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Impatto prognostico del rimodellamento ventricolare nell'ipertensione arteriosa: uno studio ecocardiografico in pazienti asintomatici per scompenso cardiaco.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

_____________________________________________________________________________

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

Impatto prognostico del rimodellamento ventricolare

nell’ipertensione arteriosa: uno studio ecocardiografico

in pazienti asintomatici per scompenso cardiaco

Relatore:

Chiar.mo Prof. Vitantonio Di Bello

Tutor:

Dott. Iacopo Fabiani

Candidato:

Sig. Lorenzo Buselli

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INDICE

1 RIASSUNTO ...4 2 L’IPERTENSIONE ARTERIOSA ...5 2.1 Definizione ...5 2.2 Epidemiologia ...5 2.3 Patogenesi ...7 2.3.1 Volume intravascolare ...7

2.3.2 Sistema Nervoso Autonomo ...8

2.3.3 Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone ...9

2.3.4 Meccanismi vascolari ...9

2.4 Caratteristiche cliniche ...10

2.5 Valutazione diagnostica ...12

2.5.1 Misurazione della pressione arteriosa ...13

2.5.2 Anamnesi, esame obiettivo e indagini di laboratorio...19

2.6 Ricerca del danno d’organo asintomatico ...21

2.6.1 Cuore ...22

2.6.2 Vasi ...24

2.6.3 Rene ...25

2.6.4 Fondo oculare ...27

2.6.5 Cervello ...27

2.7 Valutazione del rischio cardiovascolare globale ...28

3 LA CARDIOPATIA IPERTENSIVA ...30

3.1 Caratteristiche istologiche e cellulari ...31

3.2 Patogenesi ...33

3.2.1 Fattori emodinamici coinvolti ...33

3.2.2 Fattori non emodinamici coinvolti ...34

3.3 Storia naturale ...36

4 L’ECOCARDIOGRAFIA NELLA VALUTAZIONE DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA NELL’ADULTO ...37

4.1 I parametri ecocardiografici principali nell’ipertensione arteriosa e le loro modificazioni...38

4.1.1 Misurazione della massa del ventricolo sinistro ...40

4.1.2 Identificazione dei pattern geometrici del rimodellamento ventricolare sinistro (classificazione a 4 stadi) ...43

4.2 Caratterizzazione tessutale ...45

4.3 Funzione sistolica del ventricolo sinistro nel paziente iperteso ...46

4.4 Funzione diastolica nel paziente iperteso ...50

5 LA CLASSIFICAZIONE DI GAASCH E ZILE DEL RIMODELLAMENTO VENTRICOLARE ...51

6 STUDIO CLINICO ...55

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3 6.2 Materiali e Metodi ...56 6.2.1 Popolazione di studio ...56 6.2.2 Esame ecocardiografico ...58 6.2.3 Analisi Statistica...59 6.3 Risultati ...60 6.3.1 Caratteristiche Generali ...60 6.3.2 Caratteristiche ecocardiografiche ...62 6.3.3 Eventi ...64 6.4 Discussione ...68

6.4.1 Il rimodellamento ventricolare sinistro nella patologia cardiaca ipertensiva: implicazioni funzionali e prognostiche. ...68

6.4.2 Il rimodellamento ventricolare sinistro e lo scompenso cardiaco: impatto dell’ipertensione arteriosa. ...70

6.5 Limitazioni ...71

6.6 Conclusioni ...72

7 BIBLIOGRAFIA ...73

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1 RIASSUNTO

Le evidenze attuali e pregresse indicano che i pazienti con ipertensione arteriosa e scompenso cardiaco subclinico (Stadio A e B) presentano un significativo rimodellamento del ventricolo sinistro. L’ipertensione arteriosa può portare allo sviluppo di insufficienza cardiaca sia mediante fenomeni patologici come l’infarto del miocardio che per l’instaurarsi e la progressione della cardiopatia ipertensiva, in cui il processo di rimodellamento cardiaco ha un ruolo preminente. L’obiettivo dello studio era di valutare l’impatto prognostico, rispetto alla classificazione tradizionale, della classificazione CRC, che descrive il rimodellamento ventricolare tramite la massa ventricolare sinistra indicizzata, lo spessore parietale relativo e il volume tele-diastolico indicizzato del ventricolo sinistro, nei pazienti ipertesi. Un gruppo di 749 soggetti ipertesi è stato osservato per un periodo di 60 mesi e valutato sia clinicamente che per mezzo dell’ecocardiografia. È stato considerato un end-point composito: mortalità totale, infarto del miocardio, rivascolarizzazione coronarica, eventi cerebrovascolari ed edema polmonare acuto. All’analisi ecocardiografica è emersa la presenza di 292 pazienti con morfologia normale o ipertrofia fisiologica, di 102 pazienti con rimodellamento concentrico, 29 pazienti con rimodellamento eccentrico, di 11 pazienti con ipertrofia mista, di 52 pazienti con ipertrofia dilatativa, di 36 pazienti con ipertrofia eccentrica e di 157 pazienti con ipertrofia concentrica. Al termine del follow-up, l’analisi di Kaplan-Meier ha mostrato come ci fosse una differente distribuzione di sopravvivenza (p=0.0001) per i pattern di rimodellamento secondo la CRC e nell’analisi di regressione multipla di Cox (aggiustata per età, sesso, disfunzione sistolica e diastolica, cardiopatia ischemica stabile, livelli di ipertensione arteriosa, tabagismo, storia familiare, diabete mellito, obesità, classificazione classica e classificazione complessa del rimodellamento) la CRC si è dimostrata un fattore predittivo indipendente per l’end-point (p=0.01, OR=1.85, 95% CI 1.20 e 2.86). Tali dati sono stati confermati dalla regressione logistica (p=0.016). In conclusione, la CRC può fornire informazioni aggiuntive per la stratificazione prognostica degli ipertesi.

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2 L’IPERTENSIONE ARTERIOSA

2.1 Definizione

L’ipertensione arteriosa è una patologia cronica asintomatica che può danneggiare i vasi sanguigni, il cuore, i reni e l’encefalo. Essa viene diagnosticata, negli adulti, per la presenza costante di valori clinici di pressione arteriosa sistolica maggiori o uguali a 140mmHg e/o da valori clinici di pressione arteriosa diastolica maggiori o uguali a 90mmHg. Tale cut-off è stato stabilito tramite studi clinici randomizzati in cui i pazienti che presentavano tali valori di pressione arteriosa avevano un beneficio dalla riduzione pressoria indotta dal trattamento farmacologico. Nei bambini e negli adolescenti, invece, i criteri per la diagnosi di ipertensione arteriosa sono diversi e si basano sui percentili. In base ai valori pressori, è possibile classificare i soggetti ipertesi in tre stadi di gravità crescente, come evidenziato nella tabella 1.

Categoria Sistolica Diastolica

Ottimale <120 mmHg e <80 mmHg

Normale 120-129 mmHg e/o 80-84 mmHg

Normale-alta 130-139 mmHg e/o 85-89 mmHg

Ipertensione di stadio 1 140-159 mmHg e/o 90-99 mmHg

Ipertensione di stadio 2 160-179 mmHg e/o 100-109 mmHg

Ipertensione di stadio 3 ≥180 mmHg e/o ≥100 mmHg

Ipertensione sistolica isolata ≥140 mmHg e <90 mmHg

Tabella 1. Stadi dell'ipertensione arteriosa secondo le linee guida ESH/ESC 2013

La categoria di pressione arteriosa è definita dal massimo livello di pressione misurato, sia diastolico che sistolico. La categoria normale-alta non è considerata patologica ma conferisce un rischio aumentato di sviluppare ipertensione arteriosa vera. L’ipertensione sistolica isolata è una condizione tipica dell’anziano e deve essere classificata nello stadio 1, 2 o 3 in base ai valori di pressione sistolica.

2.2 Epidemiologia

La prevalenza di questa patologia è stimata essere tra il 30% e il 45% della popolazione generale, con un netto incremento della sua incidenza all’aumentare dell’età1: infatti si

calcola che tale condizione abbia una prevalenza di circa il 65.4% nei soggetti di età maggiore ai 60 anni. La pressione arteriosa sistolica e la pressione arteriosa diastolica

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hanno, inoltre, un comportamento diverso nel corso dell’invecchiamento. La pressione sanguigna sistolica subisce un incremento costante all’aumentare dell’età e gli uomini presentano valori più elevati rispetto alle donne prima dei 50 anni, ma nel sesso femminile si verifica un brusco aumento in seguito alla menopausa, per cui, dopo i 60 anni, i valori di pressione arteriosa sistolica risultano più elevati nelle donne rispetto agli uomini e ciò suggerisce un ruolo protettivo esercitato dagli estrogeni in età fertile. La pressione arteriosa diastolica, invece, aumenta parallelamente alla pressione sistolica fino all’età di circa 55 anni, per poi decrescere negli anni successivi. In questo modo, si viene a produrre un aumento della pressione pulsatoria (ovvero la differenza tra la pressione sistolica e la diastolica) a partire da 60 anni. La prevalenza dell’ipertensione arteriosa, inoltre, varia notevolmente nelle diverse etnie: negli Stati Uniti, infatti, la prevalenza dell’ipertensione è del 20.7% nei latino-americani, del 28.9% nei bianchi non-ispanici e del 33.5% nei neri non-ispanici. In questi ultimi, l’ipertensione arteriosa compare prima, è generalmente più grave e risulta in un più alto tasso di morbidità e mortalità per ictus, ipertrofia ventricolare sinistra, scompenso cardiaco cronico e insufficienza renale cronica terminale rispetto ai bianchi. Tali dati suggeriscono la presenza di una componente genetica che concorre allo sviluppo della patologia: studi sulla familiarità condotti in ambiente controllato hanno evidenziato come fattori ereditari contribuiscano dal 15% al 30% circa allo sviluppo di ipertensione arteriosa. A questi si aggiungono studi effettuati su gemelli in cui l’ereditarietà stimata per la pressione arteriosa è risultata di circa il 60% per i maschi e del 30-40% per le femmine. Ad oggi, comunque, solo una minima percentuale di casi di ipertensione arteriosa è causata da specifiche mutazioni in un singolo gene. Infine, l’ipertensione arteriosa varia tra diversi paesi nel mondo, con maggiore incidenza nei paesi industrializzati Europei come Germania, Finlandia e Spagna e minore nei paesi in via di sviluppo come la Nigeria. Nonostante questo, l’incidenza dell’ipertensione arteriosa è in aumento nei paesi in via di sviluppo: questo suggerisce una forte influenza dei fattori ambientali e comportamentali nello sviluppo di tale patologia. Tale evidenza è supportata anche da studi effettuati sui migranti da aree a basso sviluppo verso aree sviluppate che hanno evidenziato come l’obesità e l’aumento di peso siano fattori di rischio indipendenti per lo sviluppo di ipertensione arteriosa. Altri fattori ambientali che si ritiene possano contribuire allo sviluppo di questa patologia sono: l’abuso di alcol, lo stress psico-sociale e la ridotta attività fisica. La prevalenza dell’ipertensione arteriosa nella popolazione generale è anche correlata all’introito

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alimentare di NaCl, per cui una sua elevata assunzione può contribuire allo sviluppo di elevati valori pressori.

2.3 Patogenesi

Le cause che concorrono allo sviluppo dell’ipertensione arteriosa sono molteplici e coinvolgono l’aumento e/o la diminuzione di funzione da parte di fattori neurologici, ormonali, renali e cardiovascolari. La pressione arteriosa, infatti, è determinata dalla portata cardiaca e dalle resistenze vascolari periferiche. La portata cardiaca è determinata dalla frequenza cardiaca e dalla gittata sistolica, che a sua volta è condizionata dalla contrattilità cardiaca e dal volume del compartimento vascolare, mentre le resistenze periferiche sono determinate dalle caratteristiche anatomiche e funzionali delle arterie di piccolo calibro (diametro 100-400 µm) e delle arteriole.

2.3.1 Volume intravascolare

Il sodio è il principale catione extracellulare ed il più importante responsabile del volume dei fluidi extracellulari. L’incremento dell’assunzione di sale può determinare, inizialmente, un aumento del volume vascolare con conseguente aumento della portata cardiaca e, quindi, della pressione arteriosa. Poiché il flusso ematico deve essere mantenuto costante e non deve essere soggetto a modificazioni in base ai valori pressori, in risposta all’aumento pressorio si verifica l’aumento delle resistenze periferiche che permette al flusso di rimanere costante. Tale fenomeno è detto di autoregolazione. Con il passare del tempo, comunque, il volume vascolare tende a normalizzarsi mentre le resistenze periferiche restano più elevate. In realtà, non è chiaro quanto tale meccanismo patogenetico contribuisca allo sviluppo dell’ipertensione arteriosa ma ciò che è certo, invece, è che il sodio possa attivare diversi meccanismi neurali, endocrini, paracrini e vascolari capaci di aumentare la pressione arteriosa. Infatti, un’elevata assunzione giornaliera di sodio viene compensata da una sua elevata escrezione urinaria, così da mantenere costante la sua concentrazione tessutale, ma a spese di un’aumentata pressione arteriosa: tale fenomeno è detto natriuresi pressoria. Esso consiste nell’aumento dell’escrezione di sodio e acqua indotto dall’incremento della pressione arteriosa per l’aumento della filtrazione glomerulare e per la diminuzione del riassorbimento tubulare di sodio. Il bilancio del sodio può essere alterato, inoltre, da altre condizioni quali, ad esempio, malattie renali che ne riducano la funzione globale, o per l’aumento della produzione di ormoni con attività sodio-ritentiva, oppure per l’aumento dell’attività

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adrenergica renale. In tutte queste situazioni, è necessario un aumento della pressione arteriosa affinché il bilancio del sodio venga mantenuto costante. L’esempio più evidente del ruolo dell’espansione del volume vascolare nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa si ha nell’insufficienza renale cronica allo stadio terminale, in cui in circa l’80% dei pazienti l’ipertensione viene controllata tramite la dialisi.

2.3.2 Sistema Nervoso Autonomo

La pressione arteriosa viene controllata istante per istante da riflessi che modulano il tono del sistema nervoso autonomo. Inoltre, tale sistema controlla la secrezione adrenergica della midollare del surrene, che è coinvolta nel controllo a lungo termine della pressione sanguigna insieme a fattori ormonali e alla variazione dei volumi corporei.

Il principale riflesso con cui il sistema nervoso autonomo modula la pressione arteriosa istante per istante è mediato dai barocettori del seno carotideo e dell’arco aortico. Il loro stiramento determinato da un’elevata pressione sanguigna provoca l’aumento della loro frequenza di scarica, con conseguente diminuzione del tono simpatico sistemico. Il contrario accade, invece, nel momento in cui la pressione sanguigna diminuisce. Questa risposta rapida permette di regolare la pressione sanguigna in base ai cambiamenti posturali, comportamentali o del volume ematico. Nei soggetti ipertesi, però, si verifica l’adattamento dell’attività dei barocettori, che diminuiscono la loro frequenza di scarica e si resettano su livelli di pressione arteriosa più elevati.

L’attività simpatica del sistema nervoso autonomo si esplica tramite i suoi neurotrasmettitori su numerosi target: sulla muscolatura liscia dei vasi sanguigni, determinandone la contrazione con conseguente aumento delle resistenze periferiche; sul miocardio, con effetto inotropo, cronotropo, dromotropo, batmotropo e lusitropo positivo; sul rene, dove determina l’aumento del riassorbimento tubulare di sodio e del rilascio di renina, con attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone. L’aumento del tono simpatico sostenuto nel tempo può, quindi, causare l’aumento della pressione arteriosa, anche grazie alla sua interazione con la funzionalità renale, che è primariamente implicata nel controllo sia a breve che a lungo termine del volume corporeo nonché della pressione arteriosa.

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2.3.3 Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone

Il sistema renina-angiotensina-aldosterone svolge un ruolo di primo piano nella regolazione della pressione arteriosa, per l’azione vasocostrittrice dell’angiotensina 2, e nella regolazione del volume dei liquidi corporei, per l’attività sodio-ritentiva dell’aldosterone. La renina è una proteasi che viene prodotta dalle cellule dell’arteriola afferente renale e viene secreta nella circolazione sanguigna principalmente per tre tipi di stimolo:

• Diminuzione della quantità di NaCl all’interno del lume del tratto ascendente spesso dell’ansa di Henle, che viene rilevata dalla macula densa;

• Diminuzione della pressione nell’arteriola afferente renale (meccanismo barorecettoriale);

• Aumento della stimolazione del sistema nervoso simpatico al rene, con attivazione dei recettori β1 sulle cellule secernenti.

Una volta immessa in circolo, la renina cliva l’angiotensinogeno di produzione epatica in angiotensina 1, un decapeptide, che a sua volta deve essere clivato a livello dell’estremità C-terminale da parte dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) per ottenere l’octapeptide attivo, ovvero l’angiotensina 2. Tale molecola esplica, tramite il suo recettore AT1, molteplici azioni: vasocostrizione, induzione della secrezione di aldosterone da parte della zona glomerulare della corteccia surrenale, potenziamento del tono simpatico, attività mitogena sulle cellule muscolari lisce e sui cardiomiociti. L’aldosterone, la cui secrezione può essere indotta anche da un’elevata potassiemia, ha una potente azione sodio-ritentiva, che avviene per l’attivazione dei canali epiteliali per il sodio a livello delle cellule principali del tubulo collettore distale renale. L’azione dell’aldosterone, comunque, non si esplica solo a livello renale, ma è diffusa in tutto l’organismo, poiché il recettore per i mineralcorticoidi è espresso anche a livello cardiaco e vascolare, dove si ritiene partecipi ai processi di fibrosi miocardica e di infiammazione e rimodellamento vascolare.

2.3.4 Meccanismi vascolari

Alla determinazione della pressione arteriosa danno un contributo importante il diametro e la compliance dei vasi arteriosi. In base alla legge di Poiseuille, la resistenza varia inversamente rispetto alla quarta potenza del raggio, per cui anche minime riduzioni nel calibro delle piccole arterie e arteriole generano una notevole resistenza al flusso ematico. Nei pazienti ipertesi, si verificano cambiamenti strutturali e funzionali che possono

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ridurre il diametro ed alterare l’elasticità dei vasi sanguigni. L’arteriosclerosi può portare all’aumento della rigidità della parete delle arterie, con conseguente aumento della pressione arteriosa sistolica e della pressione pulsatoria. La contrazione cardiaca determina l’emissione di un certo volume ematico nell’aorta, dove si genera una onda pressoria che si propaga lungo il vaso ad una certa velocità. Giunta a livello della biforcazione iliaca, l’onda pressoria si riflette e torna verso il cuore. La pressione pulsatoria è determinata dalla struttura delle grandi arterie e dall’ampiezza e dal tempismo delle onde pressorie dirette e riflesse. In base al tempismo con cui le onde si propagano, si genera un aumento della pressione sistolica e una diminuzione della pressione diastolica, che corrisponde ad un’aumentata pressione pulsatoria. La rigidità della parete aortica viene stimata tramite l’aortic augmentation index, ovvero il rapporto tra la pressione arteriosa centrale e la pressione pulsatoria. Gli studi dimostrano come l’aumento della pressione arteriosa centrale e dell’aortic augmentation index siano dei predittori indipendenti di eventi cardiovascolari e di mortalità totale.

Dal punto di vista funzionale, l’endotelio delle arterie ha un ruolo attivo nella modulazione del tono della muscolatura liscia vasale. Esso produce, infatti, sia fattori vasodilatanti (come l’ossido nitrico) sia fattori vasocostrittori (come l’endotelina). Attualmente, però, non si è certi se l’alterazione della funzionalità endoteliale sia un evento primario nella patogenesi dell’ipertensione arteriosa o se essa sia una conseguenza dell’ipertensione arteriosa stessa.

2.4 Caratteristiche cliniche

L’ipertensione arteriosa viene distinta clinicamente in ipertensione primitiva (o essenziale), in cui non si riesce ad identificare un agente eziologico scatenante, e in ipertensione secondaria, quando invece è possibile riconoscere una causa scatenante ben precisa. L’ipertensione arteriosa è una patologia cronica e asintomatica che danneggia silenziosamente gli organi bersaglio: vasi sanguigni, cuore, encefalo, reni. Inoltre, è riconosciuto come raddoppi il rischio per eventi cardiovascolari, come scompenso cardiaco, coronaropatia, ictus ischemico ed emorragico, insufficienza renale e arteriopatia periferica.

L’ipertensione arteriosa primitiva costituisce l’80-95% dei casi di ipertensione arteriosa e si ritiene che abbia origine dall’interazione tra fattori ambientali e fattori genetici propri di singoli pazienti. È documentata, infatti, la tendenza alla familiarità di questa patologia, nonostante i geni coinvolti siano molteplici e che ciascuno di essi contribuisca solo in

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piccola parte allo sviluppo dell’ipertensione arteriosa. I fattori ambientali con un ruolo nella patogenesi sono soprattutto di natura comportamentale e comprendono principalmente la dieta e l’esercizio fisico. L’obesità (BMI>30kg/m2), infatti, è associata

strettamente allo sviluppo dell’ipertensione arteriosa ed è stato stimato che il 60-70% dell’ipertensione arteriosa negli adulti sia causato dall’aumento di peso. L’accumulo adiposo in sede addominale, detto di tipo androide, è più strettamente associato allo sviluppo dell’ipertensione. L’elevato apporto di sale nella dieta è anch’esso correlato ad una maggiore incidenza di ipertensione arteriosa. L’ipertensione arteriosa viene considerata come uno dei segni con cui si manifesta la sindrome metabolica, che viene diagnosticata in un paziente che sia affetto anche da dislipidemia, alterazione della glicemia a digiuno e obesità. Queste evidenze mettono in luce come l’ipertensione arteriosa non sia una patologia omogenea nella popolazione, ma che si manifesti, piuttosto, con un ampio spettro di fenotipi patologici. Infatti, nella maggior parte dei pazienti affetti, si verifica un incremento delle resistenze periferiche con una portata cardiaca normale, mentre nei pazienti più giovani o con ipertensione più lieve si può verificare l’opposto. Un’ulteriore prova si ottiene analizzando il valore di attività reninica plasmatica (PRA) normalizzata per il valore dell’escrezione urinaria di sodio: circa nel 15% dei pazienti ipertesi si evidenzia un aumento della PRA, mentre in circa il 25% si osserva una diminuita PRA. Probabilmente i primi hanno una forma di ipertensione arteriosa in cui gioca un ruolo importante l’aumento delle resistenze periferiche, mentre per i secondi l’aumento del volume circolante possiede un ruolo maggiore nella patogenesi dell’ipertensione. Inoltre, i valori di aldosterone circolante sono stati variamente e incostantemente associati ai livelli di pressione arteriosa nei pazienti con ipertensione primitiva. L’associazione tra i livelli sierici di aldosterone e l’incremento dei valori pressori è più evidente negli Afroamericani, in cui viene più frequentemente rilavata anche una minore attività reninica plasmatica. Si ritiene, perciò, che possa esistere un sottogruppo di pazienti in cui l’aumento subclinico dei livelli di aldosterone plasmatico possa contribuire allo sviluppo dell’ipertensione arteriosa senza la presenza di iperaldostronismo primario evidente.

L’ipertensione arteriosa secondaria costituisce il 5-20% dei casi di ipertensione arteriosa e, in questo caso, gli elevati valori pressori sono causati da un fattore eziologico ben preciso, la cui eliminazione o il cui controllo permettono di normalizzare anche i valori pressori. Tra le cause di ipertensione arteriosa secondaria possono essere annoverate sia patologie ereditarie (monogeniche) che acquisite, nonché l’assunzione di determinati

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farmaci o di sostanze sia stupefacenti che non. Le principali cause di ipertensione secondaria sono elencate nella tabella 2.

Organo o apparato coinvolto Possibili patologie che determinano

ipertensione

Rene Malattie parenchimali, cistiche (incluso il rene

policistico), tumori renali, (inclusi tumori secernenti renina), uropatia ostruttiva.

Arteria Renale Aterosclerosi o fibrodisplasia dell’arteria renale

Surrene Iperaldosteronismo primitivo, sindrome di

Cushing, deficit di 17α-idrossilasi, deficit di 11β-idrossilasi, deficit di 11-idrossisteroido-deidrogenasi (anche dovuto ad abuso di liquirizia), feocromocitoma.

Preeclampsia/Eclampsia Apnee ostruttive del sonno

Endocrinologiche Ipertiroidismo, ipotiroidismo, ipercalcemia,

acromegalia

Patologie psichiatriche, sindrome diencefalica,

disautonomia familiare, polineuriti (porfiria acuta e avvelenamento), ipertensione endocranica, trauma spinale acuto.

Malattie ereditarie monogeniche sindrome di Liddle, psudoipoaldosteronismo di tipo 2, MEN 2A, MEN 2B, ipertensione esacerbata dalla gravidanza.

Farmaci Estrogeni ad alto dosaggio, corticosteroidi,

decongestionanti, soppressori dell’appetito, ciclosporine, antidepressivi triciclici, inibitori delle monoamino-ossidasi, eritropoietina, FANS, cocaina.

Tabella 2. Possibili cause di ipertensione secondaria, che devono essere accuratamente identificate in fase diagnostica poiché spesso la loro cura determina la scomparsa dell'ipertensione stessa.

2.5 Valutazione diagnostica

La valutazione diagnostica iniziale dei pazienti con sospetto di ipertensione arteriosa dovrebbe includere la conferma degli elevati valori pressori così da confermare la diagnosi. Successivamente dovrebbero essere indagate ed identificate eventuali cause di

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ipertensione secondaria. Infine, il medico dovrebbe valutare il rischio cardiovascolare globale, il danno d’organo asintomatico e le altre condizioni cliniche associate. Tutto ciò richiede la rilevazione della pressione arteriosa, la raccolta dell’anamnesi, l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio ed altri esami strumentali.

2.5.1 Misurazione della pressione arteriosa

La pressione arteriosa è un parametro fortemente variabile sia durante l’arco della giornata sia a causa delle attività svolte dagli individui. Per questo, la singola valutazione clinica della pressione arteriosa può essere insufficiente e sono state elaborate tecniche di misurazione capaci di registrare i valori pressori per tutto l’arco della giornata. È noto, infatti, come la pressione arteriosa subisca un rialzo quando misurata in ambiente medico (principalmente a causa dello stress emotivo) e come ciò possa falsificare le informazioni dedotte dal personale sanitario.

In ambito clinico, la pressione arteriosa viene misurata tramite sfigmomanometri semiautomatici auscultatori od oscillometrici. Tali apparecchi dovrebbero essere validati seguendo protocolli standardizzati e la loro accuratezza dovrebbe essere valutata periodicamente dai laboratori tecnici preposti2. La misurazione al braccio è da preferire,

avendo cura di scegliere un bracciale di dimensioni adeguate alla circonferenza dell’arto. Alla prima misurazione, la pressione arteriosa dovrebbe essere valutata ad entrambi gli arti superiori e, in caso di differenza elevata e costante (>10 mmHg) tra i valori di pressione arteriosa sistolica, dovrebbe essere utilizzata come riferimento quella più alta. La presenza di tale differenza si associa ad un aumentato rischio cardiovascolare3. Nei soggetti anziani, nei soggetti diabetici o in altre condizioni in cui può essere sospettata la presenza di ipotensione ortostatica è raccomandato misurare la pressione sanguigna anche 1-3 minuti dopo aver fatto assumere al paziente la stazione eretta. L’ipotensione ortostatica è definita come la diminuzione della pressione arteriosa sistolica maggiore di 20 mmHg o della pressione arteriosa diastolica maggiore di 10 mmHg entro 3 minuti dall’assunzione della posizione ortostatica. Tale condizione conferisce una peggior prognosi per mortalità e per eventi cardiovascolari4,5. Per misurare la pressione arteriosa clinica, il paziente deve essere fatto accomodare in un ambiente confortevole e tranquillo, consentendogli di rimanere seduto per 3-5 minuti prima di procedere con le misurazioni. Successivamente, devono essere ottenute almeno due misurazioni a distanza di 1-2 minuti l’una dall’altra. Se le due misurazioni offrono valori molto diversi, è necessario procedere a nuove misurazioni. Se viene ritenuto opportuno, può essere considerata la media delle

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misurazioni effettuate. In pazienti con aritmie, come in caso di fibrillazione atriale, è consigliato effettuare misurazioni multiple per migliorare l’accuratezza della valutazione. Il bracciale da utilizzare deve essere di dimensioni standard (12-13 cm di altezza e 35 cm di lunghezza), ma deve essere utilizzato un bracciale di dimensioni maggiori o minori in caso, rispettivamente, di soggetti obesi o magri. Il bracciale deve essere posto a livello del cuore durante la misurazione, qualunque sia la posizione che assume il paziente. In caso di misurazione tramite il metodo auscultatorio, devono essere rilevati il I e il V (scomparsa) tono di Korotkoff, che corrispondono, rispettivamente, alla pressione arteriosa sistolica e alla pressione arteriosa diastolica1. Dopo la misurazione della pressione arteriosa, deve essere sempre eseguita la misurazione della frequenza cardiaca, tramite il metodo palpatorio eseguito per almeno 30 secondi, poiché la frequenza cardiaca a riposo rappresenta un fattore predittivo indipendente di morbilità e mortalità cardiovascolare nei soggetti ipertesi6,7.

Per la notevole variabilità dei valori pressori, non è opportuno limitarsi a registrarli solo durante la visita clinica, ma è più conveniente ottenere delle registrazioni al di fuori dell’ambiente medico: infatti, esse riflettono meglio i valori reali della pressione sanguigna del soggetto. La pressione rilevata al di fuori dell’ambiente medico è generalmente valutata mediante il monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa (ABPM) o mediante il monitoraggio domiciliare della pressione arteriosa (HBPM), quest’ultima rilevata in autonomia dal paziente. Entrambe le procedure dovrebbero essere spiegate adeguatamente al paziente, con istruzioni sia verbali che scritte; in aggiunta, l’automisurazione richiede un training appropriato da effettuare sotto supervisione medica. L’interpretazione dei valori ottenuti deve avvenire considerando che la riproducibilità delle pressioni domiciliari e ambulatorie è ragionevolmente buona per la media delle 24 ore, per la media diurna e per la media notturna, ma risulta inferiore per periodi più brevi compresi nelle 24 ore e per gli indici derivati più complessi8. L’ABPM e l’HBPM offrono al medico informazioni differenti sull’andamento dei valori pressori e sul rischio del soggetto: non dovrebbero essere considerate come metodiche alternative ma come metodiche complementari. Gli strumenti utilizzati in queste due metodiche dovrebbero essere valutati e validati secondo standard internazionali e dovrebbero essere mantenuti in modo corretto con periodiche calibrazioni, al massimo ogni 6 mesi. La misurazione della pressione clinica è di solito maggiore rispetto alla pressione ambulatoria e alla pressione domiciliare e la differenza è maggiore quanto più elevata è la pressione clinica del soggetto. Per questo, i valori di cut-off per la definizione di

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ipertensione ambulatoria e domiciliare sono diversi rispetto a quella clinica e sono stati individuati, in base alle linee guida e in accordo con il gruppo di lavoro dell’ESH sul Monitoraggio della pressione arteriosa, come nella tabella 3 9-12.

Categoria Pressione arteriosa sistolica (mmHg) Pressione arteriosa diastolica (mmHg)

Pressione arteriosa clinica ≥140 e/o ≥90

Pressione arteriosa ambulatoriale: • Diurna (o veglia) • Notturna (o sonno) • 24 ore ≥135 ≥120 ≥130 e/o e/o e/o ≥85 ≥70 ≥80

Pressione arteriosa domiciliare ≥135 e/o ≥85

Tabella 3. Valori di pressione arteriosa clinica, ambulatoriale e domiciliare con cui si può porre la diagnosi di ipertensione arteriosa.

Numerosi aspetti metodologici che riguardano la pressione ambulatoria sono stati presi in considerazione dal Gruppo di Lavoro sul Monitoraggio della pressione arteriosa dell’ESH9,10. Per eseguire il monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa, il

paziente deve indossare per un periodo di 24-25 ore un apparecchio per il monitoraggio della pressione sul braccio non dominante. Il paziente deve essere istruito ad eseguire le normali attività quotidiane (senza compiere esercizi troppo intensi) e, nel momento del gonfiaggio, non eseguire movimenti e mantenere il braccio al livello del cuore. Le misurazioni sono programmate ogni 15 minuti durante il periodo di veglia e ogni 30 minuti nel periodo notturno. Le misurazioni così ottenute vengono registrate dall’apparecchio e successivamente scaricate sul computer dei medici. Al paziente viene fornito, inoltre, un diario dove deve annotare l’orario di assunzione dei farmaci, dei pasti e l’orario del periodo di sonno, insieme ad altri eventi occorsi che potrebbero, a suo parere, influenzare la pressione arteriosa. Per risultare valido, l’esame deve includere almeno il 70% sia delle registrazioni diurne che delle registrazioni notturne, altrimenti deve essere ripetuto. Si deve tenere conto che le registrazioni possono essere inaccurate quando il ritmo cardiaco è irregolare13. Le principali informazioni ottenute da questa metodica sono: il grafico dell’andamento pressorio durante il periodo di osservazione, la media diurna, la media notturna e la media delle 24 ore. La pressione si riduce fisiologicamente durante la notte (tale avvenimento è definito “dipping”) e, sebbene tale

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fenomeno abbia una distribuzione normale nella popolazione, vi è accordo comune nel considerare fisiologico il calo notturno quando sia maggiore del 10% della pressione arteriosa diurna. Per valutare questa condizione viene utilizzato il rapporto notte/giorno, ovvero il rapporto tra la pressione media notturna e la pressione media diurna. È stata proposta una classificazione:

1. Assenza del fenomeno “dipping”, ovvero aumentata pressione notturna (rapporto >1.0)

2. “Dipping” lieve (rapporto compreso tre 0.9 e 1.0) 3. “Dipping” (rapporto compreso tra 0.9 e 0.8) 4. “Dipping” estremo (rapporto <0.8)

Le possibili cause per l’assenza di questo fenomeno sono numerose, tra cui: i disturbi del sonno, la sindrome delle apnee notturne, l’obesità, l’elevata assunzione di sale in soggetti sensibili al sodio, l’ipotensione ortostatica, la disfunzione autonomica, l’insufficienza renale cronica, la neuropatia diabetica e l’età avanzata. È necessario, comunque, tenere in considerazione la scarsa riproducibilità di questo parametro14,15. Gli indici che possono essere calcolati con l’ABPM sono molteplici: la variabilità della pressione arteriosa16, il

“morning surge”17-19, il carico pressorio20 e l’indice di rigidità arteriosa ambulatoria19,21.

Tuttavia, tali indici non sono ancora stati validati per la pratica clinica e non è chiaro quale sia il loro valore predittivo addizionale, per cui il loro utilizzo è ancora sperimentale. Alcuni studi hanno dimostrato come, nei pazienti ipertesi, i valori di pressione ambulatoria correlino meglio con l’ipertrofia ventricolare sinistra, con l’ispessimento mio-intimale e con altri marker di danno d’organo rispetto alla pressione arteriosa clinica22,23. Inoltre, è evidente che la pressione arteriosa delle 24 ore possiede

una maggiore relazione con la mortalità e con gli eventi rispetto alla pressione arteriosa clinica24-27. La pressione arteriosa ambulatoria rappresenta un fattore predittivo di rischio cardiovascolare più sensibile della pressione arteriosa clinica. La superiorità della pressione ambulatoria è stata dimostrata nella popolazione generale, nei giovani ed anziani, in uomini e donne, in ipertesi trattati e non, in pazienti ad alto rischio e con patologia cardiovascolare o renale28-32. La pressione media notturna si è rivelata un fattore predittivo più forte rispetto a quella diurna29,33. Il rapporto notte/giorno è un fattore predittivo significativo di outcome cardiovascolare clinico, ma possiede uno scarso valore prognostico aggiuntivo rispetto alla pressione media delle 24 ore. L’evidenza, inoltre, suggerisce come l’incidenza di eventi cardiovascolari sia maggiore nei pazienti con una minore caduta pressoria notturna28,30,31,34,35. Bisogna considerare,

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però, che la ridotta riproducibilità di tale fenomeno limita l’affidabilità dei risultati tra i gruppi con piccole differenze nel grado di ipotensione notturna28,30,31,34. È stato rilevato,

inoltre, come i soggetti con “dipping” marcato possano avere un aumentato rischio di ictus36. Comunque, i dati di un aumentato rischio cardiovascolare nei “dipper” estremi

non sono univoci e, quindi, il significato clinico di tale fenomeno rimane ancora incerto28,34.

Il Gruppo di Lavoro ESH sul Monitoraggio della pressione arteriosa domiciliare ha proposto una serie di raccomandazioni per l’HBPM11,12. Il monitoraggio richiede un

misuratore semi-automatico della pressione arteriosa. Per la valutazione diagnostica la pressione arteriosa dovrebbe essere misurata per almeno 3-4 giorni consecutivi e preferibilmente per 7 giorni consecutivi, al mattino così come alla sera. Il paziente dovrebbe essere istruito a misurare la pressione in una stanza tranquilla, seduto con schiena e braccio supportati, dopo 5 minuti di riposo. A questo punto, dovrebbe effettuare due misurazioni a distanza di 1-2 minuti l’una dall’altra e annotare la media tra le due su un diario standardizzato. La pressione domiciliare è la media di queste misurazioni ad esclusione dei valori registrati il primo giorno. L’interpretazione dei risultati, ovviamente, dovrebbe sempre essere fatta dal medico. Rispetto alla pressione arteriosa clinica, la pressione domiciliare offre un numero maggiore di misurazioni distribuite su più giorni o periodi ancora più lunghi ed effettuate nell’ambiente del paziente. In confronto al monitoraggio ambulatorio della pressione, l’HBPM è maggiormente disponibile, più facilmente ripetibile, poco costosa e consente di ottenere misurazioni per un periodo di tempo più lungo37. A differenza dell’ABPM, però, non consente di ottenere informazioni circa le variazioni della pressione sanguigna durante la routine quotidiana, le attività diurne e il sonno38. Dal punto di vista prognostico, la pressione arteriosa domiciliare è più strettamente correlata al danno d’organo (soprattutto per l’ipertrofia ventricolare sinistra) rispetto alla pressione clinica22,23. Recenti meta-analisi evidenziano come il livello predittivo di mortalità e morbilità cardiovascolare della pressione domiciliare sia superiore rispetto alla pressione clinica39,40. Gli studi in cui è stato eseguito sia il monitoraggio ambulatoria che domiciliare della pressione arteriosa dimostrano che non ci sono differenze tra le due metodiche nella correlazione con il danno d’organo22,23 e che il

significato prognostico della pressione domiciliare, dopo essere stato corretto per età e sesso, è simile a quello della pressione ambulatoria 41,42.

Come già descritto precedentemente, la pressione arteriosa clinica è di solito più elevata rispetto alla pressione rilevata al di fuori dell’ambiente medico. Questo fenomeno viene

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attribuito ad una risposta di allarme, all’ansia e/o ad una risposta condizionata ad una situazione inusuale43. Quando questo fenomeno si ripete con regolarità e costanza, si

parla di “ipertensione da camice bianco” o “ipertensione clinica isolata”, che è definita come la condizione in cui la pressione rilevata nello studio medico è ripetutamente

elevata mentre una pressione rilevata o con ABPM o con HBPM è normale1. In base ai

dati ricavati da 4 studi di popolazione, la prevalenza dell’ipertensione da camice bianco è stimata essere del 13% circa (range 9-16%) ed ammonta a circa il 32% degli ipertesi in questi studi (range 25-46%)44. Le variabili correlate all’aumento della sua prevalenza

sono: età, sesso femminile e assenza di abitudine al fumo; mentre quelle correlate con una prevalenza minore sono: presenza di danno d’organo, la presenza di ripetute valutazione della pressione clinica e la misurazione effettuata da personale sanitario non medico45,46. Rispetto ai soggetti affetti da ipertensione vera, gli ipertesi da camice bianco hanno una minore frequenza di danno d’organo e di eventi cardiovascolari42,44,47,48. Rispetto ai veri normotesi, però, gli ipertesi da camice bianco presentano una pressione al di fuori dello studio medico più alta42,44, una maggiore incidenza di danno d’organo asintomatico, ad esempio l’ipertrofia ventricolare sinistra49, e un rischio metabolico più elevato, con possibile sviluppo di diabete o progressione verso l’ipertensione stabile50,51. Non è chiaro, perciò, se i soggetti affetti da ipertensione da camice bianco possano essere considerati simili ai normotesi, poiché in alcuni studi il rischio cardiovascolare a lungo termine è risultato essere intermedio rispetto ai veri ipertesi e ai veri normotesi42, mentre nelle meta-analisi il loro rischio (aggiustato per età, sesso ed altre variabili) non differisce significativamente rispetto ai veri normotesi44,47,48.

Al contrario, la pressione può risultare normale nello studio medico ma essere alterata al di fuori di esso: in questo caso si parla di “ipertensione mascherata” o “ipertensione ambulatoria isolata”. Negli studi di popolazione, la prevalenza media di questa condizione è del 13% (range 10-17%)44. È stato evidenziato come molti ed eterogenei fattori si associno a questa condizione, ad esempio: la giovane età, il sesso maschile, il fumo, il consumo di alcool, l’attività fisica, l’ansia, lo stress lavorativo, l’obesità, il diabete, l’insufficienza renale e la storia familiare di ipertensione; inoltre, la sua prevalenza è maggiore quando la pressione clinica è nello stadio normale-elevata52. In base ai dati riportati in meta-analisi su studi prospettici, i soggetti con ipertensione mascherata risultano avere un’incidenza di eventi cardiovascolari maggiore di 2 volte rispetto ai veri normotesi e simile all’incidenza nei soggetti con ipertensione sostenuta44,47,52.

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La pressione arteriosa clinica rappresenta il gold standard per lo screening, la diagnosi e il trattamento dell’ipertensione arteriosa. Tuttavia, i valori di pressione sanguigna rilevati al di fuori dell’ambiente medico sono un importante parametro addizionale rispetto alla pressione clinica. Infatti, sia l’ABPM che l’HBPM forniscono informazioni fondamentali sia dal punto di vista diagnostico che della gestione terapeutica dei soggetti ipertesi. La scelta tra le due metodiche dipende dalla disponibilità, dal costo e dall’appropriatezza in base alla preferenza del paziente. Tutti gli ipertesi dovrebbero familiarizzare con l’HBPM per ottimizzare il follow-up. Le indicazioni cliniche per effettuare il monitoraggio domiciliare o ambulatorio sono: sospetto di ipertensione da camice bianco, sospetto di ipertensione mascherata, identificazione dell’effetto camice bianco nei soggetti ipertesi, marcata variabilità dei valori pressori tra visite o nella stessa visita, ipotensione autonomica o post-prandiale o indotta da farmaci o dal riposo, elevata pressione clinica o sospetta pre-eclampsia in donne in gravidanza, identificazione dei veri e falsi ipertesi resistenti1. Il monitoraggio ambulatorio, inoltre, possiede delle indicazioni specifiche al suo impiego quando è presente una marcata differenza tra la pressione clinica e quella domiciliare, quando è necessario valutare il profilo “dipping”, quando è presente il sospetto di ipertensione notturna o assenza del “dipping” in pazienti con apnee notturne o diabete o insufficienza renale e quando si ha necessità di valutare la variabilità della pressione arteriosa1.

2.5.2 Anamnesi, esame obiettivo e indagini di laboratorio

L’anamnesi è fondamentale, come in qualsiasi ambito medico, nei pazienti con ipertensione arteriosa e deve evidenziare le attuali e precedenti misurazioni della pressione arteriosa (incluse le misurazioni domiciliari), i possibili indicatori di ipertensione secondaria, i fattori di rischio associati, la presenza di sintomi di danno d’organo o di malattia cardiovascolare e, infine, ottenere informazioni circa la gestione della patologia ipertensiva stessa. Per indagare la possibile presenza di ipertensione secondaria è necessario ottenere informazioni circa la familiarità per insufficienza renale (rene policistico), la presenza di patologie renali, infezioni del tratto urinario, ematuria, la presenza di pregressi episodi di sudorazione con palpitazioni e mal di testa (tipici del feocromocitoma o dei paragangliomi), la presenza di episodi pregressi di tetania e debolezza muscolare (iperaldosteronismo), oppure la presenza di sintomi suggestivi di patologia tiroidea. Inoltre, devono essere ottenute informazioni circa l’assunzione di sostanze che potrebbero essere alla base del rialzo pressorio, come l’uso di contraccettivi

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orali, liquirizia, gocce nasali, steroidi, FANS, eritropoietina, ciclosporina oppure cocaina e anfetamine. Poiché l’ipertensione arteriosa è responsabile di un aumentato rischio di complicanze renali e cardiovascolari (cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco, ictus, arteriopatie periferiche), è necessaria un’attenta anamnesi dei precedenti eventi cardiovascolari e delle patologie concomitanti così da effettuare una corretta stratificazione del rischio cardiovascolare globale del paziente. Deve essere indagata la presenza e la familiarità per dislipidemia e diabete mellito, l’abitudine al fumo, il tipo di dieta seguita, la quantità di attività fisica praticata e la presenza di roncopatia o di apnee del sonno (traendo informazioni anche dal partner). In tutti i pazienti dovrebbero essere ricercati anche sintomi di danno d’organo o malattia cardiovascolare, quindi l’indagine anamnestica si dovrebbe rivolgere anche a sintomi derivanti da danni cerebrali od oculari (mal di testa, vertigini, attacchi ischemici transitori), da patologia cardiaca (dolore toracico, dispnea, sincope, gonfiore agli arti inferiori), da malattia renale (poliuria, ematuria), da arteriopatia periferica (claudicatio intermittens, estremità fredde, assenza di sensibilità ai piedi). Infine, l’anamnesi dove mirare a raccogliere informazioni riguardo la gestione dell’ipertensione stessa, tramite l’enunciazione degli attuali farmaci impiegati, delle terapie pregresse, nonché del livello di aderenza alla terapia e degli eventuali effetti avversi dei farmaci1.

L’esame obiettivo deve essere mirato a stabilire o verificare la diagnosi di ipertensione (tramite il metodo di misurazione della pressione clinica precedentemente enunciato), definire i valori pressori attuali, eseguire uno screening per l’ipertensione secondaria e per definire il rischio cardiovascolare globale. In tutti i pazienti dovrebbe essere eseguita l’auscultazione cardiaca, carotidea e delle arterie renali: il rinvenimento di un soffio dovrebbe indurre ad eseguire ulteriori esami strumentali. Inoltre, dovrebbero essere misurati altezza, peso e circonferenza addominale del paziente, così da poter calcolare il BMI (Body Mass Index, dato dal rapporto tra il peso e il quadrato dell’altezza). In tutti gli ipertesi dovrebbe essere eseguita la palpazione del polso arterioso, così da poter ricavare la frequenza cardiaca e identificare la presenza di aritmie (soprattutto la fibrillazione atriale). Durante la visita si potrebbero evidenziare i segni della presenza di ipertensione secondaria, come ad esempio: caratteristiche tipiche della sindrome di Cushing, macchie color caffè-latte tipiche della neurofibromatosi (feocromocitoma), palpazione di reni ingranditi (rene policistico), palpazione di polsi femorali iposfigmici e ritardati e ridotta pressione femorale rispetto alla brachiale (coartazione aortica, patologie aortiche),

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auscultazione di soffi toracici o precordiali (coartazione aortica o patologie dell’aorta)1. È

importante identificare, all’esame obiettivo, l’eventuale presenza di danno d’organo: • Deficit motori o sensitivi in caso di danno neurologico;

• Anomalie al fondo oculare in caso di danno retinico;

• Presenza di III o IV tono, soffi, aritmie, variazioni della posizione dell’itto della punta, rantoli polmonari o edemi periferici in caso di danno cardiaco;

• Assenza, riduzione o asimmetria dei polsi, estremità fredde e lesioni ischemiche cutanee in caso di arteriopatia periferica;

• Soffi sistolici in caso di danno carotideo.

In base agli elementi ottenuti con l’anamnesi e l’esame obiettivo, il medico dovrebbe richiedere le indagini di laboratorio e strumentali dirette a fornire o a confermare la presenza di fattori di rischio aggiuntivi, di cause di ipertensione secondaria o di danno d’organo. Ovviamente, le indagini dovrebbero procedere dalla più semplice alla più complessa. Di routine, comunque, per tutti i pazienti dovrebbero essere richiesti: emoglobina e/o ematocrito, glicemia a digiuno, colesterolemia totale, colesterolo LDL, colesterolo HDL, trigliceridi a digiuno, potassiemia, sodiemia, uricemia, creatininemia, esame urine completo di esame microscopico, stick urine per proteinuria o test per la microalbuminuria; elettrocardiogramma a 12 derivazioni1.

2.6 Ricerca del danno d’organo asintomatico

Il danno d’organo asintomatico dovrebbe essere sempre ricercato attentamente e con le appropriate metodiche, poiché esso rappresenta uno stadio intermedio del continuum patologico cardiovascolare e si riflette, quindi, sulla determinazione del rischio cardiovascolare globale del paziente1. L’osservazione di alcuni marker di danno

d’organo, quali la microalbuminuria, l’aumento della velocità dell’onda di polso (PWV), l’ipertrofia ventricolare sinistra e la presenza di placca carotidea, può predire la mortalità cardiovascolare indipendentemente dalla stratificazione del rischio mediante le carte SCORE e ciò costituisce un’evidenza importante in favore dell’esecuzione della ricerca del danno d’organo nella pratica clinica53-55. È importante notare, inoltre, come il rischio

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2.6.1 Cuore

Il danno d’organo cardiaco può essere rilevato tramite l’elettrocardiografia e l’ecocardiografia.

Come già sottolineato in precedenza, un ECG a 12 derivazioni dovrebbe essere effettuato di routine in tutti i pazienti ipertesi. L’elettrocardiografia permette di evidenziare la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra, con bassa sensibilità ma elevata specificità, utilizzando diverse metodiche: l’indice di Sokolow-Lyon (SV1+RV5 >3.5 mV), l’indice di Sokolow-Lyon modificato (onda S più alta + onda R più alta >3.5 mV), RaVL>1.1 mV o il prodotto del voltaggio di Cornell e la durata del QRS (>244 mV*ms). Qualunque sia il metodo tra questi con cui viene identificata, la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra all’ECG è un fattore indipendente per eventi cardiovascolari in studi osservazionali e trial clinici56,57. Inoltre, l’elettrocardiografia può identificare quadri di sovraccarico ventricolare o di “stiramento”, indicativi di rischio più severo56-58, ischemia,

anomalie della conduzione, dilatazione atriale sinistra ed aritmie (soprattutto la fibrillazione atriale). L’Holter ECG delle 24 ore è indicato quando sono sospettate aritmie o possibili episodi ischemici. La fibrillazione atriale è una causa molto frequente di complicanze cardiovascolari59,60, specialmente di ictus, nei pazienti ipertesi59.

L’ecocardiografia è più sensibile rispetto all’ECG nella diagnosi di ipertrofia ventricolare sinistra ed è più utile nella definizione del rischio cardiovascolare e renale61-63. Perciò, può essere utile per una più precisa stratificazione del rischio globale e nella scelta terapeutica64. Attualmente, per una corretta valutazione del ventricolo sinistro nei pazienti ipertesi è necessaria la misurazione lineare del setto interventricolare, del diametro interno e della parete posteriore ventricolare in tele-diastole. La presenza di ipertrofia viene definita tramite la massa ventricolare sinistra indicizzata per la superficie corporea (BSA), mentre la geometria del ventricolo sinistro viene identificata tramite lo spessore relativo di parete o il rapporto parete/raggio. Il calcolo della massa ventricolare sinistra (LVM) viene eseguito in base alla formula dell’American Society of Echocardiography65.

I cut-off utilizzati per porre la diagnosi di ipertrofia ventricolare sinistra sono di 95 g/m2

nelle donne e di 115 g/m2 negli uomini, nonostante la relazione tra LVM e rischio

cardiovascolare sia continua65. Nei soggetti obesi o in sovrappeso viene utilizzata

l’indicizzazione della LVM per l’altezza elevata alla potenza di 1.7 o 2.766,67, al posto

dell’indicizzazione per BSA, in modo da evitare la sottostima della diagnosi di ipertrofia ventricolare sinistra. Recentemente è stato dimostrato che il metodo migliore è quello di elevare l’altezza per 1.7 (g/m1.7) e che possono essere utilizzati cut-off differenti per

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uomini e donne66. L’ipertrofia ventricolare concentrica è definita dalla presenza di LVM aumentata con spessore parietale relativo >0.42, mentre l’ipertrofia ventricolare eccentrica è definita dalla presenza di aumentata LVM con spessore parietale relativo ≤0.42. Si parla di rimodellamento concentrico quando, invece, lo spessore parietale relativo è >0.42 mentre la LVM è normale. Tutti questi pattern di rimodellamento sono predittori di aumentato rischio di eventi cardiovascolari ma l’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica è il fattore predittivo in assoluto più potente di aumentato rischio cardiovascolare68-70. Oltre a queste modificazioni, l’ipertensione è responsabile anche di

alterazioni sia del rilasciamento che del riempimento del ventricolo sinistro, che nel loro insieme portano alla disfunzione diastolica. La disfunzione diastolica indotta dall’ipertensione è associata alla geometria concentrica e può indurre segni e sintomi di scompenso cardiaco anche quando la frazione di eiezione del ventricolo sinistro è nella norma (scompenso con frazione di eiezione conservata – HFpEF)71. Il Doppler del flusso trans-mitralico può valutare le anomalie di riempimento e predire la comparsa di scompenso e mortalità per tutte le cause72,73 ma non è sufficiente per fornire una stratificazione clinica adeguata e la prognosi del soggetto iperteso72,73. Già da tempo, perciò, è stata raccomandata la sua combinazione con il Doppler tissutale pulsato dell’anulus mitralico74. La riduzione della velocità proto-diastolica al Doppler tissutale

(e’) è tipica della cardiopatia ipertensiva e, frequentemente, la e’ settale è più ridotta rispetto alle e’ laterale. La diagnosi e il grado di disfunzione diastolica sono valutati in base a e’ (media tra valore settale e laterale), al rapporto tra la E del flusso trans-mitralico e la e’ media e alla dimensione dell’atrio sinistro74. Stratificare i pazienti per mezzo di

questi parametri possiede un importante valore predittivo per la mortalità da tutte le cause in grandi studi di popolazione75. Il valore di velocità per e’ e del rapporto E/e’ sono

dipendenti dall’età ed in misura minore dal sesso76. Il rapporto E/e’ permette di

identificare l’aumento della pressione di riempimento del ventricolo sinistro. Il valore prognostico della velocità e’ è stato dimostrato nell’ipertensione77 e il rapporto E/e’ ≥1374

è associato ad un aumento del rischio cardiaco indipendentemente dalla massa e dallo spessore parietale relativo del ventricolo sinistro nei soggetti ipertesi77. Infine, le dimensioni dell’atrio sinistro forniscono ulteriori informazioni e sono necessarie per la diagnosi di disfunzione diastolica. Il parametro impiegato per questo scopo è il volume indicizzato dell’atrio sinistro (LAVi)65, che si è dimostrato essere un fattore predittivo

indipendente di mortalità, scompenso, fibrillazione atriale ed ictus ischemico quando il suo valore risultasse maggiore o uguale a 34 mL/m2 78. La valutazione della funzione

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sistolica del ventricolo sinistro nella cardiopatia ipertensiva non offre alcuna informazione aggiuntiva sulla prognosi rispetto alla massa ventricolare sinistra, almeno in presenza di frazione di eiezione conservata1.

L’ecocardiografia deve essere sempre considerata negli ipertesi, seppure con diversi scopi in base al contesto clinico. Negli ipertesi a moderato rischio cardiovascolare totale, l’esame ultrasonografico può ridefinire la valutazione del rischio, poiché permette di

identificare la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra non rilevata

all’elettrocardiogramma. Negli ipertesi con evidenza all’ECG di ipertrofia ventricolare sinistra, invece, l’ecocardiogramma fornisce una valutazione più precisa, poiché quantifica l’ipertrofia e definisce la geometria del ventricolo sinistro, modificando di conseguenza il rischio cardiovascolare del paziente. L’esame ecocardiografico, inoltre, permette la visualizzazione dell’aorta ascendente e lo screening vascolare, per cui fornisce ulteriori informazioni diagnostiche utili nella maggior parte degli ipertesi. Questa metodica, perciò, dovrebbe essere raccomandata in tutti i pazienti come valutazione iniziale, mentre il suo utilizzo nel follow-up dovrebbe essere gestito caso per caso in base al rischio del singolo paziente1.

2.6.2 Vasi

Tra le complicanze dell’ipertensione arteriosa è presente, anche, il danneggiamento dei vasi arteriosi. Uno dei metodi utilizzati per valutare l’arteriopatia è la valutazione tramite ultrasuoni delle arterie carotidi. Lo spessore medio-intimale (IMT) e/o la presenza di placche aterosclerotiche, infatti, sono in grado di predire lo sviluppo di ictus e infarto del miocardio indipendentemente dagli altri fattori di rischio53,79,80-82. Tali evidenze hanno valore sia per lo spessore mio-intimale a livello della biforcazione carotidea (che riflette soprattutto l’aterosclerosi) che per quello a livello della carotide comune (che riflette principalmente l’ipertrofia vascolare). La relazione tra spessore mio-intimale ed aumento del rischio cardiovascolare è di tipo continuo e la scelta di un valore soglia è arbitraria. Attualmente, il cut-off per la presenza di placca è definito da un valore di IMT ≥15 mm o da un ispessimento focale di 0.5 mm o del 50% rispetto ai valori adiacenti di IMT83. Lo studio Atherosclerosis Risk in Communities ha evidenziato, però, come la presenza di una placca o di un aumento dello spessore mio-intimale carotideo abbiano uno scarso potere additivo nel predire il rischio cardiovascolare e nel riclassificare i pazienti in un’altra categoria di rischio. Per questo, una revisione sistematica ha concluso che lo screening carotideo può essere utile primariamente in soggetti asintomatici e a rischio

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cardiovascolare intermedio, poiché in questo caso possiede un valore predittivo aggiunto84.

Un fenomeno fisiopatologico che risulta accelerato nell’ipertensione arteriosa è la perdita di elasticità dell’albero arterioso. Tale fenomeno, insieme a quello della riflessione dell’onda sfigmica, è stato identificato come uno dei principali fattori coinvolti nello sviluppo dell’ipertensione sistolica isolata e dell’aumento della pressione pulsatoria correlati con l’età85. La velocità dell’onda di polso (PWV) carotido-femorale rappresenta,

ad oggi, il metodo di riferimento per la misurazione della rigidità arteriosa86. La velocità dell’onda di polso viene considerata patologica quando supera i 10 m/s 87, impiegando la

distanza diretta carotido-femorale e prendendo in considerazione un 20% di riduzione della reale distanza anatomica percorsa dall’onda pressoria. La rigidità aortica costituisce un fattore predittivo indipendente di morbilità e mortalità cardiovascolare negli ipertesi88,89. Molti studi hanno confermato il valore predittivo additivo della velocità

dell’onda di polso ai tradizionali fattori di rischio53,54,90,91. Per tali motivazioni, si ritiene

che la valutazione della rigidità arteriosa possa consentire di riclassificare una certa quota di pazienti considerati a rischio cardiovascolare intermedio in classi di rischio maggiore o minore53,91,92.

Un’altra metodica che può essere utilizzata per valutare la presenza di arteriopatia periferica è l’indice caviglia-braccio (ABI). Esso può essere calcolato con apparecchi automatici o con un Doppler a onda continua ed uno sfigmomanometro. Un indice caviglia-braccio inferiore a 0.9 è significativo della presenza di arteriopatia periferica e della presenza di malattia aterosclerosi avanzata93, che si associa ad un’incidenza di

morbilità e di mortalità cardiovascolare del 20% a 10 anni94,95. Nonostante ciò, si ritiene

che l’indice caviglia-braccio sia più utile per diagnosticare l’arteriopatia periferica in soggetti con alta probabilità di esserne affetti1, in base alle deduzioni ricavate dall’esame obiettivo per mezzo della palpazione dei polsi periferici.

2.6.3 Rene

Il danno d’organo renale causato dall’ipertensione arteriosa può essere diagnosticato tramite il riscontro di una ridotta funzione renale e/o di elevati livelli di albumina escreta96. L’insufficienza renale cronica, se riscontrata, deve essere classificata tramite il valore del filtrato glomerulare stimato (eGFR), che può essere calcolato con la formula di Cockcroft-Gault o con la formula abbreviata MDRD (Modification of Diet in Renal Disease)97 o con la formula del CKD-EPI (Chronic Kidney Disease EPIdemiology

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Collaboration)98. Se il valore di filtrato glomerulare stimato è <60 mL/min/1.73m2 è possibile porre la diagnosi di insufficienza renale e ne vengono identificati 3 stadi: stadio 3 quando i valori sono compresi tra 30-60 mL/min/1.73m2, stadio 4 quando i valori sono compresi tra 15-30 mL/min/1.73m2, stadio 5 (o terminale) quando i valori sono <15

mL/min/1.73m2 99. Alla progressiva diminuzione di tali valori corrisponde l’aumento

della creatinina sierica. Inoltre, negli ipertesi non trattati (soprattutto in caso di pre-eclampsia) è di frequente riscontro l’iperuricemia, che è stata dimostrata avere una correlazione con la diminuzione del flusso renale e con la nefrosclerosi100. La diagnosi di

danno d’organo renale indotto dall’ipertensione può, però, essere anticipata tramite il riscontro di un aumento dell’escrezione urinaria di albumina o di proteine più in generale: tali rilievi, se presenti, indicano la presenza di un’alterazione della filtrazione glomerulare. Arbitrariamente, il cut-off impiegato per definire la presenza di microalbuminuria è di 30 mg/g di creatinina101, mentre si parla di macroalbuminuria quando si riscontra un valore superiore ai 300 mg/g di creatinina. In questo modo, è possibile identificare lo stadio 1 e lo stadio 2 dell’insufficienza renale, in cui il valore del filtrato glomerulare stimato può essere rispettivamente normale (>90 mL/min/1.73m2) o leggermente diminuito (compreso tra 60-90 mL/min/1.73m2), ma sempre in presenza di microalbuminuria o di macroalbuminuria, che testimoniano la presenza di danno renale. È stato dimostrato, però, come la microalbuminuria sia in grado di predire il rischio di eventi cardiovascolari102-110 anche quando al di sotto dei valori normalmente considerati111. Infatti, alcuni studi hanno evidenziato una relazione continua tra mortalità cardiovascolare e non cardiovascolare fin dalla presenza di un rapporto albumina/creatinina urinaria >3.9 mg/g nell’uomo e >7.5 mg/g nella donna109,112. Inoltre,

è stato osservato come la presenza sia di un aumento dell’escrezione urinaria di proteine che di una riduzione del filtrato glomerulare stimato indichino un aumento del rischio di eventi cardiovascolari e renali rispetto alla presenza di uno solo dei due fattori. Questa evidenza rende i due fattori di rischio indipendenti e cumulativi101. Alla luce di questi dati, il riscontro di una ridotta funzione renale nei pazienti ipertesi costituisce un potente predittori di futuri eventi cardiovascolari e morte103,113-117. Alla luce di queste evidenze, è fortemente raccomandato il calcolo del filtrato glomerulare stimato e il dosaggio della microalbuminuria sulle urine spot1.

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2.6.4 Fondo oculare

Tradizionalmente, la retinopatia ipertensiva viene classificata mediante la fundoscopia, come proposero Keith, Wagener e Barker nel 1939. Il valore prognostico di questa metodica è stato documentato negli ipertesi118. Questi autori hanno distinto la retinopatia ipertensiva in 4 gradi: nel grado I si ha la presenza di incroci arteriosi sia focali che generalizzati; nel grado II si ha la presenza di incroci artero-venosi; nel grado III si ha la presenza di emorragie retiniche, microaneurismi, essudati duri e spot cotonosi; nel grado IV si ha la presenza di papilledema e/o edema maculare in aggiunta ai segni del grado precedente. I gradi I e II si verificano in fasi precoci della retinopatia ipertensiva ed il loro valore predittivo di mortalità cardiovascolare non è chiaro119,120. I gradi III e IV, invece, sono indicativi di una grave retinopatia ipertensiva, con un elevato valore predittivo per mortalità118,121. La presenza di venule con calibro maggiore può predire lo

sviluppo di ictus, mentre tale evidenza non è stata osservata in relazione al calibro delle arteriole122. In base a questi dati, il rapporto artero-venoso predice l’incidenza di ictus e la morbilità cardiovascolare1. La maggior parte di questi dati sono stati ricavati da indagini

effettuate tramite fotografie digitali della retina interpretate da oftalmologi, che si è dimostrata essere una metodica più sensibile rispetto alla fundoscopia/oftalmoscopia diretta effettuata dai medici generici123. Tale metodica purtroppo presenta dei limiti che ne pregiudicano l’impiego su larga scala124-127.

2.6.5 Cervello

Oltre ad aumentare l’incidenza di ictus, l’ipertensione arteriosa è associata allo sviluppo di danno cerebrale asintomatico, che può essere osservato alla risonanza magnetica, soprattutto nei soggetti anziani128,129. Le lesioni più comuni che possono essere messe in evidenza con questa indagine strumentale sono: lesioni della materia bianca (che possono essere osservate con diversa gravità in quasi tutti i soggetti anziani con ipertensione128), infarti silenti (detti infarti lacunari quando sono piccoli e profondi e rilevabili con una frequenza dal 10 al 30% 130) e microsanguinamenti (in circa il 5% degli individui). La presenza di iperintensità della materia bianca e di infarti silenti è associata ad un aumento del rischio di ictus, decadimento cognitivo e demenza128,130-132. È interessante notare come, nei soggetti ipertesi senza evidenza di malattia cardiovascolare, la risonanza magnetica abbia consentito di identificare lesioni cerebrali silenti con una prevalenza del 44%, che è risultata maggiore rispetto a quella del danno d’organo cardiaco (21%) e renale (26%) 133. La disponibilità e il costo non permettono alla risonanza magnetica di

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