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Lettere private di un mercante pisano ad un amico e creditore. (Giovanni Battista Gettalebraccia ad Andrea Lanfreducci: Sicilia-Pisa, 1498-1516).

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(1)

INDICE

Introduzione pag. 2

Criteri di trascrizione pag. 16

Elenco delle lettere trascritte pag. 19

Trascrizione delle lettere pag. 22

Indice dei nomi di persona pag. 185

Indice dei nomi di luogo pag. 190

(2)

2

Introduzione.

L’oggetto di studio della mia dissertazione di laurea sono le numerose lettere private che dalla Sicilia il mercante pisano Giovanni Battista Gettalebraccia scriveva a Pisa all’amico e (creditore) Andrea Lanfreducci. 1 Si tratta di 37 lettere, la prima del 1498 e l’ultima del 1516 alle quali va aggiunta una lettera (n. 34) che nel 1515 lo stesso Giovanni Battista inviava da Castronovo a Palermo ad Alessandro, figlio di Andrea Lanfreducci. Di tutte si fornisce la trascrizione. Esse sono conservate presso l’Archivio di Stato di Pisa nella busta n. 83 dell’ Archivio Upezzinghi, inv. 74bis.

Le lettere abbracciano l’arco di tempo che va dal 1498 al 1516 e si collocano storicamente negli avvenimenti riguardanti i contatti, principalmente economici e commerciali, tra la città di Pisa attanagliata dalla guerra fiorentina (1494-1509), e la Sicilia, ove per lo più mercanti e banchieri, ma anche esponenti dei ceti inferiori pisani, fuggiti dall’insostenibile situazione bellica della Toscana, trovarono un tranquillo e sicuro rifugio. La Sicilia risulta tuttora essere stata la meta principale dell’esodo2

.

La scelta di rifugiarsi in Sicilia ripeteva una situazione già creatasi nel 1406, all’indomani della prima conquista fiorentina di Pisa, quando decine di famiglie pisane furono bandite o

1

Le numerose lettere da Palermo tra 1498 a 1516 ai Lanfreducci, Archivio di Stato di Pisa, Upezzinghi, n. 83, inv. 74bis.

2

M. Luzzati, Una guerra di popolo, La seconda libertà di Pisa (1494-1509), Pisa, Pacini ed., 1984.

(3)

3 scelsero la via dell’emigrazione permanente. Mercanti e

banchieri si stabilirono nell’Isola.

L’insediamento dei pisani nell’isola fu alquanto vantaggioso sia per essi stessi che per i siciliani, essi investirono tutte le loro abilità professionali e tecniche colmando lacune tradizionali della Sicilia. Questa aveva bisogno infatti di risorse tecniche ed umane nuove, per un buon funzionamento di una economia di mercato aperta a richieste provenienti dall’esterno, alle esigenze di un mercato internazionale. La scelta di abbandonare Pisa fu abbastanza ponderata, dettata dalla voglia di riscatto sociale ed economico nei confronti dei severi fiorentini, i quali con l’imposizione di tasse e un regime di severa sorveglianza militare rendevano impossibile qualsiasi forma di libertà.3 Le vicende della diaspora pisana sono preziose e ricche di informazioni per gli storici e gli esperti di economia. Grazie ad esse, essi sono stati in grado di ricostruire le strutture del mercato siciliano quattrocentesco, analizzare i legami di dipendenza reciproca tra la Toscana e la Sicilia, destinati a durare a lungo nel tempo4.

In precedenza, nella Sicilia occidentale duecentesca uomini e famiglie della marcatura medievale toscana, avevano tracciato una lunga e profonda tradizione di radicamento e preminenza,

3

P. Silva, Pisa sotto Firenze dal 1406 al 1433, in “Studi storici”, XVIII (1909), pp.160-161.

4

H. Bresc, Un monde mèditerranéen. Economie et sociètè en Secile

(1300-1450), Rome, Ecole française, 1986, p. 371.

S. Epstein, Potere e mercati in Sicilia, (secoli XIII-XVI), Einaudi ed., 1996. G .Petralia, Banchieri e famiglie mercantili nel Mediterraneo aragonese.

L’emigrazione dei pisani in Sicilia nel Quattrocento, Pisa, Pacini ed., 1989,

(4)

4 resa ancora più valida dalla riconferma durante il dominio

fiorentino quattrocentesco, della presenza pisana in ambiente palermitano e nel mercato siciliano. L’inserimento dei pisani nell’economia mercantile dell’isola del Quattrocento, soprattutto a Palermo, va giustificata considerando che la città siciliana si trovava in una posizione forse periferica, come centro bancario e di cambio rispetto alle principali piazze europee, ma in compenso, essa era posta al centro del triangolo del Mediterraneo aragonese fra Napoli, la Sicilia e i regni iberici. Una tradizione di contatto privilegiato con la monarchia aragonese da parte dei mercanti pisani, uomini d’affari, personaggi e famiglie in prima fila nella scena della politica pisana aveva garantito a queste élite italiane un decisivo successo sociale ed economico sia a Palermo, ma pure a Napoli e a Barcellona.5

In Sicilia i pisani non andarono a ricoprire uno status sociale ed economico marginali, ma divennero gli attori protagonisti del mercato siciliano e ricoprirono le cariche sociali più alte nella nuova società palermitana quattrocentesca.6

Operarono con forte capacità nel settore del mercato europeo occidentale dello zucchero e dei grani, prodotti che più degli altri si caratterizzarono come grandi affari. Furono essi stessi impiegati nella produzione, come proprietari e finanziatori dei trappeti e delle coltivazioni della canna da zucchero.

I pisani si comportarono sull’isola sia da esportatori che importatori. Erano sia fornitori del mercato urbano di Palermo, ma anche di Trapani e Messina, sia esportatori in proprio, sia fornitori di grandi clienti delle altre nazioni, di quei mercanti forestieri in transito privi di quella rete di rapporti mercantili

5

G.Petralia, Banchieri e famiglie , cit., pp. 48-70.

6

(5)

5 interni di cui invece beneficiavano loro. Le grandi aree di

domanda dei prodotti siciliani erano: Roma,Venezia, ma anche Bruges, Anversa, Ginevra ed Alessandria. Nei mercati settentrionali venivano mandate quelle mercanzie che nell’isola costituivano lo strumento di scambio con i prodotti locali, quali: zucchero, grani, e altri prodotti tipici dell’isola, il formaggio e poi la tonnina, il salnitro e la seta. Mentre tra i componenti fissi delle galere fiorentine per la Sicilia vi erano: panni, ferro toscano, carta e canovacci.

Oltre all’attività mercantile si dedicarono con dedizione a quella del credito, svolgendo una funzione cruciale nell’isola.7 Esercitarono insieme, nella stessa azienda, la banca di deposito e di giro locale e la banca internazionale connessa al traffico delle lettere di cambio divenendo così i principali fornitori di credito in ambito regionale.8 La classe mercantile forestiera pisana scelse di svolgere funzioni nodali nell’ambito dell’attività bancaria, finanziaria e assicurativa anche nel secolo seguente alla dominazione fiorentina, infatti la spinta verso la Sicilia si prolungò ininterrottamente fino alla metà del Cinquecento.9 La diaspora pisana ebbe dei caratteri completamente nuovi rispetto a quelle passate, in quanto la loro condizione non fu quella di semplici esodati, in cerca di un “locus amoenus” ove poter trovare un rifugio durante l’oppressione politica ed economica che attanagliava la madrepatria. Essi non ebbero il classico atteggiamento di comuni rifugiati con poche aspettative e si mostrarono fin da subito ambiziosi, tanto da ritagliarsi dei posti di preminenza all’interno della società economica siciliana,

7

G.Petralia, Banchieri e famiglie, cit., pp. 25-26.

8

Ivi, pp. 27-29.

9

(6)

6 trasformando il classico insediamento in un vero e proprio

trasferimento duraturo, spesso definitivo. Spinti inizialmente da esclusivi interessi mercantili, gli uomini d’affari pisani occuparono cariche professionali burocratiche e istituzionali aperte al patriziato urbano palermitano. A differenza degli altri forestieri genovesi, veneziani e fiorentini che in questo periodo intraprendono spostamenti di contenuta durata, sempre per fini commerciali, molti pisani non mostrarono alcuna volontà di rientrare nella propria madrepatria. Essi pur mantenendo legami personali e di affari con la terra natia, mostrarono tutta l’intenzione di voler attuare una più completa sicilianizzazione, cercando di ottenere la cittadinanza, ricoprendo le cariche civili o burocratiche, tessendo rapporti personali duraturi, tutte tendenze atte ad un definitivo trasferimento.

Attraverso la raccolta di lettere private, di seguito trascritte, si percepisce molto bene la situazione di Pisa al tempo della quindicennale guerra contro Firenze tra Quattro e Cinquecento, seguita alla discesa in Italia di Carlo VIII, e la nuova condizione sociale ed economica degli emigrati pisani.

I toni di Giovanni Battista Gettalebraccia, che scrive al suo amico caro e creditore prezioso Andrea Lanfreducci, sono alquanto ambigui. Il suo pensiero, da un lato è spesso nostalgico, continuamente rivolto a Pisa, alla situazione disastrosa della guerra, ai suoi beni materiali e ai suoi affetti più cari. Dall’altro, seppur lo stato d’animo sia pervaso da preoccupazione per le incertezze del futuro, mostra un attaccamento al suo nuovo

status non indifferente che lascia presagire che quella non

sarebbe stata solo una sistemazione provvisoria, ma sarebbe diventata la sua nuova condizione, quella cioè di emigrato senza ritorno. La sua città, pervasa dalla distruzione e trasformata nel

(7)

7 profondo, non sarebbe comunque mai più stata la Pisa di un

tempo.10

Dopo il 1509 Pisa risultò con la guerra avere perduto oltre il sogno dell’indipendenza, anche gran parte delle sue energie vitali e delle sue facoltà economiche. La tradizionale struttura della società pisana fu sconvolta dalla conquista fiorentina, l’antico ceto dirigente fu ulteriormente colpito, sia attraverso l’emigrazione, sia attraverso le dure politiche adottate dalla dominante verso i territori riconquistati.11

L’emigrazione forzata condusse inizialmente i pisani nelle più vicine città, quali Lucca, Siena, Piombino e Genova in attesa di un rivolgimento che consentisse di rimpatriare.12 Per essi il distacco da Pisa dovette essere parziale e non programmaticamente definitivo.

La grande ondata migratoria seguì due flussi, uno in uscita ed uno in entrata, infatti se da un lato i pisani fuggirono dalla loro città, dall’altro giunsero a Pisa dei “forestieri” provenienti per lo più da Firenze e da altri territori del suo Stato, ma anche da fuori della Toscana e da altre aree italiane e non italiane.13 Tutto ciò venne complicato dalla netta frattura che si delineò qualche anno dopo l’inizio della guerra, tra gli appartenenti ai ceti superiori, inclini a trovare un accordo con Firenze, e gli appartenenti ai ceti inferiori, intenzionati a proseguire la guerra in quanto

10

Upezzinghi n. 83, cit., trascrizioni riportate in seguito.

11

M. Luzzati, Una guerra di popolo, cit. p. XIII.

12

G. Petralia, Crisi ed emigrazione dei ceti eminenti a Pisa durante il primo

dominio fiorentino: l’orizzonte cittadino e la ricerca di spazi esterni

(1406-1460) in I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento, Firenze, 1987, pp. 329-330.

(8)

8 vedevano in questa l’unica soluzione per far valere i propri

privilegi politici e sociali conquistati con l’esercizio delle armi. La resistenza di Pisa poté durare a lungo proprio grazie alla voglia di riscatto dei ceti inferiori che avevano come obiettivo preminente, al di là dell’affermazione del diritto della libertà e dell’autonomia da Firenze, quello di conquistare un ruolo stabile e permanente nella conduzione della cosa pubblica.14 L’emigrazione di Pisa si presenta infatti come un fenomeno esteso a tutti gli strati sociali, alle cui origini era un medesimo scenario di disagio urbano.

La resistenza ai Fiorentini non fu altro che l’ultimo anello che andò a chiudere la lunga crisi di una struttura interna debole e vacillante. Già da tempo, infatti, la società pisana, profondamente cambiata rispetto a quella di un secolo prima, rimaneva lontana da qualsiasi assestamento. Gli squilibri persistenti vennero semplicemente portati allo scoperto e aggravati dalla lunga guerra con Firenze a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento.15

Le lettere trascritte sono in totale 38 e fanno parte di una raccolta di lettere private, conservate in forma sciolta, scritte dal mercante Giovanni Battista Gettalebraccia, giunto a Palermo nel 1498, durante la guerra pisana con Firenze, all’amico e creditore Andrea di Battista Lanfreducci. 16 Esse presentano una lacuna di 6 anni, infatti manca la corrispondenza che va dal novembre del 1498 all’aprile del 1504. La causa di tale lacuna potrebbe essere stata o una momentanea interruzione della corrispondenza tra i due interlocutori o una mancata conservazione archivistica che

14 M. Luzzati, Una guerra di popolo, cit., p. VIII.

15

Ivi, p. XV.

16

(9)

9 avrebbe di sicuro impreziosito il materiale scrittorio oggetto di

studio.

I Lanfreducci appartenevano ad una nobile casata, fattasi di Popolo a metà del XIV secolo, ancora protagonisti nel commercio e nell’economia di Pisa nel Quattrocento. Andrea Lanfreducci era figlio di Battista di messer Bondo. Dopo la morte del padre e dei suoi fratelli gli venne affidata la discendenza di una famiglia che sarebbe restata tra quelle di governo anche nel secolo successivo.

I Gettalebraccia erano esponenti di una famiglia popolare, nello specifico Giovanni Battista era figlio di Bartolomeo, nato nel 1467 e trasferitosi a Palermo nel 1498 per un lungo soggiorno mercantile.

Il mercante pisano si recò in Sicilia alla ricerca di fortuna con un piccolo capitale da investire nelle speculazioni sull’accaparramento del grano. Tramite le sue lettere confida al nobile della famiglia Lanfreducci, Andrea, di non riuscire più a ritirarsi con profitto dalla sua attività nell’isola, ma forse tali lamentele erano da attribuire alla sua volontà di rimandare il saldo del debito. Egli perciò prolungava la partenza dalla Sicilia, anche quando le condizioni per il rientro erano più che favorevoli, dopo la fine della guerra. Si trovava infatti, ancora nell’isola nel 1516.17

Nelle lettere Giovanni Battista racconta delle sue vicissitudini sull’isola, del suo “bene istare”, riferisce al suo interlocutore notizie legate alle mercanzie, ai suoi affari e ai suoi profitti. Racconta dei molteplici rapporti che tesse con i maggiori esponenti della società siciliana, vincoli dettati sia da legami di amicizia che di dipendenza finanziaria. Chiede di continuo all’amico notizie inerenti la critica situazione pisana, della

17

(10)

10 condizione delle persone di sua conoscenza e dei parenti che si

trovano in Toscana. 18

Nel settembre del 1508 il Gettalebraccia apprese con immenso dolore la triste notizia della morte di suo padre. A comunicarglielo fu proprio il Lanfreducci in una lettera (n.7). Il mercante pisano nominò come suo procuratore lo stesso Andrea Lanfreducci, il quale insieme ai due suoi cugini, Bernardino e Ludovico Gettalebraccia, avrebbe dovuto amministrare le cose di Pisa in sua assenza, come se fossero proprie. Essi avrebbero inoltre dovuto far celebrare due messe (ofigi) per le sepolture del padre e della madre, una a Santo Antonio e una a San Lorenzo, ed una terza a San Ghirigolo per tutti e due. Egli avrebbe mandato loro tutto il denaro ed il grano necessari a pagare tali celebrazioni in maniera più che dignitosa, onorandone così, da buon figlio, la loro memoria.19

Nelle lettere mostra la voglia di voler tornare a Pisa una volta che il peggio fosse passato, di voler collaborare “chon merchanti

e homini da bene”, di voler riscuotere “cierti denari” per

risanare i prestiti che il povero e vecchio padre aveva fatto con i Lanfreducci e con altri prima della sua partenza per la Sicilia. Fornisce notizie preziose sugli affari nell’Isola, sull’entità e sui prezzi delle merci, sui maggiori protagonisti del mercato siciliano.

Giunge come prima tappa a Palermo nel 1498 e poi da li si sposterà di continuo in altre zone della Sicilia per curare da vicino i suoi molteplici affari. Si recherà infatti a Tortorigi, a Termini, a Castronovo, e ritornerà ciclicamente in questi luoghi,

18

Upezzinghi n. 83, cit., trascrizioni riportate in seguito.

(11)

11 ove tesserà rapporti di stretta collaborazione con i maggiori

protagonisti nel commercio del grano, con orafi e bottegai di panni di nuova e vecchia conoscenza. Inoltre grazie alla corrispondenza con Andrea Lanfreducci tesse dei rapporti più o meno rilevanti dal punto di vista remunerativo, con alcuni uomini d’affari di spicco che si trovavano nei maggiori porti siciliani a salpare sulle navi cariche di prodotti dell’Isola. Sono infatti facilmente individuabili nelle lettere trascitte vari esponenti “delle famiglie della diaspora”20

, quali: Guglielmo Aiutamicristo, Paulo, Giovanni e Batista Lambardi, Mariano, Lorenzo e Bartolomeo del Tignoso, Dionigi Lanfranchi, Simone e Piero Galletti, Nanni Berci, Giovan Pietro Palmieri, Batista da Sancasciano, e moltissimi altri, tra amici, debitori/creditori e fattori.

Il mercante pisano lamenta continuamente la sua scomoda situazione economica, la quale poco collimava con le dicerie e le voci sulle sue presunte ricchezze accumulate negli anni in Sicilia, non affatto corrispondenti a verità. La critica situazione finanziaria denunciata da Giovanni Battista Gettalebraccia era dettata, a suo dire, dagli scarsi raccolti di grano causa di annate poco proficue, dai molteplici debiti saldati qua e là e da spese improvvise. Tutto ciò non gli permetteva ne di far ritorno immediato a Pisa ne di contrarre un matrimonio, in quanto tale impegno avrebbe comportato un’uscita di denaro spropositato al quale non avrebbe potuto far fronte.

Giovanni Battista Gettalebraccia, nonostante le denunciate difficoltà economiche, si mostrava sempre disponibile con l’amico Andrea nell’occuparsi del suo giovane figlio Alessandro trasferitosi in Sicilia poco dopo il suo arrivo. Si preoccupava

20

(12)

12 continuamente di darne notizia al Lanfreducci, in nome della

vecchia amicizia e del rapporto di creditore/debitore che legava i due. Cercherà inoltre di indirizzarlo ai mestieri e alle occupazioni più remunerative, avvalendosi dei suoi preziosi contatti e delle amicizie isolane e si adopererà sempre per non far mancare lui niente, trattandolo come se fosse un fratello, senza volerne riscuotere nulla in cambio.

Nelle ultime lettere Alessandro Lanfreducci sarà nominato dal padre come suo procuratore, ed in quanto tale avrebbe dovuto riscuotere il presunto debito direttamente dal mercante pisano, il quale ad un certo punto si sentirà addirittura perseguitato. Scriverà infatti ad Andrea Lanfreducci di avere pazienza, in quanto sua volontà sarebbe stata quella di sanare il debito, ma non di soccombere economicamente dovendone farne di altri. Avrebbe dovuto pazientare ancora un po’ anche e soprattutto in nome dell’amicizia con suo padre e del rispetto di esso in quanto defunto.21

Di rimando Giovanni Battista raccomandava ad Andrea Lanfreducci di prendersi cura “della buona anima di suo padre e

di sua madre”, di fornirgli notizie dettagliate sui risvolti della

guerra e sulle sorti della bottega e della casa di Pisa, sulla salute di sua sorella suora Vangielista, sulle volontà degli altri debitori ai quali si era legato suo padre, e verso i quali adesso Giovanni Battista si trovava a risanare il debito. A proposito di ciò insiste continuamente con il Lanfreducci nel dover cercare presso la casa paterna le “iscritture” riguardanti le entità dei debiti ed i nomi dei creditori compilate dettagliatamente dal padre prima di morire, contenenti gli accordi tra il Lanfreducci e suo padre, e gli altri creditori. Mostra una certa insistenza nell’affermare l’esistenza di tali scritture, le quali chiarirebbero una volta e per

21

(13)

13 sempre la portata ed i destinatari del debito.22 Richiede di avere

spediti certi oggetti di grande valore affettivo, conservati presso la casa paterna, di aver cautelati certi suoi averi durante la lunga assenza da Pisa e di venderne altri, qual’ora fosse stato necessario, appartenenti alla eredità lasciatagli dal padre. A tal proposito richiede di avere stilato un inventario ben dettagliato di tutto quello che si trovava presso la casa del padre e la bottega, in modo da poter decidere cosa farne. Ciò non verrà fatto, cosicché dalle lettere trapela che i creditori del padre vennero appropriandosi di gran parte di questi averi, depauperando in tal modo l’eredità del Gettalebraccia.

Giovanni Battista utilizzando un sistema di giovani fattori che viaggiavano in compagnia delle merci sulle navi che partivano dai porti di Termine e Palermo, mandava dall’isola, oltre che la preziosa corrispondenza, ducati, “formenti” e prodotti caseari locali, mostrando così tutta la sua gratitudine e vicinanza spirituale al Lanfreducci e ad altri amici e parenti lontani, a sua sorella suora Vangielista, cercando in qualche modo di sostenerli nelle difficoltà dell’assedio, e soprattutto con lo scopo di saldare i molteplici debiti di cui si era fatto carico dopo la morte del padre. 23

Stilisticamente si tratta di una tarda scrittura mercantesca, tipo di scrittura documentaria corsiva dei sec. XIII-XV, che trova esempi notevoli nei libri di commercio e nella corrispondenza dei mercanti fiorentini. Peculiarità grafiche della scrittura mercantesca erano: la larghezza e rotondità della scrittura a la facilità dei legamenti.24 Nel caso del Gettalebraccia non

22 Upezzinghi n. 83, cit., trascrizioni riportate in seguito. 23Ivi, trascrizioni riportate in seguito.

24

(14)

14 mancano tuttavia elementi derivati ormai dalla diffusione

dell’umanistica corsiva, che sembrano fare della sua scrittura un esempio delle “tipizzazioni miste” diffusesi tra Quattro e Cinquecento.25

L’autore delle lettere utilizza a livello lessicale una lingua imbastardita, causa della sua lunga permanenza in Sicilia. Si trovano infatti termini di duplice appartenenza geografica, sia toscana che siciliana.

Le lettere si presentano tutto sommato integre, anche se in alcune l’inchiostro poco marcato rende difficile la lettura di alcune parti e lo scioglimento di alcune parole. Sono inoltre presenti, anche se in poche lettere, delle bruciature laterali, che rendono impossibile la lettura di quelle parti del testo lacero. Giovanni Battista Gettalebraccia utilizza sempre le medesime formule di apertura e chiusura delle lettere. Troviamo infatti ovunque lo stesso incipit, ove compare la dicitura “Yehsus adì (giorno/mese/anno)”, e alla fine di ognuna pone la sua firma, ove indica il nome e cognome e il luogo nel quale si trova al momento della stesura della lettera.26 Lo stile è pressappoco uguale in tutte, ma tra le lettere dell’inizio e quelle finali si nota un incremento delle libertà di forma, ricorre infatti sempre più spesso ad abbreviazioni e omissioni di parole intere.

Alcune lettere presentano l’intera scrittura posta orizzontalmente sul foglio, con caratteri leggermente più grandi e disordinatamente disposti rispetto alle altre in cui la scrittura è posta verticalmente.

25

A.Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Roma, Bagatto, 1992, p. 194.

26

Per i criteri di trascrizione adoperati, cfr. G. Tognetti, Criteri per la

trascrizione di testi medievali latini e italiani, ed. Roma, 1982. Nello

(15)

15 I toni utilizzati in tutta la corrispondenza sono poco

confidenziali nella forma, in quanto differenti erano le estrazioni sociali e le età dei due interlocutori, ma si dimostrano invece abbastanza colloquiali nei contenuti. Il mercante pisano, mostra di avere grande rispetto per il suo corrispondente, di sentirsi vicino a lui, quasi come fosse un suo parente. Ciò si evince dalle formule appellative adoperate, quali: padre, quasi filio, fratello. Sul retro delle lettere, composte talvolta anche da più pagine sciolte, sono sempre presenti due scritte, poste in verticale rispetto la precedente scrittura. La prima indica la data in cui è stata scritta la lettera, e coincide quasi sempre con quella indicata a inizio trascrizione, ed il destinatario. La seconda nuovamente il destinatario ed il luogo di destinazione.27

La prima iscrizione presenta uno stile più recente rispetto a quello adoperato nella seconda iscrizione, il cui stile coincide con quello dell’intera lettera. Quindi si presume che la prima delle due iscrizioni sia stata aggiunta in un secondo momento, forse da chi ha riletto il documento in tempi successivi a quello della scrittura, e l’originale sia solamente la seconda iscrizione. A volte è presente una terza iscrizione. Essa contiene generalmente, in stile pisano, la data precisa di arrivo della lettera (giorno/mese/anno) ed il luogo da cui è stata spedita. La scrittura si differenzia dalle altre due e presenta caratteri più piccoli: si ritiene sia stata apposta all’arrivo della lettera dal Lanfreducci.

Su queste scritture sono presenti residui di cera lacca, ciò significa che queste erano state sigillate secondo il metodo usuale del tempo.

27

(16)

16

(17)

17

Criteri di trascrizione.

Per una corretta e lineare trascrizione delle lettere ho preso come riferimento generale i criteri di trascrizione suggeriti dal testo del Tognetti sulle trascrizioni dei testi medievali latini e italiani28, concedendomi qualche libertà dettata da una maggiore e personale praticità.

La grafia è stata sempre rispettata. Ogni lettera è stata trascritta così come riconosciuta nel testo.

Ho adoperato la maiuscola all’inizio del testo e dopo il punto fermo, per i nomi di persona e di luogo e per le persone sacre. Ho utilizzato apostrofi, accenti e segni di interpunzione secondo l’uso moderno.

Le parole abbreviate sciolte sono state inserite all’interno di parentesi tonde.

Per gli scioglimenti incerti e ambigui è stato adoperato il corsivo, sempre inserito nelle parentesi tonde. Anche i nomi di persona resi nel testo con la sola sigla iniziale sono state inserite all’interno di parentesi tonde.

Le parole che non sono state lette sono state inserite sotto forma di asterischi all’interno di parentesi tonde. Ho inserito tanti asterischi quante sono presumibilmente le lettere mancanti. (***)

Le parole cancellate, o per volontà dello scrittore o per lacune varie del materiale scrittorio, sono state collocate all’interno di parentesi quadre. Esse sono state esplicitamente sciolte nei casi in cui fosse facile la deduzione, nel caso in cui invece fosse

28

G. Tognetti, Criteri per la trascrizione di testi medievali latini e italiani, ed. Roma, 1982.

(18)

18 dubbio lo scioglimento o fosse impossibile interpretarne il

contenuto per via di perdita del supporto, caduta dell’inchiostro, macchie o bruciature, è stata adottata la soluzione di tre puntini inseriti nelle parentesi quadre. […]

I numeri romani e le cifre sono state trascritte con fedeltà al modello. Per le cifre romane ho usato il maiuscolo come di consueto. Le molteplici unità di misura presenti nelle lettere sotto forma di simboli ben precisi sono state accuratamente trascritte per intero.

Il cambio di pagina è stato indicato con una doppia barra obliqua. //

(19)

19

Elenco delle lettere trascritte.

Lettera n. 1

4 agosto 1489, da Palermo a Pisa. (p. 21)

Lettera n. 2

7 ottobre 1498, da Palermo a Pisa. (p. 26)

Lettera n. 3

10 maggio 1504, da Castellonovo a

Pisa. (p. 29)

Lettera n. 4

10 febbraio 1505, da Termini a Pisa. (p. 32)

Lettera n. 5

12 agosto 1505, da Castronovo a Pisa. (p. 36)

Lettera n. 6

9 agosto 1508, da Palermo a Pisa. (p. 39)

Lettera n. 7

16 settembre 1508, da Palermo a Pisa. (p. 44)

Lettera n. 8

17 settembre 1508, da Palermo a Pisa. (p. 52)

Lettera n. 9

18 settembre 1508, da Palermo a Pisa. (p. 58)

Lettera n. 10

28 giugno 1509, da Palermo a Pisa. (p. 62)

Lettera n. 11

15 luglio 1509, da Palermo a Pisa. (p. 67)

Lettera n. 12

3 agosto 1509, da Palermo a Pisa. (p. 72)

Lettera n. 13

23 settembre 1509, da Palermo a Pisa. (p. 74)

Lettera n. 14

5 novembre 1509, da Palermo a Pisa. (p. 80)

Lettera n. 15

19 gennaio 1510, da Termini a Pisa. (p. 83)

Lettera n. 16

9 marzo 1510, da Termini a Pisa. (p. 87)

Lettera n. 17

21 marzo 1510, da Termini a Pisa. (p. 92)

(20)

20

Lettera n. 19

5 agosto 1510, da Castronovo a Pisa. (p. 100)

Lettera n. 20

27 settembre 1510, da Palermo a Pisa.

(p. 103)

Lettera n. 21

24 maggio 1511, da Palermo a Pisa. (p. 106)

Lettera n. 22

8 luglio 1511, da Palermo a Pisa. (p. 110)

Lettera n. 23

22 aprile 1512, da Termini a Pisa. (p. 114)

Lettera n. 24

18 giugno 1512, da Palermo a Pisa. (p. 117)

Lettera n. 25

23 luglio 1512, da Palermo a Pisa. (p. 122)

Lettera n. 26

26 agosto 1512, da Palermo a Pisa. (p. 127)

Lettera n. 27

8 marzo 1513, da Palermo a Pisa. (p. 129)

Lettera n. 28

17 aprile 1513, da Palermo a Pisa. (p. 133)

Lettera n. 29

2 agosto 1513, da Palermo a Pisa. (p. 138)

Lettera n. 30

18 ottobre 1513, da Palermo a Pisa. (p. 142)

Lettera n. 31

13 dicembre 1513, da Palermo a Pisa.

(p. 146)

Lettera n. 32

20 luglio 1514, da Palermo a Pisa. (p. 149)

Lettera n. 33

22 marzo 1515, da Palermo a Pisa. (p. 153)

Lettera n. 34

8 giugno 1515, da Castronovo a Palermo.

(p. 157) (ad Alessandro Lanfreducci).

Lettera n. 35

20 luglio 1515, da Castronovo a Pisa. (p. 160)

(21)

21

Lettera n. 37

22 ottobre 1515, da Termini a Pisa. (p. 174)

Lettera n. 38

30 gennaio 1516, da Palermo a Pisa. (p. 180)

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Lettera n. 1

Yehsus/

+Al nome di Dio adì IIII d’aghosto 1498./

Honorando in luogho di padre etc. di poi che io partii di chostì no(n) v’(h)o scr(i)tto per no(n) essere achaduto, e p(er)/ q(u)esta pocho achade salvo p(er) darvi nuove di mio bene istare. E chosì a Ddio piacc(i)/ che il simile intende di (tu)tti voi che Iddio di buo(no) mand(i)./

Io giunxi q(u)i a buo(n) salvamento fino adì 26 del passato e pasammo in 4 giorni e cho(n) bellissimo te/ npo Iddio di (tu)tto sia lodato. E chosì facc(i)o pensieri di stare q(u)i fino fatta la festa dilla/ Madonna, c(i)oé a ½ il mese p(er)ché è lla p(ri)mcipale di Pale(r)mo e di poi voglio ire fino a/ Tortorigi a trovare Matteo di Paulo Orafo che da llui ho aricervere certi denari, e chosì rime/ tterò chostì a mio padre ducati VI che mi faceste servire q(u)ando mi p(ar)tii. E p(er) avennire farò/ pensiero di fermarmi secho là p(er)ché lui n’(h)a gran voglia e dappoi che lui (h)a inteso che io/ vengho di q(u)a (h)a avuto a dire che se io vengho farà tanto che io resterò co(n) llui, bene che io/ no(n) so q(u)ello che fare e sichondo che passaseno le chose di chostì vorrei fare che q(u)ando le pa/ ssaseno ho sachonciasseno al p(r)oposito n(os)tro arei più charo di stare a Pise che q(u)a e più mi/ parebbe che fusse il b(i)x(ogn)o mio, ma in me(n)tre che lle stanno a q(u)esto modo chonoscho bene/ che male vi posso istare e faremi forze di stare q(u)a tanto che lle pigliasseno q(u)alche/ buon sesto che Iddio di (tu)tto il meglio lassi seguire. E già q(u)i arei trovato p(ar)tito di stare/

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24 choruno merchante homo da bene in Pal(er)mo e p(er)ché non

(h)o fatto ancho p(ro)posito alchuno p(er) rispe/ tto di sop(r)a, e poi voglio p(ri)ma parlare cho(n) Matteo poiché io sono q(u)a, e p(er) q(u)esto no(n)/ mi sono voluto hob(ri)ghare a persona e so che io no(n) c(i) arei fatto male e sarei istato tra/ gli omini da bene e merchanti. P(er) tanto vi v’(h)o p(re)ghare che voi m’avixiate chome/ posano le chose di Pise e q(u)ello che se ne stima e di (tu)tto me ne date p(ar)tichulare/ avvixo e q(u)ello che vi pare che sia il bix(ogn)o e utile mio e chonsigliatemi chome se io/ fussi Gianbatista v(os)tro figlio , e chosì ho fede in voi che farete. E io manderò tenpo/ regando cho(n) Matteo o chon altri a q(u)alche charichatoio, in modo che ghuadagnerò/ le male spese fino(n) a tanto che da vo(i) arò q(u)alche buona risp(ost)a, e chosì da mio pa/ dre che ancho a llui ne avvixo di (tu)tto. E di nuovo vi p(re)gho q(u)anto so e posso che mi rispondi/ ate q(u)anto più p(re)sto meglio, e chosì se v’è alchune chose di nu(ov)o che Iddio di buon mand(i)./

E grani q(u)a sono chari p(er)ché la richolta no(n) è istata troppo buona, ha risposto male/ e vagliano (tu)tti 22 e ½ in 28 la salma a ducati (****) e (****) (****) genovesi a chonp(ra)rne (**)/ (****) idi ce ne viene. E istamane n’(h)a fatto merchato lo sig(no)re Gu(glie)l(m)o Aiutami Cristo/ e Paulo Lamb(ar)di di q(u)atro mila salme e messer Mariano Tignoso di 2 mila e t(u)tto di gh(r)ano lo/ vogliano mandare chostì chome si posse p(ra)tichare e ancho dell’altro che Iddio t(u)tto ma/ ndi a buo(n) n salvame(n)to e buo(n) guadagno p(er) (tu)tti q(u)ando sia tempo (tu)tto p(er) v(os)tro avvixo./

Abiamo inteso p(er) lett(er)a di P(or)toveneri p(er) Dionigi Lanfranchi che a Pise era istato in giorni/ che no(n) vere (*****) mille della peste che c’è piaciuto assai che Iddio p(er) sue miseri/ chordie e pietà abbi miserichord(i)a di q(u)elle pore città e liberle da tante/ infruenze./

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25 Non altro p(er) q(ues)t(o) Cristo di male vi g(uar)di e vi

cho(n)servi in buona sanità e a vv(o)i senp(re) mi/ rachoma(n)do rachoma(n)datemi a Franc(esc)o v(os)tro e a (tu)tti e chosì vi rachoma(n)do mio padre/ e se p(er) voi ho a fare alchune chose avvisatemi./

V(ostr)o Batista d(i) B(ar)t(olome)o Gittaleb(r)acc(i)a in Pal(er)mo.

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1498. 4. Aghosto Batt(ist)a (******)

a

Andrea Lanfreducci

Nobili Domino Andrea Lanfreducci in Pise

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Lettera n. 2

+Yehsus Al nome di Dio adì VII d’ottob(r)e 1498./

Hono(ran)do e caro q(u)anto padre etc. alli XI del pa(ssa)t(o) trovandomi q(u)i in Pal(erm)o ci trovai dui/ v(os)tre lette(re), l’una de di XXXI di maggio d(i) V(inegi)a e l’altra de di 20 d(i) luglio alle q(u)ale si farà/ b(re)ve risp(ost)a./

P(er) le vostre s’è visto chome voi esendo a V(inegi)a, e com Messer Giovanni dell’ Ante fuste a ragio/ namento del fatto mio, e che p(er) altre voi me ne avavate is(cr)itto di che mai di/ tale cose senti se no(n) ne da mio padre e ancho isso p(er) la sue mi d(i)ceva p(er)/ altre av(er)mi is(cri)tto d(i) q(u)este cose il b(i)x(ogn)o e chome a llui p(er) più mie gli agg(i)o ditto/ no(n) sapevo in che modo ditto Messer Giovanni mi voleva, di che hora p(er) le v(os)tre/ s’è inteso e p(er) essere istate lette tardi, e io dubitavo lui no(n) fusse p(ro)visto p(er) al/ tra via chome già n’(h)o avuto sentore aggio preso partito allo fatto mio e di già/ chominc(i)ato a fare alchune facende, p(er) altro e p(er) me, p(er)ché mi pare/ av(er)e p(er)duto troppo tenpo, e per q(u)esta cagione io ho fatto co(m)pagnie di q(u)a e starò/ a p(re)sso a a Pal(erm)o a 36 miglia a una terra che si chiama Castellon(ov)o e q(u)ello pocho/ di guadagno che si farà sarà mio il ⅓, e spero co(n) llo aiuto d(i) nostro Signore fare/ q(u)alche cosetta e no(n) sarò sottoposto a nullo. E a voi vi referischo infinite grasie./ E p(er)ché voi mi dite av(er)e dato intensione a Messer Giovanni del fatto mio e che p(er) llo/ p(ri)mo passag(i)o io debbi andare, vi si dice che alle avute di q(u)este/ voi is(cri)viate allo ditto Messer Giovanni il b(i)x(ogn)o chome pare a voi

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28 p(er)ché io di q(u)a no(n)/ fo pensieri d(i) partirmi p(er) 3/o/4

anni, e che se no(n) fusse provisto allo fatto (**) chello/ si p(r)ovede p(er) vostro avv(i)xo. Fammi male che io none ebbi la v(os)tra/ lette(ra) allo tenpo debito che hora sarei a Vi(n)egia e dui mesi fa però tu/ tto riputerò sia istato il meglio, e a voi resto ob(r)igato che vegho vi richordate di./

A Messer Matteo dell’ Orafo aggio is(cri)tto il b(i)x(ogn)o e p(er) ancho non (h)o avuto risposte. Ello mi scri/ ve d(i) rado e parmi che isso a torto sia (*********) mecho, e io mi sono parti/ to da isso p(er)ché senp(r)e m’(h)a p(r)omisso bene e all’ultimo il bene che llo mi vole/ va fare, mi voleva dare l’an(n)o onse 15 a mie ispese, […] e mi voleva p(er) 2/o/3/ anni, e poi mi voleva mette(re) alla sua bottegha a parte e darmi il guadagno (***)/ 1/6 che sarei istato afoghato e senza (****), e p(er)ché io no c(i) (h)o voluto istare, pare/ che sia un pò (**************). Pure p(er) llo p(ri)mo istimo mi fare risp(ost)a allo b(i)x(ogno)o/ e d(i) q(u)anto seguirà sarete avisato ./

De fatti di costì delle guerre abbiamo a q(u)esti giorni passati inteso triste nuove. Nostro Signore a tutto […] p(r)ovegha a nostri bisonni, e d(i) q(u)anto segue ne donate/ avv(i)xo senza mancho che me ne farete pia(cere)./

Vilivieri di Sarmili sta bene e assai si rachoma(n)da a voi. E più giorni sono mi mandò lette(ra) p(er)/ chostì a Maria Angiula e a Franc(esc)o v(ost)ro io le mandai sotto le mie e fu p(r)ese q(u)elle nave da 4 (galee)/ di fracoxi fatene schuxe co(n) Maria Angiula./

Non altro p(er) q(uest)a Cristo vi (guar)di, a piac(eri) v(os)tri semp(r)e pro(n)to e a voi d(i) co(n)tinuo mi rachomando e a (tu)tti v(os)tri mi/ rachoma(n)date./

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1498. 7. Ottobre GianBatt(ist)a Gettalebraccia

a

Andrea Lanfreducci

Domino Andrea Lan/ freducci in Pise

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Lettera n. 3

+Yehsus adì X di maggio 1504./

Sp(ettabi)li e hono(ran)do q(u)anto padre etc. alli II di ditto esendo in Pal(er)mo ebbi una v(os)tra delli XXVIIII di ma/ rzo pa(ssa)t(o) e vista con piacere vi si farà risp(ost)a allo bix(ogn)o./

Q(u)anto dite av(er)mi iscritto alcqune lette(re) e che di me non avete avuto risp(ost)a vi si dice/ che senp(r)e a tutt(e) le v(os)tre vi (h)o fatto risp(ost)a e mi dispiace se non lle avete avute e no(n) n’è/ restato p(er) me, ne p(er) no(n) volervi fare risp(ost)a p(er) lla calxa d(i)lla materia che voi mi s(cr)iveste e/ di q(u)ella con voi me n’(h)o ischuxato e di (tu)tto il fatto mio datovi avvixo, e p(r)ima p(er) no(n) potere allo/ p(r)esente e poi p(er) lla inchomodità del luogho donde sono. E sapete bene che chi no(n) n’ha da ssé/ istenta p(er) altri etc. Io no(n) c(i) potei ne(n)ti e mi bix(ogn)ò pure canpare e poi senp(r)e m’è bixognuto socho/ re il povero vecchio di mio padre, e se io no(n) feci q(u)ello voi areste voluto, abiatemi p(er) ischu/ xato come stimo che arete fatto. E d’altra bando sono bene cierto che llo amore e ami/ cisia anticha p(er) questa nos(t)ra manchata ne possi manchare, p(er)ché senp(r)e m’avete/ tenuto e trattato da figlio e io sono tenuto a tenere a vvoi p(er) padre ne ma(n)cho vi tencho,/ e q(u)ando vedrò q(u)alche modo di potere sudisfare a q(u)alche particella dello debito/ mio v(er)so d(i) voi vi dimostrerò che sarà così (****) fatto e altro di questo no(n) b(i)x(ogn)o dire./

Essi intexo che dite avere uno v(os)tro figlio bastardo e che llo voreste ma(n)dare in q(u)e/ sta isula p(er) farsi di q(u)alchosa, e voreste che io li trovassi q(u)alche richapito. E chome/ v’(h)o

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31 ditto p(er) altre mie, io istò in luogho che no(n) c(i) sarebbe

nullo richapito e inviame(n)to/ p(er) llui di farxi omo da bene, e di q(u)esta coxa ne voreste dare luogho a q(u)alche amicho/ v(os)t(r)o in Pal(er)mo. E io d’altro canto ciercherò e p(er) ora no(n) c’è cosa allo p(r)oposito, e q(u)anto dite/ che llo voreste mandare a me e che voreste p(er) amore v(os)tro io lo tenessi, vi dicho che io/ no(n) (h)o b(i)x(ogn)o se no(n) d(i) uno gharzone p(er) s(er)virmi in casa e no(n) in bottegha, p(er)chè poche facende/ si fano e lo b(i)x(ogn)o che io averei sarà di uno che sapesse cucinare e fare q(u)esti s(er)vixi vili./

E di q(u)esto ne (h)o is(cri)tto p(er) lette(ra) a mio padre, e di lui (h)o avixo che mi ma(n)da uno n(os)t(r)o parente/ lo q(u)ale ce(r)to no(n) vorrei p(er)chè mi farà v(er)ghogno poi a s(er)virmene a tale cosa (piuttosto)/ farò come piace a llui. E q(u)ando voi pure vi cho(n)tentasse ho vi fusse pia(ciuti) di/ mandarmi ditto v(os)t(r)o figlio a vvoi (tu)tto si rimette, e io vi lo terrò dilla buona voglia/ e llo indirisserò a (tu)tto q(u)ello che a me sarà possibile e di ma(n)giare e bere e vestirlo./ Non ci lasserò manchare, tanto che Iddio ci darà q(u)alche buono indirisso e q(u)an/ to p(er) me io a (tu)tto q(u)ello che volete sono co(n)tento di fare la voluntate v(os)tra e tener/ lo chome p(ro)p(ri)o frate(llo), e (tu)tto p(er) avvixo v(os)tro./

Abiamo avuto piace(re) delle nove che intendiamo di Napuli, e chome chos(t)ì deve venire/ giente p(er) aiuto d(i) cotesta (*******) e dire che Iddio sia q(u)ello che p(er) sua misericordia/ ne chavi di tante tribulazione e travagli che ormai ne sarà tenpo e date/ dello co(n)tinuo avvixo che Iddio di buono mandi p(er) (tu)tto./

Non altro p(er) q(ues)t(o) Cristo di male vi g(uard)i , e a voi mi rachoma(n)do senp(r)e e a (tu)tti v(os)t(r)i pi(a)ce(ri)/ sono p(r)onto e p(r)esto e vi rachoma(n)do mio padre./

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32 1504. 10. Maggio Batt(ist)a Gettalebraccia a Andrea Lanfreducci (******) domi(n)o Andrea Lanfreducci in Pise

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Lettera n. 4

+Yehsus adì X di feb(br)aio 1505./

Hono(ran)do in luogho di padre etc. sono passati alchuni iorni no(n) v’(h)o scritto e lla ultima fu sotto lette(ra) di mio/ padre. E di poi ho lla (***) de di XXI di sette(m)b(r)e, la q(u)ale la ebbi alli II d(i) nove(m)b(r)e pa(ssa)t(o) e vista volentieri/ vi si farà risp(ost)a allo bix(ogn)o e p(ri)ma./

Caro And(re)a e padre non vi meravigliate se p(r)ima io no(n) v’(h)o iscritto, p(er)chè come credo che voi a/ biate inteso io pocho stò in Pal(er)mo e q(u)ando q(u)i e q(u)ando a Chastellonovo, di modo che poche/ volte mi abatto a trovarmi alle partite di lli n(ostr)i che venghano costì adirittura. E poi sono/ (******) passati alchuni giorni no(n) è mai venuto nullo e d(i) q(u)esta ne sarà a po(r)tatore/ Piero Ghalletti e di lui arete e intenderete nove d(i) mia buona sanità e a q(u)esto si dice lo bix(ogn)o./

Dite avete inteso come lo Sandro v(os)tro figlio è capitato q(u)a, ed è con Simone e mecho e q(u)anto/ ci lo rachomandate masimo a me s’è visto che sapete bene che lle coxe v(os)t(r)e no(n) bix(ogn)o mi le/ richoma(n)ndate masimo a me s’è visto che sapete bene che lle coxe v(os)tre no(n) fa bix(ogn)o mi le/ richoma(n)date che io le (h)o p(er) più che rachoma(n)date, lo q(u)ale Sandro stette (** *****) con llo/ n(os)tro Simone q(u)i a Termine da 2 mesi e Simone se ne stava di lui come (famiglio) da me/ metterà a co(n)to q(u)ella pocha miseria che ci spenderà, c(i)oè un paio di calzoni e uno di scarpe, e/ io veduto questo lo ma(n)dai a pigliare e llo feci vinire a Castron(ov)o donde (***) e ci feci (******)/ calxe e altre cose che avia d(i) bix(ogn)o e dillo continuo lo facevo isc(r)ivere e no(n) crediate che/ io lo

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34 ma(n)dessi a pigliare p(er) bix(ogn)o che noi ne avessimo tanto

q(u)i q(u)anto io a Castron(ov)o, solo p(er)chè/ di lui mi vene conpasione e istentare p(er) istentare può istentare come a bene che io no(n)/ sono p(er) manchallo in chosa nisuna e i(n) mentre che llui è a o(r)esso di me no(n) mancha che io no(n)/ llo feci isc(r)ivere dillo continuo e llo amaestro/ in tutte q(u)elle cose che a me è posibile. E cho/ me sa B(ar)t(olome)o io gli (h)o ciercato uno patrone che llo avesse a tenere e metterllo avanti e/ mai no(n) (h)o potuto p(er)chè conoscho che commecho si p(er)derà e (tu)tto p(er)chè io senp(r)e no(n) mi lo posso te/ nere ap(r)esso e llui no(n) sa troppo isc(r)ivere, mancho di fare ragionare, che no(n) sa mettere pure le/ (******* ****** *********) ne a chogliere a mente. E sapete che chi no(n) sa già q(u)este cose/ no(n) lle può inpa(ra)re e chi lle sa no(n) lle tiene a me(n)te, ma fano e i garzoni chome è llui e q(u)ando lui sa/ pesse di q(u)este cose q(u)alechosa più che no(n) sa poria essere che llui troverebbe richapito, ma co/ me io ho ditto ello no(n) sa o pocho ho ne(n)te e io ci farò (tu)tto q(u)ello a me sarà possibile, e di calsarllo e/ di vestillo si farà sichondo me lo posibile e no(n) sono p(er) mancharlli mai in mentre che io porò q(u)ando con/ mecho (h)o in casa mia stesse (** *****) tanto fusse posibile, e alle giornate dello fatto suo di/ (tu)tto sarete informato e avixato./

Di Lanfredino v(os)t(r)o arete inteso (tu)tto e come mai non (h)a posuto trovare partito nesuno dispiacemene p(er)/ tutti rispetti e a me fa male non essere tale e q(u)ale che a (tu)tti posa dare inviamento e molto mi di/ spiace, e di loro a boccha e da Giovanni da Chascina (tu)tto intenderete e./

Non alt(r)o p(er) q(uesto) Cristo di male vi guardi, a voi dillo continuo mi rachoma(n)do e rachoma(n)do mio padre, e bene so che/ no(n) fa bix(ogn)o e n(os)tro Signore ci doni grasia che uno giorno di (tu)tto o in pa(r)te (****** ****** *** ****) allo debito e/ (*** **** **) voi (******)./

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35 V(ostr)o Batista Gittaleb(r)acc(i)a in Termine.

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1505. 10. Feb:

GiaBatt(ist)a Gettalebraccia a

Andrea Lanfreducci

Domino Andrea Lanfre/ ducci in Pise

1506

(******) (*****) adì XXV(***) di feb(r)aio (****)

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Lettera n. 5

+Yehsus adì XII d’aghosto 1505./

Hono(ran)do in luogho di padre etc. sono passati molti giorni che io no(n) v’(h)o scritto e l’ ultima fu con Ranieri Rossel/ mini p(er) fino l’anno pa(ssa)t(o) e di poi non (h)o v(os)tra e p(er) q(u)esta vi si dia q(u)anto fa bix(ogn)o etc./

Li giorni passati da cie(r)ti n(os)tri pisani che veniano di Napuli intesi come Sandro v(os)tro figlio era a Napuli e/ istava co(n) uno napulitano che llo teneva in grande miseria e sichonto mi fu ditto pativa carestia del pane/ e male vestito e pegio calsato, e intendendo dilla sua miseria mosso a pietà p(er) q(u)alche e p(er) più rispetti./

Io isc(r)issi una litte(ra) a Binto di Lanc(i)lotto Ghalletti lo q(u)ale si trovava a Napuli e p(er) Charlo che p(er) amore e/ v(os)tro e mio trovasse ditto Sandro e chel vedessi chome lui stava e si llo era p(er) fa(r)ci onore e che/ no ne stesse come esso meritava che alla sua ven[**]a si lo menasse q(u)a con secho e q(u)i oi a Ter/ mine mi lo mandasse che llo vestirei e calserei e terei in casa tanto che q(u)alche partito c(i) troverei/ p(er) modo che lui no ne andasse a male richapito e così alli VI di q(u)esto ebbi lett(er)e d(i)llo n(os)tro Simone/ Ghalletti come ditto v(os)tro figlio Sandro era giunto a Termine lo giorno davanti ed è in caxa n(os)tra/ e p(er) amore v(os)tro tanto lo teremo q(u)i o là che c(i) troveremo q(u)alche partito e (h)o is(c)ritto a Simone/ che mi lo ma(n)di q(u)i p(er) vedello che p(er) amore v(os)tro e suo mi pare mille anni di potello vedere/ e se llui sarà bono non ma(n)cherà o chon io o chone altro q(u)alche par(ti)to bono e sichondo io posso/ vedere e non è ancho indirixato a is(cr)ivere e a q(u)esti giorni mi s(cr)isse una lette(r)a e no(n) sa is(cr)ive/

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38 re troppo bene facemolo inparare e c(i) si farà ogni diligiensa e

dillo co(n)tinuo arete nove di lui/ che Iddio sia q(u)ello che llo indirissi a bene fare e a voi p(er) avvixo./ E di (tu)tto q(u)ello che/ averà di bix(ogn)o si p(r)ovederà e ne teremo co(n)to e sichondo mi s(c)rissi non (h)a bix(ogn)o p(er) al p(r)esente di cosa nissuna./

Non alt(r)o p(er) q(uesto) Cristo di male vi g(uardi) e a (tu)tti v(os)tri coma(n)di e piaceri sono p(r)onto e p(r)esto./

V(ostr)o Batista Gittaleb(r)acc(i)a in Castron(ov)o.

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1505. 12. Agosto GioB(a)tt(ist)a Gettalebraccia

a

Andrea Lanfreducci

Domino Andrea Lanfre/ ducci in Pise

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Lettera n. 6

+Yehsus adì VIIII d’aghosto 1508./

Honora(n)do in luogho di padre etc. sono molti giorni che io no(n) v’(h)o iscritto p(er) non essere stato di bix(ogn)o,/ e lla p(r)esente sarà p(er) dirvi chome alli XXVIII del pa(ssa)t(o) ebbi una v(os)tra de V dello ditto e co(n) piacere/ vista vi si farà risp(ost)a allo bix(ogn)o e p(r)ima./

Dite av(er)mi iscritto q(u)ando Sandro v(os)tro si achonc(i)ò con Messer Paulo Lanb(ar)di vi si dice che mai s’è avu/ ta tale litte(ra) p(er)chè ne va assai male e p(er) q(uest)a mi dite che voreste sapere se in nello tenpo che/ stette con mecho se io feci in lui alchuna ispesa della q(u)ale fusse mia intensione d’esserne/ rifatto che vi si dice che in me(n)tre che esso istà co(n) mecho no(n c(i) lassai manchare nente, c(i)oè/ di calse, giuboti e gonelli e camice e scharpe, e (tu)tto q(u)ello che io ispesi lo tencho avere bene/ ispeso e no(n) v’(h)o adimanderei uno ducato tristo, p(er)chè la tenevo come se mi fusse frate e p(er) tanto lo/ riputo, e p(er)chè lui avesse avuto calxa di inparare e pratichare io lo lassai a Termine/ con Simone. E uno giorno uno bono prete di là vine in parole con ditto Sandro e cho/ me si andò la cosa saria lungho a iscrivello e ditto Sandro dette allo p(r)ete di uno coltello in/ n’una cosc(i)a e di modo che stette parecchi giorni in letto e andò soppo più di 3 mesi e fu/ forsa che Sandro se ne partisse e andosene a Castron(ov)o./ E llà lo teni p(er) sine che Lorenzo/ del Tignoxo mi lo adimandò p(er) Messer Paulo e così c(i) lo manda(i), no(n) p(er)chè io fugissi la spesa che llo/ arei tenuto intra lo mio petto, ma p(er)chè lui avesse più comodità di inparare e/ p(er) maximo che si diceva che allo sette(n)b(r)e che vinia ap(r)esso ditto Messer Paulo

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41 voleva ap(ri)re/ una botte(gha) di panni e così ce lo mandai e

feci dare onsa una p(er) conp(r)arsi camice e calse/ e beretta e altre cose che abixognava e q(u)esta onsa (h)o ditto allo ditto Sandro che io ci l’(h)o in/ p(r)estata e chome lui guatag(n)a che mi la abbi a rendere p(er) mettere animo no(n) p(er) altro si lla/ tornerà a llui sia rimisso pure che facci bene. E di poi io fui in Pal(er)mo e parlai con Messer/ Paulo lo q(u)ale ne stava contento di poi vine sa uno suo nipote, figlio d(i) Giovanni Lanb(ar)di/ e ave misso a Sandro iscrivano di uno suo ghaleone e llo manda a parte la qualcosa a me/ no(n) n’è troppo piaciuto, p(er)chè arei voluto lui avesse stato q(u)i in terra e ateso a farxi/ buono iscrittore e pratichare p(er) farsi omo da bene e llui va navigando certo me ne/ p(r)esi dispiacere e di poi che llui è ito con llo ghaliono no(n) ll’(h)o veduto più che una volta/ e apena parlatoli parmi che sia alli pai o che lo andaseno p(er) achonciare ditto galiono/ come io lo rivederò intenderò da lui meglio e come ello lo fa e trovandoci q(u)alche buon/ partito lo farò stare in terra se llui vorrà o se ne co(n)tenterà e di q(u)anto segue sarete avixato di (tu)tto./

Essi inteso q(u)anto mi dite di mio patre e come è stato malato, e ora grasia di D(i)o stava bene e/ istimo che pare più che voi no(n) dite e mi dispiace per sino all’anima che io non altro bene/ allo mo(n)do che llui e p(er) essere alla lungha come voi dite s(i)ate certo che non è mai giorno/ che a (tu)tte l’ore no(n) pensi allo fatto suo e q(u)ello che io no(n) so, no(n) resta sino p(er) no(n) potere la buo/ na valuta istà p(r)onta e farò q(u)ello ch’io posso, e già c(i) (h)o dato con q(u)esti che si partino li giorni/ passati di q(u)a un pocho d’ordine che averà se no(n) n’è in (tu)tto parte dello bix(ogn)o suo e ap(r)e/ sso si farà q(u)alche altro isforxo in modo che con lle grasie di D(i)o (tu)tti canperemo. E siate cierto/ che in me(n)tre ch’io porrò no(n) sono p(er) abandonallo mai, e vi rigrasio assai dilla buona opera che avete/ fatto v(er)so di lui, e fate (tu)tto giorno, che c(i)erto pu(ò) dire che voi l’avete trattato da più che da frate/ llo, e in

(42)

42 me(n)tre che io arò fiato in llo misero corpo senp(r)e vi sarò e

sono obrighatissimo e mi dispi/ ace come vi s’è ditto no(n) potere adimostrare con e fatti q(u)ello che stà inel chuore e come arete/ inteso di mio padre io di uno anno in q(u)a sono stato malato in mano di medici e immedicare/ che m’(h)o co(n)sumato la p(er)sona e ap(re)sso pa(r)te dilla robba. E sapete che chi stà fuori bixogna con/ p(r)are p(er) sino al sole, e q(u)i sono care le cose più che di costà e no(n) c(i) (h)o rendite e (h)o avuto// A fare e fò senp(r)e p(er) altri e lli guadagni sono p(r)ima d’altri che mia e di (tu)tto ne ringrasio Iddio e llo/ p(re)gho che mi dia sanità che s’io posso faremi q(u)alche pocho di capita(le) farò di p(er) me e (****) a Ddio/ piacermi concedermene grasia a tale che in v(er)so di (tu)tti si possi fare q(u)ello che richiede/ lo debito, se no(n) in (tu)tto allo meno in pa(r)te. E ditto a mio patre q(u)anto so e posso ve lo racho/ mando in (tu)tte cose che costì no(n) c(i) (h)o isperanxa si no(n) a voi e a B(er)nardino allo q(u)ale c(i) lo racho/ mandate che isso sa che mio patre ci è stato buono padre come lui sa e bene che istimo/ che llui feci lo debito e io fò p(er) lui v(er)so d(i) Girolamo suo frate e p(er) Masimo che ora (h)a p(r)eso moglie/ a Messina ed è riccho e ci è di alt(r)e a q(u)esti (e)redi di Batista Lanb(ar)di sua cuxini (tu)tto p(er) v(os)tro avvixo./

Arei charo d’intendere come passino le cose di costà e se si ave a por(r)e fine a tanti tribula/ sione e guai q(u)anto ave avuto cotesta mischina città e populo. Intendendo q(u)alche cosa di buo/ no datemene avixo che Iddio d(i) buono mandi p(er) (tu)tto e facci che si possi pratichare che q(u)ando costì/ potesseno vinire navili sensa periculo omo vi porrà visitare q(u)alche volta che stando costì o si puole abiate pasienxa, e a (tu)tti v(os)tri comandi sono senp(r)e p(r)onto e parato./

Non altro p(er) q(uesto) Cristo di male vi g(uar)di e a (tu)tti d(i) costà v(os)tri mi rachomandate assai./

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43 V(ostr)o Giova(n) Batista Gittaleb(r)acc(i)a in Pal(er)mo.

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44

1509. 9. Agosto GioBatt(ist)a Gettalebraccia

a

Andrea Lanfreducci

Domino Andrea Lanfre/ ducci in Pise

1509/

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45

Lettera n. 7

+Yehsus ad(ì) XVI d(i) sette(m)b(r)e 1508./

Honorando in luogho di padre etc. con Llorenzo Dall Cholle li giorni passati vi scrissi lo bix(ogn)o el q(u)ale/ anchora no(n) s’è di q(u)i partito, e di poi mi atrovo tre vo(s)tre e lla più frescha de XXIII del passato e vista/ vi si farà risp(ost)a allo bix(ogn)o di (tu)tto./

E s’è inteso con grandissimo dispiacere che alli XXVI d(i) luglio passa(to) fò di piacere allo eterno/ Iddio di chiamare a sse la benedetta anima di mio padre, el q(u)ale passò di q(u)esta p(r)esente vita/ e chome dite finì con (tu)tti e sagrame(n)ti della ciexa e come buo(n) cristiano che Iddio p(er) sua santa pietà/ e misericordia abbi ricevuta q(u)ella benedetta anima e collocatola in vita eterna tra sua santi beati e/ q(u)anto dispiacere e dolore mi sia istato e sarà lo lasso considerare a voi e posso dire d’essere restato/ solo e no ne avere più a nisuno. E no(n) (h)o potuto avere tanto di grasia ch’io abbi posuto conso/ lare a llui e a me d’ av(er)e stato ap(r)esso di lui allo mancho 15 che cierto se io l’avessi fatto no(n) ne se/ ntirei tanto dolore all’animo q(u)anto sento, ma no(n) s’è potuto più e poi che così è stato di piacere/ allo altisimo Iddio e di bix(ogn)o che omo s’achordi con lla voluntà sua, e come dite recarxi tutto a pasie/ enxa e chosì mi forserò di fare e no(n) pò fare che no(n) mi dolgha. E altro no(n) si può fare se no(n) p(re)ghare Iddio/ p(er) lla anima sua e così si farà e no(n) si mancherà si no(n) (tu)tto in parte all debito che no(n) porei fare / q(u)anto io sono più tenuto, e n(os)tro Signore ce ne concedi grasia./

(46)

46 E più s’è visto che in lla sua malatia voi a (tu)tti li n(os)tri costì

lo avete sovenuto e aiutato in modo che no(n)/ glien’è manchato e di poi al corpo fatto le debite eseque, come costì si richiede e maximo a tempi d’ora/ di (tu)tto ve ne ringrasio assai e cierto s’è senp(r)e visto il p(er)fetto e buono amore che in v(er)so di lui avete/ portato e llo simile che portate ve(r)so di me. E verame(n)te istimo che vi sia doluto, p(er)chè si poteva/ dire voi fusse 2 fratelli, però no(n) si può più, e come dite (tu)tti abiamo a fare q(u)esto passo e vi rin/ grasio del richordarmi a fare p(er) lla anima sua che vi p(r)ometto di chosì fare altro no(n) posso dire/ ciertissimame(n)te vecho e chonoscho che gli è come dite che in vita voi lo amaste e così a (tu)tti noi e o/ ra a me e ll’avete dimostrate con ll’opere, e p(er) llo passato e p(er) llo avenire, e mi mostrate lo bix(ogn)o e llo/ utile e onore mio e di fare p(er) me (tu)tti e benefixi che si de(vono) fare no(n) da amicho, ma da padre e figlio/ e come dite dove fanno bix(ogn)o i fatti no(n) bastano le parole. E visto e inteso (tu)tto il modo che vi pare/ ch’io abbi di tenere sop(r)a al fatto dello acettare la redità e così ho diliberato fare e (h)o avuta la/ minuta che m’avete mandata e no(n) ll’(h)o mostra(ta) a nisuno si no a uno notaro mio amicho lo q(u)ale no(n)/ n’(h)a bene saputa legiere p(er) no(n) ne intendere q(u)ale parola ab(r)eviata e q(u)alche vochapulo di/ costì. E ll’(h)o data a p(r)ete Giovanni Di Stefano che q(u)i è mastro di squola e lui mi la copierà più netta/ e farassi lo bix(ogn)o e omi diliberato fare q(u)anto voi m’avete iscritto e no(n) mancho e in me(n)tre ch’io/ vivo di none e stare d(i) (tu)tti v(os)tri comandame(n)ti e farò p(er) modo che in parte si no(n) in (tu)tto stare/ te contento di me. E (h)o diliberato farvi mio p(r)ochuratore ins(i)eme con Bernardino e Llodovi/ cho Gettaleb(r)accia e a (tu)tti rimettere in voi e in loro, e so che mi ristringerete q(u)ella pocha di miseria/ che c’è e (tu)tto q(u)ello pocho che si richaverà potendosene av(er)e voglio che abbi avvinire in voi e/ con q(u)alche pocho ch’io vi p(r)ovederò di q(u)a a pocho a pocho vi verò soddisfacendo, in modo che (tu)tti

(47)

47 po/ teremo canpare e sop(r)a(ttu)tto vi p(re)gho che q(u)ello che

si porrà conservare si chonservi etc./

Essi inteso dillo guasto che avete avuto, abiate pasiensa e di B(ar)t(olome)o da Cellino di (tu)tto sono stato info/ rmato, e c’(h)o p(r)omisso che se lloro se ne venghano e che si charichi grano ve ne manderò un po/ cho e così vi p(r)ometto fare./ E p(er) lla v(os)tra ultima dite che avete paghato la c(i)era e lle altre ispese con av(er)e venduto de sua pa/ nni di dosso e lla ispassatura della bott(eg)a, e che era stato altre cose delle q(u)ale dite av(er)e risanate e/ misso in sichuro e che altra volta n’arò l’inventario e così si atende, e mi sarà caro sapere che/ cose le sono e di poi ordinerò q(u)ello se n’(h)a di fare p(er) avixo.// Dite avere avuto una mia diretta a mio patre e avete inteso come con Franc(esc)o Corbini io mandai salme [ccha] X di grano, c(i)oè salme di q(u)a X e chome a esso feci uno ricordo lo avia a ischonpensare,/ c(i)oè salme III a M(aestr)o Luciano della (Cigula) chalsularo p(er) suo figlio e salme una a Giovanni di Jac(op)o dal/ Champo che c(i) la mandava uno Aghostino Tavioli, e saccha tre a sora Vangilista e saccha due a M(onn)a/ Margherita don(n)a che fu di Vincenti del Ciciliano, matre di uno mio gharzone, e dillo resto se ne/ vendesse tanto che si paghasse la dispesa che s’avia a fare dilla foce in Pisa, c(i)oè p(er) lle salme 6 che/ volevo che t(utt)i lo avesseno franchi d(i) q(u)ello di M(aestr)o Luciano e p(er)ò dal canpo in fuori e llo resto avesse dato/ a mio padre e a B(er)nardino (per metà). E a B(er)nadino saccha 5 e llo resto di mio padre in llo modo che p(er)/ 4 oi 5 me litt(er)e si può vedere e q(u)esta era la mia voluntà. E lle litt(er)e ne mandai uno me/ setto a Giorgente a prete Salvestro Boccha che entro c(i) era litt(er)e che andavano a (tu)tti q(u)elli che/ aviano a ricepere ditto grano con una mia litt(er)a di dentro diretta allo ditto Franc(esc)o Corbino che lli ci/ mettevo pagha tanto grano allo tale e allo tale, e se averete avute

(48)

48 ditte litt(er)e trovere/ te o arete trovato (tu)tto le q(u)ali lett(er)e

le detti q(u)i in Pal(er)mo a Nanni Berci che lle desse a Giorgente/ a ditto p(r)ete Salvestro Boccha, in nelle q(u)ali c’era X carlini papali. Si no lle avete avute trova/ te a Nanni Berci e a prete Salvestro Boccha e c(i) le adimandate che sico(n)do che voi dite q(u)este li/ tt(er)e d(i) p(r)ete Salvestro no(n) sono conparse e una ne mandai con ditto Nanni e ducati III d’oro e una con Nofri/ Del Pitta conte (*****) li q(u)ali dite che le tenghano p(er) sino ch’io iscrivo loro q(u)ello che ne (h)anno di seguire, e allo simile a Franc(esc)o Corbini alli q(u)ali a (tu)tti iscriverò q(u)ello che (h)anno di fare e a voi sa/ rà avixo. L’arme dello mio anello dite che d’è cominciata, ma no(n) fornita e se io voglio mi lo/ farete fornire a (Maestro) Dicholino (tu)tto a voi si rimetto. E llo simile dite che se io voglio mi farete/ fare lo anello vi rispondo che no(n) mi fa bix(ogn)o anelli e (tu)tto facevo p(er) potere dire col tenpo q(u)esto fu/ fatto p(er) lle mano della benedetta anima d(i) mio padre, e poiché no(n) n’ (h)a saputo farla averò pasiensa/ che q(u)esto pocho inporta, e mi rendo cierto che (tu)tto fareste co(n) fede e con amore come dite e quan/ do mi achaderà altra cosa vi se ne darà avixo e farassi con voi a sichurta e al bix(ogno)o di voi mi servirò./

E dilli ditti ducati richuperati, che lli arete, vorrò che voi con Lodovicho e B(er)nardino faciate dire dui ofigi,/ c(i)oè uno a Santo Ant(oni)o e uno a Sa(n) Lorenzo alle n(os)tre sepulture p(er) lla anima di mio padre e di/ mia madre con 8/o/10 messe p(er) uno. E lla c(i)era come fa bix(ogn)o, che no(n) vi lo so dire e che faciate di/ re ispanta le messe d(i) San Ghirigholo p(er) lla anima di (tu)tti e dui e parendovi in una matina/ tutte lo fate, e in ditte 2 chiexe convitandovi di più poveri e virtuoxi religioxi che/ a voi pare e che siano acetto a Ddio. Io l’arei fatte dire q(u)a, ma p(er)chè costì c’è più bixognoxi/ e poi e corpi loro sono costì. M’è parxo darvi q(u)esta noia a voi e che così s’abino a cieleb(r)are ditti/ ofixi e messe, siche q(u)ando vi sarà ordinato

(49)

49 lo farete e dillo resto delli ducati li terete voi a me ne/ farete

creditore a uno co(n)to a perte, e vi dirò q(u)ello ne avete a fare, lo simile delli carlini/ 10 che (****) p(r)ete Salvestro ne volevo una croc(i)etta con 5 granati e sette perle come si cho/ stumava costì e d’argento inorata e vistoxa se ce n’è o se me ne potete fare fare una ve/ ne p(re)gho che lla vò p(er) uno amicho mio chome avio iscritto alla bona anima di mio padre e q(u)an/ do costasse più paghatela q(u)ello più e date avvixo, e q(u)i la manderete a Giovanni Da Vecchiano cassiere di/ llo bancho delli Agliata con dare avixo./

Lo forme(n)to, c(i)oè le salme 6 di resto delle X vederete che ispesa c(i) s’è fatto e tanto se ne vendi p(er) pagharle/ e saccha V ne sia dato a B(er)nardino, 3 alla monacha, 2 a q(u)ella Margherita e saccho uno oi 4 staia/ voglio che siano distribuite a poveri p(er) ll’anima di mio padre e d(i) mia madre e averete darlli/ a q(u)elli che più bix(ogn)o n’(h)anno e che abino di paghare p(er) lloro, e llo resto che sarà sia v(os)tro e p(er) q(u)ello/ che vale vi lo contate e llo mette(te) allo conto de ducati dittovi di sop(r)a.//

Dite che lla monacha vorebbe che si li mandasse q(u)elle cose che sono restate in casa e voi no(n) lla are/ te voluto fare e chosì ne avete consigliato a Llodovicho e B(er)nardino che bene avete fatto loro/ no(n) iunchano mai sasie e no(n) so che ella me vole fare levare a me p(er) dare ad altri e io conp(r)o/ q(u)a p(er) sine alli istracci che si metta le padelle. Piacemi voi abiate riserbate tutte cose e che/ me ne mandate inventario che poi ap(r)esso ordinerò q(u)ello se n’ave di fare./

L’erba che io adimandavo a mio padre p(er) llo ispesiale allo p(re)sente no(n) n’è inporta e q(u)i si tro/ va Raffaello Di Miliano ispesiale e c’(h)o fatto parlare con llui e come se ne viene costà ci da/ rà richapito lui p(er) avixo. E più avevo iscritto a mio padre ch’io arei voluto 2/ tovaglie di tavula di

(50)

50 (braccia) 5 in 6 fatte alla parigina, se in casa ce ne fusse e

fussino buone/ l’averei care e vorrei uno secchio p(er) dare a(c)q(u)a a mano che no fusse troppa grande e llo/ vorrei bello e ben lavorato con uno manicho bello ristagnato come li soleva fare lo calde/ raro che già stava ap(r)esso di voi, overo Nic(ol)aro Calderaio potendomilo mandare con/ no so che lucierne e altro che mi voleva mandare lui l’arò (tu)tte care e B(er)nardino/ vi sap(r)à dire che cose erano e tutte fate mette(re) in uno corbellino e ben cierato di sop(r)a/ lo mandate e indirixate q(u)i allo ditto Giovanni Da Vecchiano e lle tovaglie no(n) manchi se si può./

E p(er) al p(r)esente no(n) vi dono altro in pacio p(er) avixo, ne vi fac(i)o p(r)esente ne do parole fino/ che allo bix(ogn)o mi servirò di voi come d(i) padre p(ro)p(r)io, e voi a me coma(n)date da figlio./

Dite che voreste ch’io vedessi di trovare q(u)alche luogho p(er) llo v(os)tro Lanfreduc(c)io, che vi si dice che allo/ p(r)esente no(n) c’è ne(n)te e q(u)i ci sono di molti dilli n(os)tri giovanni e (tu)tti senza partito p(er)chè no(n) c’è adima(n)/ data di nessuno e stano q(u)a a guardare le panche che d’è una v(er)gogna no(n) si può più. Io c’(h)o/ p(r)eso uno più mosso da chonpasione che da bix(ogn)o lo q(u)ale si chiama Marcho Del Moscha, figl(i)o di Za/ ccharia e nipote di Girolamo e Serafino, che p(er) esser stato lui amicho n(os)tro m’è in cresciuto di q(u)esto gha/ rsone e tutti q(u)esti pisani me ne (h)anno ditto bene. Porà essere che lle bontà sue e col tempo io/ ne avessi avere bix(ogn)o e masimo s’io facessi pensieri a vinire p(er) sino costì, Iddio a (tu)tto p(r)ovedi e/ mi dispiace che no(n) c(i) sia luogho p(er) llo v(os)tro Lanfreduc(ci)o e achadendo vi si darà avixo./

L’atto dillo inventario s’è fatto e la p(r)ochura e co(n) frate Vincenti o cho(n) B(er)n(ardin)o Da Settimo vi si ma(n)/ derà e si scriverà di (tu)tto e p(er) no(n) n’av(er)e tenpo che riparto

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