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Legislazione e diritti personali in India

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Legislazione e diritti personali in India

Legislation and personal laws in India

This article aims to highlight the main aspects of State regulation of personal status in the Indian context. In fact, in matters such as family and succession, notwithstanding the recurring debate on the adoption of a Uniform Civil Code, State Courts apply different rules to Hindus, Muslims and those belonging to other religious traditions. The article aims to describe Indian State legislation in this field and to point out the complexity of this aspect of the Indian legal system.

Keywords: Personal laws; India; Hindu law; Islamic Law; Christian Law.

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Le riforme coloniali in materia di diritto hindu. – 3. La razionalizzazione e semplificazione del diritto hindu nell’India indipendente. – 4. Il diritto islamico e gli altri diritti religiosi nel contesto indiano. – 5. La complessità dei diritti personali in India e il dibattito sull’uniformazione.

1. Introduzione

Un dato che risalta immediatamente agli occhi di chi si avvicina al diritto dell’India contemporanea è quello della coesistenza di un diritto territoriale, che si applica a tutti i cittadini indiani, e di un insieme di diritti personali che si applicano, principalmente nelle materie del diritto di famiglia, in base all’appartenenza a una determinata comunità, definita normalmente in termini religiosi. Questa complessità strutturale riflette una complessità culturale che deriva dalla coesistenza e interazione di concezioni, valori, norme e istituti che hanno origini diverse.

La grande maggioranza della popolazione in India è sempre stata hindu, anche se questa affermazione deve essere integrata considerando che lo stesso induismo è caratterizzato da una grande varietà interna. Ciononostante, bisogna avere ben presente, anche per la comprensione dell’India di oggi, che l’India non è mai stata esclusivamente hindu. Tra le religioni non hindu alcune sono indiane, ad esempio quella buddhista o quella jainista, mentre altre, come l’Islam, pur non avendo avuto origine in India, vi hanno avuto importanti manifestazioni. Sul piano giuridico, tutte queste comunità religiose hanno storicamente elaborato propri sistemi giuridici differenziati.

Nel periodo coloniale si sono avute profonde trasformazioni nel sistema delle fonti. Come vedremo, è stato istituzionalizzato un sistema di diritti personali per cui in alcune materie riconducibili allo statuto personale si applicano diritti diversi a seconda dell’appartenenza religiosa e comunitaria. Pur in questo quadro di riconoscimento del diritto hindu, del diritto islamico e di altri diritti a base religiosa, si sono verificati cambiamenti dovuti alla legislazione in materia di statuto personale e alla giurisprudenza formatasi nell’applicazione di questi diritti nelle Corti.

Dopo l’Indipendenza si è subito posto il problema di una riforma del sistema dei diritti personali. Secondo alcuni, l’abbandono di questo sistema a favore di un diritto uniforme

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anche in materia di statuto personale sarebbe stato maggiormente coerente con il principio della laicità indiana. La redazione di un codice civile uniforme sarebbe stata però non solo un’opera estremamente complessa dal punto di vista tecnico-giuridico, ma anche controversa sul piano politico-sociale, dato il rischio di aumentare la conflittualità intercomunitaria in un periodo particolarmente delicato della storia indiana. Seguendo una linea di compromesso, l’Assemblea Costituente ha inserito nella Costituzione l’art. 44, in base al quale: «The State shall endeavour to secure for the citizens a uniform civil code throughout the territory of India». La norma è collocata nella parte dedicata ai Directive Principles of State Policy, ed ha carattere programmatico.

In tal modo il superamento dei diritti personali venne posto come obiettivo di realizzazione non immediata e si decise di procedere con riforme relative ai singoli diritti personali, in particolare del diritto hindu, che era caratterizzato da una notevole complessità e mancanza di uniformità al suo interno. Come vedremo, interventi molto più limitati sono stati effettuati sugli altri diritti personali.

Parallelamente è stato sviluppato un diritto uniforme “opzionale”, che ha la sua base nello Special Marriage Act del 1954, una legge sul matrimonio “civile” che viene però applicata principalmente nei casi di matrimoni intercomunitari. Esistono poi leggi generali, in particolare l’Indian Succession Act, 1925, che si coordinano con i diritti personali in materia successoria. Come vedremo, ci sono state inoltre leggi in materia di statuto personale che si applicano a tutti i cittadini indiani indipendentemente dall’appartenenza religiosa. Nonostante questi fattori uniformanti, si può dire che quasi tutto il diritto di famiglia e delle successioni rimanga ancora oggi saldamente nel quadro dei diritti personali.

In questo contributo analizzeremo in particolare le fonti legislative. La legislazione, fonte tipicamente statale, è stata lo strumento privilegiato per razionalizzare e riformare le regole dei diversi diritti religiosi. Non bisogna però dimenticare alcuni aspetti che verranno solo incidentalmente toccati in questo contributo. In primo luogo, l’importanza del ruolo svolto dalle Corti, in cui siedono giudici laici, sia nell’interpretazione delle norme legislative che nello sviluppo di soluzioni giurisprudenziali autonome, grazie anche all’operatività nel sistema indiano del principio del precedente vincolante1. In

secondo luogo, per quanto la legislazione in materia di statuto personale sia principalmente legislazione dell’Unione, in queste materie esiste anche una legislazione concorrente dei singoli Stati, ancorché su punti di maggiore dettaglio. Infine, la comprensione dei diritti personali in India richiede di considerare oltre alle regole di diritto ufficiale, prodotte o anche solo riconosciute da organi ufficiali, anche il diritto non ufficiale, vale a dire quel diritto seguito dalle singole comunità in assenza di riconoscimento statale e a volte in contrasto con le regole di diritto ufficiale2.

Il quadro è quindi molto complesso. I diritti personali nell’India contemporanea costituiscono un fenomeno in evoluzione, in cui principi e istituti della tradizione 1 Il principio del precedente vincolante è stato introdotto nel periodo coloniale come dato di sistema per tutto il diritto indiano e viene osservato anche in materia di diritti personali. Con riferimento al diritto hindu, Diwan (2004: 52) osserva che «practically all the important principles and rules of Hindu law have now been embodied in case law. In such matters, recourse to original sources is not necessary. Reference to leading decision is enough. In this sense, precedent or case law is the source, by and large, of most of the rules and precedents of Hindu law».

2 Per questo approccio pluralistico si veda in generale Chiba (1986) e con riferimento specifico al diritto hindu Menski (2008).

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interagiscono con i valori costituzionali e con altre parti del sistema giuridico indiano. Vedremo che si sono posti alcuni problemi di conflitto tra diritto territoriale e diritti personali e che il dibattito sull’adozione del codice civile uniforme è recentemente ripreso in modo deciso. In questo quadro, l’analisi della legislazione indiana in materia di statuto personale fornisce importanti indicazioni sia sulla fonte legislativa come strumento di riforma e uniformazione che sull’evoluzione delle regole dei diritti personali e più in generale della società indiana.

2. Le riforme coloniali in materia di diritto hindu

Prima di procedere con l’analisi della disciplina in materia di statuto personale della comunità hindu, è necessario sottolineare in via preliminare che la stessa definizione di diritto hindu e, più latamente, di induismo è dibattuta. La dottrina più recente tende, infatti, a superare la costruzione orientalistica di induismo come religione unitaria, proponendo una visione più complessa che interpreta lo stesso come unità socio-culturale o insieme di religioni legate fra loro da principi, pratiche e un patrimonio comune di cultura e valori3.

La portata estesa del concetto di induismo e la sua natura profondamente plurale, sociale e culturale prima che religiosa hanno fatto sì che ampio fosse anche il raggio d’azione di “hindu”, costruito generalmente in negativo ad indicare chiunque non dichiari espressamente di appartenere ad una fede diversa o ad una comunità tradizionalmente non hindu4.

Gli aspetti complessi e inclusivi appena evidenziati hanno avuto riflessi importanti nel mondo del diritto. Nel contesto dell’ordinamento statale post-indipendente, infatti, l’operatività del diritto hindu non si estende solo ai membri della comunità hindu stricto sensu, ma anche a buddhisti, jainisti, sikh e a qualsiasi altro individuo che non si dichiari musulmano, cristiano, ebreo o parsi. Questi soggetti vengono dunque inglobati nella categoria “hindu” ai fini dell’applicazione delle diverse leggi in materia di statuto personale.

Razionalizzazione e semplificazione del diritto della comunità hindu caratterizzano da secoli i progetti politici e legislativi dei governatori, coloniali prima e indipendenti poi. Gli inglesi istituzionalizzarono, con il regolamento di Warren Hastings del 1772, la scelta strategica e funzionale di riorganizzare l’amministrazione della giustizia attraverso la creazione di un sistema di diritti personali, introducendo riforme metodologiche importanti nella gestione delle controversie. Nonostante i colonizzatori avvertissero la necessità di legiferare in materia di diritto personale per operare una risistemazione del diritto, almeno in un primo momento decisero di astenersi da tali riforme legislative per evitare di interferire eccessivamente nell’ambito della religione e della famiglia, ritenuto troppo sensibile (Menski 2008: 157). Tuttavia, in linea con i principi dell’utilitarismo benthamiano e nell’ottica di avviare riforme sociali rapide e

3 Si vedano Piano (1996), Flood (1996), Francavilla (2010), Küng et al. (1986).

4 Alcuni autori sostengono che essere hindu sia determinato dal fatto stesso di nascere all’interno di una casta (jāti): tale aspetto implica dunque che se, da un lato, è possibile essere hindu senza seguire un percorso religioso, dall’altro non è possibile convertirsi all’induismo, dipendendo questo da un fattore principalmente etnico; si vedano Bharati (1982) e Sferra (2010).

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incisive, a partire dal diciannovesimo secolo scelsero di intervenire su alcuni aspetti dei diritti personali ritenuti particolarmente ripugnanti e lesivi dei diritti della persona. Gli interventi in materia di matrimonio hindu furono ridotti e si limitarono a disciplinare aspetti periferici della questione come la rimozione di ostacoli giuridici al nuovo matrimonio della vedova (Hindu Widows Remarriage Act, Act XV of 1856). Fu, infatti, riconosciuta la validità di tale unione non senza prevedere, tuttavia, una serie di limitazioni come la decadenza della potestà genitoriale sul bambino, in assenza di esplicita disposizione testamentaria contraria da parte del defunto marito (art. 3). Weinberger-Thomas sottolinea come queste riforme risultarono socialmente ineffettive, poiché i gruppi più conservatori non appoggiarono mai tali concessioni e rimase quindi un divieto implicito di risposarsi (Weinberger-Thomas: 146).

In aggiunta allo statuto giuridico delle vedove hindu, Flavia Agnes (cit. in Menski 2008: 250) indica quali principali interventi legislativi inglesi su materie di diritto personale il Sati Regulation Act (Regulation XVII, 1829 of the Bengal Code), il Female Infanticide Prevention Act (Act VIII of 1870) e il Child Marriage Restraint Act (Act XIX of 1929), a cui bisogna aggiungere il Caste Disabilities Removal Act (Act XXI of 1850). Molte di queste leggi erano state pensate per avere applicazione territoriale indipendentemente dall’appartenenza delle parti ad una comunità religiosa, ma sostanzialmente colpivano costumi ritenuti tipici della comunità hindu come l’infanticidio femminile e il matrimonio tra bambini.

Il Sati Regulation Act del 1829 chiuse un periodo di regolamentazione piuttosto intensa durante la quale la pratica della sati (il suicidio rituale della vedova) fu vietata nel territorio di Calcutta (1789) e nella Presidency del Bengala nel 1818. Nel 1829 il governatore generale Bentinck approvò il Sati Regulation XVII of the Bengal Code in cui si vietava la pratica della sati (intesa, ex artt. 1 e 2, come la pratica di bruciare o seppellire viva la vedova hindu) estendendo tale divieto alle Presidencies di Bombay e Madras.

L’azione legislativa inglese si rivolse, seppur in modo blando, anche alla disciplina di quella che era ritenuta una pratica particolarmente esecrabile, ossia il matrimonio di bambini.

Attraverso l’introduzione di alcune riforme di carattere penale si cercò di contrastare l’aspetto di tale unione ritenuto più ripugnante, la violenza sessuale, lasciando tuttavia intatta la validità di tali matrimoni, come si vedrà più avanti in questa sezione.

Nel 1890 la piccola Phulmoni Dasi morì a seguito della violenza sessuale compiuta su di lei dal marito; la normativa in vigore all’epoca si rivelò essere del tutto inadeguata a rispondere non solo al problema della violenza su minori, ma anche al matrimonio infantile. I giudici, infatti, potevano fare riferimento alla sola sezione 375 del codice penale indiano che fissava a dieci anni l’età del consenso. L’Indian Criminal Law Amendment Act (Act X of 1891), meglio noto come Age of Consent Act, approvato in risposta a tale lacuna normativa, modificò il codice penale e il codice di procedura penale innalzando tale età a dodici anni.

È importante segnalare che nel 1872 era stato approvato lo Special Marriage Act (Act III of 1872); tale legge nasceva per avere applicazione territoriale e opzionale e disciplinava come età minima per l’unione celebrata secondo tale normativa 18 anni per l’uomo e 14 per la donna (Towards Equality 1974: 111), ma solo una parte molto esigua della popolazione vi faceva ricorso.

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Nel 1927, Rai Saheb Harbilas Sarda presentò un progetto di legge (noto come Sarda Bill) inteso a dare un giro di vite a tale unione, dichiarandola invalida. La legge, secondo il piano di Sarda, sarebbe stata applicabile solo ai membri della comunità hindu. La proposta suscitò numerose polemiche e fu sottoposta al vaglio di un Select Committee che raccomandò di farne una legge applicabile a tutti senza distinzione religiosa e di considerare valida l’unione di bambini, dalla quale sarebbero derivate solo conseguenze penali come pene detentive o multe per i soggetti coinvolti, ma non effetti di tipo civilistico sul matrimonio (Sagade 2005: 43). Il Child Marriage Restraint Act (CMRA)5, approvato nel 1929 con un testo che ricalcava le linee guida indicate dal

Comitato, tracciò, in materia di matrimonio di bambini, una distinzione tra piano civilistico e piano penalistico destinata a durare fino al 2006: da un lato, infatti, si stigmatizzava tale tipo di unione prevedendo sanzioni penali, ma, dall’altro, la sua validità non fu messa in discussione.

A seguito di forti pressioni esterne da parte della comunità internazionale e interne ad opera dei movimenti per i diritti umani, l’India indipendente ha adottato nel 2006 una legge ad applicazione territoriale, il Prohibition of Child Marriage Act (PCMA) che abroga il CMRA e rivoluziona l’impianto normativo in materia di matrimonio di bambini nel senso di una maggiore tutela. Il PCMA agisce sul piano penale, rafforzando le pene detentive e pecuniarie previste, e, in secondo luogo, su quello civile disponendo che il matrimonio di bambini, considerati tali se minori di 18 anni (femmine) e minori di 21 anni (maschi), possa essere annullato su iniziativa di una delle due parti che era “child” al momento dell’unione ed entro due anni dal raggiungimento della maggiore età6.

È prevista la nullità del matrimonio qualora il bambino sia stato sottratto al legittimo controllo del genitore o tutore, oppure obbligato o indotto con l'inganno a sposarsi, o ancora venduto per il matrimonio o sposato dopo essere stato oggetto di vendita o traffico.

Tra gli obiettivi non espliciti del legislatore c’era con ogni probabilità anche quello di ovviare ad una serie problematiche presentate dalle varie legislazioni personali (in primis, quella per la comunità hindu, di cui si tratterà nella sezione successiva) in materia di matrimonio di minori.

3. La razionalizzazione e semplificazione del diritto hindu nell’India indipendente Nel decennio che seguì l’indipendenza, il primo ministro Nehru, abbandonato il progetto di creare un codice civile uniforme, diede avvio ad un processo graduale di

5 Il CMRA è stato emendato a più riprese, in particolare per quanto riguarda l’età al di sotto della quale una parte deve essere considerata “child” (sezione 2 a). Inizialmente si considerava “bambina” una persona minore di 14 anni e “bambino” un minore di 18 anni; tale età è stata innalzata per le bambine a 15 anni nel 1949 attraverso il Child Marriage Restraint (Amendment) Act (Act 41 of 1949), e successivamente a 18 e 21 nel 1978 attraverso il Child Marriage Restraint (Amendment ) Act (Act 2 of 1978).

6 Si noti, tuttavia, un’incongruenza importante in questa disposizione: la maggiore età per maschi corrisponde a 18 anni, quindi, in base alla sezione 3.3 del PCMA, al massimo entro i 20 anni possono richiedere annullamento. Tuttavia, secondo il PCMA, sono da considerarsi “child” fino a 21 anni. Risulta, quindi, che se un maschio si sposa tra i 20 e 21 anni (quindi ancora “child”) non può richiedere l’annullamento perché maggiorenne ormai da più di due anni.

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modernizzazione e semplificazione del diritto hindu. Risalgono al periodo compreso tra il 1955 e il 1956 quattro atti legislativi, indicati collettivamente (e impropriamente) come Hindu Code, volti a disciplinare rispettivamente il matrimonio (Hindu Marriage Act, Act 25 of 1955), minore età, potestà e tutela (Hindu Minority and Guardianship Act, Act 32 of 1956), adozione e mantenimento (Hindu Adoption and Maintenance Act, Act 78 of 1956) e le successioni (Hindu Succession Act, Act 30 of 1956) (Francavilla 2010: 140)7. La logica fondante di queste leggi era la sostanziale abrogazione del diritto

preesistente per le materie disciplinate dal testo, l’introduzione di nuove regole o la generalizzazione di norme che prima erano seguite solo da una parte degli hindu come il divieto di bigamia (sezione 5.i) e il divorzio (sezione 13). Il problema dell’uniformità/diversità è stato affrontato lasciando in piedi un quadro di sostanziale pluralismo giuridico: nel caso paradigmatico dell’Hindu Marriage Act (HMA) si è rinunciato, infatti, a disciplinare in toto la materia lasciando ampio spazio al diritto consuetudinario attraverso rimandi mobili alle consuetudini delle comunità degli sposi, a cui viene riconosciuta validità a patto che rispettino le condizioni elencate nella sezione 3.a della legge stessa8.

Il matrimonio hindu si configura tradizionalmente come sacramento e unione indissolubile, monogamica, intracastale e spesso precoce, anche se, data la varietà dell’induismo, per ciascuno di questi punti sono state riscontrate localmente delle eccezioni. Nel diritto hindu moderno il matrimonio conserva alcuni caratteri sacramentali e ne acquista altri di carattere contrattuale: è data maggiore importanza al consenso e meno all’indissolubilità, è previsto il divorzio anche se continua a essere sentito come socialmente riprovevole.

La sezione 5 dell’HMA prevede una serie di condizioni presenti le quali è possibile la celebrazione del matrimonio. Interessante ai fini di questa trattazione è il terzo comma, in base al quale è necessario che le parti, al momento della celebrazione, abbiano compiuto 21 e 18 anni (rispettivamente, maschi e femmine)9. La sezione 11 dispone che

il matrimonio sia nullo qualora vengano violate le condizioni in materia di bigamia e parentela proibita, mentre in base alla sezione 12 è annullabile se ricorrono una serie di situazioni tra cui vizi del consenso (ad esempio, consenso estorto con violenza o inganno), incapacità di intendere e di volere al momento della celebrazione matrimonio. Nessuna delle due sezioni prevede nullità o annullabilità in caso di matrimonio sotto il limite di età consentito.

Le maggiori riforme intervenute sull’HMA sono l’Hindu Marriage (Amendment) Act, 1956 (Act 3 of 1956), Hindu Marriage (Amendment) Act, 1964 (Act 44 of 1964), Marriage Laws (Amendment) Act, 1976 (Act 68 of 1976) e il Marriage Laws (Amendment) Act, 2001 (Act 49 of 2001). Il Marriage Laws (Amendment) Act, 1976 introdusse per la donna nuove basi su cui richiedere il divorzio rendendo innanzitutto comuni a separazione giudiziale e divorzio le motivazioni sulle quali presentare

7 Tali leggi si applicavano, come specificato sopra, agli hindu tout court e, non senza proteste da parte delle comunità coinvolte, anche a buddhisti, jainisti, sikh e, in via residuale, a chiunque non avesse dichiarato di appartenere ad altra comunità religiosa.

8 “The expression ‘custom’ and ‘usage’ signify any rule which, having been continuously and uniformly observed for a long time, has obtained the force of law among Hindus in any local area, tribe, community, group or family” (HMA, 1955, sez. 3.a).

9 Questo limite d’età è stato introdotto a seguito di un emendamento intervenuto nel 1978, il già menzionato Child Marriage Restraint (Amendment) Act.

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richiesta, diverse invece nella formulazione iniziale del 1955. La normativa del 1976 (sezione 8) introdusse anche il divorzio consensuale, ora disciplinato nella sezione 13B dell’HMA10.

Si mutuò, inoltre, dal diritto personale musulmano la cosidetta “option of puberty” (Menski 2008: 355) che permetteva alla donna di presentare domanda di divorzio qualora “her marriage (whether consummated or not) was solemnized before she attained the age of fifteen years and she has repudiated the marriage after attaining that age but before attaining the age of eighteen years” (sezione 13.2.iv). Si realizzava dunque la situazione paradossale per cui, a seguito dell’innalzamento dell’età matrimoniale avvenuto nel 1978, era considerato “child marriage” il matrimonio con una donna minore di 18 anni, ma se questa si fosse sposata dopo i 15 anni non avrebbe potuto richiedere il divorzio, poiché l’emendamento del 1978 non modificò i limiti di età contenuti nella sezione13.2.iv.

L’unico riferimento che l’HMA contiene alla violazione del limite minimo di età per sposarsi è contenuto all’interno della sezione 18, la quale prevede conseguenze di carattere penale (detenzione fino a un massimo di quindici giorni e/o multa fino a mille rupie), lasciando intatta la validità civile dell’unione. Su questo aspetto è intervenuto esplicitamente il PCMA (sezione 20) il quale aumenta le pene previste dall’HMA per il matrimonio fra bambini (portate a due anni di detenzione e/o centomila rupie). Emerge, quindi, come il PCMA, pur essendo legislazione territoriale e non strettamente personale, influenzi profondamente il diritto hindu in due sensi:

- Direttamente, operando esplicitamente un inasprimento delle pene previste dall’HMA

- Indirettamente, integrando, in quanto diritto territoriale, le norme di diritto personale che regolano la stessa materia e, nel caso di specie, determinando l’annullabilità o la nullità del matrimonio hindu di bambini, alle condizioni viste sopra

Merita, a questo proposito, un cenno la normativa opzionale territoriale in materia di matrimonio, contenuta all’interno dello Special Marriage Act del 1954. Tale legge, erede del meno fortunato Special Marriage Act, 1872, prevede che condizione necessaria per la celebrazione del matrimonio sia che le parti abbiano compiuto i 21 e

10 Nel 2010 fu presentato in Parlamento un progetto di legge (Marriage Laws Amendment Bill, Bill No. XLI of 2010) che conteneva proposte di emendamenti importanti all’HMA e allo Special Marriage Act, 1954. In particolare, si voleva inserire l’ “irretrievable breakdown” come base ulteriore per il divorzio. La proposta fu approvata dalla Camera degli Stati nel 2013, ma l’iter di approvazione si bloccò nella Lok Sabha facendo naufragare la proposta.

In materia di divorzio si segnala, inoltre, l’importante pronuncia della Corte Suprema del 6 ottobre 2016, Narendra v. K. Meena (Civil appeal no. 3253 of 2008). I giudici, infatti, accolsero la richiesta di divorzio presentata del marito e fondata sull’articolo 13.i.a dell’HMA in base al quale tale richiesta può essere accolta se si dimostra che l’altra parte, dopo la celebrazione del matrimonio, “has treated the petitioner with cruelty”. Nel caso di specie, i giudici hanno riconosciuto come “cruelty” le richieste della moglie al marito di abbandonare la sua famiglia; tale posizione viene sostanziata con riferimenti alle consuetudini coniugali della comuità hindu che prevedono che la moglie viva assieme alla famiglia del marito e che non si possa fare eccezione a tale pratica se non in presenza di una “justifiable reason”. Continuano i giudici, sostenendo che “normally, no husband would tolerate this and no son would like to be separated from his old parents and other family members, who are also dependent upon his income. The persistent effort of the Respondent wife to constrain the Appellant to be separated from the family would be torturous for the husband and in our opinion, the trial Court was right when it came to the conclusion that this constitutes an act of ‘cruelty’” (par. 11).

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18 anni di età11, pena la nullità del matrimonio stesso. La successione tra le parti il cui

matrimonio è stato celebrato secondo le disposizioni dello Special Marriage Act è disciplinata dall’Indian Succession Act, 1925 (Act 39 of 1925). Questa normativa, dalla struttura piuttosto complessa, si applica a tutti gli indiani, con specifiche eccezioni che rendono le diverse parti della legge di volta in volta non applicabili a determinate comunità religiose12.

Il legislatore dell’India post-indipendente non si è limitato a semplificare il diritto hindu, ma ha ripreso e sostituito alcune delle leggi di epoca coloniale esaminate nel presente lavoro.

In particolare, a più di un secolo di distanza, la morte violenta della giovane Roop Kanwar, bruciata sulla pira funebre del marito nel 1987 in un villaggio del Rajasthan, ha riaperto il dibattito sulla necessità di una regolamentazione più stringente e precisa della pratica della sati. A seguito delle pressioni esercitate dai gruppi femministi, fu approvato il Rajasthan Sati (Prevention) Act (1987), incorporato in un secondo momento nel diritto federale attraverso il Commission of Sati (Prevention) Act 1987, a cui fu conferito valore di legislazione territoriale, in vigore su tutto il territorio dell’India (con l’eccezione del Jammu e Kashmir) e applicabile nei confronti di tutti i cittadini indiani senza distinzione religiosa. La definizione di sati fu ampliata e le pene, un tempo lasciate alla valutazione discrezionale del giudice, specificate e inasprite. Dal 1929, inoltre, sono intervenute una serie di modifiche13 sull’età minima del

consenso, l’ultima delle quali risale al 2013 con il Criminal Law (Amendment) Act14, il

quale fissa l’età minima a 18 anni. La violazione di tale disposizione integra la fattispecie criminosa nota come statutory rape, ossia stupro a prescindere dalla presenza di consenso o meno della vittima. Tale emendamento fu approvato sulla base delle raccomandazioni provenienti dal Comitato Verma, incaricato di analizzare lo stato della

11 Questo limite d’età è stato introdotto a seguito di una modifica operata dal citato Marriage Laws (Amendment) Act, 1976.

12 Per la normativa di riferimento in materia di successioni nella comunità hindu si vedano l’Hindu Succession Act, 1956 (Act 30 of 1956) e l’Hindu Succession (Amendment) Act, 2005 (Act 39 of 2005), il Repealing and Amending Act, 2015 (Act 17 of 2015). L’abrogazione dell’Hindu Succession (Amendment) Act, 2005 operata da quest’ultima legge ha creato non poca confusione nel panorama giuridico indiano: la normativa del 2005, infatti, aveva riscritto la sezione 6 della legge originaria, concedendo alle figlie uguali diritti nella proprietà ancestrale. Con l’abrogazione della legge di emendamento si è, dunque, temuto che anche la nuova forma della sezione 6 dovesse cadere. L’Alta Corte del Karnataka ha sciolto ogni dubbio pronunciandosi sul punto in Lokamani and Others Vs. Mahadevamma and Others (Regular First Appeal No. 58 of 2014) e sostenendo che “The amended Section 6 has already been substituted in the Hindu Succession Act, 1956 as if it was in the enactment from its inception. When the amending provision takes the place of the earlier provision, the object of the Amendment Act is fulfilled and thereafter the Amendment Act serves no purpose. Therefore, such an Amendment Act requires to be repealed and that is what has been precisely done” (par. 33). Sul raggio d’azione dell’emendamento del 2005 si veda anche la pronuncia della Corte Suprema Prakash & Ors. Vs. Phulavati & Ors. (Civil Appeal No.7217 of 2013), in cui si specifica che tale modifica non ha validità retroattiva (“the text of the amendment itself clearly provides that the right conferred on a ‘daughter of a coparcener’ is ‘on and from the commencement of Hindu Succession (Amendment) Act, 2005’”, par. 17).

Per una trattazione complete in materia di Adoptions and Maintenance law e Minority and Guardianship, con riferimento alla comunità hindu, si vedano Menski (2008), cap. 12, e Mulla & Desai (2016).

13 L’Indian Penal Code (Amendment) Act (29 of 1925) innalzò l’età da dodici a tredici, il Code of Criminal Procedure (Amendment) Act (42 of 1949) la portò a quindici ed il Criminal Law (Amendment) Act (43 of 1983) a sedici.

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normativa in materia di offese di natura sessuale: la limitatezza della legislazione vigente era stata, infatti, resa palese dalla morte di Jyoti Singh a causa di una violenza sessuale di gruppo su un autobus privato a New Delhi avvenuta nel 2012.

4. Il diritto islamico e gli altri diritti religiosi nel contesto indiano

Si è visto che le leggi sul diritto hindu successive all’Indipendenza si applicano non solo agli hindu per religione, ma anche a buddhisti, jainisti e sikh. Quanto agli appartenenti a queste religioni si può osservare che il riconoscimento ufficiale da parte della legislazione di norme locali e consuetudinarie, almeno in casi come quello della celebrazione del matrimonio, permette alle diverse comunità di vedersi applicato dalle Corti le proprie specifiche regole, pur all’interno di un quadro normativo statale e semplificato fornito dagli Hindu Acts15.

Occorre adesso considerare il quadro legislativo riguardante i soggetti a cui espressamente non si applica il diritto hindu, vale a dire musulmani, cristiani, ebrei e parsi.

Per quel che riguarda la comunità islamica, bisogna innanzitutto ricordare che, pur essendo i musulmani indiani meno del 20 per cento della popolazione indiana, in termini assoluti l’India è uno degli Stati al mondo con maggiore presenza islamica. In secondo luogo, si tratta di una presenza antica e di molto precedente il periodo della colonizzazione britannica. Pertanto, il diritto islamico ha avuto e continua ad avere in India una importante manifestazione, costituendo il secondo diritto personale dell’area16.

La politica del diritto coloniale ha trattato in modo simile il diritto hindu e il diritto islamico, entrambi considerati da Hastings nella Regulation del 1772. Così come si è sviluppato un diritto anglo-hindu, si è sviluppato un diritto anglo-musulmano. Sono del periodo coloniale The Muslim Personal Law (Shariat) Application Act, 1937 (Act 26 of 1937) e The Dissolution of Muslim Marriage Act, 1939 (Act VIII of 1939), entrambi ancora vigenti.

Di particolare interesse è la prima legge, composta da soli sei brevi articoli, che all’art. 2 definisce l’applicazione del diritto personale ai musulmani:

Notwithstanding any custom or usage to the contrary, in all questions (save questions relating to agricultural land) regarding intestate succession, special property of females, including personal property inherited or obtained under contract or gift or any other provision of Personal Law, marriage, dissolution of marriage, including talaq, ila, zihar, lian, khula and mubaraat, maintenance, dower, guardianship, gifts, trusts and trust properties, and wakfs (other than charities and charitable institutions and charitable and religious endowments) the rule of decision in cases where the parties are Muslims shall be the Muslim Personal Law (Shariat).

Dopo l’Indipendenza, a differenza di quanto avvenuto per il diritto hindu, non si assiste

15 Si consideri ad esempio il caso Baby vs. Jayant Mahadeo Jagtap and Ors, Bombay High Court, 29 gennaio 1981, in cui si discute della valida celebrazione di un matrimonio all’interno di una comunità neo-buddhista.

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a tentativi organici di riforma legislativa del diritto islamico17. Si può segnalare a tal

riguardo l’attività dell’All India Muslim Personal Law Board, organizzazione privata riconosciuta ufficialmente che opera per la conservazione del diritto personale islamico in India e la sua corretta applicazione, che in più occasioni si è opposto a interventi legislativi.

Esistono in ogni caso leggi statali che incidono sul diritto islamico in India, come il già citato PCMA, o il Wakf Act 1995 (Act 43 of 1995), ultima di una serie di leggi in questa materia. Uno dei pochi interventi legislativi in materia di diritto islamico si è avuto in materia di mantenimento con il Muslim Women (Protection of Rights on Divorce) Act del 1986 (Act 25 of 1986). La storia di questa legge è strettamente connessa al caso Shah Bano (Mohd. Ahmed Khan v. Shah Bano Begum, Supreme Court of India, 23 aprile1985), che, in una questione di mantenimento, ha mostrato la problematica interazione tra diritti religiosi applicati su base personale e diritto territoriale che si applica a tutti i cittadini indiani. Il caso è famoso per le reazioni che provocò in tutta l’India alimentando la contrapposizione tra alcune parti della comunità musulmana e alcune parti della comunità hindu18.

Senza entrare nei dettagli del caso, la questione riguarda il diritto al mantenimento di una donna musulmana, Shah Bano, ripudiata dal marito, Ahmed Khan, con talaq definitivo. Il marito richiedeva l’applicazione della norma di diritto musulmano per cui il periodo di mantenimento della donna divorziata è limitato all’iddat, che può avere diverse durate a seconda della casistica, e nel caso di donna non mestruata dura tre mesi. Shah Bano invocava invece l’applicazione dell’art. 125 del Codice di Procedura Penale (1973) che attribuiva al giudice il potere di ordinare a un soggetto dotato di mezzi sufficienti il mantenimento della moglie nella impossibilità di mantenere se stessa. La questione giuridica consisteva quindi nel ravvisato conflitto tra diritto islamico, applicato su base personale, che pone dei limiti al diritto di mantenimento, e una legge territoriale, come tale applicabile a tutti i cittadini indiani, inclusi i musulmani, che non prende in considerazione tale limite.

Nel decidere la controversia, la Corte Suprema osservò che non vi era nessun motivo per escludere le donne musulmane dall’applicazione dell’art. 125, perché l’appartenenza a una determinata religione, sia essa musulmana, hindu, parsi, o qualsiasi altra, deve essere considerata totalmente irrilevante, trattandosi di una norma del Codice di Procedura Penale e non di una norma rientrante nei diritti personali delle diverse comunità. Lo scopo della norma è quello di porre rapido rimedio a situazioni di indigenza della moglie o della donna divorziata e sotto questo profilo non possono esservi differenziazioni su base personale19. La Corte ha però evitato di riconoscere un caso vero

17 Secondo Michelguglielmo Torri (2007), il motivo di questa mancata riforma va cercato nei caratteri della comunità musulmana, che, dopo la vicenda fortemente traumatica della partition, aveva perso gran parte della sua classe media e i quadri dirigenti. Essendosi assottigliata la componente progressista dei musulmani indiani, Nehru ritenne che eventuali riforme sarebbero state ostacolate dall’assenza di elementi che potessero sostenerle dell’interno della comunità, con il forte rischio di farle percepire come una imposizione dall’alto da parte della maggioranza non musulmana.

18 Una interessante analisi delle implicazioni del caso Shah Bano si trova in Menski (2008b).

19 La tutela prevista dall’art. 125 si estende alla donna divorziata. Inoltre, dall’analisi del processo di riforma del Codice di Procedura Penale del 1898 risulta che l’estensione della tutela alle donne divorziate fu dovuta anche alla considerazione del fatto che la facilità dello scioglimento unilaterale nel diritto islamico svuotava del tutto la tutela per le donne musulmane.

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e proprio di conflitto tra diritto musulmano e diritto territoriale e ha differenziato la situazione della donna che è in grado di mantenersi e la situazione della donna esposta al rischio dell’indigenza. Pertanto la Corte, pur riconoscendo che in base al diritto islamico il diritto al mantenimento di una donna musulmana divorziata cessa allo scadere del periodo dell’iddat, ha ritenuto che questa regola, per lo stesso diritto islamico, non contempli il caso in cui la donna divorziata non sia in grado di provvedere a se stessa, vale a dire la situazione prevista nell’art. 125 del Codice di Procedura Penale, e che quindi non vi sia propriamente conflitto.

La sentenza provocò reazioni così accese presso alcune parti della comunità musulmana indiana da farne un caso politico. Il primo ministro di allora, Rajiv Gandhi, timoroso di perdere peso elettorale presso i musulmani, si fece promotore dell’approvazione del Muslim Women (Protection of Rights on Divorce) Act 1986, con il quale venne regolata la materia del mantenimento in modo tale da riportarla nel quadro del diritto personale islamico. Si tratta di una legge breve che, all’art. 3, stabilisce che una donna musulmana divorziata ha diritto a un equo mantenimento pagato dal suo ex-marito “entro il periodo dell’iddat”. L’art. 4 dispone che la donna divorziata, non risposata, che non sia in grado di mantenersi dopo il periodo dell’iddat abbia un diritto al mantenimento non nei confronti del marito ma nei confronti dei propri parenti e, se questi non sono in grado di provvedervi, nei confronti del wakf.

La legge è stata fortemente criticata e la Corte suprema si è dovuta pronunziare sulla sua costituzionalità nel caso Latifi (Danial Latifi & Anr. v. Union of India, Supreme Court of India, 28 settembre 2001). La decisione della Corte, che ha ritenuto la legge costituzionale, presenta diversi aspetti di interesse. Tra questi, il fatto che la legge viene considera una “codificazione” di quanto già stabilito nel caso Shah Bano e non un suo sovvertimento. La questione più controversa è quella della violazione del principio di uguaglianza per il trattamento differenziato delle donne musulmane rispetto alle donne non musulmane20. La Corte adotta una linea interpretativa che permette di salvare la

costituzionalità della legge affermando che il mantenimento è primariamente obbligo del marito (la sua inadempienza permette il ricorso al giudice ex art 3.2) e che questo obbligo non si esaurisce col periodo dell’iddat. Più precisamente l’interpretazione della formula “within the iddat period” è che la legge opera una distinzione tra dovere di provvedere equamente al mantenimento e momento in cui bisogna adempiervi. L’obbligo di mantenimento deve essere soddisfatto entro l’iddat ma non è ristretto al periodo dell’iddat, nel senso che può estendersi all’intera vita della moglie divorziata, sempre che non si risposi. Se poi la donna rimane priva di mezzi di sostentamento dopo le disposizioni del marito nel periodo dell’iddat, allora l’esigenza di tutela della vita e della dignità personale viene realizzata attraverso l’art. 4 ponendo l’obbligo di solidarietà a carico dei parenti o del wakf. In definitiva pur seguendosi strade diverse il livello di tutela è lo stesso per donne musulmane e donne di altre comunità (Menski 2008b).

Considerando le altre comunità, molto piccole in termini quantitativi per quanto importanti sul piano sociale e culturale, si può osservare che anche qui gli interventi

20 La legge prevede infatti una disciplina che esclude l’applicabilità dell’art. 125 del Codice di Procedura Penale per le donne musulmane, anche se va evidenziato che l’art. 5 della stessa legge prevede la possibilità di assoggettamento volontario all’art. 125.

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legislativi sono stati minimi21. In particolare per gli ebrei indiani, pur essendo

riconosciuto loro il diritto di seguire il diritto ebraico in materia di statuto personale, non esiste una legislazione specifica e l’evoluzione del diritto ebraico in India è giurisprudenziale22. Gli ebrei indiani possono decidere di sposarsi secondo le regole

proprie della loro religione o secondo lo Special Marriage Act 1954 e ad essi si applicano alcune regole dell’Indian Succession Act 1925.

La comunità parsi indiana è concentrata in Maharashtra e sul piano professionale si è distinta nel campo dell’avvocatura. I parsi, pur essendo una piccola comunità, hanno lavorato attivamente perché venisse loro riconosciuta una specificità giuridica. Il Parsi Succession Act (Act 21 of 1865) è stato abrogato e integrato nel capitolo terzo dell’Indian Succession Act, 1925. Il Parsi Marriage and Divorce Act (Act 3 of 1936), ancora in vigore ed emendato con il Marriage Laws (Amendment) Act (Act 49 of 2001), regola i diversi aspetti del matrimonio: i requisiti di validità, la celebrazione e registrazione, il divorzio. È notevole il fatto per i parsi sia stata permessa l’istituzione di corti speciali matrimoniali23.

Più complesso è il discorso per le comunità cristiane indiane. Nel periodo coloniale sono stati promulgati l’Indian Christian Marriage Act (Act 15 of 1872) e l’Indian Divorce Act (Act 4 of 1869). La prima legge aveva il fine di consolidare ed emendare il diritto relativo alla celebrazione del matrimonio tra cristiani in India. Si applica a tutti i cristiani, con norme specifiche per Church of England, Church of Scotland e Church of Rome, e dedica particolare attenzione ai ministri di culto e alla registrazione del matrimonio. L’Indian Divorce Act contiene alcune norme relative al divorzio tra cristiani, naturalmente dal punto di vista statale. Entrambe le leggi sono state oggetto di un lungo processo di riforma. È stato infatti notato che il diritto personale dei cristiani è rimasto dopo l’Indipendenza in uno stadio di minore sviluppo rispetto agli altri diritti personali e che persistevano disposizioni discriminatorie nei confronti delle donne cristiane, sia nel confronto con la posizione degli uomini cristiani che nel confronto con le donne di altre religioni. In particolare la disciplina del divorzio prevedeva fra le cause di divorzio requisiti più stringenti per le donne indiane; ad esempio non era sufficiente l’adulterio del marito, ma l’adulterio incestuoso o accompagnato ad altri elementi come bigamia, crudeltà, abbandono del tetto coniugale.

Nel processo di riforma cruciale è stato il ruolo della Law Commission of India, che in più Rapporti si è preoccupata della necessità di aggiornare le disposizione relative al diritto personale dei cristiani per evitare profili di discriminazione rispetto agli appartenenti ad altre comunità religiose24.

21 Si consideri che secondo i dati del censimento del 2011, se gli hindu sono il 79,80% della popolazione indiana e i musulmani il 14,23%, i cristiani sono il 2,30%, comunque più di sikh (1,72%), buddhisti (0,70%) e jainisti (0,37%). Ebrei e parsi rientrano in “altre religioni” per le quali il dato complessivo è dello 0,66% della popolazione. Questi dati devono essere comunque letto tenendo presente che il quadro cambia se si considerano i singoli Stati indiani, per cui i sikh sono la maggioranza della popolazione in Panjab e i cristiani sono la maggioranza della popolazione in alcuni Stati nord-orientali (Arunachal Pradesh, Nagaland, Mizoram, Meghalaya) e hanno una presenza molto significativa a Goa.

22 Sugli ebrei indiani si veda Katz (2000). Sul piano giurisprudenziale una sentenza interessante sullo status del diritto ebraico in India è Mozelle Robin Solomon vs Lt. Col. R.J. Solomon, Bombay High Court,

3 febbraio 1968.

23 Sulla storia dei parsi indiani dal punto di vista giuridico si veda Sharafi (2014).

24 Si vedano 15th Report on Law Relating to Marriage and Divorce among Christians in India (1960); 22nd Report on Christian Marriage and Matrimonial Causes Bill (1961); 90th Report on Grounds of

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Di questi profili si sono occupate anche le Corti indiane. In particolare la High Court of Kerala ha dovuto giudicare due ricorsi congiunti da parte di donne indiane cristiane in materia di divorzio (Ammini E.J. And Etc. vs Union Of India (Uoi) And Ors., Kerala High Court, 24 febbraio 1995; Mary Sonia Zachariah vs Union Of India (Uoi) And Ors., Kerala High Court, 24 febbraio 1995).

Nel 2001 è stato finalmente promulgato l’Indian Divorce (Amendment) Act (Act 51 of 2001) che nel complesso è riuscito a riformare gli aspetti più critici del diritto personale cristiano25. Emendamenti relativi ai cristiani sono stati fatti anche nell’Indian

Succession Act 1925, ma sono rimasti fermi i tentativi più organici di riforma del diritto personale cristiano, in particolare il progetto di un nuovo Christian Marriage Act che sostituisca il Christian Marriage Act 1862 e includa, come avviene per l’HMA, anche la disciplina del divorzio, abrogando così l’Indian Divorce Act.

5. La complessità dei diritti personali in India e il dibattito sull’uniformazione

L’applicazione su base personale del diritto di famiglia e delle successioni solleva diversi problemi. Regimi differenziati pongono problemi di discriminazione tra appartenenti a comunità diverse, in particolare le donne. Inoltre si pongono questioni di coordinamento e il quadro può divenire particolarmente complesso. Si consideri a questo proposito che le conversioni pongono intricati problemi circa l’applicabilità di regole diverse da quelle precedenti la conversione, ad esempio nel caso della poligamia26.

La coesistenza di questi diritti e l’applicazione nel quadro costituzionale ha prodotto una tendenza verso l’uniformazione, attuata per via legislativa ma soprattutto per via giurisprudenziale. Non si è ancora arrivati invece all’adozione del codice civile uniforme previsto nell’art. 44 della Costituzione, anche se il dibattito è ripreso con grande forza. Nel 2016 la Law Commission of India ha pubblicato un questionario per raccogliere una serie di opinioni che saranno alla base di un prossimo rapporto. Merita di essere riportato un passo dell’Appeal pubblicato il 6 ottobre del 2016 come introduzione al questionario:

The Commission hopes to begin a healthy conversation about the viability of a uniform civil code and will focus on family laws of all religions and the diversity of customary practices, to address social injustice rather than plurality of laws. Responding to the demands of social change, the Commission will consider the opinions of all stake-holders and the general public to ensure that the norms of no one class, group or community dominate the tone or tenor of family law reforms.

Da questo breve passo emergono sia l’ambizione di questo progetto nella direzione della giustizia sociale che una delle preoccupazioni che hanno frenato il progetto, vale a dire Divorce amongst Christians in India: Section 10 Indian Divorce Act 1869 (1983); 164th Report on Indian

Divorce Act (4 of 1869) (2008).

25 Per una valutazione critica, che mette in luce i passi compiuti ed evidenzia alcuni punti critici rimanenti, si veda Kusum (2001)

26 Si vedano, ad esempio, il rapporto della Law Commission 227th Report on Preventing Bigamy via Conversion to Islam – A Proposal for giving Statutory Effect to Supreme Court Rulings (2009), e Lily Thomas vs. Union of India and Ors., Supreme Court of India, 5 aprile 2000.

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che l’uniformazione del diritto di famiglia finisca con il privilegiare gli hindu rispetto alle altre comunità.

In questo quadro interviene la recentissima sentenza sul caso Shayara Bano (Shayara Bano v. Union of India and Ors., Supreme Court of India, 22 agosto 2017) che ha pronunciato l’invalidità nell’ordinamento indiano del triplo talaq islamico per arbitrarietà e quindi contrarietà al principio di uguaglianza posto nell’art. 14 della Costituzione. La Corte si è pronunciata con una maggioranza di tre a due e le argomentazioni dei giudici toccano diversi aspetti relativi ai caratteri del talaq nel diritto islamico, al suo valore in base al Muslim Personal Law (Shariat) Application Act, 1937, alla questione generale del conflitto tra diritti personali e Costituzione. In un ideale collegamento con il caso Shah Bano e il caso Latifi, abbiamo un nuovo esempio di interpretazione del diritto islamico nel quadro costituzionale e una riproposizione del problema del rapporto tra giudiziario e legislativo nell’affrontare i delicati problemi che si pongono nei diritti personali. Non mancano infatti nella sentenza i riferimenti a un codice civile uniforme, approvato dal Parlamento, come strumento proprio per risolvere queste questioni.

Il dibattito sull’adozione del codice civile uniforme ha accompagnato tutta la storia dell’India indipendente ed ha profonde implicazioni27. Alcune si pongono sul piano

tecnico, e riguardano la difficoltà di redazione di un codice che superi il sistema dei diritti personali fornendo una disciplina organica a partire da diritti su alcuni aspetti molto diversi. Altre si pongono sul piano politico, e riguardano il timore, soprattutto della comunità musulmana, o di alcune sue parti, di vedere negata la propria specificità in un contesto a maggioranza hindu, secondo l’agenda politica della destra nazionalista. Ma le voci a favore o contro non sono raggruppabili in schieramenti omogenei contrapposti. Nell’assenza di una iniziativa legislativa nella direzione del codice civile uniforme, sono stati soprattutto i giudici a occuparsi della tutela dei diritti e dei profili di discriminazione che possono sorgere dall’applicazione del diritto su base personale. Il codice civile uniforme ha una forte valenza simbolica e può sembrare un passaggio necessario sulla via della modernizzazione del paese. Ci si può però anche chiedere se il codice civile uniforme sia uno strumento adatto o se, invece, il sistema attuale dei diritti personali applicati da Corti laiche nel quadro costituzionale e progressivamente armonizzati da una legislazione settoriale non possa in definitiva realizzare meglio di altri una adeguata gestione del pluralismo indiano (Menski 2008b). Si tratta quindi di un problema di grande complessità, che si può qui solo menzionare. In conclusione, si può però evidenziare che la fonte legislativa, che si tratti di una legge o di un vero e proprio codice, è sempre solo uno dei fattori, per quanto di grande importanza, che incidono sulla regolazione del diritto di famiglia, in India come altrove.

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