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L'evoluzione della giurisprudenza della Corte Suprema statunitense in materia di interruzione volontaria della gravidanza.

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Indice

Premessa 5

Ringraziamenti 9

Capitolo I – Dalla frammentazione alla sentenza Roe 1.1 Tanti stati tante leggi 10

1.2 Grinswold v. Connecticut 11

1.2.1 I fatti 11

1.2.2 La Causa 12

1.2.3 Il ragionamento della Corte 14

1.3 La centralità della privacy in materia 16

1.4 La causa United States v. Vuitch 17

Capitolo II – La sentenza Roe v. Wade 2.1 La composizione della Corte nel 1973 18

2.2 I fatti 20

2.3 La sentenza 21

2.4 La situazione 23

2.5 La “viability” come momento determinante 24

2.6 Un errore di percezione 26

2.7 In che momento viene raggiunta la vitalità 28

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2.9 Il concetto di privacy 32 2.10 Il problema della mootness 37 Capitolo III – Come si è arrivati alla sentenza Roe

3.1 Il Common Law ed il concetto di “quickening” 38 3.2 Una stretta al diritto di aborto: l’Offences Against the Person Act (1861) e l’Infant Life Perservation Act (1929) 39 3.3 Le giustificazioni del divieto 40 Capitolo IV – La sentenza Akron ed il consenso informato

4.1 Il consenso informato prima della sentenza Akron 42 4.2 City of Akron v. Akron Center for Reproductive Health: la legge contestata. 43 4.3 Il mancato cambiamento di indirizzo 44 Capitolo V – Dal mancato overruling della sentenza Webster al caso

Rust v. Sullivan

5.1 Verso l’erosione di Roe 47 5.2 La sentenza Rust v. Sullivan 56 Capitolo VI – Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v.

Casey

6.1 I fatti 58 6.2 La conferma della sentenza Roe 61 6.3 I motivi che portarono la Corte a confermare quanto deciso in Roe 62

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6.4 La sentenza Casey e l’aborto della minore 66

6.5 Sentenza Hodgson v. Minnesota (1990): è sufficiente informare un solo genitore 68

6.6 Una lettura particolare delle scelte della Corte suprema. La diseguaglianza sessuale. 69

Capitolo VII – Stenberg v. Carhart: il problema del “partial birth abortion” 7.1 La situazione 74

7.2 La critica alla eccessiva genericità 76

Capitolo VIII – Gonzales v. Carhart: la illegittimità del partial birth abortion 8.1 Il Partial Abortion Ban Act 82

8.2 La sentenza della Corte sul caso Gonzales 83

8.3 Gli intenti della legge 86

8.4 L’analisi della Corte sulle differenze tra Stenberg e Gonzales 87

8.5 La sentenza Gonzales e la protezione delle donne da loro stesse? 89

Capitolo IX – La presidenza Obama 9.1 Di cosa si è discusso negli otto anni di Obama 94

9.2 Obama contro la proposta di Trent Franks 95

Capitolo X – Il Texas prova a limitare il diritto all’aborto 10.1 La legge Perry 98

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10.2 La Corte suprema annulla la legge del Texas 99

Capitolo XI – Un nuovo presidente, cosa aspettarsi dal futuro? 11.1 Lo scontro in campagna elettorale 103

11.2 Trump presidente 104

Conclusione 107

Bibliografia 109

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Premessa

In questo elaborato cercherò di trattare in modo completo l’evoluzione che hanno avuto le sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti sul tema dell’aborto.

Un argomento non facile e che negli anni ha finito per dividere a metà la popolazione nordamericana nelle contrapposte fazioni degli abortisti, i cosiddetti pro-choice, da una parte, e gli anti-abortisti, i pro-life, dall’altra. Negli Stati Uniti, e più in generale nel mondo anglosassone, la questione aborto è discussa più su un livello morale che giuridico. Gli antiabortisti, che possiamo politicamente collocare nella zona d’influenza conservatrice del partito repubblicano, sostengono che la vita non ha inizio solo con la nascita, ma che già dal momento del concepimento ogni essere umano ha diritto a vedere dallo Stato tutelata la propria futura esistenza. Va da sé che quindi rifiutano che la donna possa decidere di non portare a termine la gravidanza, perché ai loro occhi l’aborto equivale ad un omicidio. Gli abortisti invece danno forza alle loro ragioni facendo leva sulla

uguaglianza e sul diritto alla libertà di scelta. Per quanto riguarda il diritto all’essere trattati in modo uguale il loro ragionamento parte dal fatto che se uomo e donna devono avere gli stessi diritti non si vede perché la donna non possa, e qui ci si ricollega al diritto alla libertà di scelta, liberamente

decidere se diventare madre oppure no. Non è solo una questione

riguardante il sentirsi pronte o meno, ma sempre secondo i sostenitori della campagna pro-life, il voler imporre ad una donna di portare a termine una gravidanza non voluta sarebbe per lei un aggravio su tutta una serie di punti, che possono andare dal pericolo, purtroppo molto diffuso, del perdere il proprio lavoro a causa della maternità e dei normali cambiamenti e delle difficoltà che ne deriverebbero; al rischio, di pari entità, di incorrere in

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malattie e problemi sia fisici che di natura psicologica che una scelta così personale e così intima, qualora fosse imposta invece che internamente sentita, potrebbe causare. Da queste ultime contestazioni prende quindi la sua legittimazione il richiamato diritto alla libertà di scelta. I pro-life, da sempre pionieri di una politica liberal, rifiutano che lo Stato si riconosca il potere di decidere, riguardo un argomento così privato, cosi morale, al posto della legittima interessata, ovvero di colei che poi dovrebbe per tutta la vita convivere con una scelta che la riguarda personalmente ma sulla quale non ha avuto voce in capitolo.

Già da questo primo riferimento alle divisioni, e i motivi che ne sono la causa, interne alla società statunitense si può facilmente capire come l’argomento sia, per la Corte suprema, ostico e in un qual senso anche pericoloso. Comunque deciderà andrà incontro ad aspre critiche e ad un attento esame delle motivazioni, sia riferibili all’etica sia semplicemente normative, che richiamerà per giustificare la propria sentenza.

Gli anni settanta ed ottanta furono quelli più travagliati anche dal punto di vista delle proteste di piazza, numerosi erano i sit-in che venivano tenuti dalle due fazioni in difesa delle proprie ragioni.

Il percorso che andremo ad affrontare vedrà la sua partenza obbligata da Grinswold v. Connecticum del 1965, causa che riguardava la libertà di utilizzo dei metodi anticoncezionali, e quindi non strettamente legata all’aborto di per sé, ma fondamentale per il nostro studio in quanto prima decisione della Corte suprema degli Stati Uniti in cui compare il richiamo alla privacy. La vera rivoluzione si ebbe con la causa Roe v Wade del 1973, in cui la Corte riconosce alla donna la libertà di poter porre termine

anticipatamente alla gravidanza. La motivazione usata dalla maggioranza dei nove giudici fu il richiamo alla privacy, come abbiamo visto usato per la prima volta otto anni prima, al diritto della donna di autodeterminare le

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proprie scelte come meglio riteneva opportuno, e negando allo Stato la possibilità di occuparsi di una questione tanto personale. La decisione ebbe un clamore eccezionale, e non mancarono le proteste e le forti critiche, anche all’interno della stessa Corte.

Nel 1989, visto anche il cambiamento di diversi giudici, ci si aspettava che nella decisione della causa Webster v. Reproductive Health Services si andasse incontro ad un overulle di quanto si era deciso nel 1973. Invece, contrariamente a quanto si aspettavano molti operatori, non ci fu un ripensamento da parte della Corte, e il nocciolo significativo del ragionamento che aveva portato alla sentenza Roe venne confermato. Necessario per comprendere appieno il processo evolutivo del pensiero dei nove giudici sarà poi la sentenza Rust v. Sullivan del 1991, conseguenza del tentativo dell’amministrazione Reagan di limitare i fondi destinati alle strutture che praticavano l’interruzione della gravidanza come scelta di pianificazione famigliare.

Si arriva così al 1992, anno in cui la Corte, saggiando la legittimità

costituzionale di una legge del Missouri, con la sentenza Casey decise che l’opposizione del padre, nel momento in cui la donna decideva di compiere l’aborto, non aveva alcuna rilevanza. I giudici ritennero che la scelta, in quanto strettamente personale non poteva che spettare alla donna stessa, e il marito poteva al massimo avere un ruolo di consiglio e supporto, ma mai avrebbe potuto decidere per la donna o mettere dei veti.

Dopo aver menzionato altre decisioni che si possono definire minori si tratterà la sentenza Gonzales v. Carhart nella quale la Corte, dopo anni in cui il dibattito fu lungo e travagliato anche all’interno dello stesso

Congresso, decise di vietare la pratica abortiva nota come partial birth abortion.

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Per finire lo sguardo si sposterà sugli otto anni di presidenza Obama e sulle divergenti opinioni, in tema di aborto, dei due candidati per l’elezione alla Casa Bianca del 2016.

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare anzitutto il relatore, il Professor Paolo Passaglia per il tempo e la pazienza dedicatemi, e la correlatrice, Professoressa Elettra Stradella.

Proseguo con il personale del Dipartimento di Diritto Pubblico, sempre molto disponibile.

Un ringraziamento molto sincero va ai miei amici, sempre pronti a incoraggiarmi e a spronarmi.

Vorrei infine ringraziare la mia famiglia, senza il sostegno della quale non sarei mai riuscito a portare a termine questo lavoro.

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Capitolo I

Dalla frammentazione alla sentenza Roe

1.1 Tanti Stati tante leggi

Fino al 1973 l’interruzione della gravidanza non era regolata a livello federale, ma ogni singolo Stato era libero di legiferare sull’argomento come meglio ritenesse1. La scelta, e questo aiuta a capire quanto la situazione

fosse intricata e frammentata, non seguiva il fil rouge della divisione tra governatori repubblicani, e quindi di ispirazione life, e democratici, pro-choice, ma era molto più sottile e all’interno dello stesso partito politico potevano esserci due linee di pensiero completamente contrapposte. Seguendo gli studi di Rosemary Nossiff2 si comprende che la motivazione

delle differenti scelte non traeva origine da una singola discrepanza, come poteva essere il diverso “colore” politico della maggioranza, la presenza o meno di comunità cattoliche all’interno dello Stato o la maggiore o minore povertà dei cittadini, ma era tutto l’insieme di questi fattori ad avere un peso rilevante.

L’esempio che la studiosa fa per rendere più chiaramente l’idea è la contrapposizione tra gli Stati di New York e della Pennsylvania, entrambi, tra il 1965 e il 1972 governati da maggioranze parlamentari democratiche,

1 C. Z.Mooney – M- Hsien Lee, Pre-Roe abortion regulation reform in U.S. States diffusion,

reinvention and determination, Colchester Department of government, University of

Essex, 1995, 1-39.

2 R. Nossiff, Discourse, Party, and Policy: The Case of Abortion, 1965-1972, “Policy Studies

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ma realizzatori di due opposte leggi riguardo l’aborto; permesso a New York, vietato in Pennsylvania. La motivazione è da ricercare nella “salute” goduta in quel determinato periodo dal partito all’interno dei due stati. A New York abbiamo un Partito democratico incerto, alla ricerca di nuovi elettori e nuove idee per tentare di rilanciare la propria politica. Il movimento “pro choice” offre loro questa possibilità. Al contrario in Pennsylvania abbiamo un partito in salute con una sola voce e una stretta vicinanza alle posizioni “pro life”. Così nel 1966 nello Stato di New York i “pro choice”, grazie all’appoggio dei democratici, presentarono un decreto di riforma che, così come raccomandato dall’ALI (American Law Istitute) tendeva alla depenalizzazione dell’aborto terapeutico. Vengono sconfitti sia nel 1966 che nel 1968, però hanno il merito di creare un nuovo dibattito sul problema e questo porta alla proposta del 1970: possibilità di aborto fino alla ventiquattresima settimana purché l’esecuzione sia effettuata da un medico all’interno di un ambiante sanitario protetto. Vice versa proprio nel 1969 in Pennsylvania nasce la più forte lobby antiabortista degli Stati Uniti, la “Pennsylvania for life” che precede di tre anni la legiferazione di una delle leggi più restrittive di tutta la federazione.

1.2 Grinswold v. Connecticum

1.2.1 I fatti

Nel novembre del 1961 Estelle Griswold insieme ad altre colleghe aprì una clinica di consulenza per la pianificazione familiare a New Haven3. Questo

fu un atto di disobbedienza civile considerato che una legge dello stato del

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Connecticut del 1879 puniva penalmente l’utilizzo di qualsiasi anticoncezionale. Estelle Griswold, medico e direttrice del Planned

Parenthood League del Connecticut fu così, nel 1961, accusata di aver dato ai propri pazienti informazioni su come prevenire gravidanze tramite l’uso di specifici anticoncezionali. Venne arrestata e condannata a pagare una multa, ma il suo appello portò, quattro anni dopo, alla decisione della Corte suprema di dichiarare la legge incostituzionale perché violava il diritto alla privacy dei coniugi. Bisognerà invece attendere il 1972, con la sentenza Eisenstand v. Baird, perché venga riconosciuto anche alle coppie non sposate la possibilità di usare liberamente anticoncezionali4.

1.2.2 La causa

Gli appellanti erano la signora Griswold, direttore esecutivo della Lega per la Pianificazione Familiare dello Stato del Connecticut, ed il dottor Buxton, medico autorizzato e professore alla Yale Medical School che aveva

lavorato come direttore medico per la Lega presso il centro di New Haven, centro rimasto aperto dal primo al 10 novembre del 1961, data dell’arresto dei ricorrenti.

Erano accusati di aver dato a coppie sposate informazioni e consulenza medica riguardo all’utilizzo di strumenti contraccettivi.

Nell’appello proposto era coinvolta la costituzionalità delle sezioni 53-32 e 54-196 del General Statutes of Connecticut del 1958. La prima prevedeva che: "Qualsiasi persona che utilizza qualsiasi farmaco, articolo medicinale o strumento al fine di prevenire il concepimento deve essere multato per non

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meno di cinquanta dollari o recluso per un periodo non inferiore a sessanta giorni e non superiore ad un anno; o essere sia multato che recluso." la seconda sezione aggiungeva che: "Qualsiasi persona che assista, favorisca, consigli, causi o comandi ad altri di commettere un reato può essere perseguito e punito come se fosse egli stesso il colpevole principale." I ricorrenti avevano sostenuto che la legge dello Stato del Connecticut violasse il Quattordicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, ma sia in primo grado che davanti alla Corte d’Appello furono dichiarati colpevoli.

La Corte suprema invece affermò che i richiami alla incostituzionalità della legge dello Stato fossero fondati. Vennero richiamate due sentenze

precedenti, la Pierce v. Society of Sisters e la Meyer v. Nebraska; nella prima la Corte aveva riconosciuto che il diritto dei genitori di educare i figli come meglio ritenessero opportuno era costituzionalmente garantito dal Primo e dal Quattordicesimo Emendamento, nella seconda che anche la decisione di studiare lingua tedesca all’interno di un istituto privato aveva la stessa garanzia. Questo portò la Corte a sostenere che oltre i diritti specifici la Costituzione riconosce una serie di diritti periferici che non possono essere soppressi o limitati, perché così facendo si correrebbe il rischio di mettere in pericolo anche quelli certi. La Corte richiamò come esempio il riconoscimento della libertà di parola e di stampa, che non si limita al senso letterale di ciò che esprime, ma racchiude tutto un insieme di diritti e libertà che promanano da questa, come sono la libertà di insegnare, il diritto di distribuire e ricevere informazioni, la libertà di leggere.

La Corte quindi riconobbe come legittima la richiesta dei due appellanti e dichiarò incostituzionale, perché in contrasto con il diritto di privacy proprio della vita familiare, la legge dello Stato del Connecticut.

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1.2.3 Il ragionamento della Corte

L’assunto da cui prese le mosse la Corte per arrivare alla propria decisione fu che la legge del Connecticut fosse incostituzionale perché portava a violare il diritto alla privacy dei coniugi. Si aveva un’illecita ed immotivata intromissione dello Stato in un ambito che riguardava la sola ed esclusiva volontà coniugale. Con questa sentenza la Corte affermò in modo esplicito che il right to privacy sebbene “unenumerated” nel Bill of Right aveva comunque piena rilevanza costituzionale, garantita dal Primo, Terzo, Quarto, Quinto e Nono Emendamento. Da questi articoli si evincono delle “zones of privacy” dalle quali si arriva così ad un più generale diritto alla privacy. Ci fu così da parte della Corte il primo utilizzo, come “costitutional saving clause” del disposto del Nono Emendamento, per il quale “The enumeration in the Costitution, of certain rights, shall not be costrued to deny or disparage others retained by people”. Nel Nono emendamento non c’è quindi un richiamo preciso al right of privacy ma questo diede la

possibilità alla Corte di riconoscere anche quei diritti non menzionati, come infatti dichiara il Justice Goldberg, “The Ninth Amendament shows a belief of the Costitution’s authors that fundamental rights exist that are not expressly enumerated in the first eight amendaments and an intent that the list of right included there not be deemed exhaustive”. Il discorso

sull’esistenza o meno di “inumerated rights” non è nuovo, ma risale all’emanazione del Bill of Rights; considerato che uno degli argomenti utilizzati da chi si opponeva alla sua ratifica era proprio quello della impossibilità di elencarvi tutti i diritti che dovevano essere tutelati,

rischiando così di lasciare esposti a violazione da parte del Governo quelli che invece non vi erano stati iscritti. Per questo motivo il Nono

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d’interpretare il Bill of Rights come unico limite all’esercizio dei suoi poteri. Con la sentenza Griswold si vede positivamente riconosciuta la funzione di “costitutional saving clause”. Esemplificative di questo sono le parole del Presidente della Corte, il Chief Justice Earl Warren, “Liberty protects those personal right that are fundamental, and is not confined to the specific terms of the Bill of Rights”. Per il Chief Justice Warren, nella sentenza Griswold, il diritto alla privacy era un “implied right” che si ricollegava direttamente ai principi di libertà formulati dalla Costituzione, e quindi tutelato nel Quattordicesimo Emendamento ovvero nella clausola del due process of law che preserva la libertà dei cittadini dai poteri politici nel momento in cui questi tendono a essere troppo invasivi e limitanti delle libertà personali.

Contrari a questa decisione erano i due giudici dissenzienti Hugo Black e Poter Stewart; non riconoscevano l’esistenza degli “implied rights” e accusarono la Corte di volersi sostituire al legislatore costituzionale nella scelta di quali diritti tutelare, considerando che la teoria dei diritti

“unenumerated”, vista la discrezionalità che ne sarebbe derivata, avrebbe concesso alla Corte suprema un potere politico che non le competeva, come ribadito anche dal Decimo Emendamento. La decisione Griswold,

nonostante le diverse rimostranze, diede inizio ad una serie di pronunce di carattere liberale che porteranno all’utilizzazione del diritto costituzionale alla privacy come giustificazione teorica alla successiva decisione di legalizzare l’interruzione della gravidanza.

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1.3 La centralità della privacy in materia

Nella sentenza Griswold v. Connecticut abbiamo quindi per la prima volta il riconoscimento del right of privacy come diritto di rilevanza costituzionale. La privacy a cui si rifà la Corte suprema è ancora quella di origine

tradizionale, ovvero la difesa dello spazio privato da intrusioni da parte dello Stato. I giudici sostengono che lo Stato, nella ricerca del controllo allo scopo di far rispettare la legge, non possa spingersi fino ad entrare nella camera da letto dei propri cittadini per vedere se facendo uso di contracettivi stiano violando o meno la legge.

La privacy che veniva quindi richiamata non era il tipo di diritto alla privacy che noi intendiamo comunemente oggi, ovvero quella ricerca di sicurezza per quello che riguarda i nostri dati sensibili, le informazioni che riguardano la nostra sfera personale e che preferiamo non vengano a conoscenza di altri. Si può trattare sia di informazioni puramente tecniche come le nostre passwords, come invece possono essere quelle peculiarità che sono proprie della nostra natura, come ad esempio l’orientamento sessuale.

Quella richiamata dalla Corte per dirimere la controversia è invece una privacy più generale, che se dovesse essere tradotta con un termine italiano sarebbe molto vicina alla parola libertà. Infatti, nel dichiarare che i coniugi devono essere liberi di determinare per la loro vita insieme l’indirizzo che maggiormente ritengono appropriato, giusto, la Corte individua nel termine privacy quella possibilità per loro di essere liberi di compiere questa scelta, senza che una legge dello Stato li costringa ad accantonare quelli che loro riconoscono come propri valori.

Quello che la sentenza cerca quindi di creare è una zona comprendente alcune decisioni ritenute solo ed esclusivamente spettanti all’individuo e in

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merito alle quali allo Stato non venga riconosciuta alcuna facoltà di poter decidere al posto delle singole persone.

1.4 La causa United States v. Vuitch

Nel 1971, due anni prima della sentenza Roe, la Corte suprema si occupo per la prima volta dell’aborto. Pronunciandosi nella causa United States v. Vuitch la Corte deliberò per la non incostituzionalità della legge del

Distretto della Columbia, la quale proibiva l’aborto salvo il caso in cui fosse necessario per salvare la salute o la vita della madre. La Corte, a differenza del giudice distrettuale che aveva deciso di invalidarla, perché la riteneva troppo generale, espresse attraverso il Justice Black opinione contraria affermando “statutes should be costrued whenever possible so as to uphold their costitutionality”. Sostenne quindi che c’era sempre il modo di

interpretare la legge così che questa non risultasse vaga. Considerando quanto dichiarato in questa sentenza non era facile immaginare che nel giro di due anni l’opinione della Corte sarebbe completamente mutata, sia riguardo al crescente interesse per l’argomento sia come indirizzo decisionale.

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Capitolo II

La sentenza Roe v. Wade

2.1 La composizione della Corte nel 1973

Il palazzo della Corte Suprema statunitense, a Washington D.C. (Zach Gibson/Getty Images)

L’anno della sentenza che avrebbe cambiato la legislazione abortiva negli Stati Uniti fu il 1973, può essere utile fare una considerazione riguardo alla composizione della Corte e valutare così che tipo di decisione ci si poteva aspettare considerando il background dei nove giudici e il Presidente che aveva proceduto a nominarli.

Chief Justice era Warren Earl Burger, nato nel Minnesota nel 1907, era stato nominato dal Presidente Richard Nixon nel 1969 e il suo partito politico di riferimento era quello repubblicano e veniva ritenuto di idee conservatrici, anche se come si vedrà diede luogo a sentenze anche liberali.

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Gli altri otto giudici erano:

 William Orville Douglas, nominato nel 1939 dal Presidente Franklin Delano Roosvelt, era un democratico di idee molto liberali.

 William Joseph Brennan Jr., nominato nel 1956 dal Presidente Dwight Eisenhower, era un ex militare simpatizzante democratico e con idee molto progressiste.

 Potter Stewart, nominato nel 1958 dal Presidente Dwight Eisenhower, di religione episcopale era politicamente vicino al partito repubblicano.

 Byron White, nominato nel 1962 da John Fitzgerald Kennedy, era un ex militare e vicino al partito democratico.

 Thurgood Marshall, nominato nel 1967 dal Presidente Lyndon Johnson, fu il primo giudice afroamericano della Corte suprema, era politicamente vicino ai democratici.

 Harry Andrew Blackmun, nominato nel 1970 dal Presidente Richard Nixon, era di religione metodista e repubblicano.

 Lewis Franklin Powell Jr., nominato nel 1972 dal Presidente Richard Nixon, di religione presbiteriana era di idee democratiche.

 William Hubbs Rehnquist, nominato nel 1972 da Richard Nixon, era di idee federaliste e molto vicine al partito repubblicano.

Abbiamo così un’idea di come si divideva la Corte sotto il punto di vista delle idee politiche, con quattro giudici che aveva un’appartenenza, almeno ideologica, repubblicana; e cinque, quindi la maggioranza, che erano invece di ispirazione democratica.

Bisogna però considerare che alla fine ogni giudice, fortunatamente, prendeva decisioni in modo personale, indipendentemente da quale

Presidente l’avesse nominato, considerando quello che era il suo vissuto e i valori morali che sentiva, oltre naturalmente alla fedeltà verso la legge. In

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aggiunta il tema dell’aborto non vedeva una netta distinzione tra

repubblicani contrari e democratici favorevoli. Per maggior precisione si può sostenere che mentre il partito dell’elefante, di idee conservatrici, era fermo sul suo rifiuto nei confronti dell’interruzione della gravidanza, nel partito democratico non vi era una irremovibile presa di posizione, il tutto era lasciato maggiormente alla coscienza dei cittadini e dei legislatori, infatti nei primi anni settanta si potevano avere due Stati entrambi governati dai liberali ma con leggi completamente differenti nei confronti dell’aborto. Questo per dire che anche se all’interno della Corte suprema la maggioranza dei giudici era politicamente riconducibile alla linea di pensiero del Partito democratico, quando venne presentata la causa non si poteva di certo essere certi, anzi molti operatori magari nemmeno lo immaginavano, che ci

sarebbe stata una pronuncia verso la costituzionalizzazione del diritto all’aborto.

2.2 I fatti

Jane Roe era una donna nubile residente nella contea di Dallas, era rimasta incinta e desiderava interrompere la gravidanza, ma questo in Texas non le era permesso perché lo stato consentiva l’aborto solo nel caso in cui fosse in pericolo la vita della donna. Jane, non potendo permettersi di sostenere le spese che avrebbe comportato il recarsi in un altro stato che le consentisse “a legal abortion under safe conditions” decise di promuovere un’azione giudiziaria nei confronti del District Attorney avanti alla Corte federale del distretto. La District Court accolse le richieste di Jane, dichiarando che la legislazione penale del Texas, proibendole l’aborto, stava violando i diritti garantiti alla donna dal Nono e dal Quattordicesimo Emendamento. Tuttavia

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la District Court non concesse l’injunction richiesta e così Jane Roe fece ricorso alla Supreme Court.

2.3 La sentenza

La causa fu intrapresa da Jane Roe contro lo stato del Texas che non le permetteva di compiere l’aborto.

Gli statutes del Texas che furono oggetto di critica da parte della ricorrente erano i medesimi presenti in molti altri Stati dell’unione.

La Corte dichiarò subito come sapesse che il tema dell’aborto riguardi la natura intima delle persone, e sia un problema dipendente da molti fattori. Ognuno sul tema può avere un’opinione diversa, perché è il risultato della nostra vita, dei pensieri e delle esperienze che l’hanno accompagnata, le nostre credenze religiose, il nostro atteggiamento verso la vita e la famiglia. I valori e gli standard morali che ogni persona stabilisce come propri e che cerca di osservare. Tutti questi fattori influenzano e ci portano a determinare la nostra personale opinione sul tema dell’aborto.

La Corte riconobbe come il proprio compito sia quello di risolvere il problema in un modo privo di emozioni ma semplicemente seguendo il dettato della legge, della Costituzione.

Gli Statutes del Texas interessati erano gli artt. 1191-1194 e 1196 dello State’s Penal Code. Questi articoli punivano penalmente chi procurasse, o tentasse di procurare, un aborto che non fosse medicalmente reso necessario per la salvaguardia della vita della donna.

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Jane Roe nel suo appello affermò che gli Statutes del Texas erano vaghi e incostituzionali perché limitavano il suo diritto di privacy personale che era invece protetto dal Primo, Quarto, Quinto, Nono e Quattordicesimo

Emendamento. Jane decise quindi di fare causa allo Stato del Texas affinché in nome suo e di tutte le donne venissero dichiarate illegittime le leggi antiabortive.

Fu autorizzato ad intervenire nell’azione mossa dalla ricorrente il medico James Hubert Hallford che sostenne come, nei casi di molte pazienti tra quelle che si erano rivolte a lui per eseguire un aborto, fosse estremamente difficile determinare se si ricadesse o meno all’interno dell’articolo 1196, perché la legge mancava di chiarezza. In più erano violati i diritti della donna riguardanti la sua privacy nel rapporto medico – paziente, che invece dovevano essere riconosciuti in quanto garantiti dal Primo, Quarto, Quinto, Nono e Quattordicesimo Emendamento.

Quindi la Corte concluse sostenendo che la legge del Texas violasse quanto garantito dal Quattordicesimo Emendamento.

I giudici diedero luogo alla divisione in trimestri, secondo la quale nei primi novanta giorni l’unico giudizio che conta per determinare la scelta

dell’aborto è quello della donna e del suo medico curante. Il quale deve essere, nel momento in cui avvalla la scelta, in possesso della licenza rilasciata dallo Stato, perché nel caso mancasse può essere vietato qualsiasi aborto concordato da persona che poi risulti non possedere i necessari requisiti.

Lo Stato può, se vuole, nel secondo trimestre disciplinare la pratica dell’aborto nel solo interesse della salvaguardia della salute della donna. Mentre nel terzo ed ultimo può decidere di promuovere il suo interesse nei confronti della vita del nascituro impedendo l’aborto.

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La Corte suprema arrivò a questa conclusione perché la ritenne coerente nell’interesse dei rispettivi interessi coinvolti.

2.4 La situazione

Il 22.1.1973 la Corte suprema pronunciò la decisione Roe v. Wade, ovvero il riconoscimento del diritto costituzionale della donna all’aborto entro il sesto mese di gravidanza. La sentenza era da tempo attesa dagli americani che consideravano ormai intollerabile che la maggioranza degli Stati

dell’Unione continuassero a reprimere penalmente la pratica abortiva. All’inizio degli anni settanta la posizione dei favorevoli alla legalizzazione dell’aborto era maggioritaria all’interno dell’opinione pubblica, e per la prima volta i “pro choice” videro schierarsi al proprio fianco i medici che, nonostante fino a quel momento si fossero professati antiabortisti, ora chiedevano che la pratica fosse legalizzata, visto che molti già la

praticavano nonostante fosse illegale, rischiando così di incorrere in enormi problemi. Si ebbe così, in questo contesto, la decisione della Corte suprema, che oltre a riconoscere la libertà di abortire investì il medico di un ruolo decisivo in quanto nei casi difficili sarebbe stato suo compito decidere se procedere con l’aborto o invece far continuare la gravidanza.

La sentenza, come era facile prevedere, fu accolta con molta riluttanza da parte di diversi Stati e alcuni di essi (New Hampshire, Arizona, Connecticut, Michigan, Vermont, West Virginia e Wisconsin) in un primo tempo si rifiutarono di modificare le proprie leggi proibizioniste. Altri (Alabama, Arkansas, California, Colorado, Delaware, Kansas, Maryland, Mississipi, Nevada, e New Mexico) introdussero leggi che costrinsero i giudici di varie

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corti federali a dichiararle incostituzionali perché limitavano la possibilità di abortire ai soli primi due trimestri, andando così contro i principi stabiliti dalla Corte suprema.

2.5 La “viability” come momento determinante

Per la Corte suprema il diritto alla privacy, anche se non menzionato dalla Costituzione, trovava la sua esistenza e il suo riconoscimento nella due process clause del Quattordicesimo Emendamento, ovvero lo strumento usato, in maniera preponderante, dalla Corte per limitare l’interferenza degli Stati sui diritti costituzionalmente riconosciuti. Il diritto della donna di abortire veniva ricompreso nella privacy, intesa in senso ampio come

autonomia decisionale della persona, elevandolo così a diritto fondamentale. Un diritto sufficientemente ampio da contenere al suo interno la libertà per la donna di scegliere se portare avanti o meno la propria gravidanza. La Corte attuò una rigida divisione in trimestri del periodo gestazionale e ognuno di questi intervalli venne regolato in modo a sé stante. Durante i primi tre mesi la decisione se procedere o meno all’aborto era di

competenza del medico della donna, “For the stage prior to approximately the end of the first trimester, the abortion decision and its effectuation must be left to the medical judgement of the pregnant woman’s attending

phsycian”. Nel periodo che andava dal terzo al sesto mese, avendo uno sviluppo da parte del feto e divenendo quindi più pericolosa la pratica abortiva, abbiamo un interesse preponderante dello Stato nel voler proteggere la salute della donna. Questa era la motivazione che la Corte diede per dare la possibilità al singolo Stato di regolare, senza però poter proibire, l’aborto. Potevano esserci limitazioni, ma il fine ultimo di

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qualunque imposizione doveva essere la salute della donna. Negli ultimi tre mesi, in quel periodo che era ritenuto successivo alla “viability”, ovvero alla possibilità del feto di poter sopravvivere anche al di fuori del grembo materno, lo Stato poteva vietare l’aborto. Questo perché negli ultimi tre mesi veniva a prevalere l’interesse dello Stato alla nascita della nuova vita che il feto rappresentava. Naturalmente anche nell’ultimo trimestre si poteva sempre ricorrere alla pratica abortiva quando si fosse resa necessaria per salvaguardare la vita della madre stessa. Bisogna considerare che anche successivamente al momento in cui il feto diveniva “viable” per la Corte non si era ancora comunque davanti ad una persona, ma si limitava a dire che lo Stato poteva decidere di tutelarne la vita perché anche se non ancora nato era comunque un essere umano formato. Per la Corte tutte le volte in cui la Costituzione, e quindi anche il Quattordicesimo Emendamento, si riferisce a “persona” intende esseri umani già nati. Se la Corte avesse considerato il feto come una persona non avrebbe potuto fare la

differenziazione in trimestri, ma avrebbe dovuto tutelare e difendere fin dal principio la vita del nascituro e limitare quindi la possibilità di aborto al solo caso di gravidanza pericolosa per la vita della donna. Bisogna considerare che, anche volendo cercare una risposta in altri campi, come quello medico o filosofico, non vi è comunque un’idea fissa, precisa e condivisa, su quale sia il momento in cui abbia inizio la vita. La Corte si era così trovata a dover ricorrere a quello che era il riferimento seguito dal common law; al termine del terzo mese si ha l’inizio della vita, l’”ensoulment”, e quindi da questo momento si può limitare, in modo legittimo, l’aborto. Allo scadere del sesto mese poi con la “viability” del feto, che è divenuto quindi un essere umano formato, si può preservarne la vita vietando l’aborto. La preoccupazione dei giudici è stata quella di proteggere la vita prenatale, bilanciandola però con il diritto delle donne di poter gestire autonomamente la propria vita

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Non si può fare a meno di notare come la decisione della Corte abbia un marcato tratto di vaghezza, perché vennero equiparate due cose

completamente diverse come i possibili pericoli per la salute fisica o

psichica della donna a disagi che nulla avrebbero a che fare con il momento preciso della nascita del bambino. Si tratta di possibili problemi psicologici, sociali o economici che potrebbero verificarsi durante la crescita e

l’inserimento in famiglia del nascituro. Venne quindi riconosciuto il diritto della donna di abortire ma non tout court, la possibilità di esercitare questo diritto si aveva solo se si era in presenza condizioni di disagio. Condizioni che dovevano essere valutate da un “responsible physician” con cui la donna aveva l’obbligo di confrontarsi.

2.6 Un errore di percezione

Leggendo la sentenza non si può fare a meno di notare che la vittoria che i sostenitori dell’aborto sentivano di aver raggiunto in realtà fosse un’errata interpretazione che venne attribuita alla decisione della Corte. Vero è che ci fu il riconoscimento della libertà della donna di abortire, ora

costituzionalmente garantita dal right of privacy, però il potere finale di questa scelta era tutto nelle mani del medico, ovvero al suo personale giudizio; come chiaramente scritto nella sentenza: “the abortion decision in all its aspects is inherently, and primarily, a medical decision, and basic

responsability for it must rest with the physician”5. La donna non era quindi

libera di abortire ma, tuttalpiù, di trovarsi un medico che l’appoggiasse in

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questa scelta e la giustificasse clinicamente6. Quindi, se anche durante il

primo trimestre si aveva comunque bisogno di un medico che approvasse la scelta della donna di ricorrere alla pratica abortiva si poteva verificare il caso che il medico non riscontrasse alcun problema economico, sociale, o di salute così grave da dover costringere la donna a interrompere la

gravidanza. Se si fosse realizzata questa ipotesi la donna non avrebbe avuto la libertà di scelta, il suo desiderio di interrompere la gravidanza non si sarebbe potuto realizzare. La prassi seguita dai medici è stata però quella di rispettare il volere della donna, e quindi di non contraddirla mettendosi contro la sua decisione. Si nota quindi che anche negli Stati Uniti, come in altri paesi tra cui l’Italia, andò incontro al fallimento il tentativo di spostare sul medico la scelta, non tanto scientifica quanto più etica, relativa alla decisione. Una decisione che, essendo come detto di natura etica, dovrebbe essere compiuta dal legislatore. Da notare è anche il fatto che gli interessi che lo Stato richiama per limitare o in certi casi impedire la possibilità per la donna di interrompere la gravidanza, come quello alla salute della donna o quello “alla protezione della potenzialità della vita umana”, non sono riconosciuti a livello costituzionale. Livello che invece è attribuito al diritto della donna di non portare a termine la gravidanza. Questo ci porta a ritenere che il diritto della donna dovrebbe prevalere, per un fatto di gerarchia legislativa, ai menzionati interessi dello Stato.

Per quanto concerne invece il trimestre che va dal terzo al sesto mese, in questo periodo di tempo lo Stato può impedire alla donna di abortire solo nel momento in cui l’intervento potrebbe risultare pericoloso per la salute della donna stessa. Si ha quindi logicamente che ogniqualvolta che i sanitari siano del parere che l’interruzione possa essere praticata senza un

6 Per STONE, Law, Psychiatry, and Morality (Essays and Analysis), American Psychiatric

Press, 1984, 243, “the psychiatrist, in the privacy of his office, in sympathy with his patient,

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particolare rischio per la donna, lo Stato non ha alcun interesse ad impedirlo e se mai volesse farlo si avrebbe un’ingiustificata limitazione della

riconosciuta libertà costituzionale della donna.

2.7 In che momento viene raggiunta la vitalità

La Corte ebbe difficoltà, visto la mancanza di univocità da parte dei medici, nel decidere in quale momento il feto avesse raggiunto la detta vitalità. Da una parte i nove giudici, rifacendosi alla tradizione propria del common law, sembrarono propendere per il momento del cosiddetto quickening, ovvero quando incominciano ad avvertirsi i primi movimenti, intorno al terzo mese. Dall’altra, prendendo a esempio il britannico Infant Life Perservation Act del 1929, pareva si orientassero verso il concetto di viability, ovvero al momento in cui il feto è in grado di sopravvivere in autonomia, momento riscontrabile intorno al sesto mese. Alla fine, nonostante dalle premesse ci si sarebbe aspettati un riconoscimento della prima ipotesi, quella legata al quickening, la Corte decise che fino alla ventiquattresima settimana

l’interesse del feto non avrebbe avuto nessuna considerazione, e che quindi prima del momento della viability lo Stato avrebbe potuto limitare il diritto della donna di abortire solo nel caso in cui fosse stato necessario per preservarne la salute. Dopo il manifestarsi della vitalità, lo Stato non ha l’obbligo ma può, qualora lo voglia, tutelare il proprio interesse, e non quindi quello del nascituro, a che la donna porti a termine la gravidanza del potenziale essere umano. Si tratta quindi di un interesse dello Stato, al feto non viene riconosciuto alcun interesse alla vita. Questa decisione è presa dalla Corte constatando il fatto che né il Quattordicesimo Emendamento né altri articoli della Costituzione quando usano la parola “persona” si

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riferiscono a esseri umani che non siano ancora nati. Da questo si capisce che l’obiettivo della Corte fu quello di bilanciare gli interessi della donna e dello Stato, non riconoscendo un interesse del feto. Non abbiamo un interesse del nascituro che viene a scontrarsi con l’interesse della futura madre. Il feto non è un soggetto portatore di interessi legittimi, ma è meramente l’oggetto su cui si svolge il contendere. Tale linea di pensiero della Corte era individuabile anche nel fatto che una volta raggiunta la viability lo Stato può, non deve, impedire che si abbia l’aborto. Questo limitare l’intervento dello Stato nel campo delle possibilità dimostra come per la Corte, anche una volta raggiunta la vitalità, il feto non goda ancora dei diritti che sono propri delle persone già nate. In pratica al feto non viene riconosciuta la personalità, perché se così fosse lo Stato dovrebbe, visto il Quattordicesimo Emendamento, proteggere la sua vita. Analizzando quindi la sentenza sembra chiaro come la Corte abbia adoperato una scelta di compromesso. Non volendo esprimere una scelta morale non ha affrontato il vero nocciolo del problema aborto, ovvero se al feto dovevano essere

riconosciuti diritti costituzionalmente garantiti e quindi l’individuazione di un limite all’autodeterminazione della madre.

2.8 Diritto del nascituro o dello Stato

La dottrina invece ha affrontato il problema ben sapendo che gli interessi in gioco sono quelli del feto e non quelli dello Stato. Gli interessi dello Stato devono muoversi in funzione dei diritti del feto, si tratterebbe, da parte dello Stato, di un interesse di secondo grado. Se si afferma che la libertà della madre non si trova limitata dall’interesse alla vita del feto, lo Stato non può in alcun modo limitare il diritto della donna a procedere con la pratica

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abortiva. Nel caso in cui invece al feto si riconoscesse un interesse alla vita, lo Stato allora potrebbe fissare dei limiti, mettere dei paletti, alla libertà della donna. In questo caso lo Stato, partendo dai valori costituzionali, opererebbe un contemperamento tra interessi, quelli della madre e quelli del feto, confliggenti. Tutto ciò è però condizionato al riconoscimento di livello costituzionale dei diritti del feto. Perché, in caso contrario, l’interesse della madre a non portare a termine la gravidanza, questo sì riconosciuto dalla Costituzione, finirebbe per prevalere sempre sull’interesse del nascituro. Per parlare di “interesse del feto” bisogna prima riconoscerlo dotato di

personalità e questo si può fare solo nel momento in cui lo si ritiene soggetto titolare di diritti e non mero oggetto. La tesi è sostenuta anche da Michael Rosenfeld, il quale dichiara come prima di affrontare il problema relativo all’aborto sia doveroso e necessario prendere una posizione

riguardo alla concessione o meno della personalità nei confronti del feto7. Il

compito di questa scelta sarebbe a carico della Costituzione, la quale dovrebbe evitare al giudice “di dover affrontare un’impossibile impresa interpretativa che lo condurrebbe inevitabilmente ad una decisione

arbitraria”8. Rosenfeld aggiunge che a prescindere dalla decisione che venga

presa dal legislatore costituzionale riguardo al concetto di personalità da attribuire al feto, il giudice dovrebbe affrontare l’argomento e risolvere la questione solo attraverso argomenti di carattere laico, e non permettendo che il punto di vista sull’aborto sia di carattere religioso. Perché in tal caso si andrebbe incontro ad una limitazione del pluralismo democratico. Un altro punto che è stato oggetto di critica fu la suddivisione che è stata fatta della gravidanza in tre distinti periodi. La contestazione prende le mosse dal fatto che la Corte non dovrebbe sostituirsi al legislatore statale, che è il mezzo attraverso cui si esercita la sovranità popolare, ma dovrebbe

7 Michael Rosenfeld, Interpretazioni (Il diritto fra etica e politica), Il Mulino, 2000, 437. 8 Michael Rosenfeld, op. cit. 438 s.

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semplicemente limitarsi a essere garante della tutela dei valori che sono espressi dalla Costituzione9. Nel momento in cui la Corte suprema ha

dichiarato incostituzionale la legge del Texas avrebbe dovuto sì porre dei limiti, ma avrebbe dovuto lasciare allo Stato la libertà di muoversi

all’interno dei suddetti “paletti”. Doveva essere riconosciuto come compito dello Stato regolare, sempre senza superare i limiti che erano stati imposti, il diritto all’aborto. Pensiero che era stato esposto anche da Ruth Bader

Ginsburg e Robert Burt: “the Court might have struck down the Texas abortion statute in Roe and remanded the matter for further action at the state level, thereby setting limits on what legislatures might do in the matter of regulating abortion without involving the Court directly in designing that

regulation”10 questo sarebbe stato il modo più democratico per trovare una

soluzione al conflitto perché da una parte si sarebbe garantito il diritto all’aborto e dall’altra si sarebbe preservato “the legitimacy of the Court’s role in a democracy”. La critica può poi essere mossa anche alla decisione di prendere come riferimento il momento della viability, momento nel quale il feto diventa “potentially able to live outside the mother’s womb, albeith with artificial aid”. La scelta è criticabile per due ragioni. Per prima cosa siamo davanti ad un concetto più morale che puramente giuridico. In aggiunta, la collocazione della viability viene posta intorno al sesto mese, ma questa collocazione non tiene conto dell’evoluzione scientifica e tecnica che potrebbe portare alla possibilità che i medici siano in grado di garantire la vita del feto al di fuori del grembo materno anche prima del

raggiungimento del sesto mese. Questo porterebbe ad erodere il diritto all’aborto, con una limitazione della libertà della donna. Si era allora pensato di considerare vitale solo il feto che fosse stato in grado di

sopravvivere autonomamente, senza nemmeno bisogno di tecniche mediche,

9 Questa critica è stata ripresa e sviluppata dal Chief Justice Rehnquist nella sentenza

Webster v. Reproductive Health Services, 1989.

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ovvero senza l’utilizzo di un “surrogate wamb”. La dottrina, nonostante fosse palese che il concetto di vitalità fosse estremamente labile, ha sostanzialmente accettato la linea seguita dalla Corte suprema, ovvero che raggiunto il sesto mese il feto sia già sufficientemente sviluppato da

percepire dolore e in aggiunta che la madre, raggiunto questo periodo, aveva già avuto un consistente intervallo di tempo per prendere la decisione di interrompere la gravidanza. A rafforzare questo sentimento anche il pensiero di molti pro-choice, che ritenevano moralmente esecrabile e socialmente riprovevole l’aborto, non terapeutico, compiuto durante gli ultimi mesi di gravidanza. Considerazione questa riportata anche dal Wall Street Journal che ha constatato come le statistiche dicano che il 50% degli aborti avviene entro le prime otto settimane, il 90% entro le prime dodici e solo l’uno per cento dopo la ventesima settimana11.

2.9 Il concetto di privacy

Nella sentenza Roe il concetto che è stato maggiormente criticato, anche da alcuni giudici della stessa Corte, è stato quello di aver dato riconoscimento all’aborto tramite la sua inclusione nel diritto alla privacy. La contestazione partiva dall’assunto che il diritto all’aborto fosse considerato così meritevole da essere incluso nei diritti costituzionali. Questa scelta infatti strideva con il fatto che la maggioranza degli Stati avesse, ormai da decine d’anni, adottato leggi che punivano penalmente la pratica abortiva. In aggiunta bisogna dire che il Quattordicesimo Emendamento fu ratificato nel 1868, ed in quel momento nessuno ritenne le leggi antiabortive contrarie

all’Emendamento appena emanato. Da qui si arrivò a concludere che nelle

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intenzioni dei redattori non vi era quella di privare gli Stati del potere di punire l’interruzione della gravidanza. Vennero criticati entrambi i passaggi che portarono a considerare degno di tutela il diritto all’aborto. In prima battuta fu soggetta a contestazione la decisione Griswold del 1965 con la quale si affermava che la privacy fosse un diritto costituzionale, visto che nella Costituzione non se ne faceva menzione. In secondo luogo poi fu criticato il fatto che la pratica abortiva fosse relazionabile alla privacy della donna. Concetto espressamente dichiarato dal Justice Rehnquist nella dissenting opinion del caso Roe:”I have difficulty in concluding, as the Court does, that the right of privacy is involved in this case. Texas…bars the performance of a medical abortion by a licensed physician on a plaintiff such a Roe. A transaction resulting in an operation such as this is not private in the ordinary usage of the word. Nor is the privacy of the freedom from searches and seizures protected by the Fourth Amendament to the Constitution, which the Court has referred to as embodying a right of privacy”. Il Justice Rehnquist aggiunse poi che anche qualora si accetti l’idea che nel Quattordicesimo Emendamento siano tutelati anche diritti di libertà non espressamente menzionati nel Bill of Right non si possa

comunque dare a queste libertà limiti incondizionati, ma è necessario che lo Stato possa sempre porre limiti a tutela di altri diritti. Pertanto non avrebbe giustificazione “the Court sweeping invalidation of any restriction on abortion during the first trimester”. Queste incongruenze furono notate anche dalla dottrina, la quale quand’anche avesse riconosciuto la presenza del diritto all’aborto all’interno del right of privacy, sarebbe andata

comunque incontro a difficoltà nel trovare il concetto unitario che la Corte aveva seguito nelle due sentenze del 1965 e 1973. Per la dottrina bisognava evitare di fare confusione tra i due tipi di privacy e anzi tenerli ben distinti. Da una parte quella tutelata dal Quinto e dal Quattordicesimo Emendamento che mirava a garantire la libertà per i cittadini di compiere scelte personali senza dover temerne una limitazione da parte dei poteri pubblici. Dall’altra

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la privacy, protetta dal Quarto Emendamento e dal tort law a seconda che fosse messa in pericolo dal governo o da altri consociati, che mirava a salvaguardare la riservatezza dei cittadini, a impedire che venissero raccolte o diffuse informazioni che li riguardavano. Questa divisione andava tenuta ben precisa perché non si potevano confondere i due tipi di diritti. La privacy richiamata dalla Corte serviva a proteggere il cittadino, l’individuo, dal potere che lo Stato ha di incidere sulle sue scelte personali. Per Jed Rubenfeld infatti la protezione che il Quattordicesimo Emendamento offre al right of privacy serve ad impedire che lo Stato obblighi i propri cittadini a dei comportamenti che creerebbero un forte cambiamento nella loro

esistenza e costringere una donna a diventare madre contro la propria volontà rientra certamente in questa fattispecie12. Sempre secondo il

pensiero di Rubenfeld la privacy dovrebbe essere intesa quindi come il “right not to have course of one’s life dictated by the state”, dovrebbe garantire la libera individualità del cittadino contro la ricerca di conformità totalitaria dello Stato, così da garantire “the fundamental freedom no to have one’s life too totally determined by progressively more normalizing state”. Sulla questione si esprime anche Ruth Gavison13 sostenendo che non vi era

alcun dubbio che la privacy intesa come diritto alla riservatezza fosse un legal right, il cui scopo era la limitation of others’ acces to an individual. Limitazione riscontrabile sotto tre profili: la secrecy, ovvero il diritto a vedere preservate e non diffuse le proprie informazioni personali, la anonymity, il diritto all’anonimato, e la solitude, il poter mantenere una distanza fisica dagli altri.

12 Sostiene Rubenfeld, op, cit., 784, “At the simplest, most quotidian level, such laws tend

to take over the lives of the person involved: they occupy and preoccupy. They

affirmatively and very substantially shape a person’s life; they direct a life’s development along a particular avenue. These laws do not simply proscribe one act or remove one liberty; they inform the totality of person’s life”.

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Per quanto riguarda la prima si tratta del diritto a veder preservate e non diffuse le proprie informazioni personali. La seconda tutela l’anonimato, il quale viene perso, secondo Gavison, quando un individuo diventa soggetto di attenzioni14. La perdita della privacy infine può realizzarsi, sempre

seguendo il pensiero dell’autore, quando “gli altri” realizzano un accesso psicologico sulla persona, ovvero sono così vicini da poterla osservare e toccare15. Analizzati questi tre tipi di privacy Gavison sostiene che il diritto

all’aborto non può essere inscritto in nessun di questi e che quindi la sua legittimazione non dovrebbe andare cercata nella privacy tout court ma nella liberty of action, ovvero nella libertà di autodeterminazione della donna16. La Corte però quando si riferisce alla privacy in materia abortiva o

di contraccezione tende ad intendere un’accezione maggiore. Per la Corte il vero fondamento del diritto all’aborto è la libertà individuale, la quale è un valore fondamentale all’interno della società americana17. La Corte per

giungere a questa conclusione opera una forma di crasi fra la privacy e la liberty. La prima è vista come una clausola generale all’interno della quale poi si può trovare la garanzia a diverse forme di libertà personale. Come ci mostrano le opinioni espresse dai giudici favorevoli all’aborto, è la

necessità, il dovere di preservare la libertà della donna di decidere di un fatto così personale e intimo18, come certamente è la gravidanza, ad aver

14 Gavison: “An individual loses privacy when becomes the subject of attention” 15 Gavison: ”individuals lose privacy when others gain physical access to them. The

physical access here means physical proximity – that Y is close enough to touch or observe X through normal use of his sense”.

16 Gavison, op. cit., 436 e 439.

17 “[involves] the most intimate and personal choise a person may make ina lifetime,

choices central to personal dignity and autonomy, [and] central to the liberty protected by the Fourteenth Amendament. At the heart of libertyis the right to define one’s own concept of existence, of meaning, of the universe, and of the mysteryof human life. Beliefs about these matters could not define the attributes of personhood were they formed under compulsion of the State”. Planned Parenthood v. Casey, 1992.

18 “In a Nation that cherishes liberty, the ability of a woman to control the biological

operation of her body and to determinate with her responsible physician whether or not to carry a fetus to term must fall within that limited sphere of individual autonomy that lies

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spinto il loro giudizio verso questo risultato. La Corte ha considerato il problema dell’aborto come un conflitto tra la libertà della donna e gli

interessi dello Stato. Per limitare i poteri di quest’ultimo e garantire la donna e la sua autorealizzazione ha visto nel right of privacy lo strumento che meglio avrebbe permesso di realizzare questa linea di pensiero.

Fondamentale è capire come qui in gioco siano da una parte i diritti della madre, e dall’altra si trovi invece lo Stato e i suoi interessi. Perché se invece la dicotomia fosse stata tra la libertà della donna e il diritto, l’interesse, del feto a nascere, ci si sarebbe trovati davanti a due interessi contrapposti appartenenti a due soggetti privati e quindi non si sarebbe più potuto parlare di privacy come limitazione dell’inclusione dello Stato all’interno delle scelte personali del cittadino. Infatti la Corte avrebbe potuto ritenere la posizione dello Stato condizionata ad un interesse, di natura costituzionale, a riconoscere al feto il diritto alla nascita. In questo caso avrebbe dovuto semplicemente decidere se la legge, che mirava a risolvere il conflitto tra il diritto della madre a decidere e quello del nascituro alla vita, fosse o meno ragionevole. La Corte decise invece di risolvere il problema impostandolo come un problema di conflitto tra il potere normativo dello Stato e la libertà della persona, servendosi della substantive due process clause of law

presente nel Quattordicesimo Emendamento e che impedisce allo Stato di compiere intrusioni nelle scelte individuali. Quindi il fatto che il diritto all’aborto sia stato dalla Corte individuato all’interno del right of privacy è il risultato del modo in cui è stato risolto il problema, individuando come confliggenti gli interessi della donna e dello Stato lasciando i diritti del feto, e la sua posizione giuridica, sullo sfondo.

beyond the will or the power of any transient majority” Justice Blackmun dall’opinione

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2.10 Il problema della mootness

Per avere un’analisi completa bisogna anche sapere che la causa Roe v. Wade presentò sin da subito fondati problemi di mootness. Siamo davanti ad un caso di mootness quando la decisione che verrà deliberata dalla Corte non potrà comunque avere effetto sui fatti che sono stati il motivo di quella causa. Nella fattispecie di Roe, quando il caso arrivò alla Corte suprema la donna aveva già partorito e quindi la decisione non avrebbe comunque potuto incidere direttamente. Si era quindi davanti alla mancanza di una condizione di justiciability, ma nonostante questo la Corte arrivò comunque alla decisione della causa. Fu la maggioranza dei giudici a voler terminare l’iter decisionale perché si era davanti ad un paradosso. Se si fosse rispettata la dottrina dello mootness la Corte non avrebbe mai potuto deliberare su un caso di interruzione della gravidanza perché il tempo di gestazione è inferiore a quello che il caso ci avrebbe messo ad essere deciso. La Corte quindi intervenne sulla questione abortiva anche se avrebbe potuto benissimo non decidere perché ne aveva tutte le possibilità giuridiche.

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Capitolo III

Come si è arrivati alla sentenza Roe

3.1 Il Common Law ed il concetto di “quickening”

Per avere un quadro d’insieme e poter capire la decisione della Corte suprema, visto il richiamo che ne fece anche lo stesso Justice Harry Blackmun, bisogna accennare alla storia dell’aborto in Inghilterra e negli Stati Uniti. La proibizione della pratica abortiva non deriva dal common law, ma ha origine da Statutes introdotti negli Stati Uniti intorno alla seconda metà del diciannovesimo secolo. Secondo il common law la

differenza tra un aborto legale e uno vietato penalmente era determinata dal “quickening”, ovvero i primi movimenti avvertibili del feto all’interno dell’utero della madre. Fino al momento in cui questi movimenti non fossero stati avvertiti l’aborto si poteva realizzare perché l’embrione veniva considerato inanimato. Era invece considerato un reato minore l’aborto di un quick fetus, “Great misprision and no murder” come disse il giurista

Coke19. E’nel 1803 che abbiamo il primo criminal abortion statute inglese,

nel quale ancora viene attuata la distinzione tra interruzione della gravidanza prima e dopo il quickening, considerando un capital crime l’aborto di un quick fetus mentre l’aborto precedente i primi movimenti era, in linea di

19 E, and R. Brooke, Istitutes of the laws of England, III, 1797, 50, direttamente citato dal

Justice Harry Blackmun, il quale aggiunse che , da studi più recenti, emergerebbe

addirittura che il “post-quickening abortion was never astablidhed as a common-law

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principio, perseguibile per legge, ma nella pratica, punito con una multa20.

Nel 1828 nel Lord Lansdowne’s Act si continuò a prevedere la pena di morte per chi procurasse l’aborto, intenzionale, di un feto già formato.

3.2 Una stretta al diritto di aborto: l’Offences Against

the Person Act (1861) e l’Infant Life Perservation Act

(1929)

Questo differente trattamento scomparve nel 1861 con la promulgazione dell’Offences Against the Person Act. Con questo atto venne meno la distinzione finora fatta, di origine ecclesiastica, tra embryo formatus e embryo informatus, e si arrivò addirittura ad ignorare il fatto che la donna fosse o meno incinta, sanzionando chiunque “with intent to procure the miscarriage of any woman, shall unlawfully administer to her or cause to be taken by her any poison or other noxius thing, or shall unlawfully use any

instrument or other means whatsoever with the like intent”21. L’Infant Life

(Perservation) Act del 1929, continuando sulla stessa linea di pensiero della legge del 1861, puniva con l’ergastolo “any person who, with the intent to destroy the life of a child capable of being born alive, by any wilful act cause a child to die before it has an existence independent of its mother, shall be guilty of felony…”. Il limite che venne riconosciuto come momento in cui il feto sarebbe stato in grado di vivere autonomamente dalla madre fu quello della ventottesima settimana. Naturalmente nel caso fosse stata in

20 Si trattava di “felony” il quale era punito con una multa, ma che poteva anche essere

sanzionato con “imprisonment, whipping or trasportation for up to fourteen years”. Il reato è stato però raramente perseguito.

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pericolo la vita della madre si poteva procedere all’aborto anche di un feto che fosse “viable”. Riassumendo, in Inghilterra l’aborto fu penalmente perseguito dall’inizio del diciannovesimo secolo fino al 27.4.1968, giorno in cui entrò in vigore l’Abortion Act. Parallelamente negli Stati Uniti si ebbe prima, durante l’Ottocento, l’eliminazione della distinzione tra aborto pre e post quickening e successivamente, negli anni ’50 del Ventesimo secolo, un numero sempre maggiore di Stati che proibirono in modo molto severo la pratica abortiva. Anche qui fatta eccezione per il caso in cui fosse in pericolo vita o la salute, quest’ultima solo nello Stato dell’Alabama e nel District of Coloumbia, della madre. Tra il 1967 e il 1973 alcuni Stati, forti dell’appoggio creatosi all’interno della società civile, decisero di emanare leggi più permissive. Si poteva ricorrere all’aborto quando due medici avessero constatato che la gravidanza avrebbe presumibilmente pregiudicato la salute fisica o psichica della madre, quando la donna fosse rimasta incinta in seguito a violenza o incesto e quando il bambino sarebbe potuto essere portatore di gravi danni fisici o mentali. Si arrivò cosi ad avere quattro Stati (New York, Washington, Hawaii e Alaska) che nel 1970 decisero di

legalizzare l’aborto compiuto nel primo trimestre di gravidanza e, nel caso di New York, di permetterlo anche a donne non residenti all’interno dello Stato, dando così la possibilità a chi aveva i mezzi per farlo di eludere le leggi antiabortive del proprio paese.

3.3 Le giustificazioni del divieto

La Corte suprema addusse tre ragioni che furono storicamente richiamate come giustificazione alla proibizione delle leggi sull’aborto. La prima, obsoleta e per questo nemmeno utilizzata a propria difesa dallo Stato del

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Texas, vedeva nelle norme antiabortive un deterrente che avrebbe dovuto scoraggiare le relazioni extraconiugali. La seconda era diretta a tutelare la salute della donna in un periodo, XIX secolo, in cui la mortalità conseguente all’intervento abortivo era ancora molto alta a causa della mancanza di sufficienti pratiche antisettiche e dell’uso degli antibiotici. La terza ragione vedeva la sua origine nel dovere dello stato di tutelare la vita prenatale. Secondo la legislazione texana, artt. 1191-1194 e 1196 dello State’s Penal Code, solo nel momento in cui fosse stata in pericolo la vita della madre si sarebbe potuto consentire alla donna di ricorrere all’aborto, perché in quel caso l’interesse di quest’ultima ad effettuare l’interruzione sarebbe prevalso su quello del nascituro.

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42

Capitolo IV

La sentenza Akron e il consenso informato

4.1 Il consenso informato prima della sentenza Akron

Prima di procedere all’aborto, come per ogni altro intervento medico, era necessario che la donna prestasse il proprio consenso informato. Le leggi dei vari Stati solitamente richiedevano che la gestante sottoscrivesse un modulo col quale dimostrava di aver avuto le necessarie informazioni sulla natura e le possibili conseguenze dell’intervento a cui si stava per sottoporre di sua spontanea volontà, e sulle alternative all’interruzione della

gravidanza, come la possibilità di far adottare il nascituro.

Con la sentenza Planned Parenthood of Central Missouri v. Danforth del 1976 la Corte ha per la prima volta dato rilievo costituzionale a questo obbligo informativo. Il motivo, spiega la Corte, è dato dalla difficile condizione psicologica in cui, molte volte, si ritrova la donna che ha scelto di procedere con la pratica abortiva; il richiederle il consenso scritto, sempre secondo i giudici, permette alla madre un più chiaro quadro della scelta che sta compiendo22.

22 Secondo l’opinione della Corte, “The woman is the oneprimarily concerned, and her

awareness of the decision and its significance may be assured, costitutionally, by the State to extent of requiring her prior written consent. An additional…objection is its intrusion upon the discretion of the pregnant woman’s physician. This provision specifies a litany of information that the physician must recite to each woman regardless of whether in is judgment the information is relevant to her personal decision”.

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