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IL RUOLO DEL DIRIGENTE NEL BENESSERE ORGANIZZATIVO: INDAGINE FRA I DIPENDENTI DELLA RIABILITAZIONE DELL'AZIENDA SANITARIA LOCALE DI PISA E DELL'ASL Rm5 DI ROMA

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DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di laurea magistrale:

Scienze Riabilitative delle Professioni Sanitarie

Dir. Chiar.mo Prof. S. Marchetti

IL RUOLO DEL DIRIGENTE NEL BENESSERE ORGANIZZATIVO:

INDAGINE FRA I DIPENDENTI DELLA RIABILITAZIONE

DELL’AZIENDA SANITARIA LOCALE DI PISA

E DELL’ASL Rm5 DI ROMA.

Candidata:

Relatore:

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Alla mia Famiglia,

Ad Antonio.

“Poter condividere è poesia nella prosa della vita!”

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INDICE

INTRODUZIONE 1

CAPITOLO 1 Benessere organizzativo, Clima organizzativo e Cultura organizzativa

1.1 Benessere Organizzativo 3

1.2 Clima organizzativo 8

1.3 Cultura organizzativa 11

CAPITOLO 2 Stress Lavoro-Correlato

2.1 Aspetto generali e tipi di stress lavoro correlato 14

2.2 Stress operatori sanitari 22

2.3 Riferimenti normativi 23

2.4 Valutazione del rischio 27

CAPITOLO 3 Ruolo del dirigente

3.1 La figura del dirigente 31

3.2 Il dirigente della riabilitazione 37

CAPITOLO 4 Indagine sul benessere organizzativo

4.1 L’indagine sul benessere organizzativo 39

4.2 Definizione dell’ipotesi dell’indagine e pianificazione 42

CAPITOLO 5 Materiali e Metodi dello studio

5.1 Destinatari e campione 45

5.2 Strumenti di rilevazione: il questionario 45

5.3 Metodi per l’elaborazione dell’analisi dei risultati dell’indagine 47

5.4 Limiti e costi dell’indagine 49

CAPITOLO 6 L’Analisi dei Risultati

6.1 Lettura dei risultati dell’analisi 51

6.2 Analisi delle caratteristiche del campione 51

6.3 I risultati dell’analisi 57

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INTRODUZIONE

Nel 1948, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito la salute come:

Ed è proprio da questa definizione che nasce l’esigenza negli ultimi anni di approfondire e promuovere il benessere organizzativo, con il quale si intende:

L’esplicitazione di tale definizione è che un’organizzazione deve promuovere un lavoro di partecipazione e comunicazione tra i diversi partecipanti facenti parte della stessa: infatti a causa di questo, tanto più una persona si sente partecipe al proprio ambiente lavorativo tanto più trova motivazione nel suo lavoro e soprattutto tanto più è in “salute” in esso.

Nelle aziende (in particolare quelle sanitarie) il capitale umano è alla stregua del capitale fisico ed entrambi influenzano l’efficacia, l’efficienza, la produttività e lo sviluppo di una struttura pubblica; si è reso necessario dunque in ambito sociosanitario, per i risvolti economici e sociali dei nostri anni, di focalizzare l’attenzione sui rischi psicosociali nei quali possano incorrere i dipendenti di una struttura sanitaria pubblica. A partire dagli anni ’90, l’interesse della medicina del lavoro si è spostato verso due grosse categorie di rischi: quelli da stress meccanico dell’apparato muscolo scheletrico e quelli dei rischi psicosociali e organizzativi; con questi ultimi si intende tutta la sfera di condizioni stress-lavoro correlate.

Un’indagine sui problemi di salute connessi al lavoro da parte della “Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro” (2000) ha osservato che lo stress è il secondo problema di salute riferito dai lavoratori europei (rappresentando il 28%) dopo i disturbi muscolo- scheletrici (30%).

Lo stress-lavoro correlato racchiude al suo interno un gruppo molto ampio di condizioni tra le quali: molestie sessuali, bullismo, mobbing, sindrome da burnout, patologie stress-lavoro correlate 1 (Avallone e Bonaretti, Benessere Organizzativo, 2003)

"lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un'assenza di malattia o d'infermità"

"la capacità di un'organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione"1

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in senso lato, stress da lavoro atipico o pesante. Tali patologie rappresentano oltre il 50% dell’assenteismo sul posto di lavoro. Per questo rappresenta un costo sia per le aziende a causa della qualità dei servizi erogati sia per i governi a causa del costo della spesa sanitaria. Pertanto, lo stress da lavoro costituisce una grande sfida per le pubbliche amministrazioni. In particolare, il ruolo dei manager è di vitale importanza nella prevenzione, gestione e riduzione di tale stress; inoltre lo stile di direzione di un manager ha una forte influenza sullo stato di benessere individuale e del gruppo e di conseguenza sulla condizione complessiva di benessere organizzativo dal momento che riuscire a favorire il coinvolgimento, il consenso e la collaborazione del personale, riduce il rischio di esposizione ad agenti stressanti e migliora il clima relazionale del gruppo. In Italia un numero sempre maggiore di organizzazioni sta avviando, negli ultimi anni, progetti di valutazione riguardanti il proprio benessere: infatti numerosi sono i progetti relativi all’indagine effettuate su circa 200 pubbliche amministrazioni all’interno del programma “Laboratorio Cantieri delle pubbliche amministrazioni”, che successivamente fu modificato in “Programma Magellano”. Se la letteratura ci presenta innumerevoli indagini sul clima organizzativo all’interno di unità organizzative regionali, meno frequente è l’indagine sul confronto tra due realtà regionali diverse. Come viene enunciato nel D.P.R. n.616/77, ogni regione ha competenza di regolamentazione ed organizzazione delle attività destinate alla tutela della salute: per tale motivo risulta ancora più interessante indagare due realtà regionali diverse.

Con la legge 10 agosto 2000 n.251 art.6 vengono definiti i livelli di inquadramento delle professioni sanitarie e della qualifica unica di dirigente del ruolo sanitario e della prerogativa delle regioni di istituire la nuova qualifica di dirigente nell’ambito del proprio bilancio, operando con modifiche compensative delle piante organiche su proposta delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere. In un periodo storico in cui l’ambito sanitario diventa sempre più settoriale l’importanza di una leadership adeguata ad ogni ambito professionale sanitario diventa necessaria. Per tale ragione è consona la scelta di effettuare un’indagine sul benessere organizzativo in due diverse regioni sulla popolazione dei professionisti della riabilitazione.

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CAPITOLO 1

BENESSERE, CLIMA E CULTURA ORGANIZZATIVA

1.1 Benessere Organizzativo

Il “benessere” è inteso come uno stato di buona salute fisica e psichica e pertanto sono numerose le discipline che se ne occupano, in particolar modo la psicologia. Per molto tempo infatti, la psicologia dominante è stata quella del malessere, una psicologia che partiva e parte tutt’ora dall’assunto che questo malessere esista e il compito della disciplina è proprio quello di scoprirlo e di ridurlo.

Spaltro, in un suo intervento del 1997 dice che: “il benessere è qualcosa di soggettivo che ha la persona singola come protagonista” e ancora: “Da qualche anno si è posta attenzione all’idea di benessere, come modalità di vita, come sinonimo di qualità di vita, come opposto e contrario del malessere. Ciò ha provocato un cambiamento radicale dell’idea di benessere non più considerato sinonimo di ricchezza o salute ma sinonimo di qualità della vita e di felicità”.

Andando ad analizzare il termine “benessere”, la sua derivazione etimologica, il variare dei significati e l’intendersi del termine anche in funzione teologica, Spaltro getta le basi della nuova psicologia, una psicologia dedicata allo studio degli aspetti piacevoli e non a quelli dolorosi della vita psichica.

Negli ultimi tempi, oltre alla nascita della psicologia del benessere, si va a designare il termine di benessere organizzativo.

SOMMARIO: 1.1. Benessere Organizzativo – 1.2 Clima Organizzativo – 1.3 Cultura Organizzativa.

“Con "benessere organizzativo" si intende "la capacità di un'organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione" (Avallone e Bonaretti, Benessere Organizzativo, 2003)

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L’evoluzione storica della definizione del benessere organizzativo è intrinseco nell’evoluzione storica del lavoro e nel diritto alla tutela del lavoratore. L’evoluzione storica svolge delle tappe ben precise in cui il datore di lavoro gradualmente comprende l’importanza del capitale umano rispetto al capitale fisico.

Durante la rivoluzione industriale, l’organizzazione lavorativa era concepita in funzione del conseguimento del miglior risultato per l’industria non tenendo quindi in considerazione né la qualità dell’ambiente di lavoro né lo stato di salute del lavoratore. L’individuo era considerato infatti come un essere passivo che rispondeva a stimoli retributivi minimi e al quale era richiesto un mero adattamento al sistema organizzativo.

Negli anni 30-40 del XX secolo si inizia a porre attenzione ai fattori connessi con gli infortuni e le malattie in ambito lavorativo. In questo periodo si vengono a creare enti e comitati, governativi e non, preposti alla sorveglianza e al miglioramento della sicurezza per i lavoratori infortunati e per le condizioni di lavoro: pertanto in questi anni avviene una centralizzazione dell’individuo e ci si orienta maggiormente sulla cura del danno fisico avvenuto nel luogo di lavoro. Con la nascita del movimento delle relazioni umane (Mayo 1933,1945) viene posto in evidenza l’importanza del fattore umano, si incomincia a parlare dei possibili danni verso il benessere dei lavoratori apportati dalla routinizzazione e dalla dequalificazione; questi sentimenti crescono e vengono fortemente criticati nell’approccio Taylorista che in quel periodo si era promulgato nei contesti industriali. Esso infatti aveva come principio un incremento della produttività legato alla ripetitività dei compiti dell’operaio. Dunque, in questo modo si riconosceva l’importanza dell’elemento umano. Si era però ancora lontani dal considerare la salute come una dimensione multifattoriale.

Il periodo compreso tra il 1950 e il 1960 fu caratterizzato da una visione più attiva del soggetto lavoratore. Gli aspetti della sicurezza e della salute iniziarono con il “Job design”; questo tipo di studio va sotto il nome di Earlygonomics. Si cominciò a prestare attenzione allo stato di salute non solo fisico ma anche mentale del lavoratore, considerando le conseguenze psicologiche (affaticamento, disturbi psicosomatici, ecc..) che la routinizzazione e l’insoddisfazione potevano

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Durante gli inizi del ventennio successivo, si introduce una nuova idea: la prevenzione contro gli infortuni sul posto di lavoro; si affinano così gli studi e le tecniche per migliorare la qualità della sicurezza sui luoghi di lavoro. È sempre più evidente e studiata l’influenza sulla salute oltre che dei fattori biologici anche di quelli psicologici e sociali, così come l’importanza della loro combinazione e interazione (Gabassi, 2007).

Negli anni ’90 si vede l’introduzione del concetto di Wellness e dell’Occupational Health Promotion. Terborg distingue la health protection, che consiste nel proteggere quante più persone sia possibile dalle minacce alla loro salute e la health promotion che consiste nell’indurre le persone a fare scelte ragionate che migliorino la loro salute fisica e mentale. La novità principale è lo spostamento dell’interesse dalla prevenzione degli infortuni e delle malattie alla conservazione attiva della salute. Prima di allora, infatti, la salute era definita semplicemente come l’assenza di invalidità o di malattia, mentre da allora in poi viene concepita in chiave decisamente più positiva. L’organizational health report interveniva su tre dimensioni fondamentali: l’ambiente di lavoro, l’individuo e il rapporto lavoro/famiglia, ponendo particolare enfasi sulla prevenzione primaria ma non trascurando nessuno degli altri livelli preventivi. Lo strumento proposto (organizational health report) permetteva di stabilire una soglia dello stato di salute di un’organizzazione, al di sotto della quale veniva richiesto un intervento.

Non è possibile in questa sede fornire un quadro completo di tutti i modelli e i paradigmi di ricerca che, nel corso del tempo, si sono sviluppati sul tema del benessere organizzativo. È possibile, tuttavia, fornire un quadro sommario dei principali approcci che, negli ultimi dieci anni, hanno trovato considerazione nella letteratura internazionale. Williams (1994) propone una “griglia della salute organizzativa”, una struttura a quattro livelli rappresentati da fattori ambientali (che includono ad es. livello del rumore, della temperatura, progettazione dello spazio), fisici (alimentazione scorretta, fitness, malattie), mentali (autostima, stress, depressione, ansia) e fattori sociali (che includono le relazioni lavorative, interessi personali, eventi della vita). Questi quattro fattori sono dall’autore disposti secondo un ordine gerarchico: ciò vuol dire che il livello più alto può essere soddisfatto solo se è già stato soddisfatto quello più basso. Jaffe (1995) rivela una certa frammentarietà degli studi sul benessere organizzativo spesso focalizzati su singoli e specifici aspetti mentre sottolinea il carattere interdisciplinare del tema al quale si interessano discipline diverse quali la medicina, la psicologia, la sociologia, il management, l’antropologia, le scienze

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politiche. Nonostante questa varietà di aspetti e di approcci è possibile individuare quattro prospettive principali:

Il modello concetto di salute cerca di superare la dicotomia tra individuo e organizzazione, evidenziando come entrambi siano attori e responsabili della salute. Il benessere organizzativo risiede nella qualità della relazione esistente tra le persone e il contesto di lavoro. Per questo motivo oltre lo studio dei classici rischi fisici legati al tema della sicurezza lavorativa, si è affiancato quello dei cosiddetti rischi psicosociali che riguardano variabili legate al clima organizzativo e agli stili di convivenza sociale. In una parte della popolazione lavorativa giovane, soprattutto nei primi anni di esperienza lavorativa, si evidenzia una difficoltà nell’adattarsi a frequenti cambiamenti di contesto/sede lavorativa. Inoltre, si verifica che i comportamenti dell’organizzazione, in qualche occasione, non lascino spazio alle attese dei dipendenti. Quando si rivelano condizioni di scarso benessere organizzativo si determinano, sul piano concreto, fenomeni quali diminuzioni della produttività, assenteismo, bassi livelli di motivazione, ridotta disponibilità al lavoro, carenza di fiducia, mancanza di impegno, aumento di reclami e lamentele della clientela. Questi e altri indicatori di malessere non sono altro che il riflesso dello stato di disagio e malessere psicologico di chi lavora. La riduzione della qualità della vita lavorativa in generale e del senso individuale di benessere rende, pertanto onerosa la 1- Il paradigma dello stress da lavoro e del burnout, maggiormente indagato rispetto agli altri, dove l’attenzione è posta più sulle capacità dell’individuo di fronteggiare e gestire le situazioni stressanti piuttosto che sul tipo di ambienti lavorativi che possono causare o alleviare lo stress;

2- La prospettiva dello sviluppo organizzativo o della riprogettazione organizzativa più interessata a capire come creare luoghi di lavoro efficaci, piuttosto che in salute; o che legame ci sia tra comportamento dell’individuo ed efficacia organizzativa;

3- Il paradigma delle politiche aziendali;

4- Lo studio psicodinamico dei manager, dai quali dipenderebbe la buona o cattiva salute organizzativa.

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persone che vi lavorano. La prospettica sul benessere richiede una prospettiva di cambiamento cultura. Significa considerare centrale, nelle scelte strategiche e nei valori di riferimento, la qualità della convivenza organizzativa. La convivenza organizzativa può essere affidata alla mera tradizione prassi consolidate, delegata alla dinamica dei rapporti gerarchici può essere pensata, curata, gestita con il contributo di tutti gli attori della scena organizzativa. È ormai chiaro che una organizzazione in salute può essere anche più efficace e produttiva.

L’azienda sanitaria, vista la sua complessità, è tra le organizzazioni che dovrebbero far propri questi obiettivi. Le aziende sanitarie, infatti, si configurano come organismi complesso che erogano diverse tipologie di servizi, caratterizzati da un elevato livello di professionalità. Le precedenti osservazioni individuano nelle persone, e nel loro contributo professionale offerto all’azienda, un elemento essenziale del “sistema produttivo” delle aziende sanitarie. In questa ottica la dotazione complessiva di competenze presente in azienda rappresenta un capitale prezioso su cui occorre dedicare la massima attenzione, sia a livello strategico che con riferimento alla gestione dei processi e delle attività. Occorre dare un salto culturale accettando nuove sfida. A cominciare dal coinvolgere i lavoratori nelle sfide dell’amministrazione. Un primo elemento che viene rilevato in molte esperienze è che lo sviluppo delle motivazioni piò essere favorito dalla consapevolezza della rilevanza del proprio lavoro e di quella della propria organizzazione: sentirsi parte di organizzazioni che contribuiscono a migliorare la vita dei cittadini, a favorire lo sviluppo di comunità, a tutelare l’interesse collettivo può certamente essere un elemento di motivazione e appartenenza soprattutto in una fase come quella attuale di forti cambiamenti sul piano dei bisogni sociali. E’ anche necessario che queste organizzazioni coinvolgono e sappiano riconoscere ai lavoratori il loro valore nel perseguire queste sfide. Un buon clima genera benessere organizzativo se è in grado di promuovere, mantenere e migliorare la qualità della vita delle persone ed il benessere fisico, psicologico e sociale della comunità di persone che opera in un dato contesto. Un tipico indicatore di sintesi è facilmente individuabile nella gratificazione individuale e professionale. La costruzione e il mantenimento del benessere organizzativo sono il risultato concreto e visibile di un’organizzazione in buon stato di salute. Il progetto di ricerca sul benessere organizzativo, inteso come la capacità di un’organizzazione di sviluppare e mantenere il benessere fisico, psicologico, sociale delle persone che in essa lavorano, è stato promosso dal dipartimento della

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funzione pubblica ha dedicato un progetto obiettivo orientato al benessere nelle organizzazioni. L’attuale progetto Magellano ha sviluppato un metodo di analisi sul benessere organizzativo per indicare un modello di promozione della qualità della vita aziendale che, partendo dallo studio del contesto lavorativo, elabora soluzioni e interventi per l’intera organizzazione. Anche i recenti CCnl individuano tra i temi prioritari orientati alla valorizzazione delle risorse umane, la formazione, la partecipazione e indica alle aziende la necessità di prevenire fenomeni di mobbing. Il benessere organizzativo, perciò, è un approccio che associa, allo studio dei classici rischi fisici legati al tema della sicurezza lavorativa, quella dei cosiddetti rischi psicosociali, che riguardano variabili legate alla convivenza sociale e organizzativa.

1.2 Clima Organizzativo

Negli anni ’60, in psicologia si conia il termine di clima organizzativo. Il primo a parlare di clima fu Kurt Lewin che la intese come “atmosfera psicologia” per spiegare il comportamento umano come derivante dall’interazione tra fattori interni della persona ed esterni dell’ambiente. Da questa prima definizione numerosi sono stati gli studi e le interpretazioni; oggi, il clima organizzativo ha acquisito l’accezione di spiegare ciò che un “numero di individui pensano e sentono riguardo alle modalità di interazione reciproca sia per ciò che concerne il suo funzionamento interno, sia per ciò che riguarda il rapporto con gli altri gruppi dell’organizzazione stessa”.

Allo stesso tempo, negli ultimi anni, si pone il clima organizzativo come verifica delle capacità da parte dell’impresa o, in questo caso dell’organizzazione sanitaria, di rispondere alle esigenze e aspettative di soddisfazione, ai desideri e ai bisogni di crescita del proprio personale (Spaltro, 2002).

“Il clima organizzativo rappresenta lo stato di salute di un determinato ambiente, così come percepito da parte delle persone che in esso operano; per questo il clima condiziona l’andamento delle attività aziendali e i comportamenti delle persone, creando un piccolo beneficio o vizioso a seconda dei casi.”

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comportamenti delle persone in situazioni sociali reali e complesse. Per questo suo carattere globale, esso è analogo al clima fisico e come quest’ultimo è il risultato di un insieme di fattori che agiscono in modo combinato e possono così ricondursi a unità; così il clima organizzativo deve essere inteso come composto da più fattori differenti che, insieme, formano una caratteristica uniforme (Franco, 1995). I fattori determinanti del clima sono comportamenti, atteggiamenti, aspettative, realtà sociologiche e culturali che sono esterni alla persona e di cui può sentirsi partecipe. La difficoltà di definire in modo univoco questo concetto è dovuta quindi dal fatto che nella sua formazione convergono sia fattori soggettivi la percezione delle persone (es. comportamenti), sia fattori oggettivi, come l’ambiente in cui le persone operano (es. realtà sociologiche).

La tesi proposta da Lewin nel 1939 sulla formazione dell’”atmosfera psicologica” è stata oggetto di discussioni che ne confermano la validità secondo cui, il clima è il risultato dell’interazione fra le percezioni individuali e l’ambiente. In letteratura, le definizioni di clima organizzativo sono molteplici e complesse, tanto che alcuni autori preferiscono affrontare il concetto individuando gli approcci che hanno maggiormente caratterizzato tale ricerca, che risultano:

• l’approccio strutturale; • l’approccio percettivo; • l’approccio interattivo; • l’approccio culturale.

Secondo l’approccio strutturale: il clima è considerato una manifestazione oggettiva che riflette la specifica struttura organizzativa presente in un dato contesto (Guion, 1973). Pertanto, il clima organizzativo esiste indipendentemente dalle percezioni dei membri che ne fanno parte e può essere rilevato attraverso misure oggettive e quantificabili. In questo approccio, non vengono prese in considerazione una serie di variabili difficilmente oggettivabili come ad esempio la motivazione al lavoro o la soddisfazione lavorativa. Secondo tale approccio Forehand e von Haller (1964) considerano il clima come un insieme di caratteristiche appartenenti all’organizzazione e che la distinguono da altre organizzazioni, relativamente durature nel tempo e che influenzano il comportamento degli individui. Per Payne e Pugh (1975) le condizioni reali della struttura

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organizzativa influenzano gli atteggiamenti, i valori, le percezioni degli eventi organizzativi da parte dei membri della stessa. È dunque la struttura organizzativa a produrre il clima percepito dai suoi membri, tanto che lo si può considerare una sorta di manifestazione obiettiva della struttura. Secondo l’approccio percettivo, o psicologico, il clima è un fenomeno della percezione e trova la sua origine nelle singole componenti. Ciascun membro dell'organizzazione, mediante processi cognitivi che gli sono propri, interpreta una situazione organizzativa che vive e le condizioni in cui opera. Per condizioni organizzative non si devono intendere solo gli aspetti strutturali, ma tutte quelle esperienze che si verificano nell'attività quotidiana, quali ad esempio il rapporto con i colleghi di lavoro, l'influenza esercitata dai capi ecc. Un’importante conseguenza è che le percezioni, e quindi il clima organizzativo, sono mediate da aspetti di personalità dei soggetti oltre che da variabili relazionali, come ad esempio lo stile di leadership (Field e Abelson, 1982). L’approccio percettivo (Litwin, Stringere Tagiuri 1968) evidenzia delle proprietà qualitative delle percepite dai membri riguardo la leadership, le strategie organizzative e le condizioni esistenti nell’ambiente di lavoro. Tale approccio ci rimanda una misura dei determinanti situazionali legati alle percezioni e ai convincimenti individuali e consente pertanto la definizione della situazione globale di influenza sia dell’ambito esterno sia dei vari tipi di ambienti interni dell’organizzazione (D’Amato, Majer, 2005).

L’approccio interattivo, pone attenzione all’importanza delle relazioni interpersonali nella formazione del clima organizzativo. Il significato delle cose deriva dall'interazione fra le persone e sono il risultato di negoziazioni implicite, a volte anche in modo inconsapevole, circa l'interpretazione da attribuire ai fatti e agli eventi. La comunicazione è il mezzo attraverso il quale si giunge a costruire questa rete di interpretazione. Secondo Schneider (1972) gli individui formano, controllano, sospendono e trasformano le loro percezioni degli eventi alla luce delle interazioni che hanno con altri nell’ambiente.

L’approccio culturale tratta di come i gruppi interpersonali interpretano, costruiscono, negoziano la realtà, attribuendo centralità al concetto di cultura organizzativa. Si assume, in questo approccio, che i processi interpretativi siano mediati dalla cultura organizzativa presente e dai valori propri di una data organizzazione, che sono importanti punti di riferimento dell’agire organizzativo dei

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considerazione i gruppi piuttosto che i singoli individui e, in particolare, su come i gruppi costruiscano e interpretino la realtà.

È difficile condividere un livello di analisi nello studio del clima a causa delle differenti prospettive che gli vengono affidate: alcune orientate sull’individuo e altre improntate allo studio della struttura organizzativa. Ciononostante, l’analisi del clima organizzativo, da parte del datore di lavoro, è importante poichè permette di rilevare le eventuali aree di criticità e quindi programmare e realizzare interventi mirati alla trasformazione positiva sia della qualità della vita lavorativa sia del raggiungimento di una migliore efficienza e efficacia organizzativa.

1.3 Cultura Organizzativa

La cultura organizzativa è un concetto che implica l’esistenza di un gruppo sociale. Si considera il prodotto sociale definito dell’attività cognitiva dei singoli e l’intensità della condivisione di un insieme di assunti per essere ritenuta l’unica modalità di recepire la realtà, piuttosto che una semplice somma di opinioni individuali. La cultura si esprime dunque in assunti, valori, sistemi di convinzioni, credenze, aspettative, linguaggi, rituali, consuetudini che vengono accettati e condivisi da tutti i membri di un gruppo, comunità, organizzazione, azienda.

Per comprendere e risalire al termine di cultura organizzativa bisogna citare Pettigrew, che nel 1979, fu uno dei primi studiosi ad introdurre il concetto di cultura nel campo del comportamento e delle teorie organizzative, rendendosi conto dell’importanza che rituali, simboli, regole implicite assumono in un’organizzazione. Questa determina il comportamento individuale e collettivo, i modi di percezione, lo schema del pensiero e i valori. Se si vuole infatti rendere una organizzazione quanto più efficiente ed efficace, allora si deve comprendere il ruolo giocato dagli elementi culturali nel definire strategie, obiettivi e modi di agire nella vita organizzativa.

“La cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un certo gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato mentre imparava ad affrontare i problemi legati al suo adattamento esterno o alla sua integrazione interna, e che hanno funzionato in modo tale da essere considerati validi e quindi degni di essere insegnanti ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a tali problemi.”

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La cultura è costituita da due elementi: il contenuto, ovvero il significato dato da credenze, norme e ideologie che collegano le persone e permettono loro di interpretare la realtà che li circonda, e il modo, la forma in cui vengono espressi i significati, sia direttamente che indirettamente tramite l’elaborazione di miti condivisi, rituali e simboli. La cultura esistente in un’organizzazione influenza i comportamenti e le relazioni al suo interno favorendo in alcuni casi il buon esito del lavoro per il conseguimento degli obiettivi aziendali, infatti, può contribuire a creare e consolidare il senso d’identità, a facilitare l’impegno collettivo e il lavoro di gruppo, a fungere da meccanismo di controllo e a definire degli schemi di riferimento su cui si basa l’interpretazione della realtà per tali motivi che è importante che il datore di lavoro la instauri subito tra tutti i partecipanti del processo lavorativo, al fine di collaborare è necessario condividere alcune assunzioni comuni e alcuni standard attraverso i quali è possibile giudicare le nostre e le altrui azioni (Varey, 2001). Come il benessere organizzativo, la cultura organizzativa è importante, soprattutto, per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi sia in termini di servizio sia in termini di profitto, in quanto provoca la percezione al dipendente di essere accettato, di essere importante e necessario ai valori aziendali che gli sono stati condivisi, identificandosi con l’organizzazione è pronto ad accettare le regole e a motivarsi al raggiungimento degli stessi. (Cartwright, 1999). Conoscere la cultura di un’organizzazione è fondamentale per la comprensione dei meccanismi, degli atteggiamenti e degli scambi tra i membri. La cultura, secondo il modello dei livelli culturali di Schein (1984), è composta da vari elementi come lo spazio fisico, le regole comportamentali e valori fondamentali, che riflettono una precisa ideologia e sottendono quelle categorie concettuali o assunti che rendono le persone capaci di interpretare le situazioni routinarie e abituali. Schein propone il concetto di assunti fondamentali, riferendosi a risposte apprese che derivano da valori accettati e che si sono rivelate adeguate nel risolvere i problemi che l’azienda incontra lungo il suo cammino. Gli assunti fondamentali, tra loro collegati e coerenti, vanno a formare dei paradigmi culturali che diventano il punto di riferimento per l’orientamento dell’azione organizzativa. Il fine della coerenza fra gli assunti fondamentali è di ottenere un accordo tra i diversi membri e soprattutto un coordinamento tra le diverse unità organizzative. Lo stesso Autore, nel 1985, suggerì una classificazione della cultura su tre livelli: Gli artefatti: sono costrutti dell’ambiente fisico e sociale, ovvero gli spazi fisici, il linguaggio scritto e parlato e il comportamento manifesto di gruppi

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Livello 2: i valori: l’apprendimento culturale riflette i valori di qualcuno e le soluzioni a nuove sfide o problemi si basano sulle convinzioni preesistenti. Quando una soluzione funziona si trasforma in convinzione. Valori e convinzioni divengono, quindi, parte del processo concettuale attraverso il quale i gruppi giustificano azioni e comportamenti. Infine, espresse il terzo punto, livello ovvero le assunzioni di base: quando una soluzione funziona ripetutamente, essa diviene “la soluzione”. Le assunzioni guidano perciò i comportamenti e determinano i modi di percepire, pensare e sentire dei gruppi, dei dipendenti e soprattutto dei dirigenti.

Come accennato in precedenza, è compito del leader creare e gestire la cultura dell’azienda, riconoscere i punti di forza e debolezza. Concludendo, possiamo dire che spesso il termine cultura organizzativa viene associato a quello di clima organizzativo e, in alcuni casi, sono anche considerati sinonimi. Si può affermare, però, che mentre la cultura è generata dai valori del sistema, il clima, è un prodotto dei valori soggettivi; in situazioni nuove e ambigue il clima sembra appartenere al collettivo in quanto rappresentazione sociale generata da percezioni condivise. Per tale differenza è importante sottolineare che anche l’analisi a livello metodologico delle due è diversa: l’indagine del clima viene attraverso metodologie quantitative come i questionari, mentre invece quella culturale segue percorsi metodologici più qualitativi come le interviste, l’analisi etnografica e lo studio dei rituali.

Nonostante esse sia due dimensioni diverse, è giustificabile cadere nel tranello di considerarle spesso sinonimi poiché entrambe si intersecano tra loro si evidenzia appunto una relazione bidirezionale tra i due concetti, dove la cultura influenza variabili come il clima e interventi e modificazioni dei climi organizzativi possono avere effetti sulla dimensione culturale.

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CAPITOLO 2

STRESS LAVORO-CORRELATO

2.1 Aspetto generali e tipi di stress in ambito lavorativo

Tutti almeno una volta nella vita siamo stati “stressati” ma cos’è lo stress? Per stress si definisce, quello stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare le situazioni presentate rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti. È una reazione di adattamento dell’organismo a una sollecitazione, pertanto rappresenta una risposta fisiologica normale per una migliore performance attraverso un’attivazione del SNC, del SNA e neuroendocrino e del sistema immunitario, con modificazioni funzionali transitorie, a catena su tutti gli organi.

Questa fisiologica reazioni del nostro organismo è utile ma costosa perché riduce le riserve funzionali e viene denominata eustress, quando questa reazione è frequente, intensa e prolungata essa può diventare dannosa con effetti negativi duraturi o permanenti, quando questo avviene viene denominato distress, In termini generici quindi è importante sottolineare come lo stress non sia di per se una malattia bensì una condizione innescata nell’organismo umano da parte di una fonte o sollecitazione esterna che si comporta una serie di adattamenti che, se protratti nel tempo, possono assumere carattere di patologia.

Negli ultimi decenni, si sta sempre più parlando del problema dello stress occupazionale. In Europa è un lavoratore su quattro soffre di stress-lavoro-correlato, ovvero oltre 40 milioni di persone; tale disturbo ha provocato una grande risonanza in diverse discipline quali medicina, sociologia, psicologia poiché in una situazione economica europea e mondiale precaria il costo finanziario dei problemi correlati allo stress lavorativo, solo nell’Unione Europea, ammonta a circa 20 miliardi di euro all’anno e il 50% e 60% delle giornate lavoratrice perse dei lavoratori europei è dovuto a cause provocate dallo stress.

SOMMARIO: 2.1 Aspetti generali e tipi di stress in ambito lavorativo- 2.2 Stress negli operatori sanitari- 2.3. Riferimenti legislativi- 2.4 Valutazione del rischio.

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Cosa si intende per stress occupazionale? È la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, evadono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste (European Agency for Safety and Health at Work).

Un’esposizione prolungata sul luogo di lavoro a fattori stressogeni può essere fonte di rischio per la salute del lavoratore, sia di tipo psicologico che fisico ma, anche, sulle condizioni aziendali e quindi sull’economia in generale.

Le ripercussioni dello stress sul personale a livello aziendale riduce l’efficienza del lavoratore e nell’organizzazioni profit una diminuzione del profitto mentre nell’organizzazioni pubbliche un peggioramento dei servizi offerti alla comunità, tali conseguenze sono dovute a:

La Comunità Europea ha trovato dei parametri che sono associabili alle produzioni di stress lavoro- correlato, essi vengono divisi in base a categorie stressogene e si dividono tra caratteristiche del contesto lavorativo, caratteristiche del contenuto lavorativo. Quest’ultimi sono fattori che vengono scelti nella maggior parte dei sistemi di valutazione del rischio.

 Assenteismo,

 Frequente avvicendamento del personale,  Richieste di trasferimento,

 Riduzione della produttività,

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Contesto Lavorativo:

FUNZIONE E CULTURA

ORGANIZZATIVA

Mancanza di comunicazione, bassi livelli di sostegno nella risoluzione di problemi e sviluppo del personale e carenza nella definizione degli obiettivi.

RUOLO NELL’AMBITO

DELL’ORGANIZZAZIONE

Ambiguità di ruolo, conflitti di ruolo, responsabilità non definite.

EVOLUZIONE DELLA CARRIERA Blocco della carriera e incertezza

AUTONOMIA DECISIONALE Quando vengono riposte sulla persona tante attese ma questa non può organizzarsi autonomamente e deve assoggettarsi ad altri RAPPORTI INTEREPERSONALI SUL

LAVORO

Rapporto con i colleghi, con le varie equipe e con i superiori

INTERFACCIA LAVORO-FAMIGLIA Richieste conflittuali da parte del lavoro e della famiglia.

Contenuto Lavorativo:

AMBIENTE DI LAVORO E ATTREZZATURE DI LAVORO

Controllo delle norme di sicurezza

PIANIFICAZIONE DEI COMPITI Carenza di varietà o cicli di lavoro brevi o frammentati o privi di senso

RITMO DI LAVORO Il carico giornaliero di lavoro

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Oltre a questi fattori legati al contenuto e al contesto lavorativo l’Osservatorio Europeo dei Rischi, istituito da EU-OSHA, ha individuato ulteriori criticità derivanti dai cambiamenti in atto nel mondo del lavoro che possono rivelarsi fattori di rischio:

PRECARIETA’ DEL LAVORO Dovute al ricorso a nuove forme contrattuali e all’insicurezza del lavoro stesso.

SQUILIBRIO TRA LAVORO E VITA PRIVATA

Difficoltà nel conciliare vita lavorativa e vita familiare/sociale.

INVECCHIAMENTO DELLA FORZA LAVORO

Per mancanza di adeguato turnover.

ELEVATE RICHIESTE EMOTIVE SUL LAVORO

Presenza di attività caratterizzate da elevato carico emotivo.

AUMENTO DELLA PRESSIONE E DEL CARICO DI LAVORO

Quantità eccessiva di lavoro da eseguire e/o tempo insufficiente per portare a termine il lavoro in maniera soddisfacente.

PROCESSI DI RISTRUTTURAZIONE AZIENDALE

Determinano incertezze in merito al mantenimento del posto di lavoro, del ruolo, dell’adeguatezza delle competenze professionali, della sede, ecc.

Fondamentalmente dello stress in ambito lavorativo se ne parla di due situazioni: SINDROME DI BURN-OUT

È una delle sindromi da stress che conosciamo meglio ed è un processo patologico che rappresenta un’evoluzione della sindrome da stress protratto. Colpisce particolarmente le cosiddette categorie di aiuto: insegnanti, giudici, forze dell’ordine, vigili del fuoco ovvero quelle figure che hanno come oggetto del proprio lavoro l’assistenza e l’aiuto verso terzi. Termine che fu utilizzato per la prima volta da Freudenberger nel 1984 che la codificò come una malattia vera e propria e la osservò in un gruppo di soggetti sottoposti a stress lavoro-correlato in addetti all’assistenza in un istituto

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psichiatrico. Si presenta dopo un anno dall’assunzione e generalmente in quelli che avevano una certa ripetitività nel lavoro stesso. È una patologia che interessa la sfera:

2 Emotiva: legata alle problematiche di alterazione tono umore;

3 Cognitiva: perché nelle situazioni di stress ci può essere una compromissione della memoria; 4 Neurovegetativa: con alterazioni che si sommano e danno alterazioni psicosomatiche come

aumento della pressione arteriosa o comparsa delle malattie reumatologiche o di alterazioni dell’apparato dirigente;

5 Comportamentale: questo è l’aspetto fondamentale. Le cose che la persona può mettere in atto sono: l’inizio di abitudini alimentari scorrette, abuso di sostanze alcoliche o farmacologiche o stupefacenti, smettere di fare attività fisica.

Tutto questo ovviamente in una maniera o nell’altra incide nel contesto familiare. All’inizio la famiglia può capire il problema ed essere fondamentale nel supporto però a un certo punto diminuiscono le capacità di supporto e la persona si ritrova sola e la situazione peggiora. In più c’è un aumento di riflessi socio-familiari negativi quali: aumento del tasso di divorzi e modelli relazionali familiari disfunzionali.

C’è una sorta di stadiazione dell’evolutività della sindrome di Burn-out che passa attraverso queste tre fasi quasi con un ordine cronologico:

1. ESAURIMENTO FISICO ED EMOTIVO

2. SPERSONALIZZAZIONE: con manifestazione di apatia (l’empatia infatti è importante in molti tipi di lavoro: pensate al lavoro del medico che in molti casi diventa apatico verso il proprio paziente e lo tratta come fosse solo un numero e pensate alle ripercussioni sul paziente stesso), depressione, senso di impotenza, delusione, distacco e ostilità verso i soggetti cui il lavoro è rivolto, coinvolgimento emotivo e contatti ridotti al minimo.

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Persone considerate più suscettibili a questa situazione: personalità predisposte, prevalente in soggetti empatici, sensibili, impegnati, non idealisti, ansiosi, introversi, ossessivi; sono tutte persone che, sottoposte a situazione stressogena, se non mettono in atto meccanismi di compenso è probabile che manifestino la sindrome.

Ovviamente non si può ricondurre tutto all’ambito lavorativo stretto ma ci sono tutta una serie di fattori determinanti sociali, relazionali e personali che concorrono alla patologia.

MOBBING

Era stata descritta per la prima volta da Konrad Lorenz per descrivere l’evento che può avvenire in un gruppo di animali che tendono ad isolare l’animale più debole, c’è un allontanamento voluto perché costituirebbe un elemento di rischio per l’intera comunità.

Quindi con questa definizione evidenziamo quattro elementi importanti: un elemento di violenza, si pone l’attenzione su un’azione portata avanti nel tempo e non occasionale, la modalità polimorfa e la finalità di esclusione. Il mobbing pertanto consiste in violenze morali e psicologiche reiterate nel tempo, causa d’elevato potenziale stressogeno che limita la qualità della vita del soggetto mobilizzato.

Esistono quattro tipologie di mobbing:

1. STRATEGICO: quello classico, è un disegno strategico per l'esclusione della persona; si vuole snellire il personale per discorsi economici e addirittura in alcuni casi viene assunto un manager per creare un clima in cui le persone vengono indotte a licenziarsi invece che Forma di molestia o violenza psicologica qualche volta anche fisica che è esercitata quasi sempre con intenzionalità lesiva, ripetuta in modo iterativo con modalità polimorfe con la finalità di esclusione fisica e/o morale dal posto di lavoro.

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essere licenziati che avrebbe dei costi maggiori. Questo è il quadro classico che però si può anche venire a realizzare in altri ambiti e non solo in questo.

2. EMOZIONALE: indotto da relazioni interpersonali oltre quelli che sono i limiti normali alterate da motivazioni personali e non legati come prima all’architettura dell’azienda ma comunque tendente all'isolamento e/o esclusione del soggetto dal gruppo (anche motivi di carriera).

3. DOLOSO: è definito come una serie continua e intensa di atti ostili del management o dei colleghi verso un lavoratore sgradito, volti deliberatamente a rendergli la vita impossibile. Questo è punibile civilmente, vista la normativa a riguardo, e penalmente (Cass. N.33624/2007). In questo caso potrebbe esserci la responsabilità diretta dal datore di lavoro sulla base degli atti vessatori.

4. SENZA INTENZIONALITA’ DICHIARATA: situazione che viene fuori da sola quando non c'è organizzazione nel controllo delle situazioni e ci sono situazioni di nicchia di conflitto o ancora situazioni diffuse di malessere per l’insicurezza nella gestione dell’azienda. Non manca però la responsabilità del datore di lavoro: anche dove il datore di lavoro non sia il mobber, è però previsto un reato di colpa di omissione che è il culpa in vigilando, cioè in quanto datore di lavoro non poteva non valutare il fatto che ci fossero situazioni stressogene a livello dei suoi dipendenti.

Queste quattro tipologie di mobbing si possono manifestare in tre modi:

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- Orizzontali: modalità di mobbing tra due di pari grado

Tutto quello che è il risultato di una situazione stressogena legata a quelle che sono le nostre poche conoscenze di fisiologia dello stress che può portare delle patologie psicosomatiche rientra comunque nella possibilità di una evenienza conseguente a situazioni stressogene anche da mobbing. Non è assurdo pensare che una persona altamente stressata sviluppi una sindrome dell’adattamento, una variazione del tono dell’umore, disturbi alimentari e altri disturbi psicosomatici come gastrite, colite e altri disturbi reumatologici.

Le azioni avversative sono quindi costituite da attacchi alla persona e alla situazione di lavoro, cioè alla professionalità e allo sviluppo di carriera. Gli attacchi alla persona, che diviene la vittima, consistono in comportamenti di esclusione, isolamento, emarginazione o anche offese, minacce di violenza, ridicolizzazione, intromissioni nella vita privata, istigazioni contro la persona da parte degli altri. Gli attacchi nel luogo di lavoro sono rappresentati da dequalificazione, assegnazione di attività incompatibili con il background professionale o culturale del dipendente, critiche continue riduzione dei compiti e delle responsabilità del lavoratore o anche sovraccarichi di lavoro con scadenze impossibili da rispettare, trasferimenti non giustificati da esigenze aziendali in sedi lontane e disagiate, trasferimenti non concessi in assenza di valide motivazioni, provvedimenti disciplinari infondati.

Dal punto di vista medico è importante ricordare come la strategia vessatoria con l’assegnazione di compiti inadatti o pericolosi per la salute del lavoratore possa incrementare il danno alla salute. Il mobbing soprattutto se vissuto a lungo, comporta in moltissimi casi alterazioni della qualità della vita. La vittima tende a ritirarsi dal proprio ambiente di vita, diminuendo i propri interessi perché prova imbarazzo e vergogna della situazione che vive. Questo comportamento è indice del disagio psicofisico della persona che può sfociare, in alcuni casi, in una condizione clinica con conseguente danno alla salute. Infatti si ritiene che situazioni di conflittualità interpersonale marcata e protratta siano dotate di potenziale stressogeno e possano determinare conseguenze a carico della sfera psichica, psicomotoria e comportamentale. La vittima del mobbing può presentare sintomi cari a carico del sonno, ansia in tutte le sue manifestazioni, depressione, cefalea, emicrania, epigastroenteralgie, palpitazioni, picchi ipertensivi, disturbi del comportamento con reazioni aggressive, disturbi alimentari, aumento del consumo di alcolici, farmaci o fumo di tabacco.

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Il mobbizzato è un paziente che chiede il riconoscimento della propria sofferenze e dei torti subiti e che fermi il meccanismo che li sta stritolando.

È importante ribadire quanto sia importante mantenere un rapporto fiduciario col lavoratore che ha bisogno di sapere che non sarà abbandonato al suo destino ma assistito nel tempo tramite colloqui periodici. Ai fini della risoluzione del problema stress lavoro correlato non ci sono delle regole generali e valide in ogni caso, ogni contesto lavorativo è differente, quindi l’azione del medico sarà contestualizzata in base alla tipologia d’azienda e alle sue dimensioni oltre che in relazione al singolo lavoratore.

2.2 Stress negli operatori sanitari

Gli operatori sanitari, nel corso della loro esperienza lavorativa, devono scontrarsi con condizioni di stress e burnout poiché sono coinvolti nel corso della loro vita lavorativa a dover affrontare situazioni difficili che possono indurre una reazione di adattamento nel soggetto coinvolto. L’operatore socio-sanitario ne è esposto più di altri lavoratori principalmente a causa della peculiarità dell'utenza per la quale lavora ma anche per altre cause di diversa origine, come quelle peculiarità dell’utenza per la quale lavora, ma anche per altre cause di diversa origine, come quelle riconducibili alla struttura ambienti, ai tempi ed alla organizzazione del lavoro, oppure ai rapporti relazionali con colleghi e superiori o alle non infrequenti ambiguità e contraddizioni relative al ruolo ricoperto, nonché all’insoddisfazione per la remunerazione non sempre gratificante. Gli effetti che le condizioni di lavoro sfavorevoli, perché altamente a rischio, hanno sulla salute psicofisica del personale impiegato in sanità è ampiamente documentata in letteratura.

Tutti questi fattori agiscono singolarmente e, soprattutto, tra loro associati provocando sovente dei sintomi riconducibili alla sindrome del burnout, come l’apatia, la perdita d’entusiasmo, il crollo delle motivazioni e il senso di frustrazione. I fattori di rischio sono dovuti alla relazione operatore paziente per il carico di lavoro emotivo, per la gestione dell’emergenza clinica e dell’elevato grado di attenzione e concentrazione e per la relazione paziente-operatore per il rischio biologico occupazionale e le aggressioni, offese e molestie e sull’organizzazione del lavoro come i turni e il

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conflitto di ruoli, scarsa autonomia decisionale e controllo su ritmo e carico di lavoro, flussi informativi e corretta gestione delle comunicazioni, disponibilità di risorse e in ambito personale l’interfaccia casa-lavoro.

2.3 Riferimenti legislativi

Secondo la direttiva-quadro 89/391, tutti i datori di lavoro hanno l’obbligo giuridico di tutelare la salute e sicurezza sul lavoro dei lavoratori. Questo dovere si applica anche in presenza di problemi di stress lavoro-correlato, poiché essi incidano su un fattore di rischio lavorativo rilevante ai fini della tutela della salute.

Di seguito verranno espresse le legislazioni nazionali e internazionali riguardanti tale argomento: ➢ LEGISLAZIONE ITALIANA

Nel decreto Legislativo n. 626 del 1994, prima della promulgazione del D.Lg. 81/2008, all’art.4 (Obblighi del datore di lavoro del dirigente e del preposto) comma 1 veniva ampiamente espressa la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari”.

Ancora, il comma 4 dell’art. 8 bis (Capacità e requisiti professionali degli addetti e dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione interni ed esterni) deliberava che “per lo svolgimento della funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione … è necessario possedere un attestato di frequenza … a specifici corsi di formazione in materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergonomica e psicosociale”.

Nonostante questi primi accenni non si era ancora stabilito un obbligo alla valutazione, alla cura e alla prevenzione del problema dello stress occupazionale che, invece, sopraggiunge con il DECRETO LEGISLATIVO 81/2008 e con esso ( Testo Unico in materia di tutela della Salute e della Sicurezza nei luoghi di Lavoro), con l’art. 28 (Oggetto della valutazione dei rischi) comma 1 che la valutazione debba “riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell'8 ottobre 2004”, l’Italia, finalmente, si adegua alla legislazione europea.

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Il Decreto 81 segna così una tappa importante in tema di diritti dei lavoratori, poiché per la prima volta viene esplicita l’importanza della prevenzione dello stress lavoro-correlato come un rischio lavorativo al pari la movimentazione dei carichi, degli agenti tossici o del rumore.

Viene inoltre fissata una scadenza entro cui tutte le aziende devono effettuare la valutazione dello stress e cioè il 31/12/2008, salvo poi aver prorogato questo termine con il Decreto-legge 30/12/2008 n. 207 (Modifiche al D. Lgs 81/2008: Valutazione rischi (stress lavoro correlato) e comunicazioni all'INAIL dati infortuni sul lavoro), al 15 maggio 2009.

Con il DECRETO LEGISLATIVO 106/2009 del 3 agosto 2009, (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) all’art 6 (Modifiche all’articolo 6 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81) comma 2 viene stabilito di affidare alla Commissione Consultiva Permanente per la Salute e Sicurezza sul Lavoro, istituita Presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, come previsto dall’art.6 del D.Lgs 81, il compito di “elaborare le indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro correlato”; inoltre viene ulteriormente prorogata la scadenza di effettuazione della valutazione del rischio stress con l’art.18 comma 1 b, che recita: “il relativo obbligo decorre dalla elaborazione delle predette indicazioni e comunque, anche in difetto di tale elaborazione, a fare data dal 1° agosto 2010”.

➢ LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE

Nel panorama internazionale,uno dei primi organismi internazionali che si è occupato della salute mentale come una caratteristica irrinunciabile per la salute dei lavoratori è stato l’ International Labour Organization, l’agenzia dell’ ONU che si occupa della promozione dei diritti umani nell’ambiente di lavoro, che già nel 1981 nella “Occupational Safety and Health Convention” proponeva all’art.3 che il termine salute, in relazione al lavoro, indica non solo l'assenza di malattie o infermità; comprende anche gli elementi fisici e mentali che incidono sulla salute, che sono direttamente connessi alla sicurezza e igiene sul lavoro”. E nella Convenzione del 1985 “Occupational Health Services Convention”, all’art. 1 stabiliva tra i compiti degli Organismi per

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“l'adattamento del lavoro alle capacità dei lavoratori alla luce del loro stato di salute fisica e mentale”. Nel 2005, L’Organizzazione Mondiale della Sanità che negli anni si è occupato ed ha combattuto per il riconoscimento dello stress fra i fattori di rischio lavorativo, nel corso della conferenza di Helsinki sulla Salute Mentale, ha adottato il” Piano d’Azione sulla salute mentale per l’Europa”, nel quale vengono consigliate tra dodici settori di intervento alcune iniziative volte a preservare lo stato di benessere psico-fisico nei luoghi di lavoro

Nella comunità Europea, nel 1999 la Direzione generale Occupazione e affari sociali ha curato la stesura della Guida sullo stress legato all’attività lavorativa (Spice of Life or Kiss of Death Working on Stress); ancora, nelle Conclusioni del Consiglio del 15 novembre 2001 (Combattere i problemi legati allo stress e alla depressione) al capo 11. “invita gli Stati membri a: … prestare particolare attenzione al crescente problema dello stress e della depressione legati al lavoro”; inoltre nel 2004 sigla l’Accordo Europeo sullo stress lavoro-correlato, con lo scopo di “aumentare la consapevolezza e la comprensione degli imprenditori, dei lavoratori e dei loro rappresentanti sullo stress da lavoro” e “portare la loro attenzione sui segnali che possono indicare problemi relativi allo stress da lavoro”. Tale accordo siglato dal CES-sindacato europeo; UNICE-“confindustria europea”; UEAPME-associazione europea artigianato e PMI; CEEP associazione Europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse economico generale. Datori di lavoro e lavoratori devono avere a disposizione un modello che consenta di individuare e di prevenire o gestire i problemi di stress da lavoro. Definisce lo stress come uno stato che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali e che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti. Per quanto riguarda l’individuazione dell’esposizione al rischio di stress da lavoro, da tale accordo si evince la proposta di un’analisi quali: l’organizzazione ed i processi di lavoro ( pianificazione orario di lavoro, grado di autonomia, grado di coincidenze tra esigenze imposte dal lavoro e capacità/conoscenze dei lavoratori, carico di lavoro, etc); le condizioni e l’ambiente di lavoro ( esposizione a comportamenti illeciti, al rumore, calore, sostanze pericolose, etc); la comunicazione ( prospettive di occupazione, l’incertezza lavorativa, cambiamenti futuri, etc) e i fattori soggettivi ( pressioni emotive e sociali, sensazione di non riuscir a far fronte alle situazioni, percezione di mancanza di aiuto, etc). Prevede che la responsabilità spetta al datore di lavoro e che le misure saranno attuate con la partecipazione e la collaborazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti. L’accordo fa riferimento alle

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responsabilità, del datore di lavoro che per legge è obbligato a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori e dei lavoratori che hanno il dovere generale di rispettare le misure adottate dal datore di lavoro.

Tale accordo rappresento una guida per tutti gli stati della comunità Europea che in tal senso cercarono di adeguarsi (art. 28, comma 1, D.Lgs 81/2008; è stato recepito in Italia con l’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008; le parti sociali-confindustria, confai, confartigianato, casartigiani, CLAAI, CNA e confesercenti e CGIL,CISL,UIL- concordano condividendo la preoccupazione espressa a livello europeo da datori di lavoro e lavoratori recependo i contenuti di tale Accordo). Infine, nella Risoluzione del Parlamento Europeo sulla promozione della salute e della sicurezza sul lavoro del 24 febbraio 2005 invita la Commissione “ad includere nel suo programma d’azione …rischi associati al lavoro e malattie psicologiche a lungo termine”, richiama l’attenzione “sulla necessità di approfondire ulteriormente l’indagine e la prevenzione delle malattie professionali conferendo a quelle di tipo psicosociale l’importanza che meritano”, invita “ad analizzare più attentamente la possibilità di presentare un approccio globale alla salute sul luogo di lavoro che comprenda tutte le forme di rischio come lo stress”.

Come accennato nei precedenti paragrafi, è necessario durante la valutazione tenere in considerazione tutti i molteplici fattori che rendono la risposta allo stress diversa da individuo a individuo: la suscettibilità individuale, il tipo di mansione, l’ambiente lavorativo, il contesto familiare e sociale, l’eziologia multifattoriale etc…pertanto è stato ed è difficile uniformare la misurazione di un modello valutativo.

Attualmente gli strumenti di valutazione utilizzati per la stima dello stress occupazionale è costituita da questionari autosvalutativi, che indagano cioè soltanto l’individuo all’interno del contesto lavorativo. Negli anni sono state realizzate diverse strategie di valutazione, alcune hanno indagato appunto la percezione dell’individuo, mentre altre sono state rivolte all’analisi dell’ambiente di lavoro, altre ancora hanno ricercato gli indicatori dello stato di malessere o le condizioni patologiche stress correlato. In sostanza si può parlare di “approccio oggettivo” qualora la misura del rischio da stress occupazionale venga intrapresa in maniera obiettiva, analizzando le caratteristiche degli ambienti e del contesto lavorativo, offrendo delle valutazioni indipendenti

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“approccio soggettivo”, quando l’attenzione è posta esclusivamente sull’individuo e sulla personale consapevolezza che egli possiede del proprio stato di disagio psicofisico

Parlando di stress è importante soffermarci un attimo su quelle che sono le professioni sanitarie dove in realtà le mansioni a rischio di stress sono molte.

L’alta frequenza è dovuta a diversi fattori: innanzitutto i numerosi tagli al budget ospedaliero a cui ormai assistiamo, i rapidi cambiamenti delle tecnologie mediche, la necessità di ridurre le ospedalizzazioni, gli elevati carichi di lavoro, il fatto di avere a che fare sempre con situazioni di sofferenza, i conflitti tra medico e personale infermieristico e/o paramedico in generale, i problemi con i superiori, le incertezze relative alla terapia e la discriminazione tra le varie figure sanitarie, etc

Si può quindi affermare che tutte le professioni sanitarie sono ad elevato rischio di stress, ma tale condizione aumenta in maniera inversamente proporzionale con la posizione gerarchica.

2.4 Valutazione del rischio

La commissione consultiva nella valutazione del rischio da stress lavoro-correlato ci dice che la essa sia una parte integrate della valutazione dei rischi ed è effettuata dal datore di lavoro (obbligo non delegabile ai sensi dell’art.17, comma 1, lett.a), in collaborazione con il RSPP ed IL MC (art.29, comma 1), previa consultazione del RLS/RLST (art.29 comma 2), la data di decorrenza dell’obbligo, avvenuta il 31 dicembre 2010, è da intendersi come la data di avvio delle attività di valutazione la cui programmazione temporale e l’indicazione del termine devono essere riportate nel documento di valutazione dei rischi. Vieni altresì precisato che la valutazione va fatta prendendo in esame non singoli ma gruppi omogenei di lavoratori esposti a rischi dello stesso tipo secondo una individuazione che ogni datore di lavoro può autonomamente effettuare in ragione della effettiva organizzazione aziendale e che lle necessarie attività devono essere compiute con riferimento a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, compresi dirigenti e preposti.

La commissione consultiva aveva individuato il seguente percorso metodologico (Grafico 1.1 – Diagramma di flusso: Valutazione del rischio).

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Grafico 1.1 Diagramma di flusso: Valutazione del rischio. ASSENZA STRE SS AZIONI CORRETTIVE ASSENZA VALUTAZIONE APPROFONDITA ASSENZA PRESENZA AZIONE CORRETTIVE VERIFICA EFFICACIA AZIONI CORRETTIVE MONITORAGGIO VERIFICA EFFICACIA AZIONI CORRETTIVE

VALUTAZIONE

PRELIMINARE

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La valutazione preliminare è rappresentato da liste di controllo o check-list. Tali strumenti osservazionali garantiscono una raccolta sistematica degli elementi oggettivi di rischio, potenziali indicatori di situazioni dello stress lavoro correlato, e sono applicabili direttamente dai referenti del servizio di prevenzioni e protezioni interno all’azienda. Le liste di controllo devono indagare gli eventi sentinella e i fattori relativi al contenuto e al contesto del lavoro. È vincolante valutare tutte e tre le famiglie di fattori; possono comunque essere indagati ulteriori fattoti aggiunti. La condizione di rischio deriva dalla lettura complessiva della presenza/assenza contemporanea dei suddetti fattori. Il giudizio non si basa sulla percezione soggettiva (oggetto della valutazione approfondita), ma sul riscontro delle caratteristiche oggettive dell’organizzazione del lavoro. Le check-list infatti devono permettere un’adeguata fotografia della realtà aziendale. Si tratta di strumenti a valenza collettiva che prendono in considerazione gruppi di lavoratori (gruppo omogenei/partizioni organizzative), pertanto è errato utilizzare le liste di controllo come questionari da somministrare a singoli lavoratori.

Per la valutazione approfondita la commissione consultiva ha deciso di utilizzare focus group, questionari e interviste semi-strutturate, utili a definire la percezione dei lavoratori relativamente ai fattori di contenuto e contesto del lavoro e a garantire la partecipazione e il coinvolgimento diretto dei lavoratori. Nelle imprese che occupano fino a 5 lavoratori il datore di lavoro può scegliere di utilizzare modalità di valutazioni come riunioni ed incontri che garantiscono il coinvolgimento diretto dei lavoratori nella ricerca delle soluzioni e nella verifica della loro efficacia. La scelta dello strumento da adottare deve basarsi sulla reale utilità nel definire gli azoni correttive e di miglioramento più adeguate al contesto specifico.

FOCUS GROUP: è una tecnica che permette di raccogliere informazioni circa gli aspetti potenzialmente stressanti del lavoro con un obiettivo di miglioramento, sulla base di indicazioni fornite dai lavoratori stessi. Il confronto diretto con i lavoratori stessi. Il confronto diretto con i lavoratori permette di mettere in evidenzia gli elementi di criticità e di acquisire suggerimenti sulle misure di miglioramento. Il focus group non ha soltanto una valenza conoscitiva ma può essere una tecnica che permette la presa di decisione. È uno strumento flessibile ed informativo che può essere utilizzato sia nelle piccole e medie aziende, in cui è possibile con alcune sessioni, coinvolgere tutti gli operatori, che nelle aziende più grandi, nei riguardi dei singoli gruppi omogenei/partizioni organizzative sottoposti a valutazione approfondita.

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QUESTIONARI: devono essere di documentata validità, dedicati all’ambito lavorativo e in grado di indagare dimensioni che corrispondono alle criticità rilevate nella valutazione preliminare. I questionari consentono di esplorare l’organizzazione del lavoro, così come viene percepita dai lavoratori, e il livello di benessere/malessere dei lavoratori stessi. La raccolta dei questionari dovrebbe prevedere alcuni elementi:

- Un’informativa iniziale ai lavoratori circa lo scopo e le modalità di raccolta dei questionari; - La somministrazione del questionario con supporto alla compilazione;

- La raccolta dei questionari in forma anonima, garantendo la privacy in merito al trattamento dei dati sensibili;

- La produzione di un report finale che illustri i dati emersi; - La discussione del report con i gruppi coinvolti e gli RLS.

INTERVISTE SEMI-STRUTTURATE: L’intervistatore pur seguendo una traccia, in modo da garantire la raccolta di informazioni su aspetti considerati rilevati, adegua le domande al singoolo individuo e al corso della conversazione in modo da favorire la partecipazione attiva del lavoratore intervistato. Ciò permette di raccogliere e registrare dati più precisi, facilitare l’espressione di tematiche che altrimenti resterebbero nascoste per possibili resistenze e/o timori del lavoratore e cogliere indicazioni e suggerimenti su possibili soluzioni.

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CAPITOLO 3

RUOLO DEL DIRIGENTE

3.1 La figura del dirigente

La riforma del pubblico impiego, attuata già nel 1993, ha attribuito alla dirigenza pubblica compiti diversi e più ampi rispetto alla precedente normativa, a cui fa riscontro l'assunzione di responsabilità connesse al raggiungimento di risultati certi e verificabili.

Il dirigente è colui che sovraintende, organizza e dispone il lavoro; nell’ambito delle competenze e dei poteri riconosciutigli dal datore di lavoro, predispone le misure di sicurezza in sintonia con il datore di lavoro, impartire le istruzioni e ordini precisi in sintonia con il datore di lavoro, vigilare affinché le istruzioni vengano eseguite, incaricare i preposti affinché svolgano mansioni di controllo e vigilanza.

La legge n. 190/2012 del pubblico impiego contiene una “specifica sezione dedicata ai doveri dei dirigenti, articolati secondo le funzioni attribuite” (art. 54, comma 1, Dlgs n. 165) e il legislatore del 2012 evidenzia, dunque, la centralità strategica del ruolo del dirigente dal punto di vista comportamentale, per la costruzione di un ambiente di lavoro positivo che costituisca la più efficace forma di prevenzione in ordine a fenomeni corruttivi o illegali.

L’art. 13 disciplina gli obblighi di condotta cui è tenuto il dirigente oltre a quello di tutti i dipendenti. Il codice ha stabilito una definizione “sostanziale” di dirigente, comprendendo anche quei soggetti si trovano a svolgere in via temporanea una funzione di direzione (es. incarichi dirigenziale).

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