successiva vasocostrizione che aggravava l’emodinamica renale) [35]. Si è quindi dedotto che la vasocostrizione indotta dai MDC è mediata dai recettori A1 dell’adenosina, mentre l’attivazione dei recettori A2 dell’adenosina è responsabile della vasodilatazione causata dal MDC. D’altronde la somministrazione dei MDC determina un aumento dell’eliminazione di adenosina con le urine.

È stato ampiamente dimostrato con studi in vitro che i MDC causano una vasocostrizione marcata dei vasa recta della midollare renale. Così Sendeski et al [36] hanno dimostrato, mediante microperfusione in vitro di vasa recta discendenti isolati dai reni di ratti, che soluzioni del MDC IOCM iodixanolo, con una concentrazione di Iodio di 23 mg/ml (per simulare il dosaggio di Iodio utilizzato negli studi radiologici nell’uomo), causano una vasocostrizione, con una riduzione del 52% del diametro luminale da riduzione di NO, ed aumentano la risposta vasocostrittoria all’angiotensina II.

Ma i MDC causano anche una diuresi osmotica, che comporta un maggior apporto di fluido tubulare e quindi un maggior riassorbimento attivo tubulare nel lembo ascendente spesso delle anse di Henle con conseguente maggior consumo di O2. Questo aggrava ulteriormente l’ipossia midollare [2][3] [36].

La maggior parte dell’acqua filtrata dai glomeruli è riassorbita dai tubuli renali. Siccome invece il MDC filtrato non è soggetto a riassorbimento tubulare, la sua concentrazione nel lume tubulare aumenta notevolmente. Il risultato sarà un progressivo aumento dell’osmolalità e quindi della viscosità del fluido intratubulare. Per il rapporto esponenziale che esiste tra la concentrazione di una soluzione e la sua viscosità, infatti, l’aumento dell’osmolalità del fluido intratubulare porterà a un notevole aumento della sua viscosità [37] (full text). Poichè il flusso di un fluido in un tubo aumenta con l’aumentare del gra- diente pressorio e diminuisce con l’aumentare della resistenza e siccome la resistenza au-

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menta proporzionalmente all’aumento della viscosità del fluido, l’aumento della viscosità del fluido intratubulare dovuta al MDC aumenterà la pressione intratubulare renale ridu- cendo il gradiente tra pressione idrostatica glomerulare e pressione intratubulare [37] (full text). Pertanto, la diuresi osmotica da MDC causerà un’ostruzione tubulare che contribuirà al danno dell’epitelio tubulare e alla caduta del GFR [30] (Figura 1).

Ma un ruolo importante nella patogenesi della CIN sembra essere svolto dallo stress ossi- dativo (Figura 2). Pisani et al [38] hanno di recente dimostrato che una manganese superossido dismutasi ricombinante somministrata in vivo a ratti trattati con il MDC diatrizoato riduceva lo stress ossidativo renale, prevenendo così la riduzione del GFR ed i danni isto- logici renali che conseguono alla somministrazione del MDC.

L’ipossia midollare, infatti, può causare la formazione delle specie reattive dell’ossigeno (ROS: Reactive Oxygen Species) [4] (full text) [39] (full text).

Un ruolo cruciale è svolto dalla caduta del NO che si ritiene essere dovuta alla sua reazione con le ROS, in particolare l’anione superossido O2. [40] [41] (full text). Questa reazione può portare alla formazione del più potente anione ossidante perossinitrito (ONOO-) [42] (full text) che può essere più dannoso per le cellule endoteliali (Figura 2).

Nei pazienti con IRC è presente un’alterazione dei sistemi antiossidanti [43] ed un aumento dello stress ossidativo associato a infiammazione e disfunzione endoteliale [44] (full text). Questo può spiegare perché una pre-esistente IRC rappresenti una condizione che predispone allo sviluppo della CIN [30].

Ma i MDC esercitano anche una citotossicità diretta sulle cellule endoteliali vascolari e sulle cellule epiteliali tubulari renali causando apoptosi e necrosi (Figura 2).

Le cellule endoteliali sono le prime cellule con le quali i MDC entrano in contatto con la somministrazione e.v. ed intra-arteriosa. La diminuzione del NO nei vasa recta è dovuta non solo all’aumentata produzione di ROS, come su esposto, ma anche alle cellule endoteliali danneggiate ed apoptotiche [40].

Come accennato, i MDC sono filtrati dai glomeruli e non riassorbiti dai tubuli renali. Il rias- sorbimento tubulare di acqua aumenta la loro concentrazione nel fluido tubulare rendendo

più marcato il loro danneggiamento diretto sull’epitelio tubulare [31] (full text) [45] (full text) [46].

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Studi recenti hanno valutato i meccanismi molecolari intracellulari coinvolti nella fisiopa- tologia della CIN analizzando gli effetti tossici acuti da esposizione ai MDC di vari tipi di cellule epiteliali tubulari renali [47] [48]. Detti studi hanno dimostrato, in cellule umane di embrione 293T, che il "pathway" intracellulare JNK-ATF2 è coinvolto nell'apoptosi cellulare indotta da MDC. Inoltre, l'attivazione (fosforilazione) di JNKs (membri delle MAP chinasi), chinasi coinvolte in vari tipi di danno cellulare, differiva a seconda del tipo di MDC. Gong et al [49] hanno confermato in parte questi risultati dimostrando inoltre che l'apoptosi in- dotta dai MDC era associata all'attivazione di un'altra subfamiglia delle MAP chinasi, p38 MAPK, con un coinvolgimento del pathway MAPK/iNOS. Più recentemente l’attenzione si è concentrata sull'analisi degli effetti a lungo termine dei MDC sui pathways intracellulari in cellule epiteliali tubulari renali prossimali umane [47] [50] [51] [52] [53] [54] [55] (full text) [56] (full text) [57].

In cellule tubulari renali umane primarie ed in cellule HK-2 (linea cellulare tubulare renale prossimale umana immortalizzata disponibile in commercio e da molti anni utilizzata da vari gruppi di ricerca proprio per le sue caratteristiche fenotipiche [58] [59]) esposte a MDC il mio gruppo di ricerca ha dimostrato una diminuzione della sopravvivenza cellulare secondaria ad una ridotta attivazione di Akt e di ERK 1/2, chinasi che giuocano notoria- mente un ruolo fondamentale nella sopravvivenza/proliferazione cellulare come dimostrato, ormai da molti anni, da vari gruppi di ricerca con l’utilizzo di svariati modelli sperimentali [60] (full text) [61] [62] (full text) [63] (full text) [64] (full text) [65]; questa ridotta sopravvivenza cellulare veniva notevolmente incrementata in seguito alla transfezione delle cellule HK-2 con una forma costituzionalmente attiva di Akt [54], dimostrando quindi che, anche in caso di morte cellulare indotta da MDC, Akt svolge un ruolo significativo nella sopravvivenza cellulare [54]. Inoltre il mio gruppo ha dimostrato, in cellule HK-2, che i MDC influenzano l’attivazione/disattivazione dei fattori di trascrizione, come FoxO3a, un target di Akt, e STAT3, che controllano i geni coinvolti nella apoptosi e nella proliferazione cellulare [50] [55] (full text).

Studi negli animali sperimentali e studi in vitro suggeriscono che i MDC iodati possono in- durre direttamente apoptosi delle cellule tubulari renali mediata da caspasi [66]. L’apoptosi da MDC può essere dovuta all'attivazione delle “shock proteins” ed alla inibizione di enzimi citoprotettivi e prostaglandine [67] [68].

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CAPITOLO V

INTRODUZIONE AL PRECONDIZIONAMENTO

Considerato l’impatto clinico del danno tissutale ascrivibile ai meccanismi d’ischemia ed ischemia/riperfusione nelle varie specialità mediche e chirurgiche, è evidente come lo studio della patogenesi di queste entità e delle risposte adattative nei loro confronti susciti estremo interesse, al fine di sviluppare ed ottimizzare strategie preventive e terapeutiche efficaci. In questo contesto il fenomeno del Precondizionamento Ischemico ha da subito rivestito un ruolo di primo piano. Evidenziato per la prima volta nel 1986 da Murry e collaboratori nel muscolo cardiaco di cane[1], esso consiste nella capacità di modulare la funzione cellulare accrescendo la resistenza delle cellule ad un evento letale a carattere ischemia/riperfusione a seguito di eventi ischemici sub-letali: in particolare, brevi periodi d’ischemia seguiti da corrispondente riperfusione danno luogo ad un miglioramento della capacità dell’organo bersaglio di contenere il danno imputabile ad un successivo, prolungato periodo di ischemia seguito da riperfusione.

L’esperienza di Murry e collaboratori rappresenta la pietra miliare dell’applicazione in clinica del Precondizionamento Ischemico: due popolazioni di animali furono anestetizzate e sottoposte ad occlusione coronarica completa della durata di circa 40 minuti. Il gruppo trattato differiva dal gruppo di controllo per il fatto di esser stato sottoposto, prima dell’occlusione completa, a brevi, ripetuti, cicli di occlusione della durata di 5 minuti intervallati da periodi di 5 minuti di riperfusione. Nel gruppo “precondizionato” si notarono una significativa riduzione dell’estensione dell’area infartuata e delle aritmie da riperfusione, un miglior recupero funzionale dopo risoluzione della fase ischemica e una maggiore resistenza dei cardiomiociti isolati all’ipossia.

In seguito di questo esperimento venne coniato il termine di Precondizionamento Ischemico, definito dunque come il processo per il quale le cellule sottoposte precedentemente a stimoli ischemici sub-letali possano sviluppare successivamente la capacità di tollerare eventi ischemici di portata maggiore.

In modelli sperimentali la protezione parenchimale è raggiungibile sia attraverso uno stimolo precondizionante applicato localmente (come il clampaggio dei vasi del peduncolo

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cardiaco, epatico o renale), sia procedendo a brevi cicli di ischemia e riperfusione in altri distretti corporei, ad esempio comprimendo e decomprimendo ab estrinseco i vasi dell’arto superiore o inferiore: queste due modalità sono dette rispettivamente Precondizionamento ischemico Diretto (DIPC) o Locale(LIPC) e Remoto (RIPC)[3], ed è su quest’ultimo che si sono concentrate le nostre attenzioni.

Dopo l’esperienza di Murry e collaboratori, una moltitudine di studi si sono concentrati sul Precondizionamento Ischemico cardiaco continuando dapprima sui modelli di sperimentazione animale: il primo quesito che gli specialisti si posero, fu quello di scoprire quale fosse il timing di applicazione d’ischemia e riperfusione più efficace: in uno studio del 1991 Winkle et al. utilizzarono sette differenti popolazioni di cavie, di cui una rappresentava il gruppo di controllo NO-RIPC e le altre venivano sottoposte a diversi protocolli di Precondizionamento: i gruppi che ricevettero uno o due cicli da 5 minuti l’uno d’ischemia intervallati da 10 minuti di riperfusione risultarono protetti da ischemia letale nel momento in cui la si provocò iatrogenicamente per 30 minuti. Nei gruppi che ricevettero uno o due cicli della durata di 2 minuti non si ottenne cardio- protezione. Fu inoltre osservato che periodi di riperfusione della durata maggiore di 120 minuti erano correlati con una perdita di cardio-protezione. La cardio-protezione fu valutata in termini di area infartuata - come nel classico esperimento di Murry – tramite colorazione al blu di tetrazolio. Il primo importante risultato di questo studio fu di mettere in luce il fatto che il Precondizionamento Ischemico cardiaco ha un’efficienza massima somministrando ischemia per un breve intervallo temporale della durata di 2-5 minuti ed il tempo di riperfusione diviene eccessivo se sopra i 120 minuti.

Oggi il protocollo più condiviso prevede brevi cicli d’ischemia e riperfusione della durata massimo di 30 minuti, tuttavia la tendenza è quella di performare protocolli del tipo 5x5x4 o 5x5x3, nei quali si sottopone il miocardio a 3 o 4 cicli di 5 minuti d’ischemia e 5 minuti di riperfusione. Le applicazioni in clinica riguardano principalmente interventi di rivascolarizzazione svolti in elezione, poiché le procedure d’urgenza non lasciano spazio per portare a termine la procedura.

Negli ultimi 10 anni, con l’avvento della PCR e delle tecniche molecolari come quella dell’ibridazione, è stato possibile non solo studiare l’aspetto biomolecolare del Precondizionamento Ischemico[4], ma anche la genomica che lo sottende[5].

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Rimangono ad oggi perplessità riguardo l’effettivo impatto del RIPC sull’outcome clinico dei pazienti cardiochirurgici, tanto che in una Review del 2010 si definisce il Precondizionamento Ischemico come “lost in translation”[6], nel senso che, sebbene le premesse molecolari e genetiche siano ottime, non è ancora possibile rilevare significativi vantaggi nell’applicazione della metodica. Il DIPC ha visto le sue prime applicazioni a livello cardiologico a partire dall’esperienza di Murry e coll. come già detto, tuttavia sono molteplici gli studi che riguardano la protezione parenchimale a vantaggio di altri organi. Fra questi spiccano quelli volti al campo chirurgico- epatologico: per le sue peculiarità tecniche, il settore della chirurgia e della trapiantologia epatica ha da subito rivolto la propria attenzione al fenomeno del Precondizionamento Ischemico: infatti, le varie tecniche di clampaggio vascolare in uso nelle resezioni epatiche e il tempo che intercorre tra espianto e trapianto, espongono rispettivamente il parenchima epatico residuo e il graft a un elevatissimo rischio di danno da ischemia/riperfusione.

Il sanguinamento massivo in corso di resezione epatica è uno dei fattori che maggiormente influenzano l’outcome peri-operatorio dei pazienti sottoposti a questo genere di chirurgia. L’interruzione della perfusione epatica con una manovra manuale o con un clampaggio traumatico (la cosiddetta “Manovra di Pringle”) è una delle tecniche da sempre più usate per ridurre la perdita ematica e, conseguentemente, anche la necessità di trasfusioni. Tuttavia, tale manovra espone il parenchima epatico ad un elevato rischio di danno da I/R, che si concretizza in un aumento dei markers di danno epatico maggiore nei pazienti in cui l’intervento viene condotto utilizzando tecniche di occlusione vascolare, benché tale differenza non si concretizzi in termini di maggior rischio di insufficienza epatica manifesta o altra morbilità[7]. Considerato il quadro appena esposto, è evidente come il Precondizionamento sia stato da subito candidato ad un ruolo protettivo per il parenchima epatico in corso di blood-sparing surgery. E’ stato dimostrato che il DIPC è in grado di diminuire i livelli post-operatori di aspartato- aminotransferasi (AST) e alanina-aminotransferasi (ALT)[8], e che questo effetto è maggiormente pronunciato nei pazienti giovani. Inoltre, è stato dimostrato che il DIPC è in grado di diminuire l’impatto emodinamico avverso del clampaggio, con conseguente riduzione dell’impiego di vasopressori[9]. I meccanismi biomolecolari alla base del fenomeno sono descritti in Fig.2

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e, come si vedrà in seguito, sono in buona parte sovrapponibili a quanto avviene a livello miocardico e sistemico, sebbene presentino alcune peculiarità.

5.1 LE BASI MOLECOLARI DEL PRECONDIZIONAMENTO

In entrambi i casi (DIPC e RIPC) sono coinvolti numerosi meccanismi neurali ed umorali, spesso peraltro sovrapponibili nella risposta ultima cellulare e tissutale. Tale fenomeno si estrinseca secondo pathways cellulari precocemente o tardivamente attivati, pertanto si parla di “early phase” e “delayed phase”.

Brevi cicli d’ischemia/riperfusione rappresentano per i parenchimi lo stimolo precondizionante sperimentalmente più efficace, tuttavia, come vedremo in seguito, numerosi altri tipi di stimolo possono essere in grado d’indurre protezione parenchimale. Affinché ciò avvenga, lo stimolo deve essere in grado di determinare almeno uno dei seguenti effetti:

1. alterazione dell’omeostasi cellulare;

2. stimolazione di specifici recettori di membrana o di vie di trasduzione del segnale intracellulari.

Le due attività convergono poi sull’attivazione di una serie di chinasi intracellulari come PKC (Protein Kinase C), MAPKs (Mitogen Activated Protein Kinases) e sull’azione dei ROS (Reactive Oxigen Species) e dell’NO (Nitrossido). Questi enzimi e le specie reattive dell’ossigeno sono coinvolti in un gran numero di funzioni biologiche, prima fra tutte la risposta della cellula allo stress. Il passo seguente è dato dall’attivazione di uno o più effettori finali responsabili dell’effetto protettivo. L’identità di questo/i effettore/i non è del tutto nota, esistono tuttavia evidenze sperimentali e cliniche che fanno supporre per una molteplicità di meccanismi coinvolti e che i canali del potassio ATP dipendenti mitocondriali (mKatp) giochino un ruolo cruciale. Il dubbio sperimentale più importante riguarda il meccanismo con il quale questi effettori indurrebbero uno stato protettivo cellulare.

La superfamiglia genica di recettori coinvolti nell’induzione del Precondizionamento comprende recettori costituiti da una singola catena polipeptidica che attraversa 7 volte la membrana plasmatica e successivamente accoppiati a proteine Gq-i-0. La loro

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attivazione è in grado di up-regolare alcune particolari isoforme di PKC (ne esistono almeno 12 e non tutte hanno azione citoprotettiva), ritenuta la via finale comune attivata da tutti gli stimoli precondizionanti [11, 12].

Le molecole coinvolte nella parenchimo-protezione possono intervenire nell’una o nell’altra fase del processo di Precondizionamento (Early o Delayed phase).

5.1.1 ATTIVAZIONE DEI CANALI mKATP

L’apertura di questi canali di membrana durante la fase Early determina una produzione regolata di ROS per disaccoppiamento temporaneo della fosforilazione ossidativa, in grado di attivare molti degli effettori attivati dalla PKC e la PKC stessa. I ROS così prodotti inoltre attivano e mantengono aperti i canali mKATP durante la fase Delayed, fase in cui si esplica il loro ruolo protettivo(riduzione potenziale trans-membrana,

riduzione dell’accumulo di Ca++, prevenzione della contrazione della matrice, e soprattutto riduzione della produzione di ulteriori quantità di ROS). I mKATP inoltre inibiscono la F1-F0 ATPasi mitocondriale, responsabile in corso di ischemia di oltre l’80% del consumo di ATP, determinando un risparmio notevole di quest’ultima. I ROS sono importanti regolatori dell’omeostasi cellulare, in base alla loro quantità e al tempo di esposizione della cellula ad essi possono alternativamente innescare un programma protettivo o uno dannoso.

• Il programma protettivo innescato dai ROS si traduce nella fase Delayed del Precondizionamento.

• Il programma dannoso è una generica risposta allo stress ossidativo prolungato, con iperproduzione di matrice extracellulare (collagene I-III, fibronectina, laminina), iperespressione di fattori pro-apoptotici e di molecole di adesione cellulari (ICAM). Se lo stress è intenso, l’evento ultimo è la necrosi.

Questa è la verosimile spiegazione dell’evidenza sperimentale per cui piccole quantità di ROS prodotte in corso di Precondizionamento (ad esempio usando isoflurano, noto attivatore dei mKATP , o l’ischemia) riescano a prevenire la produzione di grandi quantità di ROS durante uno stress prolungato non necessariamente ischemico.

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5.1.2 UP-REGOLAZIONE DELL’ENZIMA 5’ NUCLEOTIDASI

È un enzima indotto dalle alte concentrazioni di AMP che si ritrovano in corso d’ischemia. Normalmente abbiamo basse e costanti concentrazioni di adenosina extracellulare che derivano dalla s-adenosil-metionina. Durante un’ischemia prevale nettamente la via che ha come enzima chiave la 5’nucleotidasi, attivata dalla PKC precedentemente menzionata in corso di Precondizionamento, in seguito all’idrolisi netta di ATP e l’accumulo di AMP. La notevole quantità di adenosina così prodotta è in grado di indurre protezione agendo sui suoi recettori A1 e A3 (Fig. 7).

5.1.3 ATTIVAZIONE DELLO SCAMBIATORE Na/H

Lo scambiatore Na/H è fortemente attivato dall’acidosi intracellulare, si rende in parte responsabile dell’accumulo deleterio di sodio intracellulare necessario all’estrusione degli H+ in continua formazione(l’altro meccanismo con cui il sodio si accumula è il deficit di funzione della Na/K-ATPasi, dovuto alla deplezione di ATP). L’accumulo di sodio intracellulare determina poi almeno tre ordini di conseguenze:

1) inversione dell’attività dello scambiatore Na/Ca, con conseguente accumulo di Calcio 2) depolarizzazione del potenziale di membrana con apertura dei canali voltaggio- dipendenti del Calcio ( con ulteriore accumulo di calcio);

3) partecipa al sovraccarico osmotico. Questo scambiatore viene inibito dalla PKC. Si riduce così l’accumulo di Na, che comporta la riduzione del sovraccarico osmotico e dell’accumulo citosolico di calcio. La collocazione dello scambiatore Na/H nell’ambito dei pathways molecolari coinvolti nel Precondizionamento Ischemico è stata mostrata in Il cuore è l’organo che è stato più approfonditamente studiato nell’ambito del Precondizionamento Ischemico, d’altronde i meccanismi molecolari si espletano a livello sistemico potendo fornire protezione anche ad altri organi.

Ovviamente la cinetica e le tempistiche entro le quali intervengono Early phase e Delayed phase sono differenti a seconda dell’organo che si prende in considerazione: per quanto riguarda il cuore queste sono ben rappresentate in Fig.8, mentre negli altri organi la situazione risulta profondamente differente come rappresentato in Fig. 9,10, 11:

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1. nel FEGATO (fig.9) abbiamo una Early phase in cui si ha epato-protezione d’intensità maggiore di quella possibile al livello del miocardio, ma di minor durata. La Delayed phase interviene a distanza di 24-72 ore ed è meno consistente di quella miocardica; 2. a livello dell’ENCEFALO (Fig.10) le due fasi vedono una cinetica profondamente

differente con un’evidente sovrapposizione delle tempistiche delle due fasi. La protezione parenchimale è d’entità inferiore ma di durata equivalente a quella possibile al livello del miocardico;

3. nel MUSCOLO SCHELETRICO (Fig.11) gli effetti sono di entità considerevolmente ridotta rispetto a quanto avviene al livello cardiaco. In particolare la Early phase, estrinsecandosi nell’ora che segue lo stimoloprecondizionante, sembra giocare un ruolo meno determinante rispetto a quanto avviene per la Delayed phase.

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CAPITOLO VI

LO STUDIO

6.1 MATERIALI E METODI

I - Obiettivo

Lo studio è volto a valutare:

-

l’efficacia del precondizionamento ischemico remoto all’arto superiore nella prevenzione del danno renale acuto da mezzo di contrasto durante interventi di rivascolarizzazione.

II - Durata dello studio

La raccolta delle informazioni dei pazienti inizierà nel momento in cui il Comitato Etico competente darà l’approvazione del protocollo. Lo studio si protrarrà il tempo necessario alla raccolta. La durata complessiva dello studio sarà di 10 mesi. É verosimile che saranno necessari 8 mesi per la raccolta dei dati e 2 mesi per la loro analisi. La preparazione del manoscritto sarà successiva all’analisi dei dati disponibili.

III - Popolazione

Lo studio prevede il reclutamento di due braccia di pazienti ricoverati presso la U.O. di Diabetologia che rispondano ai criteri di inclusione e di esclusione elencati di seguito.

IV - Criteri di Inclusione

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Età maggiore di 18 anni

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Pazienti in grado di rilasciare il proprio consenso

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Pazienti ricoverati presso la U.O. di diabetologia

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Pazienti con vasculopatia diabetica che necessitano un intervento di rivascolarizzazione in angiografia interventistica.

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V - Criteri di Esclusione - Terapia con glibenclamide

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Età minore di 18 anni

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Rifiuto del consenso informato da parte dell’avente diritto

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Paziente che non necessita di somministrazione di mezzo di contrasto

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Qualsiasi altra condizione clinica non ritenuta idonea dagli sperimentatori VI - Criteri di uscita

Ritiro del consenso informato, in qualsiasi momento, da parte dell’avente diritto

VII - Schema dello studio

Studio pilota monocentrico non sponsorizzato che prevede la formazione di due bracci di pazienti.

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Braccio A: Ai pazienti verrà richiesto un esame della Creatinina Urinaria e plasmatica pre procedurale. Successivamente verrà eseguito il precondizionamento ischemico remoto mediante un bracciale automatico che eseguire 3 cicli di 5 minuti di ischemia (con pressione superiore di 20 mmHg della sistolica) alternati ad altrettanti cicli di riperfusione. Il paziente verrà condotto in angiografia interventistica dove sarà sottoposto all’intervento di rivascolarizzazione mediante stenting e controllo contrastografico. 24 ore dopo la procedura verrà richiesta una nuova misurazione della creatina urinaria e plasmatica

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Braccio B: I pazienti seguiranno il normale iter procedurale senza essere sottoposti a precondizionamento. verrà comunque richiesta una misurazione della creatina urinaria e plasmatica pre procedurale e a 24 ore da essa.

RISULTATI

In una Review pubblicata su Cardiovascular Research nel 200810 sono ben riassunti i meccanismi molecolari che ad oggi s’ ipotizza costituiscano la base del Precondizionamento Ischemico nonché le applicazioni cliniche che sostanzialmente ad

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oggi se ne fanno. Prima di tutto risulta evidente come l’utilizzo di questa procedura sia, per il momento, inevitabilmente circoscritto a procedure svolte in regime d’elezione. Questo poiché, trovandoci ancora molto lontani dal raggiungimento d’indicazioni certe e sicurezza del valore della procedura, sono necessari studi che consentano di monitorare la funzionalità d’organo in circostanze controllate con presupposti clinici, laboratoristici e chirurgici ben noti. Tutto ciò in regime d’urgenza/emergenza risulta difficoltoso.

In questo senso nel nostro studio si sono considerate le medesime circostanze trattandosi di pazienti fondamentalmente stabili e conosciuti dal punto di vista anamnestico e chirurgico. L’intento ultimo dello studio, ovvero quello di poter vedere un’entrata nella pratica anestesiologico-chirurgica del RIPC con significato nefro-protettivo, ben concorda con la letteratura sinora prodotta sul tema in termini di applicazione in regime d’elezione e non d’urgenza.

E’ noto ad oggi che il RIPC è effettivamente in grado di prevenire il danno miocardico, migliorare la performance delle vie aeree e ridurre la necessità di sostegno emodinamico in pazienti pediatrici ed in pazienti adulti sottoposti a CABG. Per quanto riguarda il danno renale è altresì dimostrato che il RIPC è in grado di offrire nefro e cardio-protezione in corso d’interventi di riparazione di aneurisma dell’aorta addominale.

Il nostro lavoro ha permesso di valutare come il RIPC sia in grado di offrire nefroprotezione in quei pazienti in lista per interventi di rivascolarizzazione.

Questo tipo di pazienti per la loro patologia di base purtroppo saranno sempre soggetti a questo tipo di intervento. La RIPC avrà lo scopo di ritardare il più possibile l’instaurassi di AKI.

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