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Hyman P. Minsky - Employer of last resort: soluzione alla povertà e stabilizzatore economico

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di laurea magistrale in Banca, Finanza aziendale e

Mercati finanziari

Hyman P. Minsky – Employer of last resort:

soluzione alla povertà e stabilizzatore economico

RELATORE

CANDIDATO

Prof. Fabrizio Bientinesi

Stefano Palma

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“The most significant economic event of the era since World War II is something that has not happened: there has not been a deep and long-lasting depression.” (Hyman Minsky 1982)

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INDICE

INTRODUZIONE

... 4

CAPITOLO 1

... 6

Real-exchange economy

... 6

Il Big Government di Minsky

... 11

Methodological dilemma

... 12

CAPITOLO 2

... 16

Tight Full Employment

... 21

La distribuzione del reddito

... 24

Employment policy

... 38

Lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza

... 40

Il pavimento salariale come stabilizzatore esogeno

... 43

Un po’ di numeri

... 46

Altri problemi e critiche

... 49

CONCLUSIONI

... 52

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INTRODUZIONE

La lotta alla povertà è sicuramente un punto sul quale si sono spesi molti studiosi di altrettante aree disciplinari, a partire da quella sociale e morale per arrivare all’aspetto economico. Interesse di quest’ultimo sono le coperture finanziarie necessarie e quale programma sostenere per ottenere il fine rappresentato dall’eliminazione totale della povertà. L’economista Hyman Philip Minsky ha da sempre avuto l’interesse per questa materia, affrontata intrecciando il suo pensiero filo-keynesiano con la teoria della piena occupazione e dando alle sue intuizioni un taglio estremamente provocatorio, come era solito fare.

La tesi è basata sull’assunto che la povertà debba essere combattuta attraverso la creazione diretta di lavoro e non con strumenti assistenzialisti, quali meri sussidi monetari o riduzione di imposte. Ad eliminare completamente la disoccupazione involontaria è lo Stato in prima persona diventando datore di lavoro di ultima istanza, il quale è in grado di assumere tutti i lavoratori disponibili, pronti e capaci. A questi viene offerto un salario pubblico minimo, il quale svolgerà anche una funzione àncora nel paniere dei prezzi. L’Employer of Last Resort viene identificato nella figura statale in quanto è l’unica che può scindere la relazione tra salario e produttività.

Nonostante Minsky sia ben più famoso per le sue intuizioni sull’instabilità finanziaria e di conseguenza anche la bibliografia sul suo pensiero si è sviluppata principalmente su questa teoria, numerosi sono stati i saggi scritti da lui concernenti la lotta alla povertà, alcuni dei quali magistralmente raccolti in un unico volume da Dimitri Papadimitriou, L. Randall Wray e Jan Kregel, economisti del Levy Economics Institute. Ad avvalorare la teoria esposta in questi saggi, peraltro già molto ricchi di contenuti numerici e statistici osservati, ci sono opere dei suddetti economisti e di altri che si sono espressi e continuano a farlo in questo “sentiero” suggerito dal loro precursore ed esplorato da programmi realmente posti in essere come quello argentino Jefes y Jefes de Hogar. L’obiettivo di questo lavoro è esplorare il pensiero di Hyman Minsky a proposito degli argomenti sopra presentati, andando anche ad analizzare il suo background in modo da fornire una panoramica quanto più esauriente sulla figura e la personalità dell’economista di Chicago. L’aspetto sul quale si è voluto porre l’accento è quello inflazionistico di un programma ELR e di conseguenza sugli effetti che potrebbe avere

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sul sistema economico all’interno del business cycle. Non si è mancato di illustrare le critiche mosse nel tempo a proposte di questo tipo e analizzare le alternative principali per l’ottenimento di una migliore distribuzione del reddito con lo scopo di eliminare la povertà da disoccupazione, facendo attenzione a non includere in quest’ultima quella frizionale e allo stesso modo la disoccupazione strutturale.

Il risultato ottenuto è stato un elaborato che fornisse una visione accurata di come combattere la povertà secondo Minsky e quindi di cosa può fare il sistema economico per raggiungere l’obiettivo prefissato della povertà al livello zero. Sono riportati anche interessanti lavori che dimostrano la sostenibilità finanziaria di un programma ELR in Italia e di conseguenza in paesi simili dal punto di vista economico.

Ovviamente la presunzione di aver trovato la soluzione ad uno dei maggiori problemi che affligge le economie mondiali non è propria di chi scrive ma al contrario si vuole offrire uno spunto di riflessione mantenendo il taglio provocatorio della fonte d’ispirazione: Hyman Philip Minsky.

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CAPITOLO 1

Il pensiero di Hyman P. Minsky è tornato d’attualità con l’approssimarsi e poi lo scoppio della crisi finanziaria dell’estate del 2007, la cosiddetta crisi dei subprime, sin dai primi mesi di quell’anno. I più attenti erano stati i bloggisti e gli analisti finanziari. La crisi era giunta come una sorpresa per i più. In realtà, essa covava da tempo, e le sue ragioni tutto avrebbero dovuto apparire meno che misteriose.

Il pensiero economico di Minsky era incentrato su tre argomenti interrelati tra loro: 1. L’interpretazione del più innovativo e rivoluzionario economista: John Maynard

Keynes. In particolare quello che più gli premeva era il ruolo dei mercati finanziari, la non-neutralità della moneta, la sistematica incertezza e la natura ciclica del capitalismo dovuta alla fluttuazione degli investimenti privati.

2. L’ipotesi dell’instabilità finanziaria, secondo la quale, dopo un periodo di crescita “tranquilla” e una finanza “robusta”, le passività di banche e imprese si muovono spontaneamente verso la fragilità. Il sistema economico è incline all’instabilità e di conseguenza alle crisi finanziarie. Nella visione di Minsky ogni stato dell’economia è transitorio, l’evoluzione ciclica del capitalismo è il necessario risultato della natura monetaria dei processi capitalisti che sono alla base dell’approccio keynesiano. Il punto nel quale secondo lui manca la Teoria Generale di Keynes è la spiegazione della cosiddetta stabilità destabilizzante. 3. Le implicazioni di un intervento discrezionale del governo e della banca

centrale al fine di mitigare l’instabilità capitalistica, creando dei limiti alle dinamiche comportamentali del sistema. La politica economica può fare di più che rendere la fragilità finanziaria meno acuta. Dei cambiamenti nella natura del big government possono incoraggiare la creazione di risorse e l’espansione dell’output e ancor di più puntare a ottenere la piena occupazione.

Real-exchange economy

Il mondo in cui viviamo è un’economia capitalista con capital assets costosi e a lungo termine e con una complessa struttura finanziaria. La fondamentale sequenza in un’economia capitalistica è monetaria, infatti, volendola descrivere accuratamente la si può definire come un meccanismo di produzione di denaro per mezzo di denaro. Un

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modello base di capitalismo non può prescindere dall’essere composto da alcune parti fondamentali quali:

• Le banche, le quali creano moneta;

• Le imprese che finanziano la produzione e le posizioni finanziarie grazie ai prestiti bancari;

• Le famiglie, le quali mantengono in portafoglio strumenti finanziari creati o

piazzati dalle banche

Per Minsky i termini “banche” e “moneta” non hanno un significato univoco, esso infatti è cambiato nel corso del tempo: a volte, con il termine “banca” si riferisce strettamente alle banche commerciali, in altre occasioni a tutto l’apparato finanziario. Con “moneta” si fa riferimento alla base monetaria, o a volte, è considerato come denaro liquido più le passività degli intermediari finanziari.

La teoria economica standard utilizza il cosiddetto “village-fair paradigm”. Un baratto, un’economia di puro scambio come suo punto di partenza, nel quale la produzione, la moneta e le attività capitali e finanziarie sono aggiunte per rendere il modello più realistico. In un sistema di baratto teorico, gli agenti economici hanno un ammontare dato di risorse e gli scambi di mercato gli permettono di migliorare le loro posizioni ottenendo beni che desiderano maggiormente. La moneta può essere aggiunta ma le dinamiche rimangono le stesse, le conclusioni sono le stesse. Gli individui sono interessati esclusivamente ai cambiamenti della propria dotazione in beni. Il futuro è noto con certezza nel senso che tutte le contingenze vengono incluse correttamente nei prezzi e incorporate nelle decisioni.

Keynes chiamava il sistema sopra esposto real-exchange economy sostenendo che questo non potesse essere applicato ad un sistema capitalista. Il capitalismo è un’economia di produzione monetaria. C’è bisogno di produrre le commodities prima di poterle scambiare. La produzione è intrapresa in relazione alle aspettative di profitto e ha bisogno di essere finanziata, così come del tempo per essere implementata e completata. Spesso queste decisioni sono condizionate dagli interessi che si è disposti a corrispondere e il più delle volte sono decisioni irreversibili. Tutte queste variabili devono essere valutate in un contesto competitivo che impone ritorni economici prestabiliti. Quindi possiamo identificare due caratteristiche salienti del capitalismo:

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1. Spinge gli operatori ad anticipare un futuro incerto per ottenere un vantaggio competitivo;

2. Le valutazioni finanziarie sono al centro del sistema.

La conseguenza è che la moneta gioca un ruolo importante nell’allocazione delle risorse, nella produzione e distribuzione. Questo crea un sistema altamente dinamico e in continuo cambiamento.

Tutto ciò è in netto contrasto con un sistema economico basato sul baratto, la moneta non può essere considerata come un’aggiunta ininfluente sulla struttura economica, essa deve essere posta al centro di un modello teorico volto alla comprensione del capitalismo. In un’economia capitalistica le persone concentrano le proprie attenzioni sulla loro liquidità, la capacità di far fronte alle spese e soprattutto non si limitano a valutare il potere d’acquisto della propria moneta ma piuttosto il suo “potere finanziario”.

La visione di Minsky è basata sugli assunti di Keynes, quindi opposta a quella standard del “village-fair paradigm”, il suo “Wall Street paradigm” è incentrato su un’economia monetaria con un sofisticato sistema finanziario. Questo approccio considera lo scambio di moneta oggi contro moneta domani come la transazione economica chiave. La moneta di oggi può essere rappresentata da uno strumento finanziario, un bene capitale esistente o un bene di investimento. Quella di domani da interessi, dividendi, restituzione di capitale di credito oppure i profitti ottenuti con l’impiego di beni capitali nella produzione.

In una real-exchange economy, in concorrenza perfetta, le forze di mercato aiutano a stabilizzare l’attività economica, in nessun modo possono contribuire a generare instabilità economica. Quest’ultima, è un raro evento causato da fattori esterni come l’intervento dello Stato o shock improvvisi.

Le ricerche di Minsky lo hanno portato a sostenere che il capitalismo è un sistema altamente dinamico intriso di forze controverse e una ricorsività specifica. Una sua conclusione è che la “stabilità è destabilizzante”, che vuol dire che una crescita economica prolungata genera fragilità finanziaria e il business cycle è attribuibile alle caratteristiche finanziarie tipiche del capitalismo. Al contrario di come sostenuto nella tesi opposta, Minsky notò che l’instabilità finanziaria non è affatto un evento raro. L’interazione tra le forze di mercato e il governo possono promuovere stabilità o

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portare all’instabilità. In particolare, per quanto riguarda le forze di mercato, la controversa natura della competitività, l’innovazione e le banche è quello su cui Minsky si è soffermato. La concorrenza induce la crescita economica e l’imprenditorialità, ma impone di ragionare a breve termine e in maniera conformista, anche se così facendo ci si potrebbe assumere dei rischi molto grandi. L’innovazione esplora e crea nuovi mercati ma altera la struttura del sistema economico, dei comportamenti e degli incentivi. In fine, le banche, promuovono stabilità attraverso la selezione accurata dei clienti ma allo stesso tempo la pressione di raggiungere un obiettivo di bilancio può infondere instabilità al sistema.

In termini di intervento governativo nell’economia, Minsky sosteneva che il cosiddetto

Big Government attraverso la regolamentazione potesse generare pressioni inflattive e

indurre ad un moral hazard, se a questo affianchiamo la tendenza del settore privato ad incrementare sempre più i profitti a tutti i costi, anche attraverso l’innovazione, possiamo trovarci in uno scenario nel quale lo Stato volendo stabilizzare l’economia con le proprie regole rischia, al contrario, di diventare la causa di forte instabilità data dalle diverse velocità di progresso. Da una parte il settore privato cercherà di “evadere” dai paletti imposti dalle regolamentazioni governative, dall’altra si troverà un apparato statale che quasi certamente non riuscirà a legiferare e regolare le nuove realtà alla stessa velocità in cui il mercato le crea.

Un primo caso di azzardo morale può essere rappresentato dal rischio assunto dagli operatori, come evidenziato sopra, specialmente in condizioni di forte concorrenza. Sapendo di poter essere “salvati” da uno stato presente e interventista si tenderà a rischiare più del dovuto.

Un secondo esempio di azzardo morale che potrebbe verificarsi è rappresentato da un alto valore dei trasferimenti di denaro a favore di chi perde il lavoro che potrebbe così scegliere di non rientrare nella forza lavoro a discapito dell’efficienza e capacità produttiva.

Un’importante riflessione va fatta sull’intuizione di Minsky circa i profitti. Usando la seguente equazione:

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Dove 𝜋 = 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑖𝑡𝑡𝑖, 𝐼 = 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑠𝑡𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖, 𝐷𝐸𝐹 = 𝑑𝑖𝑠𝑎𝑣𝑎𝑛𝑧𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑜𝑟𝑒 𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑜, 𝑁𝑋 = 𝑑𝑖𝑠𝑎𝑣𝑎𝑛𝑧𝑜 𝑏𝑖𝑙𝑎𝑛𝑐𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑎𝑔𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖, 𝑆𝑤 = 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑎𝑟𝑚𝑖𝑜.

Attraverso le politiche fiscali quindi, lo Stato può cercare di contenere il loop destabilizzante proprio di questa equazione: i profitti sono sostenuti dagli investimenti, che a loro volta dipendono dalle aspettative di profitto degli imprenditori. Questa peculiare circolarità è uno dei difetti interni di un’economia capitalista che generalmente gli imprenditori non conoscono.

Sembra più chiaro a questo punto il ruolo che lo Stato deve avere nell’economia secondo Minsky, che è agli antipodi rispetto all’idea del New Consensus. Per quest’ultimo l’intervento governativo deve essere temporaneo, veloce e orientato a compensare le imperfezioni del mercato, come la rigidità dei prezzi o l’asimmetria informativa, per riportare così l’economia sul suo naturale sentiero. Sarà una presenza efficace, quella dello Stato, solo se non cercherà di spingere l’economia aldilà della sua natura e se sarà in grado di avere una risposta veloce. Per ottenere quest’ultima condizione è necessario che l’organo preposto a questo compito sia “slegato” dalle influenze politiche o limitato da regolamentazioni.

Al contrario, Minsky riteneva che lo Stato fosse un elemento complementare necessario al settore orientato al profitto. Come già ricordato, mentre l’economia si dirige verso uno stadio di piena occupazione, i meccanismi di mercato tendono a generare pressioni inflazionistiche e fragilità finanziaria. Qui si identifica il più importante ruolo dell’intervento statale che deve essere volto al raggiungimento di una piena occupazione stabile, non inflazionistica e che non promuova l’instabilità finanziaria. Questo comporta che l’intervento governativo dovrà essere continuo ed integrato nel business cycle piuttosto che sporadicamente concentrato nei picchi, siano essi negativi o positivi.

È bene sottolineare come la libertà economica individuale e un Big Government non sono incompatibili, al contrario quest’ultimo è necessario per ottenere un’economia

“where freedom to innovate and to finance is the rule”.1

1 Minsky (1993), On the non-neutrality of money, Federal Reserve Bank of New York Quarterly Review,

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Il Big Government di Minsky

“The policy problem is to devise institutional structures and measures that attenuate the thrust of inflation, unemployment, and slower improvements in the standard of life without increasing the likelihood of a deep depression…the current strategy seeks to achieve full employment by way of subsidizing demand. The instruments are financing conditions, fiscal inducements to invest, government contracts, transfer payments, and taxes. This policy strategy now leads to chronic inflation and periodic investment booms that culminate in financial crises and serious instability. The policy problem is to develop a strategy for full employment that does not lead to instability, inflation, and unemployment.” 2

Il primo elemento la cui determinazione non deve essere affidata ai meccanismi di mercato è il livello dell’occupazione. È stata proposta l’istituzione di un “datore di lavoro di ultima istanza”, un programma che sarebbe permanente, decentralizzato e che assumerebbe tutti gli individui disponibili, pronti e capaci a lavorare così come sono, coloro i quali ovviamente non trovano occupazione nel settore privato. Un’analisi più attenta e specifica dei pro e dei contro di questa proposta viene fatta più avanti, nel corso del capitolo 2.

Il secondo elemento dell’economia che dovrebbe essere controllato è il livello e la composizione degli investimenti. Gli obiettivi che questo tipo di politica raggiungerebbe sono tre:

1. L’allocazione dei progetti di investimento sarebbe diretta verso i settori che ne hanno necessità.

2. Aiuterebbe a promuovere la stabilità finanziaria perché il loop tra profitti e investimenti verrebbe eliminato.

3. La gestione degli investimenti può aiutare a controllare l’inflazione.

Il terzo elemento è il controllo della crescita del reddito attraverso una politica reddituale generale. I precedenti due elementi aiutano già a tenere sotto controllo la crescita reddituale attraverso l’influenza sul livello dei salari e sui profitti aggregati, si rende però necessaria un’ulteriore regolamentazione per meglio definire le

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contrattazioni salariali e il pay-out ratio delle imprese. Questo aiuterebbe a smorzare le pressioni inflazionistiche e a limitare le richieste degli azionisti.

Il quarto elemento che dovrebbe essere controllato è la crescita e la distribuzione delle attività e passività di tutte le istituzioni finanziarie. Con una regolamentazione orientata al controllo dei cash-flows, e non dell’equity in quanto questo non da un’accurata informazione circa la capacita di far fronte a shock della liquidità.

Si intuisce come queste proposte si inquadrano in un prospetto di politiche non temporanee ma bensì permanenti, indipendenti quindi dagli andamenti politici. Non è negabile che un così nuovo tessuto regolamentario possa presentare delle criticità non previste, cosa inevitabile quando si ha a che fare con elementi così altamente dinamici e soggetti a decisioni individuali come l’economia.

Puntare ad un incremento dell’occupazione attraverso incentivi fiscali è un metodo altamente indiretto per raggiungere l’obiettivo, alleggerendo l’imposizione fiscale, o fornendo sussidi non si stimola l’occupazione se l’economia non si aspetta una domanda corrispondente. Allo stesso modo un livello di spesa pubblica può non essere efficace sul livello dell’occupazione tanto quanto un altro, questo è dimostrato dalla non correlazione tra la posizione fiscale pubblica e il tasso di disoccupazione osservato. Il livello di spesa pubblica e della fiscalità possono aiutare esclusivamente alla stabilità del sistema.

Se come ci suggeriva Minsky però, non è sufficiente stimolare l’occupazione ma al contrario l’obiettivo da perseguire è ottenere la piena occupazione nel lungo periodo, è importante comprendere che il settore privato non sarà in grado di assumere tutti i lavoratori disposti a lavorare. Quindi stimolare il settore privato attraverso la spesa pubblica e gli incentivi non permetterà a tutti di approfittarne.

Methodological dilemma

Hyman Minsky era un abile matematico oltre che un visionario economista, nonostante questo i suoi lavori più importanti sono privi di sofisticati metodi matematici ed econometrici.

Come già accennato Minsky credeva molto nella ciclicità dell’economia e di conseguenza nella ripetitività e somiglianza delle crisi finanziarie, una prova è la sistematica tendenza a traslare la propria posizione finanziaria verso una

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ultra-13

speculativa. Durante un ciclo espansivo, di crescita costante, si può assistere al mutamento della rischiosità assunta dagli operatori dei mercati finanziari, all’inizio si osservano posizioni finanziarie “coperte”, con il perdurare della stabilità ci sarà un’assunzione di rischi nel proprio portafoglio sempre maggiore fino a cercare di cavalcare un vero e proprio schema Ponzi. Questa graduale perdita di solidità è caratteristica di tutti i boom dell’era capitalista. Quello che invece non è ricorrente e strettamente somigliante, osservando gli eventi storici, è il meccanismo e la progressività di una crisi e quella successiva. Una volta il veicolo è stato il mercato immobiliare, un’altra volta gli investimenti esteri con alti margini di profitti e sfogliando un libro di storia delle crisi finanziarie si troveranno differenti ambiti per altrettante crisi finanziarie. Ponendo l’attenzione su questo aspetto si vuole anche far notare come sia particolarmente difficile prevedere quale sarà il prossimo.

Quando i seguaci di Minsky provano a tradurre in un modello matematico il suo pensiero si ritrovano ad avere a che fare con una serie di enigmi metodologici. Non è affatto facile tradurre in un singolo e generico range di attività i molteplici veicoli oggetto di manipolazioni finanziarie che possono portare all’instabilità finanziaria. Il modello deve essere in grado di rappresentare lo spostamento tra le varie posizioni rischiose medie. Questo rappresenta una sfida alla teoria del portafoglio rischioso con un ampio studio sulle possibili rischiosità assunte dai diversi operatori non avendo ben chiaro dove introdurre la sfrontatezza finanziaria degli operatori del mercato. Nell’analisi di Minsky l’assumersi un rischio sempre maggiore non è esclusivamente un meccanismo psicologico basato sull’incremento dell’ottimismo ma piuttosto frutto della pressione competitiva che porta ad uniformarsi alla massa che tende ad una maggiore rischiosità.

Oltretutto una maggiore difficoltà nel modellizzare le sue teorie è rappresentata dal ruolo chiave che giocano variabili inosservabili sottostanti il cambiamento nella domanda di attività. Si è tentati ad associare queste variabili empiricamente con alcuni dati di enfasi dei mercati finanziari, come lo scostamento tra il rendimento di obbligazioni private soggette al rischio di default e obbligazioni di emissione pubblica garantite. Ma da un punto di vista convenzionale queste misure sono endogene ai processi finanziari, quindi inadatte a rappresentare fattori di traslazione esogeni al sistema in un modello matematico. Anche senza introdurre queste complicanze per

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poter formalizzare un modello econometrico operativo e attendibile, i lavori di Minsky presentano il problema della stima quantitativa della fragilità finanziaria.

Condivisibile è il pensiero dell’economista americano Duncan Foley secondo cui “the

deeper reason for Minsky’s reluctance to formalize his ideas in line with econometric fashion was his recognition that the formal, statistical methods adopted by contemporary economists are inherently hostile to critical and qualitative insights into the performance of markets as human and social institutions”.3 Con questo

presupposto si può rafforzare la coerenza del Minsky visionario e al tempo stesso studioso della storia economica da un punto di vista analitico e critico, con le proprie esperienze di direttore di banca.

Se da una parte sviluppare un sofisticato modello matematico ed econometrico per approcciare i tipi di problemi che preoccupavano Minsky è sicuramente utile, si può riconoscere per probabilmente questo non porterebbe a previsioni attendibili del futuro. Si può quindi concludere, dopo quanto detto, che in generale la modellizzazione di problematiche economiche e quindi delle scienze sociali ha due caratteristiche principali.

La prima ci dà consapevolezza dei limiti delle tecniche di modellizzazione matematiche ed econometriche che ci sono nell’approccio tradizionale. Con questo non si sostiene che la pratica debba essere abbandonata, ma piuttosto ristretta a limitati argomenti che sono in grado di sostenere una struttura di un modello attendibile e previsionale. I modelli matematici sono utili per facilitare la comprensione di sistemi semplificati e immaginari che noi speriamo rappresentino coerentemente una realtà ben più complessa. Da quando dipendiamo strettamente da immaginarie metafore semplificate per comprendere la complessità della realtà, i modelli risultano molto utili, quello da cui ci mette in guardia il modo di pensare di Minsky è però che le intuizioni che riusciamo a trarre da questi modelli semplificati non dovrebbero essere esasperate in una parodia della scienza solo per poter affermare che il modello è attendibile.

La seconda è rappresentata dall’utilità che hanno i modelli econometrici e matematici semplificati per educare gli studenti a riconoscere più facilmente le intuizioni argute

3 Bellofiore e Ferri (2001),Financial Keynesianism and market instability: the economic legacy of Hyman

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degli economisti. Così facendo si dà la possibilità di comprendere meglio il passato o amministrare meglio le proprie risorse o predisporre al meglio un terreno dal quale potrebbero nascere delle nuove e importanti idee.

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CAPITOLO 2

Sicuramente Hyman P. Minsky è conosciuto e studiato per la ben più famosa teoria dell’instabilità finanziaria, ma molto del suo lavoro e dei suoi scritti sono stati dedicati alla lotta contro la povertà. Quest’ultima considerata “la confutazione conservatrice della antica sfida radicale secondo cui il capitalismo genera necessariamente povertà nel pieno dell’abbondanza”4, è una guerra che mira a cambiare le persone e non

l’economia. I fari vengono puntati sulla formazione dei lavoratori, piuttosto che sul lavoro e il compito da svolgere in sé.

Il risultato che questo approccio può dare è diffondere la povertà più equamente e dare ai poveri di oggi una percezione diversa della povertà. Imprescindibile, per una vera guerra alla povertà, è un programma di creazione di lavoro considerando le persone così come sono. Combattere la povertà non deve dipendere principalmente dal cambiamento delle persone, ma deve essere indirizzato verso un cambiamento del sistema, lo stesso che non deve, e non può, riconoscere un tasso “naturale” di disoccupazione più alto di quello di pieno impiego ad un salario minimo.

Solo l’esistenza di una domanda di lavoro maggiore della rispettiva offerta su un ampio spettro di occupazioni e localizzazioni può aggredire la povertà e sollevare il morale dei poveri attraverso il reddito creato con l’occupazione. Per raggiungere e sostenere mercati del lavoro stretti è necessario un uso creativo e consistente delle politiche monetarie e fiscali espansive al fine di riuscire a creare più posti di lavoro e contrastare quindi la disoccupazione. Il primo importante traguardo, quindi, per eliminare la povertà dovrebbe essere raggiungere e sostenere lo stretto pieno impiego.

Contestualizzando il pensiero di Minsky e le sue opere appare evidente come queste siano state influenzate dal suo rapporto con Schumpeter e dall’esperienza del New Deal che esso stesso visse in prima persona. Con il New Deal, “Nuovo Corso”, si intendeva dare una risposta al fallimento del capitalismo del laissez-faire del primo terzo del XX secolo con un capitalismo interventista caratterizzato da un sistema fortemente rivisto. Durante i primi cento giorni di amministrazione Roosevelt indusse il Congresso ad approvare una serie di provvedimenti al fine di rilanciare l'economia.

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Questi provvedimenti erano in gran parte suggeriti dal “brain trust”, un gruppo di docenti universitari e ricercatori che aveva il compito di consigliare il presidente sulle scelte giuste per combattere la crisi. Successivamente con la riforma del mercato del lavoro si intendeva dare a questo una nuova regolamentazione, una nuova linfa vitale in termini di risorse stanziate. Lo scopo era quello di migliorare la distribuzione del reddito e limitare il potere oligopolistico privato, lo stesso che si oppose a questo “esercizio di capitalismo di Stato, nel quale il governo prese parte alla creazione di strumenti di finanziamento per le famiglie e per le imprese private, la produzione di infrastrutture e l’emergere di produzioni innovative” 5.

Quello che non fu proprio del New Deal furono i trasferimenti; lo Stato sociale si affermò negli anni Sessanta, quando si sostituirono ai redditi da lavoro e da proprietà i trasferimenti in concomitanza con un tasso di disoccupazione crescente. Parte dei programmi ai quali fa riferimento Schwartz furono diretti dal governo e volti alla creazione e sostentamento dell’occupazione, Work Progress Administration (WPA), National Youth Administration (NYA) e i Civilian Conservative Corps (CCC) furono i principali strumenti di diffusione del reddito negli anni Trenta. Subito dopo la seconda guerra mondiale una contingenza di avvenimenti fece sperimentare al popolo americano un’approssimazione al pieno impiego: un investimento privato sostenuto e la richiesta crescente di abitazioni però non bastarono, come sostenuto da Minsky il solo settore privato non è sufficiente, l’elevato livello di spesa militare fu fondamentale per raggiungere quell’obiettivo.

Il sistema capitalistico dunque, per l’autodichiarato discepolo di Marshall e Keynes come di Schumpeter, rivela pecche radicali e mortali. Necessario per redimerlo diventa l’intervento attivo sui processi di mercato e sulla composizione del prodotto oltre che sul suo livello. L’era roosveltiana sperimenta riforme e innovazioni sopraggiunte prima della Teoria Generale di Keynes, e quindi non influenzate da quest’ultima opera che segnò un solco nel pensiero economico. Una serie di azioni che aggredirono il sistema finanziario, lontane da manovre fiscali nonché monetarie, a contrasto del ribasso dei prezzi, stabilendo un “pavimento” salariale e incoraggiando i sindacati. La lotta alla disoccupazione e alla povertà venne portata sul terreno di una volontà determinata a

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perseguire una maggiore e più elevata occupazione. Al concedere un reddito come sussidio si preferì il provvedere lavoro e quindi salario.

Così come Keynes riteneva che la piena occupazione in economie capitalistiche potesse essere raggiunta solo grazie ad un colpo di fortuna, Minsky sosteneva che, se la lotta alla povertà avesse dato i suoi frutti attraverso un sistema assistenziale e un programma di trasferimenti, questi, sarebbero stati ottenuti solo grazie alla buona sorte che non ha portato a vivere serie depressioni.

Nell’ultimo capitolo della Teoria Generale l’autore articola il proprio pensiero riguardo i limiti principali della società economica, l’incapacità di dar vita al pieno impiego senza un intervento attivo dello Stato, una distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito, anche quest’ultimi se privati di un intervento statale. Secondo Keynes lo Stato può aumentare l’occupazione attraverso la variazione dei salari nominali, è il cosiddetto “effetto Keynes”: una riduzione dei prezzi porterà una riduzione dei redditi nominali, che riducono le transazioni di moneta e questo ridurrà il tasso d’interesse. Con un’efficienza marginale del capitale data aumenteranno gli investimenti, di conseguenza aumentando l’occupazione.

Meccanismo questo nel quale lo stesso Keynes riconosce dei limiti, uno dei quali è l’equivalenza di risultato dell’usare politiche monetarie espansive, le quali preferibili secondo il suo diktat.

Per questo scriveva che scavare buche per poi riempirle andava altrettanto bene di una spesa pubblica che producesse valori d’uso per la società. Da questo punto di vista i conflitti internazionali e quindi la concentrazione della spesa governativa nel settore militare-industriale trasformarono l’incipit iniziale in qualcosa di negativo. In questo contesto si può inserire il tema della “socializzazione degli investimenti” ripreso da Minsky il quale sostiene la necessità di “una economia i cui i settori chiave siano socializzati; dove il consumo in comune – dunque non monetario, ma per così dire provveduto “in natura” – soddisfi la parte maggiore dei bisogni privati; dove la tassazione del reddito e della ricchezza sia disegnata per abbattere la diseguaglianza; dove la speculazione nella struttura delle passività sia regolata da leggi che ne definiscano rigidamente l’ammissibilità. Un capitalismo del genere può rendere

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raggiungibile il pieno impiego con meno tensioni e instabilità di quelli emersi nel capitalismo degli anni Sessanta e Settanta”.6

Messaggio che è stato imbastardito non dando la giusta importanza a dove ha luogo la spesa iniziale e perseguendo la politica dello “sgocciolamento”: stimolare l’investimento privato per conseguire profitti che a loro volta genererebbero più occupazione e una crescita dei redditi più bassi. Strategia questa che crea un divario relativo più marcato tra i più e meno ricchi e tra quest’ultimi e i poveri, disuguaglianza quindi aumentata e povertà affrontabile esclusivamente tramite trasferimenti e assistenza.

Rivolgere lo sguardo non solo ad una politica di alti profitti e alti investimenti senza tener conto dei rischi creati alla società e all’ambiente è il segnale che lancia Minsky, sottolineando come la contabilità in termini di PIL non rappresenti il benessere della popolazione.

Paradossale è l’esempio fornito nel quale si fa notare come un tragitto di un’ora per andare a lavoro tenda ad accrescere il PIL mentre un percorso a piedi di 20 minuti non lo faccia, ed è proprio questa la prova di come il PIL non rappresenta una misura attendibile del benessere economico.

L’economista di Chicago esorta una visione della popolazione fatta da famiglie, con una propria struttura delle preferenze che non sono volubili, e con uno schema di risparmio, consumo e distribuzione del reddito proprio del sistema economico. Questa serie di elementi non devono esseri trattati come problemi così come non può essere considerata ricchezza il solo possesso di beni che determinano l’ammontare del PIL come quantità di output prodotto dal settore privato. Lo sfruttamento di risorse pubbliche da parte delle persone può e deve rientrare nella determinazione della ricchezza delle famiglie, la visione paretiana secondo cui il benessere è massimizzato da scambi fra beni non lascia spazio per beni gratuiti o non acquistati.

Non banale è sottolineare come i bisogni delle famiglie possono essere soddisfatti in vario modo, con flussi provenienti da un insieme di diverse fonti dove quella privata è solo una di queste.

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Si pensi ai beni pubblici, per definizione non escludibili, né rivali nel consumo, beni perciò l’accesso ai quali è assicurato a tutti, la cui fruibilità da parte del singolo è indipendente da quella di altri; o ai beni comuni, i “commons”, che invece, sono i beni che sono rivali nel consumo ma non escludibili; e in secondo luogo sono tali che il vantaggio che ciascuno trae dal loro uso non può essere separato dal vantaggio che altri pure traggono da esso. Come a dire che il beneficio che il singolo ricava dal bene comune si materializza assieme a quello di altri, non già contro e neppure a prescindere.

Non è vero, quindi, che la massima estensione possibile della logica del mercato accresce il benessere per tutti. Non è vera, cioè, la metafora secondo cui “una marea che sale solleva tutte le barche”. Il ragionamento che sorregge la metafora è il seguente: poiché il benessere dei cittadini dipende dalla prosperità economica e poiché questa è causalmente associata alle relazioni di mercato, la vera priorità dell’azione politica deve essere quella di assicurare le condizioni per la fioritura massima possibile della cultura del mercato. Il welfare state, dunque, quanto più è generoso tanto più agisce come vincolo alla crescita economica e quindi è contrario alla diffusione del benessere. Dove la raccomandazione di un welfare selettivista che si occupi solamente di coloro che la gara di mercato lascia ai margini. Gli altri, quelli che riescono a rimanere entro il circuito virtuoso della crescita, provvederanno da sé alla propria tutela. Ebbene, è la semplice osservazione dei fatti a svelarci la contraddizione che sta alla base di tale linea di pensiero: crescita economica (cioè aumenti sostenuti di ricchezza) e progresso civile (cioè allargamento degli spazi di libertà delle persone) non marciano più insieme. Come dire che all’aumento del benessere materiale non si accompagna più un aumento della felicità (well-being): ridurre la capacità di inclusione di chi, per una ragione o l’altra, resta ai margini del mercato, mentre non aggiunge nulla a chi vi è già inserito, produce un razionamento della libertà, che è sempre deleterio per la “pubblica felicità”.

La maggior presenza o la maggiore qualità di beni di cui sopra potrebbe giustificare e non rigettare un sacrificio in termini patrimoniali da parte dei contribuenti per far sì che lo Stato possa porre in essere un programma efficace per combattere la povertà. Come già detto, il primo importante traguardo in quest’ottica di programmazione è raggiungere e mantenere il tight full employment, lo stretto pieno impiego;

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Tight Full Employment

Volendo dare concretezza a questo concetto lo potremmo ricondurre alla quantificazione che fa Dimitri B. Papadimitriou e circoscriverlo in un 2,5% di disoccupazione, pur tenendo conto della contestualizzazione fatta nell’introduzione.7

Molti economisti sono d’accordo che la piena occupazione sia rappresentata dal NAIRU, non-accelerating inflation rate of unemployment; altri economisti ritengono sia il “tasso naturale” di disoccupazione determinato dal salario reale d’equilibrio così che i disoccupati risulterebbe solo quelli volontari, i non disposti a lavorare a quel salario. Tasso naturale difficilmente prevedibile e che come ci dice la storia volubile; altri associano la piena occupazione alla situazione nella quale rimanga solo una disoccupazione frizionale e quella strutturale. La prima nasce dal normale turnover nel mondo del lavoro, deriva dalle imperfezioni nel processo di abbinamento tra posti di lavoro disponibili e lavoratori in cerca della migliore occupazione possibile. Il totale di disoccupati legati alla disoccupazione frizionale dipende dalla frequenza con la quale i lavoratori cambiano lavoro e dal tempo impiegato per trovarne uno nuovo. Si tratta di un fenomeno naturale, solitamente di breve periodo, che contraddistingue le economie dinamiche e in crescita che presentano perciò un certo livello di disoccupazione frizionale non eliminabile. La disoccupazione strutturale è la mancanza di un impiego legata all'assenza di corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro. In altre parole, è la mancata simmetria tra le abilità del lavoratore e quelle richieste dal datore di lavoro e solitamente la disoccupazione strutturale dura di più di quella frizionale.

Secondo Minsky invece “lo stretto pieno impiego esiste quando per un’ampia classe di occupazioni, industrie e localizzazioni, i datori di lavoro, ai salari correnti, preferirebbero occupare più lavoratori di quanto stiano facendo”.8 Gli effetti di una

tale condizione economico-sociale sarebbero quelli di aumentare il numero di occupati all’interno delle singole famiglie dotando queste di una maggiore autonomia reddituale e di diminuire drasticamente le condizioni di povertà da disoccupazione. Condizione complementare è la crescita dei salari bassi maggiore di quelli alti così da

7 Minsky (2013), Ending poverty: jobs, not welfare, New York, Levy Economics Institute, p. 48. 8 Idem, p. 71.

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allontanare un maggior numero di famiglie dalla soglia di povertà e ridurre il gap di disuguaglianza, ragionamento quest’ultimo che si ricollega alla “malattia di Baumol” trattata più avanti.

Date le tante definizioni di questo concetto è bene fissarne uno, forse più generico, ma che aiuti a comprendere la trattazione dell’argomento di questa tesi: piena occupazione o zero disoccupazione è una condizione dell’economia nella quale chi è disposto a lavorare dietro un corrispettivo minimo garantito può farlo.

Una definizione che è lontana dal significato semantico ma che è funzionale all’analisi qui fatta, questo perché ci saranno sicuramente diversi individui che preferiranno non lavorare per un salario ritenuto troppo basso per le loro abilità o che preferiscono semplicemente non lavorare.

Nell’analisi che Minsky fa sono tre le caratteristiche dello stretto pieno impiego: 1. La dimensione del PIL corrispondente allo stretto pieno impiego

2. L’effetto dello stretto pieno impiego sui salari relativi

3. L’effetto della transizione allo stretto pieno impiego sul livello dei prezzi

Per spiegare il primo punto viene presa in considerazione la “regola del pollice” di Okun (legge di Okun) che teorizza l’incremento del 3% del PIL per ogni punto di disoccupazione ridotto; per una migliore illustrazione: questo meccanismo, dice Okun, deve essere preso in considerazione fino al 4% di tasso di disoccupazione. La diretta conseguenza è che la variazione della produzione influenza in maniera meno che proporzionale l’occupazione, considerazione che nasce dall’osservazione di una richiesta di ore straordinarie piuttosto che nuove assunzioni da parte dei datori di lavoro ai propri dipendenti a fronte di una maggiore domanda. Questa relazione che lega PIL e occupazione ci dimostra che l’ammontare aggiunto di prodotto interno lordo andrebbe ampiamente a coprire i costi sostenuti dal governo per l’allontanamento dalla povertà delle famiglie.

L’osservazione suggerisce che in presenza di mercati del lavoro “stretti” il divario salariale sia minore, mentre in un mercato in eccesso di risorse la differenza tra i salari alti e quelli bassi sia più marcati. Come sostenuto da Levinson anche l’efficacia delle contrattazioni salariali da parte dei sindacati è minore se non controproducente in condizioni di strettezza complessiva del mercato del lavoro nei settori in cui la forza

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contrattuale è debole o assente. La coesione quindi tra i salari relativi è strettamente correlata alle condizioni del mercato e ai valori relativi di produttività.

Considerando un modello in cui vi sono un’industria ad alto salario e una a basso salario, come richiamato sopra, l’obiettivo di un programma che combatta la povertà è quello di far crescere meno che proporzionalmente gli alti salari rispetto ai bassi. L’esistenza di settori ad alto salario può essere giustificata dall’alta specializzazione dei lavoratori piuttosto che dall‘approfondita formazione che l’impresa svolge sui propri dipendenti o all’avversione alla perdita di forza lavoro con determinate abilità. Dal momento che essa garantisce un premio ogni volta che assume, questa industria ad alto salario ha un’offerta infinitamente elastica al salario prevalente.

L’occupazione del settore a basso salario è correlata alla domanda di lavoro del settore ad alto salario, anche qualora la domanda di lavoro dovesse crescere in entrambi i settori l’occupazione del settore a basso salario potrebbe aumentare o diminuire in base alla reazione a salari più alti dei tassi di partecipazione alla forza lavoro e dalla disponibilità di posti di lavoro più qualificati, ma i suoi salari cresceranno, mentre i salari dell’industria ad alto salario rimarranno invariati.

Il modello così presentato si riferisce a un mercato del lavoro statico, ignorando che in generale i salari reali crescono nel tempo. Quelli del settore ad alto salario lo faranno di pari passo con la produttività del lavoro, quelli dell’industria a basso salario diminuiranno in una situazione di eccesso di risorse o cresceranno in presenza di una strettezza del mercato del lavoro in relazione ai salari nell’industria ad alto salario. L’impegno a combattere la povertà porta con sé l’impegno sopracitato della crescita rapida dei salari prossimi alla soglia della povertà o al di sotto di quest’ultima. Una crescita del salario più rapida della propria produttività si traduce in un aumento dei prezzi dei prodotti e servizi che usano questi lavoratori, dato che il livello dei prezzi debba rimanere costante, questo aumento dovrà essere compensato da una diminuzione. A dover diminuire saranno quindi i prezzi dei prodotti e servizi dell’industria ad alto salario.

Questo perverso meccanismo sposterà la distribuzione del reddito a favore dei profitti e questo è un risultato non auspicabile.

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Come diretta conseguenza di questo meccanismo si constata come il livello dei salari alti debba seguire la produttività del settore ad alto salario, questo porterà inevitabilmente all’aumento del livello generale dei prezzi.

Questa inflazione è un fenomeno di transizione da un’economia con risorse inutilizzate a un’economia di stretto pieno impiego. Una volta che lo stretto pieno impiego sarà avviato e sostenuto, questa fonte di pressioni inflazionistiche cesserà.

La distribuzione del reddito

Il tema della distribuzione del reddito lo si può ricondurre anche all’apparente successo che ebbero le politiche keynesiane, che possono portare ad una instabilità provocata non da uno stato depressivo dell’economia ma al contrario dalla tendenza ad esplodere.

In un clima di buone aspettative crescenti gli operatori che agiscono sul mercato lo fanno con la serenità che contraddistingue questi periodi: credere che l’anno successivo sia migliore di quello in corso porta ad un incremento esplosivo della domanda privata di investimenti. Quest’ultimi incentivati dalla conferma sulle aspettative di profitto e dalla credenza del raggiungimento sempre più prossimo del pieno impiego.

Se a questa contingenza si abbinano una spesa pubblica alta e una politica fiscale non adeguata il risultato sarà che a finanziare questi investimenti privati crescenti dovrà essere il risparmio privato.

Seguendo la relazione “kaldoriana”, nella quale la propensione a risparmiare è superiore sui profitti e minore sul reddito delle famiglie, la distribuzione del reddito si sposta verso i profitti nelle condizioni sopra esposte. Crescendo i prezzi rispetto ai salari monetari causerà un’inflazione che eroderà i salari reali. “Perciò, non solo la distribuzione classica del reddito (salari e profitti) si deteriora durante un boom degli investimenti, ma tale peggioramento si accompagna ad una inflazione politicamente sgradita”.9

Approfondiamo il tema della distribuzione del reddito.

“In un paese ricco la povertà è una questione di distribuzione del reddito”.10

9 Minsky (2013), Ending poverty: jobs, not welfare, New York, Levy Economics Institute, p. 101. 10 Idem, p. 113.

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Data questa definizione può essere utile, ancor prima di approfondire il tema della distribuzione del reddito, chiarire il concetto di povertà. Con questo termine si può intendere uno stato economico sociale di una famiglia in valore assoluto così come in termini relativi. Quello su cui noi oggi siamo abituati a ragionare è il concetto di povertà relativa: non è importante quanto sia grande il reddito assoluto, coloro i cui redditi sono al di sotto della media sono poveri. Per valore di media ci si riferisce ad un valore assoluto che possa garantire una vita dignitosa alle famiglie che la posseggono. Contestualizzare le famiglie diventa fondamentale; un livello di vita adeguata in un paese occidentale, o che possa vantare una condizione di ricchezza, richiede un reddito assoluto molto al di sopra di quello necessario in un paese povero.

Ampliando il concetto di relatività anche chi percepisce un reddito dignitoso può ritenere che questo non lo sia, come nel caso che spesso osserviamo dei percettori di trasferimenti da parte del welfare. Entra in gioco il concetto di utilità, di valutazione soggettiva.

Il concetto di reddito di soddisfazione, come l’utilità, non può essere misurato direttamente.

Definire una politica pubblica di distribuzione del reddito dopo aver chiarito questi concetti può apparire un’impresa ancor più ardua di quello che si potesse pensare prima, e in effetti lo è. Come ci ricorda Baumol, la possibilità di attuare una politica economica non implica necessariamente che una buona idea raggiunga il suo scopo. Minsky nel delineare una politica economica volta ad una migliore distribuzione del reddito al fine di eliminare la povertà individua quattro principali ostacoli:

1. La macroeconomia di una tassa negativa sul reddito 2. I limiti alla crescita economica

3. La stabilità dei salari relativi

4. I feedback provenienti dal pieno impiego protratto nel tempo

La conclusione alla quale l’autore rivolge la propria analisi è la correlazione che esiste tra povertà e produzione di output (quest’ultimo che può prendere la forma di beni pubblici), e il risultato che si otterrebbe attraverso un programma di espansione dell’impiego pubblico invece di trasferimenti mediante tassazione (i quali non avrebbero la stessa efficacia nel raggiungere lo scopo della lotta alla povertà).

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Da sottolineare è che la difficoltà con qualunque programma radicale di equalizzazione del reddito risiede nell’economia, non nell’aritmetica; non può essere accettato un piano radicale come base di un’azione solo perché l’aritmetica è giusta.

La tassa negativa sul reddito

Un “dividendo sociale”, trasferisce ad ogni persona viva, prescindendo da qualunque condizione socio-economica, un ammontare stabilito di reddito monetario di diritto. Una “tassa negativa sul reddito” ha una struttura formale più complessa, trasferendo ad ogni individuo che ne ha diritto un pagamento di denaro liquido in proporzione alla differenza tra il reddito effettivo e il reddito obiettivo.

Nel primo caso c’è una tassazione diretta del reddito privato, alla somma risultante al netto delle imposte andrà poi sommato l’importo del dividendo sociale identificato nella somma prestabilita; nel secondo caso, in presenza di una tassa negativa sul reddito, l’imponibile sarà formato dalla differenza tra il reddito obiettivo e il reddito effettivo alla quale andrà poi sommata il reddito effettivo.

In formule:

• Dividendo sociale: 𝑅𝑑 = 𝐷𝑖𝑣 + 𝑅𝑝∗ (1 − 𝜏)

• Tassa negativa sul reddito: 𝑅𝑑 = (𝑅𝑂𝑏− 𝑅𝑒) ∗ 𝜏 + 𝑅𝑒

Dove: 𝑅𝑑 è il reddito disponibile; 𝑅𝑝 è il reddito derivante da fonti private; 𝑅𝑒 è il

reddito effettivo; 𝑅𝑂𝑏 rappresenta il reddito obiettivo e 𝜏 è l’aliquota fiscale.

Ci sono dunque tre parametri nel dividendo sociale o nella tassa negativa sul reddito: la garanzia minima, l’aliquota fiscale sul reddito percepito e il reddito obiettivo. Una volta fissati due, il terzo è facilmente calcolabile. Nella prima configurazione i parametri fissati saranno il reddito minimo e l’aliquota di tassazione; nel secondo il reddito obiettivo e l’aliquota.

Con l’ausilio di esempi numerici si può dimostrare che i due schemi sono identici nella sostanza, differenti solo nella forma. Prendendo in prestito la definizione giuridica del “buon padre di famiglia” ed estendendola nel contesto economico domestico quello che può risultare la scelta migliore è sostituire un sistema di welfare che non offre una soluzione al problema della povertà in termini di reddito con una tassa negativa sul

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reddito. Questo, sicuramente, più su un piano filosofico in quanto si può dedurre che ogni famiglia, attraverso una figura autorevole, sappia decidere cosa è meglio per essa. L’obiettivo di una tassa negativa sul reddito o di un dividendo sociale è quello di eliminare la povertà attraverso l’elevazione del reddito dei poveri e dei quasi poveri al di sopra della soglia che già si osserva con l’operato degli schemi di welfare esistenti. La questione è l’efficacia di una tassa negativa sul reddito come strumento nel tentativo di eliminare la povertà, definita in termini di reddito reale privato assoluto o relativo.

Concentrandosi sugli effetti macroeconomici di una tassa negativa sul reddito, si ipotizzerà che un modello di reddito-spesa che incorpori esplicitamente l’incertezza sia una buona descrizione dell’economia. Perciò si ipotizzerà che una tassa negativa sul reddito abbia implicazioni sul consumo, sull’investimento e sulle scelte di portafoglio, così come sull’offerta di lavoro.

Si mostrerà che una tassa negativa sul reddito è espansiva o inflazionistica, anche se i budget di bilancio sono in pareggio. Se la tassa negativa sul reddito induce inflazione, ci sarà uno spostamento verso l’alto dei redditi tassabili; le famiglie che inizialmente erano beneficiarie nette passeranno oltre la linea di break-even in termini monetari e subiranno una diminuzione del loro reddito reale. Il risultato finale sarà un equilibrio che porta meno in termini reali di quanto promesso ai poveri, mentre sarà più incisivo di quanto anticipato sui redditi dei non poveri. Appare chiaro che una tassa negativa sul reddito sufficientemente generosa da ridurre in modo significativo o eliminare la povertà avrebbe molte ripercussioni, le stesse che si potrebbero riscontrare intraprendendo un significativo miglioramento dell’attuale schema di welfare.

Senza entrare nel dettaglio empirico dell’analisi di Minsky riguardo la sostenibilità da parte di un governo di un programma di welfare che preveda l’applicazione di una tassa negativa sul reddito, l’autore sostiene che quest’ultima al livello di pieno impiego non determini uno sforamento del deficit. “L’incremento delle aliquote marginali di tassazione sui redditi al di sopra del punto di break-even così come i fondi che verrebbero liberati da schemi di welfare esistenti, dovrebbero garantire la copertura al programma”.11

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Gli effetti diretti che una tassa negativa sul reddito efficace avrà sono:

1. Un effetto reddito e di sostituzione che opera attraverso le funzioni di offerta di lavoro;

2. Un effetto ricchezza che opera attraverso la funzione di consumo;

3. Un effetto cash-flow che opera attraverso la funzione di preferenza per la liquidità.

Una tassa negativa sul reddito efficace aumenterà il reddito disponibile di coloro che guadagnano meno del reddito obiettivo, ridurrà l’aliquota marginale di tassazione sul welfare dei poveri e aumenterà quella sul reddito da lavoro.

Presumibilmente, l’effetto reddito dovuto alle più alte garanzie sul reddito minimo tenderanno a indurre uscite dalla forza lavoro; contemporaneamente un effetto contrario lo provocherà l’abbassamento dell’aliquota marginale di tassazione; potrebbero quindi verificarsi tendenze opposte che si compensano.

Una tassa negativa sul reddito, come già detto, aumenterà l’aliquota marginale di tassazione dei redditi da lavoro facendo sperimentare a molte famiglie l’aumento del reddito disponibile con un parallelo aumento della tassazione marginale. La conseguenza sarà un’attenuazione del beneficio netto derivante dal maggiore lavoro con una conseguente sostituzione del tempo libero al lavoro per le famiglie che riscontrano un reddito in prossimità della mediana.

Questo comportamento sarebbe forse più utile e più “remunerativo” per quelle famiglie che dispongono di proprietà che potrebbero occupare il tempo libero supplementare, o per i componenti della famiglia che hanno intenzione di dedicarsi di più alla cura della stessa, considerando che le attività di intrattenimento per occupare il proprio tempo spesso hanno un costo non trascurabile.

Date queste premesse si può esplicitare la funzione di offerta di lavoro:

1. 𝑁𝑠 = 𝑁𝑠( 𝑊 𝑃 , 𝑉, 𝐾𝐸 𝑃),

dove 𝑁𝑠 è l’offerta di lavoro, 𝑊 è il salario monetario, 𝑃 il livello generale dei

prezzi, 𝑉 il valore reale della ricchezza non umana e 𝐾𝐸

𝑃 è il valore attuale del

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29  𝜕𝑁𝑠 𝜕𝐾𝐸𝑃 < 0; 𝜕𝑁𝑠 𝜕𝑊𝑃 > 0; 𝜕𝑁𝑠 𝜕𝑉 < 0.

Se effettiva, una tassa negativa sul reddito aumenta il pavimento del reddito reale di tutte le famiglie che non posseggono una ricchezza netta sostanziosa. Le famiglie che non beneficiano del welfare (o della tassa negativa sul reddito) ottengono miglioramenti di benessere, se esistono protezioni contro eventualità negative seppure improbabili. Questo perché tendenzialmente la famiglia tipica è avversa al rischio.

Per quel che riguarda l’effetto ricchezza sul consumo:

2. 𝐶 = 𝐶(𝑌, 𝑉, 𝑟,𝐾𝐸𝑃) dove 𝐶 è il consumo, 𝑌 il reddito, 𝑟 il tasso di interesse.

 𝜕𝐶 𝜕𝐾𝐸 𝑃 > 0; 𝜕𝐶 𝜕𝑌> 0; 𝜕𝐶 𝜕𝑟< 0; 𝜕𝐶 𝜕𝑉> 0.

La propensione alla detenzione di liquidità a scopi precauzionali, cosa che razionalmente le famiglie operano, sarà minore con l’introduzione di una tassa negativa sul reddito. La minor preferenza per la liquidità può prendere anche la forma di portagli di attività finanziarie sempre più rischiose oppure l’acquisto di beni durevoli. La ragione della minore liquidità detenuta dalle famiglie sta nella certezza di un cash flow che prima non c’era.

Queste garanzie, quindi, tenderanno a incrementare la velocità di circolazione della moneta. 3. 𝑀𝐷 = 𝐿(𝑌𝑃, 𝑉𝑃, 𝑟, 𝐾𝐸)  𝜕𝑀𝐷 𝜕𝐾𝐸 < 0; ed abbiamo anche 𝜕𝑀𝐷 𝜕𝑌𝑃 > 0; 𝜕𝑀𝐷 𝜕𝑟 < 0; 𝜕𝑀𝐷 𝜕𝑉𝑃 > 0;

Si evince che un miglioramento del welfare ridurrà la domanda di saldi monetari quindi tenderà a ridurre i tassi di interesse. Questo determinerà una tendenza alla crescita

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dell’investimento. Come visto un miglioramento di KE porterà a una diminuzione anche dell’offerta di lavoro, questo ci si può aspettare che porterà ad una sostituzione di capitale a lavoro nella produzione generando un incremento della domanda di investimenti.

Si può affermare che l’offerta di lavoro e la funzione di consumo si sposteranno e, insieme agli effetti positivi sulla domanda di moneta, indurranno un’espansione inflazionistica. Nel momento in cui questo diventerà evidente, avranno luogo spostamenti speculativi nell’investimento e nella preferenza di liquidità.

Sapendo che i benefici e le aliquote fiscali sono fissate in termini monetari, l’inflazione erode il loro valore reale, quando la spinta inflazionistica si riassorbe si raggiunge un nuovo equilibrio e occorre conoscerne le caratteristiche.

“Si ignora se sia possibile un boom degli investimenti, con l’eventualità che venga innescato un nuovo ciclo economico”.12

Gli effetti distributivi di una tassa negativa sul reddito prenderanno inizialmente la forma di incrementi di reddito disponibile e di assicurazione di valore costituita dal reddito minimo, solo le famiglie che hanno un reddito elevato e una ricchezza netta sostanziosa subiscono un peggioramento del benessere e questa è una scelta cosciente della politica economica. Seguendo la spinta inflazionistica al crescere dei salari monetari e dei prezzi, le famiglie passano dall’essere beneficiarie nette all’essere contribuenti nette e il valore reale dei trasferimenti e la natura assicurativa del trasferimento scendono.

La tassa negativa sul reddito è stata proposta come un’arma efficace per la lotta alla povertà ma si rivela in realtà uno strumento complesso che può indurre a effetti collaterali indesiderati e inattesi. Come mostrato, in particolare, una tassa negativa sul reddito può tendere a introdurre inflazione, ridurre il prodotto nazionale lordo misurato e il tasso misurato di crescita dell’economia. Se l’inflazione indotta sarà rapida e ampia, oppure lenta e bassa non è noto e sarebbe difficile da stimare. Se lo scenario che si presentasse fosse il secondo, un’inflazione lenta e bassa, e i benefici netti per i più poveri siano quelli sperati, una maggiore integrazione con un

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innalzamento del pavimento salariale reale, allora si potrebbero forse affrontare gli effetti collaterali indesiderabili.

Il secondo limite individuato da Minsky è il limite alla crescita dell’output aggregato. Se l’obiettivo è quello di una equalizzazione del reddito o, con minori aspirazioni, una migliore distribuzione del reddito per combattere la povertà, c’è il bisogno di una crescita dell’output proporzionalmente sostenuta all’obiettivo preposto. Una condizione che può limitare questa crescita anche in una situazione di pieno impiego è un aumento lento dell’output nei settori con produttività del lavoro alta, questo perché la forza lavoro in questi settori sarà in calo.

La rapida crescita, nel modello presentato dall’autore, è l’effetto composto di due elementi: rapidi tassi di incremento della produttività in alcuni settori e incrementi dell’occupazione in questi settori progressivi.

Limiti alla crescita economica

All’interno di un semplice modello di crescita a due settori, Baumol ha precisato alcune delle implicazioni della crescita non bilanciata della produttività postulando l’esistenza di due settori: uno tecnologicamente progressivo e l’altro tecnologicamente stagnante. Nel modello bi-settore di Baumol quindi, il settore stagnante presenta una produttività del lavoro non crescente, il settore progressivo invece, è caratterizzato da una produttività del lavoro crescente a un tasso costante esponenziale dato da 𝑒𝑟𝑡. Perciò nel settore stagnante:

 𝑌𝑠𝑡 = 𝑎𝐿𝑠𝑡

Nel settore progressivo:

 𝑌𝑝𝑡= 𝑏𝐿𝑝𝑡𝑒𝑟𝑡

 𝑊𝑡=𝑊0𝑒𝑟𝑡 per quanto riguarda la crescita dei salari

Le implicazioni di queste proposizioni possono essere riassunte in quattro teoremi: o Il costo per unità di output nel settore stagnante 𝐶𝑠 crescerà senza limite,

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o La domanda non altamente inelastica rispetto al prezzo dei settori stagnanti crea una tendenza dell’output di questo settore a diminuire e forse, al limite, a svanire

o Se il rapporto fra gli output dei due settori è mantenuto costante, in misura crescente ci dovrà essere un’allocazione del lavoro nel settore stagnante

o Se la forza lavoro cresce ci sarà un’allocazione maggiore nel settore stagnante

o Data la crescita sbilanciata della produttività, un tentativo di raggiungere una crescita bilanciata deve condurre a un tasso di crescita decrescente relativamente al tasso di crescita della forza lavoro

o Se la produttività e la forza lavoro in un settore rimangono costanti il tasso di crescita dell’economia tenderà asintoticamente a zero

o Il tasso di crescita dei prezzi tenderà al tasso di crescita della produttività

Questo modello assume un particolare interesse se si considera il settore progressivo quello che produce beni materiali mentre il settore tecnologicamente stagnante producente servizi, e in particolare se quest’ultimo è rappresentato dal settore pubblico.

L’identificazione qui sopra fatta non dovrebbe spingersi troppo oltre però, il lavoro assegnato a settori tecnologicamente stagnanti con domanda inelastica al prezzo e al reddito, potrebbe crescere, ma la crescita dell’attenzione e dei prezzi relativi agirà come esca all’introduzione di nuove tecniche. Ci si aspetta così che debba avvenire un’eliminazione di lavoro. Non dovrebbe essere difficile ricollocare questi concetti ai nostri giorni, è sufficiente pensare a cosa abbia rivoluzionato la “terza rivoluzione industriale” o più recentemente la cosiddetta “Industria 4.0”. “Nei settori stagnanti, elastici al reddito e inelastici al prezzo, la crescita dell’occupazione e del reddito prodotto agisce come esca per il progresso tecnologico. Perciò la resistenza alla crescita e lo stimolo a incrementi accelerati dei prezzi postulati dalla “malattia di Baumol” non devono essere visti come necessariamente permanenti, ma piuttosto come “fasi” ricorrenti che conducono a cicli nella crescita dell’economia”.13

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Tenendo conto che ci sarà sempre uno zoccolo duro di servizi labour-intensive e inelastici rispetto al reddito e al prezzo, questo costituirà la resistenza essenziale alla crescita del reddito. In conclusione quello che determinerà il tasso di crescita dell’economia sarà la dimensione relativa e le elasticità rilevanti dell’output dei settori stagnanti. Si potranno osservare periodi nei quali i settori tecnologicamente stagnanti saranno più importanti riscontrando così una crescita reale più modesta del PIL, altri periodi, invece, nei quali quest’ultimi saranno relativamente piccoli così che il tasso di crescita reale del PIL sarà alto.

Per ottenere un ottimo risultato perseguendo l’iniziale obiettivo della distribuzione alterando il processo di crescita dei settori, è necessario che la crescita complessiva sia sostenuta in modo da incrementare il reddito di tutti, con eccezione dei redditi della fascia più alta.

La distribuzione del reddito da lavoro dipende dai salari relativi.

Salari relativi

Si noti che una grande percentuale dei poveri lavora a tempo pieno durante l’anno, quindi se attraverso l’attuazione di qualche politica economica è possibile influenzare i salari relativi allora esiste la possibilità che la povertà possa essere alleviata con cambiamenti dei salari relativi.

Il reddito a cui si fa riferimento è il reddito da lavoro, che è solo uno dei possibili redditi, ma a fini dell’attenuazione della povertà è l’unico che interessa. È facile intuire come i redditi da proprietà e da capital gain non riguardino la fascia più povera delle famiglie, così come, molto probabilmente quello da profitto.

Quello che interessa migliorare è quindi il reddito medio in termini relativi provenienti da lavoro.

Rintroducendo un modello di industrie ad “alto” e a “basso” salario si possono osservare due diversi andamenti dei salari relativi:14

14 Fonte: Minsky (2013), Ending poverty: jobs, not welfare, New York, Levy Economics Institute, pp.

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