• Non ci sono risultati.

PET/TC CON FDG NELLA RISTADIAZIONE DEL PAZIENTE CON CARCINOMA DEL COLON-RETTO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "PET/TC CON FDG NELLA RISTADIAZIONE DEL PAZIENTE CON CARCINOMA DEL COLON-RETTO"

Copied!
80
0
0

Testo completo

(1)

INDICE

RIASSUNTO pag. 1

INTRODUZIONE pag. 3

La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) pag. 4

Strumentazione PET/TC pag. 4

Radioisotopi e radiofarmaci pag. 6

Applicazione della PET con FDG in ambito oncologico pag.11

Carcinoma del colon retto pag.17

La ristadiazione del tumore e le problematiche correlate pag.29

SCOPO DELLA TESI pag.36

MATERIALI E METODI pag.37

RISULTATI pag.40

CASI CLINICI DI PARTICOLARE INTERESSE pag.44

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI pag.50

(2)

RIASSUNTO

La tomografia ad emissione di positroni (PET) rappresenta un’importante metodica di Medicina Nucleare che permette una diagnostica per immagini non invasiva, mediante lo studio di processi metabolici negli organismi viventi e di alterazioni in essi indotte da parte di differenti patologie. Esistono numerosi rapporti di technology assessment che hanno valutato la qualità, la rilevanza degli studi clinici e l’efficacia della FDG-PET in ambito oncologico. In questi ultimi anni è stato pertanto osservato un crescente impiego della PET nella routine clinica per la caratterizzazione, stadiazione e ristadiazione delle neoplasie maligne. Fino a pochi anni fa, il principale limite di questa metodica era rappresentato dal fatto che l’eventuale accumulo patologico del radiofarmaco non potesse essere attribuito con precisione a specifiche strutture anatomiche. Questo limite è stato superato recentemente dall’introduzione di tomografi ibridi PET/TC che permettono di acquisire in un’unica seduta le immagini metaboliche (PET) ed anatomiche (TC), e di ottenere ottimali immagini di fusione, aumentando di conseguenza l’accuratezza diagnostica della metodica nelle diverse situazioni. Una delle applicazioni decisamente più interessanti è nell’ambito della patologia tumorale del colon-retto.

Nella presente tesi viene riportato uno studio retrospettivo su una casistica di pazienti affetti da adenocarcinoma del colon-retto afferenti alla Sezione PET del Centro Regionale di Medicina Nucleare dell’Università di Pisa in fase di ristadiazione clinica. Tutti i pazienti sottoposti all’esame PET/TC presentavano un sospetto di ripresa di malattia loco-regionale, linfonodale o a distanza, sulla base dei risultati di esami di laboratorio o di reperti evidenziati con altre tecnologie di imaging.

Lo scopo del lavoro è stato quello di valutare il valore aggiunto e le informazioni complementari della PET/TC con FDG nella ristadiazione del paziente operato per carcinoma del colon-retto.

(3)

INTRODUZIONE

Fino a non molto tempo fa, strategia clinica ed iter terapeutico in oncologia sono state pressoché esclusivamente incentrati sulle informazioni derivate dall’imaging anatomico. Allo scopo di pianificare adeguati interventi terapeutici, l’iter standard per una neoplasia, passava attraverso metodiche come TC, RM, US, in grado di determinare l’estensione del tumore basandosi su caratteristiche fisiche come la densità dei tessuti, il contenuto in grasso ed acqua o la vascolarizzazione. I limiti di un tale approccio, esclusivamente anatomico, risiedono fondamentalmente nel fatto che esso poco o nulla dice riguardo le caratteristiche funzionali e/o molecolari del tumore stesso: la limitazione è infatti quello di contenere un’informazione su un’alterazione fenotipica che solo occasionalmente è associata quali-quantitativamente al comportamento della massa tumorale12.

La possibilità di determinare le caratteristiche biologiche del tumore (come l’indice di proliferazione cellulare o l’espressione di particolari prodotti genici), attraverso l’analisi di materiale bioptico, oltre all’ovvio problema dell’invasività, che diminuisce sensibilmente la compliance del paziente, è comunque incapace di determinare l’estensione e le eventuali alterazioni loco-regionali della neoplasia. Altro punto cruciale nel suddetto iter è, posto un intervento terapeutico, la verifica di responsività da parte del tumore, sapere cioè se la terapia, sia essa di tipo chirurgico, farmacologico, radioterapico od integrato, determini un cambiamento regressivo o perlomeno di stabilizzazione sulla massa tumorale3. Anche in questo caso, la valutazione si basa fondamentalmente sul riscontro, mediante le tecniche di imaging sopracitate, dell’eventuale cambiamento delle dimensioni del tumore, evidenza però dal significato abbastanza limitato, in quanto un’eventuale diminuzione dimensionale è evidenziabile solo a seguito di una diminuita proliferazione cellulare e di un’aumentata frazione di cellule necrotiche: per osservare cambiamenti dimensionali, ci vuole del tempo, con una dispendiosa attesa di settimane e mesi per programmare una eventuale terapia successiva. Il bisogno di usufruire di una tecnica che fosse contemporaneamente in grado di fornire indicazioni riguardo all’atteggiamento metabolico di una neoplasia, senza

(4)

però trascurarne gli aspetti morfologici, e dotata di minima invasività, è stato atteso dall’avvento della PET (Tomografia ad Emissione di Positroni), e dall’ approvazione del suo utilizzo in ambito oncologico.

La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET)

Introdotta circa 30 anni fa da Phelps e Hoffmann4 ed usata per molti anni quasi esclusivamente in ambito cardiologico e neurofisiologico, questa tecnica ha subito notevoli revisioni riguardo il suo utilizzo, tanto che, ad oggi, solo il 4% delle richieste d’esame è legato alla neurologia non oncologica, e l’1% è legato alla cardiologia, a fronte del 95% delle richieste legate all’oncologia5.

Le ragioni di questo cambiamento risiedono nel fatto che ogni tipo di patologia, compresa quella tumorale, altro non è che un processo biologico in cui si verificano errori molecolari che determinano disregolazione o alterazione di funzioni cellulari: la PET è per sua stessa natura una tecnica di indagine molecolare, perché si basa sull’utilizzo di particolari composti chimici, analoghi di sostanze normalmente presenti a livello endogeno, i quali vengono accumulati a livello tissutale/cellulare, evidenziandone il metabolismo e dunque le basi molecolari, ad esempio di una neoplasia, laddove la mutazione di DNA genomico preceda lo sviluppo delle manifestazioni fenotipiche6 .

Strumentazione PET

Il principio del funzionamento della PET è dato dal processo di decadimento positronico. I positroni vengono emessi da nuclei di atomi caratterizzati da un eccesso di cariche positive, prodotti ad hoc da un ciclotrone: il positrone ha però vita brevissima. Durante il decadimento dell’isotopo iniettato, infatti, si viene a creare una reazione di annichilazione, in quanto i positroni (elettroni carichi positivamente), lungo il loro percorso, “incontrano” numerosi elettroni (carichi negativamente): avendo massa uguale ma carica opposta, sono reciprocamente attratti, annichilendosi, ovvero perdendo completamente la propria energia. Il risultato di questa interazione, è l’emissione di due fotoni di annichilazione, due

(5)

raggi γ aventi ognuno energia di 511 KeV, diretti in direzioni diametralmente opposte (emissione a 180 °).

Figura 1: il fenomeno dell’annichilazione

Le coincidenze, ovvero le registrazioni in contemporanea dei due fotoni prodotti, vengono determinate da un numero elevato di detettori (cristalli di germinato di bismuto-BGO-, ortosilicato di lutezio-LSO-, gadolinio-GSO), disposti su più file di anelli adiacenti con un campo di vista (FOV) assiale da 10 a 20 cm. Dalle registrazioni di un gran numero di queste coincidenze, mediante l’impiego di algoritmi di ricostruzione dell’immagine, si ottiene la distribuzione dell’attività del radiofarmaco all’interno dell’oggetto studiato.

Le evidenze positive di un sistema PET sono:

• elevata risoluzione spaziale (circa 5 mm, la più alta della Medicina Nucleare convenzionale);

• alta efficienza di rivelazione (consente di acquisire un numero elevato di fotoni a costituire l’immagine).

Il problema maggiore risiede invece nell’avere un’elevata risoluzione temporale per facilitare l’individuazione dei fotoni di coincidenza emessi simultaneamente alle elevate frequenze di emissione comunemente presenti. Inoltre, sebbene venga usato il termine di coincidenza, esiste di fatto una piccola differenza temporale per quelle emissioni che non originano dal centro del sistema: nel caso del corpo

(6)

umano, le differenze sono al massimo di 2 ns, ma a causa del tempo di risposta del materiale rivelatore, viene impiegata una finestra temporale maggiore, di 8-12 ns. In tal modo, vengono registrati dal sistema quegli eventi che vengono rilevati da due cristalli disposti lungo una determinata linea di volo entro tale finestra temporale. Associati ai fenomeni di coincidenza reali, fenomeni di falsa coincidenza possono degradare l’immagine.

L’indiscusso vantaggio di poter quantificare accuratamente la radioattività presente in un organo o in una regione di interesse, deve inoltre passare attraverso la correzione di una serie di “effetti indesiderati”, in primis l’attenuazione del fascio di fotoni emessi, che è proporzionale alla densità e allo spessore del tessuto attraversato.

Classicamente, l’attenuazione viene corretta mediante l’acquisizione di una “scansione di trasmissione”, utilizzando una sorgente esterna di positroni (sorgente lineare di 68Ga incorporata nel gantry del tomografo) che, ruotando attorno al paziente, misura l’attenuazione per ogni linea di coincidenza7. Tale processo però, effettuato prima dell’acquisizione emissiva PET , richiede dai 20 ai 30 minuti, determinando così un sensibile aumento del tempo totale di acquisizione, limitando il numero di esami quotidianamente eseguibili ed aumentando il costo del radiofarmaco che, decadendo rapidamente deve essere altrettanto rapidamente sintetizzato o acquistato in grandi quantità.

Radioisotopi e radiofarmaci

Radioisotopi e radiofarmaci costituiscono la conditio sine qua che permette di effettuare un’accurata indagine PET .

I radioisotopi, nuclidi di uno stesso elemento chimico con un numero diverso di neutroni, sono atomi con nucleo instabile che tendono al raggiungimento di uno stato stabile attraverso la cessione dell’eccesso di energia che li caratterizza sotto forma di radiazioni. I radioisotopi adoperati per la PET si caratterizzano per la loro breve emivita (da pochi minuti a qualche ora), rendendo dunque necessaria la presenza di impianti con ciclotroni e laboratori di radiochimica per sintetizzare e produrre radiofarmaci all’interno degli stessi presidi ospedalieri, oppure di centri

(7)

di radiochimica o industrie specializzate nelle zone limitrofe, che ad essi li distribuiscano.

I radioisotopi di maggior uso corrente sono: ossigeno-15, azoto-13, carbonio-11, fluoro-18: sono tutti nuclidi costituiti da sostanze organiche naturali. Il fluoro-18, ad esempio, introdotto nelle molecole al posto dell’idrogeno, per la similitudine dei rispettivi raggi ionici, permette di ottenere fluoro-derivati che mantengono le caratteristiche biologiche della molecola originale.

I radiofarmaci sono invece sostanze radiomarcate, in grado di accumularsi nei tessuti in modo più o meno specifico, utilizzando meccanismi biologico-metabolici, recettoriali, immunologici o semplicemente fisici. I radiofarmaci utilizzati per la PET sono numerosi, soprattutto se si considerano tutti quelli attualmente di impiego sperimentale e che potranno essere disponibili in futuro. Ciascuna di queste diverse molecole è inoltre in grado di delineare un specifico aspetto fisio-patologico o biomolecolare, cellulare o tessutale. Attualmente il più largamente utilizzato nella pratica clinica oncologica è il fluorodeossiglucosio (FDG).

Nella tabella 1 sono riportati soltanto alcuni dei radiofarmaci PET utilizzabili in oncologia.

(8)

Tabella 1

Radiofarmaci PET e loro impiego

Tracciante Emivita (min.) target

[15O]O2 2 Perfusione

[15O]H2O 2 Flusso

[13N]NH3 10 Perfusione

[13N]Acido. Glutammico 10 Sintesi proteica [13N]Cisplatino 10 Farmacocinetica regionale

[18F]NaF 110 Turnover osteo-calcico

[18F]Fenilalanina 110 Sintesi proteica

[18F]MISO 110 Ipossia tissutale

[18F]FET 110 sintesi proteica [18F]FLT 110 proliferazione cellulare

[18F]RGD 110 Angiogenesi

[18F]MoAb 110 Antigeni tumore associato [18F]Estradiolo 110 Recettori ormonali

[18F]FDG 110 Metabolismo glucidico

[18F]etil-Colina 110 Sintesi di membrana

[11C]Colina 20 Sintesi di membrana

[11C]Metionina 20 Sintesi proteica

Il FDG è stato usato all’inizio pressoché esclusivamente per lo studio del metabolismo cerebrale ma attualmente il suo impiego principale è quello oncologico in quanto, essendo un analogo del glucosio, come tale viene internalizzato nelle cellule e fosforilato dall’Esochinasi a FDG-6-P. Tale composto, però, non subisce ulteriori processi metabolici, non essendo riconosciuto né dalla Glucosio-6-P-deidrogenasi, né dalla Glucosio-6-P-isomerasi; inoltre, la via di ritorno attraverso la Glucosio-6-Fosfatasi sarebbe molto lenta, essendo la permeabilità di membrana per gli esoso-fosfati molto bassa8.

(9)

Come risultato di questi processi, il radiofarmaco resta “intrappolato” nella sede di accumulo: maggiore l’attività metabolica glucidica, maggiore l’accumulo. E quindi, la captazione del FDG.

Tutti gli organi vitali utilizzano glucosio per l’energia e sono potenzialmente avidi di glucosio, siano essi benigni o maligni; esiste inoltre una ipercaptazione fisiologica, ad esempio a carico del tessuto cerebrale, del muscolo -soprattutto a seguito di esercizio fisico-, del miocardio: poiché però i tubuli renali non sono in grado di riassorbire il radiofarmaco, questo viene eliminato per via urinaria, determinando un miglioramento del rapporto rumore/fondo, migliorando la qualità delle immagini e diminuendo il rischio di falsi positivi.

Anche le neoplasie, in quanto costituite da cellule vitali ed in continua proliferazione, hanno un metabolismo glucidico aumentato: questa caratteristica delle cellule tumorali, già descritta da Warburg nel 19309, ormai un assunto nell’ambito medico-scientifico, deriva dall’aumentata concentrazione e dall’iperattività di enzimi critici della via glicolitica, come Esochinasi e Fosfofruttochinasi, nonché delle proteine di trasporto del glucosio. Utilizzando dunque FDG si visualizzano tali aree di ipercaptazione legate alla presenza di cellule tumorali; inoltre, la lunga emivita di 110 minuti evita la necessità di ricorrere ad un ciclotrone all’interno della struttura ospedaliera, diminuendo quindi i costi per l’ospedale stesso.

Le caratteristiche ubiquitarie del FDG, il suo accumulo fisiologico, parafisiologico e patologico (ad esempio, anche in corso di flogosi tissutali, perché internalizzato dai macrofagi), rendono necessaria una corretta interpretazione quali-quantitativa dell’accumulo stesso. A seconda, ci si può avvalere di una sola analisi quantitativa visiva, ma ciò rende molto difficile distinzione e diagnosi differenziale, oppure si possono utilizzare dati semi-quantitativi dimensionali come il SUV (standardized uptake value), espresso dal seguente rapporto: (gr) corporeo peso (mCi)/ iniettata Attività tessuto di (mCi)/gr rilevata Attività

=

SUV

(10)

Esso è dunque l’espressione di un rapporto tra quantità di tracciante accumulato in una data lesione, e la quantità di tracciante che sarebbe ipoteticamente presente in una regione di uguale volume, se il tracciante fosse distribuito omogeneamente in tutto il corpo. Dunque, ad una veloce interpretazione, un valore SUV maggiore di 1 indica un accumulo preferenziale in una lesione (ed in genere un valore SUV di 2, 5 viene considerato il limite discriminante tra lesioni benigne e maligne), mentre un valore SUV minore di 1 indica un accumulo di radiofarmaco rispetto alla concentrazione del radiofarmaco di fondo.

Tali valori SUV possono subire eventuali modifiche, introducendo valori di correzione quali la massa corporea magra (SUV LBM) e la superficie corporea

(SUV BSA) 10

.

Nei casi in cui fosse necessaria una ancora più accurata quantizzazione, si possono ottenere dati relativi alla cinetica del tracciante, con acquisizioni dinamiche e usando curve di input arterioso: per il FDG è stato descritto il metodo di Sokoloff11 secondo cui da parte delle cellule è prevista una captazione del FDG iniettato, con rate k1. L’enzima Esochinasi fosforila il FDG a FDG-6-PO4 con rate

k3; il FDG può poi uscire dalla cellula con rate k2 , mentre il FDG –6-PO4 rimane

nella cellula, perché non metabolizzato, e il rate k4 è trascurabile perché la

Glucosio-6-fosfatasi è un enzima molto poco rappresentato nei tessuti avidi di glucosio.

(11)

Figura 2: Schema del modello di intrappolamento del FDG (Cp = compartimento plasmatici; Cf = compartimento tessutale FDG scambiabile; Cm = compartimento FDG metabolizzato)

Applicazione della PET con FDG in ambito oncologico

Ad eccezione delle neoplasie con aree cistiche o mucinose, oppure ad alto grado di differenziazione, che non presentano captazione di FDG significativa, quasi tutti gli istotipi sono visualizzati con questa metodica: tumore del polmone, melanoma, tumori di testa e collo, tumore del colon-retto, tumore dell’esofago, neoplasia della mammella, tumore del pancreas, tumore del fegato, sarcomi, tumori cerebrali, neoplasie delle vie urinarie e del tratto genitale.

Anche per la PET, come per altre metodiche diagnostiche, esistono “classi di utilità”, secondo le quali viene descritta un’appropriatezza al ricorso di un determinato tipo di esame, sulla base di determinate patologie12 .

Si hanno INDICAZIONI APPROPRIATE quando gli studi disponibili soddisfano tutte e tre le seguenti condizioni:

• esistono prove affidabili che la PET ha una performance diagnostica migliore (in termini di sensibilità e specificità) rispetto alle tecniche convenzionali;

(12)

• le informazioni ottenute dall’esame PET sono capaci di influenzare il comportamento clinico;

• queste informazioni sono, verosimilmente, in grado di influenzare l’outcome del paziente attraverso l’applicazione di interventi di documentata efficacia o la non esecuzione di interventi che risulterebbero inefficaci o dannosi.

In base ai precedenti enunciati, tali indicazioni includono:

o Pazienti affetti da carcinoma polmonare non microcitoma operabile dopo esecuzione di TAC, al fine di completare lo staging.

o Pazienti con noduli polmonari solitari di dimensione superiore a 1 cm. o Pazienti affetti da tumore esofageo potenzialmente operabile con la

diagnostica standard al fine di completare lo staging.

o Pazienti affetti da linfoma di Hodgkin nei quali la stadiazione tradizionale e i fattori prognostici indicherebbero l’uso di radioterapia o regimi chemioterapici meno intensi di quello standard (MOPP o ABVD).

o Pazienti affetti da linfomi di Hodgkin nei quali sia necessaria una valutazione della malattia minima residua dopo terapia di prima linea. o Pazienti affetti da linfomi non Hodgkin ad alta o intermedia malignità nei

quali sia necessaria una valutazione della malattia minima residua dopo terapia di prima linea.

o Pazienti affetti da carcinoma del colon retto con lesioni metastatiche potenzialmente operabili.

o Pazienti affetti da carcinoma del colon retto con sospetto clinico di recidiva (aumento marker tumorali e/o referto TAC dubbio).

o Pazienti con tumori delle cellule germinali nello studio della malattia minima residua dopo chemioterapia.

La seconda categoria comprende invece INDICAZIONI DI APPROPRIATEZZA NON ANCORA SUFFICIENTEMENTE DIMOSTRATA. In essa, sono stati specificati 2 sottogruppi definiti sulla base del tipo di studi disponibili:

a) E’ stata documentata una migliore performance diagnostica (in termini di sensibilità e specificità) della PET rispetto alle tecniche convenzionali

(13)

considerate come gold standard, senza tuttavia prove di un impatto sul comportamento clinico e quindi sull’outcome;

b) Quando non sono disponibili almeno due studi indipendenti di adeguata numerosità e qualità sulla performance del test, anche se esistono i presupposti clinici per una potenziale applicazione della PET.

Nella categoria a sono pertanto inclusi:

o Pazienti affetti da melanoma con lesioni metastatiche potenzialmente operabili.

o Pazienti affetti da metastasi linfonodale del collo nei quali con i mezzi diagnostici tradizionali non è possibile identificare il tumore primitivo.

o Pazienti con elevati livelli di tireoglobulina e I 131 negativo nell’identificazione delle recidive.

o Pazienti con neoplasia dell’ovaio con sospetta recidiva (Ca 125 elevato) e TAC negativa.

o Pazienti affetti da neoplasia della cervice uterina localmente avanzata per la pianificazione dell’estensione del campo da irradiare.

o Pazienti con neoplasia dello stomaco che con le tecniche diagnostiche standard sarebbero operabili con intento radicale.

La categoria b comprende invece:

o Pazienti con tumore polmonare non microcitoma già trattato come esame di ri-stadiazione dopo TAC che documenta lesione potenzialmente operabile al fine di ottenere conferma diagnostica.

o Pazienti con sospetta recidiva di tumore della mammella dopo negatività con i mezzi di diagnostica tradizionale.

o Pazienti affetti da melanoma ad alto rischio come esame di staging sistemico.

o Pazienti affetti da glioma sottoposti a radioterapia per la diagnosi differenziale tra recidiva e necrosi post-radioterapica.

(14)

o Pazienti affetti da tumore primitivo del distretto testa-collo nella stadiazione delle metastasi linfonodali.

o Pazienti affetti da tumore primitivo del distretto testa-collo nello studio della malattia residua e delle recidive.

o Pazienti affetti da tumore esofageo nello studio delle recidive.

o Pazienti affetti da linfomi non Hodgkin ad alto/intermedio grado di malignità a scopo di stadiazione iniziale.

o Pazienti affetti da linfomi non Hodgkin ad alto/intermedio grado di malignità a scopo di re-staging.

o Pazienti affetti da tumore del colon retto come esame di staging al fine di valutare l’operabilità del paziente.

o Pazienti affetti da sarcoma dei tessuti molli nello studio delle recidive viscerali.

o Pazienti affetti da tumori a cellule germinali nella valutazione della risposta precoce al trattamento.

L’ultima categoria comprende invece le INDICAZIONI INAPPROPRIATE, che includono tutte le situazioni cliniche nelle quali lo stato della malattia è tale che nessuna ulteriore informazione diagnostica modificherebbe il comportamento terapeutico, oppure quelle nelle quali i dati disponibili indicano una performance del test non migliore rispetto alla diagnostica tradizionale.

Sarebbe pertanto inappropriato il ricorso alla PET in:

o Pazienti con tumore polmonare non microcitoma con metastasi a distanza. o Pazienti con tumore polmonare non microcitoma come esame di follow up

o ri-stadiazione (a parte l’eccezione riportata nel gruppo “di appropriatezza non ancora sufficientemente dimostrata, categoria b”).

o Pazienti con carcinoma polmonare bronchiolo-alveolare.

o Pazienti con linfoma di Hodgkin nella stadiazione della malattia avanzata. o Pazienti con linfoma di Hodgkin nel follow up/re-staging di routine. o Pazienti con linfoma non Hodgkin a basso grado di malignità.

(15)

o Pazienti affetti da melanoma come esame di staging loco-regionale e nel follow up.

o Pazienti con tumore primitivo del distretto testa-collo nel follow up/re-staging di routine.

o Pazienti con tumore della mammella nella diagnosi del tumore primitivo, nello staging e valutazione risposta alla terapia.

o Pazienti con glioma per lo studio del grading. o Pazienti con tumori neuro-endocrini.

o Pazienti con neoplasia dell’ovaio nella stadiazione e nel follow up in pazienti asintomatici.

o Pazienti con neoplasia della prostata nella diagnosi, nella stadiazione, studio delle recidive e nel follow up.

o Pazienti con neoplasia del rene nella diagnosi, nella stadiazione, studio delle recidive e nel follow up.

o Pazienti con neoplasia della tiroide captante lo I 131 nella stadiazione e nello studio delle recidive.

o Pazienti con neoplasia dell’endometrio nella stadiazione e nel follow up. o Pazienti con neoplasia della vescica nella diagnosi, nella stadiazione,

studio delle recidive e nel follow up.

o Pazienti con sarcoma dei tessuti molli nella diagnosi e nel follow up. o Pazienti con neoplasia gastrica nella ri-stadiazione e follow up.

Considerate le suddette classi di utilità, le principali indicazioni della PET in ambito oncologico possono essere rappresentate da13:

 paziente non oncologico, con riscontro occasionale di masse o adenopatie di sospetta natura tumorale, laddove sia impossibile effettuare un accertamento bioptico;

 stadiazione di malattia alla prima diagnosi e con elevato rischio di metastasi

 follow-up del paziente oncologico, laddove altre metodiche siano state dubbie;

(16)

 valutazione della risposta terapeutica;

 studio di un paziente laddove dati clinici e/o biochimici suggeriscano ripresa di malattia;

 studio di un tumore metastatico a sede primitiva ignota;  caratterizzazione biologica-prognostica;

 pianificare la radioterapia, definendo il volume bersaglio;  localizzare il tessuto vitale per biopsie PET-guidate;  valutare la risposta terapeutica;

 sviluppare nuovi farmaci.

Studi recenti, dimostrano che il ricorso alla PET con FDG determina un cambiamento nella gestione del paziente in almeno il 30 % dei casi14 .

Tale impatto è dovuto fondamentalmente al fatto che la metodica, permettendo di visualizzare con una buona risoluzione spaziale lesioni piccole, fornendone dati relativi all’attività metabolica, permette con precisione di:

• Discriminare tra un tumore attivo e necrosi da radiazioni o cicatrici post-intervento chirurgico;

• Valutare la risposta alla terapia, quesito importantissimo, soprattutto perché le eventuali masse residue non sono tutte uguali (possono essere metabolicamente attive o semplici residui fibrotici, o possono essere in fase di stabilizzazione), e questa è l’unico discriminante di cui disponiamo per valutare, ad esempio, l’efficacia di una terapia che non sia citotossica, ma citostatica3;

• Valutare le metastasi contemporaneamente al tumore primitivo (“PET whole body”), selezionando così i pazienti sottoponibili ad interventi chirurgici curativi.

Tutti questi fattori, implicando una maggior accuratezza nella diagnosi e nella stadiazione dei tumori, determinano in ultima analisi un cambiamento prognostico, ma ancor prima dell’atteggiamento terapeutico, evitando così di disperdere risorse economiche per esami aggiuntivi, ma soprattutto di perdere del tempo prezioso per la pianificazione di interventi adeguati nei confronti del paziente oncologico.

(17)

Carcinoma del colon retto

Una delle applicazioni decisamente più interessanti per la PET con FDG è nell’ambito della patologia tumorale del colon-retto.

Il carcinoma del colon retto rappresenta una delle più frequenti cause di morte per neoplasia nei paesi occidentali: è il terzo tumore maligno per incidenza e mortalità, preceduto solo dal tumore della mammella nella donna e dal tumore al polmone nell’uomo. A dispetto dunque dei notevoli miglioramenti effettuati in ambito diagnostico e terapeutico, a dispetto della forte promozione rispetto all’attuazione di programmi di screening, questo tumore rimane una forma con elevata mortalità. La sua incidenza è in aumento in tutto il mondo (945.000 ammalati l’anno) ed in Europa vengono diagnosticati ogni anno 200.000 casi, mentre in Italia ogni anno si ammalano circa 38.000 persone, di cui 20.500 uomini e 17.300 donne: ad oggi, la mortalità si aggira intorno al 50%. Tale neoplasia è rara prima dei 40 anni, presentandosi più frequentemente intorno ai 60 anni, fino a raggiungere il picco massimo verso gli 80 anni. L’incidenza nei due sessi non mostra differenze per quanto riguarda la localizzazione colica, mentre a livello rettale sembra essere leggermente più frequente nel sesso maschile. Le sedi più colpite sono il retto (50% dei casi) ed il sigma (20% dei casi), il colon ascendente ed il trasverso con la flessura splenica sono interessati rispettivamente nel 16% e nell’8% dei casi 15-16 .

Il 70% dei pazienti si presenta alla diagnosi con malattia chirurgicamente aggredibile, il 30% con malattia metastatica; il 25% dei pazienti operati radicalmente presenterà una ripresa di malattia dopo un tempo variabile17 .

L’ eziologia e la patogenesi, nonostante gli innumerevoli progressi scientifici compiuti in ambito genetico-molecolare, restano a tutt’oggi abbastanza misconosciute, anche se studi epidemiologici hanno identificato possibili fattori di rischio18.

Innanzitutto esisterebbe una correlazione con le abitudini alimentari: alcune osservazioni attribuiscono ad una dieta povera di fibre e ricca di grassi un ruolo importante, ma le ipotesi riguardo ai meccanismi con cui la dieta potrebbe influenzare lo sviluppo della neoplasia sono diverse19.

(18)

Il grasso alimentare può avere una azione diretta aumentando il turnover epiteliale, oppure può agire indirettamente attraverso il suo metabolismo ad acidi biliari nel fegato. Gli acidi biliari vengono quindi escreti e convertiti in promotori tumorali dai batteri presenti nel lume intestinale.

Le fibre alimentari avrebbero la capacità di legare ed amalgamare i grassi e gli acidi biliari o inibire la loro attività promotrice; inoltre la loro fermentazione batterica ad acidi grassi a breve catena può contribuire alla acidificazione delle feci che sembra avere un ruolo protettivo.

Anche i fattori genetici hanno un ruolo evidente: è possibile identificare molte sindromi ereditarie associate alla presenza di polipi adenomatosi e ad alto rischio di sviluppare neoplasie del grosso intestino20 : una di queste è la Poliposi Familiare Adenomatosa (FAP), malattia ereditaria trasmessa con un meccanismo autosomico dominante caratterizzata dalla presenza di centinaia o migliaia di polipi adenomatosi in cui, in assenza del trattamento, lo sviluppo del carcinoma è la regola (100%) ed avviene in età giovanile adulta, alcuni anni dopo la comparsa dei polipi21.

Altra sindrome è quella di Lynch (HNPCC, cancro colorettale ereditario senza poliposi) in cui il processo neoplastico interessa, oltre il colon-retto, anche lo stomaco, l’ovaio, la mammella22.

Una suscettibilità ereditaria, e non una vera e propria sindrome come le precedenti, sarebbe responsabile dello sviluppo del carcinoma nei soggetti che presentano una storia familiare della malattia.

La presenza di polipi neoplastici benigni è anche associata a trasformazione maligna che è più frequente negli adenomi villosi (35-40%) e tubulo-villosi (16-22%) rispetto ai tubulari (1-4%), e nelle lesioni multiple ed in quelle con maggiori dimensioni (oltre i 2.5 cm)23.

Anche nella storia naturale della colite ulcerosa, si può verificare lo sviluppo di un carcinoma del colon-retto, sviluppo condizionato dalla durata e dall’estensione della malattia. Il rischio è circa 20 volte superiore a quello della popolazione generale per i pazienti con una malattia la cui durata sia superiore ai 10 anni24. Rilievi analoghi, ma a livelli estremamente più bassi, sono stati riscontrati nel morbo di Crohn25.

(19)

Qualunque sia l’insulto diretto contro le cellule intestinali, diversi studi su base molecolare26 evidenziano che debbano avvenire delle mutazioni genetiche, che da sole rappresentano una causa necessaria e sufficiente per lo sviluppo di un successivo tumore. Si ritiene che i geni implicati siano numerosi, tra essi un ruolo chiave spetterebbe al gene APC , soprattutto nelle forme sporadiche di tumore27, e alla proteina p5328 .

Per quanto concerne invece le manifestazioni cliniche, la neoplasia può presentarsi con una serie di sintomi e segni che, oltre allo stadio della malattia, dipendono anche dalla sua localizzazione nei vari tratti in cui il colon ed il retto vengono suddivisi29-30.

Le lesioni che si sviluppano a livello del colon destro sono in genere vegetanti, spesso di notevoli dimensioni, talvolta ulcerate e facilmente sanguinanti. Sul piano clinico possono determinare:

• Anemia secondaria allo stillicidio cronico e costante di sangue dalla neoplasia ulcerata (sangue difficilmente osservabile macroscopicamente nelle feci);

• Dolore di tipo gravativo, non molto intenso, subcontinuo, localizzato ai quadranti addominali di destra e talvolta all’epigastrio. Può essere associata una vaga sintomatologia dispeptica;

• Astenia, per massa palpabile all’emiaddome destro di solito nelle fasi avanzate di malattia, per lo più correlata all’anemizzazione;

• Anoressia e dimagrimento.

I tumori che interessano il colon sinistro hanno uno sviluppo prevalentemente di tipo anulare ed infiltrante e ciò, può determinare frequentemente un ostacolo alla canalizzazione.

I sintomi e segni clinici predominanti a questo livello sono quindi rappresentati da:

• Modificazioni dell’alvo caratterizzate da stipsi o diarrea, ma in genere dall’alternanza tra una e l’altra;

• Presenza di sangue nelle feci, talora in modesta quantità ed, a volte, in misura copiosa associata, non di rado ad emissione di muco;

(20)

• Dolore addominale, spesso intermittente, e di intensità variabile localizzato in genere ai quadranti sinistri o diffuso a tutto l’addome; Le neoplasie che si sviluppano a livello del retto, infine, sono prevalentemente vegetanti ed ulcerate, facilmente sanguinanti. A seconda della localizzazione del tumore a livello sopra-ampollare, ampollare, sotto-ampollare, si distinguono quadri clinici diversi:

• Le neoplasie sovra-ampollari si presentano con una sintomatologia analoga a quella descritta per il colon sinistro;

• I tumori ampollari danno luogo a tenesmo, senso di corpo estraneo o ad un senso di peso, talora associati ad un dolore di tipo gravativo e a rettorragia sia durante che dopo la defecazione o indipendentemente da essa con mucorrea;

• Le neoplasie sotto-ampollari si presentano con tenesmo imponente, dolore perineale e perianale che si accentua durante la defecazione ed evacuazione di feci nastriformi, frammiste a sangue e muco.

In presenza di uno di questi sintomi, il passo seguente sarebbe quello di confermare la presenza del tumore: l’esame più importante per la diagnosi è la colonscopia che, se correttamente eseguita, permette di visualizzare tutto il colon nell’85-90 % dei casi con una percentuale di perforazioni inferiore allo 0, 2. Tale esame ha una sensibilità del 96-97% ed una specificità del 98%31. In alternativa si può impiegare la rettosigmoidoscopia associata al clisma con doppio contrasto. Bisognerebbe sottolineare, però, come oggigiorno sono molti i casi di diagnosi effettuate in assenza di sintomatologia, grazie ai programmi di screening attuati. Nella fattispecie, lo screening in uso in Italia per il tumore del colon retto è rappresentato dalla ricerca del sangue occulto nelle feci, effettuato a scadenza biennale nei soggetti ultracinquantenni.

L’esame si basa sul presupposto che i cancri ed i polipi sanguinino più facilmente della mucosa normale, o che comunque possano erodere la mucosa stessa, e quindi la scoperta del sangue porterebbe ad una diagnosi in una fase abbastanza precoce32-33. La quantità di sangue tende ad aumentare con le dimensioni della lesione ed il suo stadio di sviluppo. I polipi più piccoli sanguinano raramente,

(21)

mentre quelli di dimensioni superiori sanguinano più spesso. Effettuare più prelievi e ripetere il test negli anni aumenta la probabilità di rilevare lesioni. In caso di positività il paziente viene avviato all’indagine di secondo livello, rappresentata appunto dalla colonscopia, che permette la diagnosi, il prelievo bioptico e l’asportazione dell’eventuale polipo.

Un esito positivo, ovvero la presenza di sangue occulto non indica di per sè la presenza di un tumore, ma è comunque un segno di allarme che va approfondito34. Un esito negativo del test non deve, al contrario, evitare di sottoporsi all'esame endoscopico, nel caso in cui vi siano sintomi di allarme o esista una condizione di rischio35.

Da un punto di vista anatomo-patologico, gli adenocarcinomi, nell’ambito dei quali vengono annoverate anche le rare forme mucinose, a cellule ad anello con castone, squamocellulari e le forme indifferenziate, rappresentano il 95% delle neoplasie del grosso intestino. I rimanenti istotipi comprendono carcinoidi, sarcomi e linfomi36.

Notevolmente importanti, poi, per la loro intrinseca correlazione prognostica, le vie di diffusione della neoplasia. Questa può farsi strada37:

• Per continuità: infiltrando in profondità la parete intestinale;

• Per contiguità: infiltrando organi vicini con possibile formazione di fistole ad esempio nel tenue, nella vescica, nello stomaco;

• Per propagazione endocavitaria: causando carcinosi peritoneale e talvolta metastatizzazione a livello pelvico;

• Per via linfatica: le stazioni linfatiche del colon seguono il decorso dei vasi sanguigni e le stazioni linfonodali sono quelle pericoliche, paracoliche ed intermedie. Il retto ha tre vie di deflusso linfatico: una superiore che drena la porzione superiore del retto ed anche parte di quella inferiore, una media per la porzione inferiore del retto e per il canale anale, ed una inferiore per il canale e l’orifizio anale;

• Per via ematica: il fegato in primo luogo ed il polmone rappresentano la sede più frequente di metastasi; sono state riscontrate talvolta metastasi a livello osseo;

(22)

Effettuata dunque la diagnosi di tumore, considerate le sue possibili diffusioni, ai fini di un corretto piano terapeutico, è necessario effettuare una corretta stadiazione38, individuandone dunque l’estensione, l’infiltrazione delle strutture loco-regionali, la presenza di invasione linfonodale e le eventuali metastasi a distanza.

Sono molti i sistemi proposti per la stadiazione dei tumori del colon-retto, e tra questi il più usato è stato quello introdotto da Dukes nel 1932 (Tabella 2), modificato circa 20 anni dopo da Astler e Coller (Tabella 3).

Tabella 2

Stadiazione secondo Dukes

STADIO A Neoplasia confinata entro la parete intestinale. STADIO B Neoplasia che si stende oltre la parete intestinale. STADIO C Qualsiasi neoplasia con metastasi linfonodali. STADIO D Metastasi a distanza.

Tabella 3

Stadiazione secondo Aster-Coller STADIO A Neoplasia confinata entro la parete intestinale

STADIO B1 Neoplasia che invade la muscolaris propria ma non si estende oltre.

STADIO B2 Neoplasia che si estende oltre la muscolaris propria. STADIO C1 Come B1 ma con metastasi linfonodali.

STADIO C2 Come B2 ma con metastasi linfonodali. STADIO D Metastasi a distanza.

(23)

Attualmente si utilizzano più comunemente la classificazione TNM (Tabella 4) e le classificazioni associate AJCC (American Joint Commettee on Cancer) e UICC (Union Internationale contre le Cancer) (Tabella 5), per avere una stadiazione separata e parallela sia del tumore primitivo, sia del coinvolgimento linfonodale, che delle metastasi a distanza.

Tabella 4 Stadiazione TNM T-TUMORE PRIMITIVO

TX Tumore primitivo non accertabile Tis Carcinoma in situ

T0 Non evidenza di tumore primitivo T1: Tumore che invade la sottomucosa T2 Tumore che invade la muscolare propria

T3 Tumore che penetra attraverso la muscolare propria nella sottosierosa o nei tessuti pericolici o perirettali non ricoperti da peritoneo

T4 Tumore che invade direttamente altri organi o strutture ( l’invasione diretta in T4 comprende l’invasione di altri segmenti del colon-retto attraverso la sierosa: ad esempio l’invasione del colon sigmoideo da un carcinoma del cieco).

N-LINFONODI REGIONALI

NX Linfonodi regionali non valutabili N0 Linfonodi regionabili liberi da metastasi N1 Metastasi in 1-3 linfonodi regionali N2 Metastasi in 4 o più linfonodi regionali M-METASTASI A DISTANZA

Mx metastasi a distanza non accertabili M0 Metastasi a distanza assenti

(24)

Tabella 5

Classificazioni associate AJCC- UICC

STADIO 0 Tis N0 M0

STADIO 1 T1-2 N0 M0

STADIO 2 T3-4 N0 M0

STADIO 3 T1-4 N1-3 M0

STADIO 4 Qualsiasi T Qualsiasi N M1

Nella stadiazione dei parametri T ed N del colon, è raro che la conoscenza pre-operatoria modifichi l’approccio terapeutico, tranne nei casi di infiltrazione diretta della vena mesenterica superiore: non è indicato l’utilizzo routinario della TC. Nel caso dei tumori del terzo medio ed inferiore del retto deve invece essere sempre valutata la penetrazione parietale e l’eventuale fissità del tumore mediante l’esplorazione rettale35 . Raccomandabile è l’esecuzione di una TC spirale e di una ecografia transrettale. In alternativa, possono essere impiegate ecoendoscopia transrettale e RM pelvica. Anche la stadiazione del parametro M va sempre effettuata preoperatoriamente, perché è sempre un parametro influente sulla terapia. Le metastasi epatiche vanno sempre ricercate con una ecografia epatica e/o con una TC addome. Le metastasi polmonari vanno escluse con un Rx torace, mentre l’impiego di metodiche quali RM e PET vanno riservate a casi particolari.36 Al momento della diagnosi, sarebbe opportuno determinare preoperatoriamente il CEA (antigene carcinoembrionale), dato il suo ruolo prognostico e il suo possibile utilizzo in follow- up373839.

Lo stadio iniziale della malattia è il più importante fattore predittivo della sopravvivenza che risulta essere, a 5 anni, dell’85-90% per i pazienti in stadio A di Dukes e di circa il 60% per quelli in stadio B; tale sopravvivenza si riduce ulteriormente ad un valore del 40% in caso di coinvolgimento linfonodale ed è inferiore al 5% in caso di metastasi a distanza. Dopo asportazione chirurgica radicale, la sopravvivenza globale a 5 anni varia dal 55% al 75%, mentre dopo la resezione chirurgica presuntivamente curativa per metastasi epatiche o polmonari, è del 25-30%40.

(25)

Altri criteri prognostici maggiori possono essere suddivisi schematicamente in criteri clinici, istopatologici e biologici41.

Criteri prognostici clinici: tra questi rientrano l’ età (la prognosi è peggiore nei soggetti giovani); il sesso (le donne hanno una prognosi migliore); la presenza o assenza di sintomatologia ( la mortalità a 5 anni dei soggetti sintomatici è del 49% contro il 79% di quelli asintomatici), l’evenienza di sanguinamenti rettali:( pur potendo mettere in pericolo la vita del paziente, se massivi, possono comunque migliorare la prognosi perché consentono di effettuare una diagnosi precoce); il sopraggiungere di ostruzioni e perforazioni,( complicazioni che spesso portano all’exitus del paziente), ed infine la sede( le neoplasie al retto e al-sigma presentano una prognosi peggiore).

Criteri prognostici istopatologici: La forma vegetante ha una prognosi migliore rispetto a quella infiltrante;. l’istotipo mucinoso peggiora sensibilmente la prognosi. Fattori negativi sono ancora l’ invasione dei vasi linfatici e dei vasi sanguigni venosi, l’invasione perineurale, la mancanza di risposta immune al tumore primitivo e l’aumento di eosinofili ai margini del tumore, mentre l’infiltrazione linfocitaria rappresenta un fattore prognostico positivo. Sembra essere correlata ad una migliore prognosi, inoltre, una risposta immune nei linfonodi regionali.

Criteri biologici prognostici:Tra questi rientrano il livello pre e post-operatorio di Antigene Carcino-Embrionario , i livelli di Ca 19.9, la presenza di determinati oncogeni come c-myc , h-ras e ki-ras, la presenza di geni “multi drug resistance”, la presenza di mutazioni a carico di oncosoppressori come del gene APC (mutazioni somatiche di tale gene rappresentano il primo evento nella storia naturale del carcinoma sporadico del colon), della p53, modulatore del processo apoptotico42. Infine, non poca importanza avrebbero fattori di crescita vascolare e di proliferazione tumorale come il VEGF43.

(26)

Esiste pieno accordo nel riconoscere la chirurgia come unico trattamento con possibilità di guarigione, alla quale possono essere utilmente associate la radioterapia e la chemioterapia.

Il miglioramento delle tecniche diagnostiche e chirurgiche negli ultimi 40 anni ha determinato un miglioramento della prognosi. Generalmente il 70% dei pazienti viene sottoposto ad interventi chirurgici apparentemente radicali a scopo curativo; invece nel restante 30% dei casi, già in fase avanzata di malattia al momento della diagnosi, viene eseguita una chirurgia a scopo palliativo44. Nei pazienti operati in maniera apparentemente radicale, il rischio di recidiva varia con lo stadio patologico del tumore primitivo: ad esempio in uno stadio iniziale di malattia T3 N0 M0 vi sono recidive nel 30% dei casi, con uno stadio T3N1M0 invece, nel 50%45.

La chirurgia può essere inoltre utile, e talora indispensabile, nella malattia avanzata, per prevenire complicanze, come occlusioni, sanguinamenti o perforazioni, oppure per asportare recidive locoregionali o metastasi a distanza (al fegato, polmone, ecc.), talora con intento curativo46.

Negli adenocarcinomi del retto, nei quali è più frequente la recidiva locale, viene adoperata di routine a scopo adiuvante la radioterapia, associata alla chemioterapia.

Un trattamento radiochemioterapico inoltre, può essere eseguito pre-operatoriamente (trattamento neoadiuvante) nelle neoplasie localmente avanzate, per ridurne la massa e consentire al paziente di essere sottoposto all’intervento chirurgico47. Recentemente, inoltre, il trattamento radiante neoadiuvante è stato esteso anche a tumori resecabili fin dalla diagnosi, e/o per localizzazioni rettali basse, così da aumentare la resecabilità del tumore e consentire il salvataggio dello sfintere anale48.

Strettamente legata a chirurgia e radioterapia, è la chemioterapia: si parla di chemioterapia “neoadiuvante”, qualora venga effettuata prima dell’intervento chirurgico, allo scopo di ridurre le dimensioni della neoplasia, al fine di poter effettuare un successivo intervento loco-regionale il più possibile conservativo4950.

(27)

La chemioterapia adiuvante è quel trattamento che viene somministrato dopo l’intervento chirurgico di asportazione radicale del tumore, al fine di ridurre il rischio che la malattia si ripresenti5152.

Il 5-fluorouracile (5-FU), fluoropirimidina appartenente al gruppo degli anti-metaboliti, sin dalla sua introduzione, risalente a circa 40 anni fa, rappresenta a tutt’oggi, il farmaco di scelta nel trattamento del carcinoma del colon retto.

Attualmente la somministrazione in bolo di 5-FU con acido folinico (AF) 5 giorni al mese per 6 mesi è considerato il trattamento standard adiuvante nei pazienti in stadio III, capace di determinare un incremento della sopravvivenza assoluta pari al 5-10%, rispetto ai pazienti che non hanno ricevuto chemioterapia adiuvante. Nel recente studio MOSAIC53 è stato osservato che l’associazione del 5-FU/AF con l’oxaliplatino (schema FOLFOX), già efficace nel trattamento di prima linea del carcinoma colon-retto avanzato, è efficace e sicura anche nel trattamento adiuvante. Nei pazienti in stadio II e III trattati con FOLFOX, infatti, tale studio ha osservato una riduzione del rischio di ricaduta di malattia a 3 anni del 25%. Il ruolo della chemioterapia adiuvante nello stadio B di Dukes, è più controverso, e deve essere ancora definito. Nel suddetto studio è stata evidenziata una riduzione del rischio di ricaduta di malattia a 3 anni pari al 25% sia nei pazienti in stadio II che in stadio III che hanno ricevuto trattamento secondo schema FOLFOX.

Nella gestione dei pazienti affetti da carcinoma del colon retto in fase metastatica sono state impiegate diverse modalità terapeutiche. La chemioterapia sistemica, la chemioterapia locoregionale, le terapie ablative, la chirurgia e la combinazione di tutti i trattamenti hanno un ruolo nella gestione di questi pazienti.

Il trattamento chemioterapico rappresenta il fulcro delle possibilità terapeutiche disponibili in questo gruppo di pazienti. Le percentuali di risposta obiettiva ottenute con la chemioterapia sono pari al 20% con una breve durata di risposta ed una bassa percentuale di risposte complete (solo il 5%); le stabilizzazioni di malattia rappresentano circa il 30-40%.

Il 5-FU è stato per oltre 40 anni l’unica arma terapeutica disponibile nel carcinoma del colon retto in fase avanzata, e nessun farmaco testato negli anni successivi fino ad oggi è stato capace di ottenere risposte obiettive in misura

(28)

superiore ad esso. Negli ultimi anni nuovi farmaci sono stati studiati in associazione o meno con il 5-FU per cercare di migliorare la sopravvivenza in pazienti affetti da carcinoma metastatico del colon-retto. Tra questi l’Irinotecan (CPT-11) e l’Oxaliplatino rivestono un ruolo fondamentale54.

Studi clinici hanno valutato, inoltre, l’associazione dell’oxaliplatino con il Raltitrexed (Tomudex). Quest’ultimo è un farmaco con un maneggevole profilo di tossicità sia nei pazienti trattati precedentemente con chemioterapia adiuvante sia nei pazienti non trattati.55 Farmaci di recente introduzione come il Bevacizumab (soprattutto in associazione allo schema FOLFOX56), che inibisce l’angiogenesi agendo contro il VEGF57, oppure il Cetuximab, anticorpo monoclonale diretto contro la proteina EGFR58, hanno mostrato fino ad ora risultati incoraggianti nel prolungare di qualche mese l’aspettativa di vita dei pazienti con malattia metastatica.

Di tutti i pazienti operati, tuttavia, ogni 6 anni circa un 3% va incontro a ripresa di malattia59: considerato ciò, fondamentale è attuare un adeguato follow-up, allo scopo di prolungare la sopravvivenza dei pazienti, individuare l’eventuale recidiva il più precocemente possibile ed effettuare una seconda chirurgia curativa.

Secondo l’ASCO60 (American Society of Clinical Oncology) e l’ESMO61 (European Society for Medical Oncology), ogni paziente dovrebbe essere sottoposto a:

• esami clinici ed ematochimici: ogni 4 mesi per i primi tre anni (compresa l’esplorazione rettale dell’anastomosi per i pazienti operati di carcinoma del retto), ogni 6 mesi per i due anni successivi. Non vi sono indicazioni che giustifichino l’uso del monitoraggio degli enzimi epatici;

• CEA: ogni 4 mesi per i primi tre anni , ogni 6 mesi per i due anni successivi, anche nei pazienti con CEA preoperatorio nella norma;

• colonscopia: nei pazienti senza uno studio preoperatorio completo deve essere eseguita il prima possibile, comunque entro 6 mesi dall’intervento. Nei pazienti con colon indenne preoperatoriamente, è consigliato a 3 anni e a 5 anni dall’intervento;

(29)

• ecotomografia e TC addome superiore: non vi è indicazione all’utilizzo routinario di tali esami, ma a giudizio del medico, può essere praticato uno di essi ogni 6 mesi per tre anni;

• TC o RM pelvica: solo su indicazione clinica;

• Rx torace: non vi è indicazione all’utilizzo routinario.

La ristadiazione del tumore e le problematiche correlate

Ogni neoplasia, a prescindere da quale sia la sua sede primitiva, necessita di un’accurata ristadiazione e di un accurato follow-up.

La ristadiazione consiste fondamentalmente nella ripetizione degli accertamenti effettuati inizialmente nel corso dello staging: l’obiettivo è quello di valutare la risposta al trattamento, ed eventualmente di programmare un trattamento secondario. Viene da sé che la ristadiazione è fortemente embricata col follow-up, che ha invece il compito di accertare e verificare in tempi maggiormente dilazionati la buona riuscita degli interventi terapeutici, l’eventuale presenza di recidive a livello loco-regionale o metastasi metacrone a distanza.

Effettuare una corretta ristadiazione implica la possibilità di interventi curativi per un certo numero di pazienti o al contrario, vuol dire evitare interventi inutili in pazienti che hanno già malattia disseminata.

A dispetto dell’apparente curatività dell’intervento chirurgico, quasi il 50% dei pazienti con tumore del colon retto, muore entro 5 anni dall’intervento chirurgico; di questi pazienti, un buon numero sviluppa una recidiva loco-regionale suscettibile di resezione chirurgica e potenzialmente trattabile18.

Determinare quanti e quali di questi pazienti potranno giovarsi di una resezione chirurgica è un importante problema clinico perché solo un quarto di essi è effettivamente curabile: i rimanenti corrono il rischio di essere trattati inutilmente. Le tecniche di imaging convenzionale sono spesso silenti nell’identificazione di sospette recidive locali o di metastasi nei pazienti con elevazione dei valori

(30)

ematici dei markers tumorali (in particolare, l’elevazione di CEA sine materia è di frequente riscontro62).

Per evitare cmq un inutile intervento diagnostico invasivo e costoso, l’approccio classico per la ristadiazione del tumore si basa in primis sull’identificazione dell’elevazione dei markers tumorali: quelli convenzionalmente usati per il tumore del colon sono il CEA, il Ca.19.9, e meno frequentemente il TPA (antigene polipeptidico tissutale).

Il primo studio in cui venne proposta la misurazione di un parametro biochimico come indicatore di tumore risale ad oltre 50 anni fa e riguarda la fosfatasi acida nel carcinoma prostatico63.

Solo negli anni ‘60, tuttavia, con l’identificazione del CEA (antigene carcinoembrionario) e dell’AFP (alfafetoproteina) i biomarcatori hanno iniziato quel processo di diffusione che li ha portati ad una estesa utilizzazione nella ricerca biomedica come nella pratica clinica oncologica.

Una imponente massa di dati ha conferito una crescente importanza alle tecniche analitiche in grado di misurare, nel sangue ed in altri liquidi biologici, le alterazioni indotte da neoplasie maligne. D’altro canto studi controllati ed esperienza clinica hanno contribuito alla critica delle ipotesi iniziali sui biomarcatori ed alla contemporanea ridefinizione del concetto stesso, biochimico e fisiopatologico, di indicatore tumorale e del corretto impiego clinico di queste molecole.

In termini teorici un marcatore tumorale ottimale potrebbe essere definito come il prodotto specifico di cellule tumorali o in via di trasformazione cancerogena non riscontrabile nell’organismo di soggetti sani o affetti da patologie non neoplastiche.

In tale situazione il marcatore potrebbe, con ampia affidabilità (legata anche alla sensibilità dei metodi analitici), costituire un ausilio sufficiente per la diagnosi precoce di neoplasia e/o di forme precancerose, la diagnosi differenziale, la valutazione della radicalità ed efficacia delle terapie oncologiche, il riscontro precoce delle recidive.

(31)

La realtà clinica ci offre tuttavia un quadro significativamente differente dalle premesse teoriche poiché non è disponibile alcun marcatore tumore-specifico in senso assoluto.

I biomarcatori utilizzati sono infatti sostanze già presenti nell’organismo in condizioni di normalità e di patologia non oncologica, peraltro con ampie fluttuazioni, la cui presenza nei liquidi biologici presenta modificazioni quantitative sensibili in presenza di determinate neoplasie. Pertanto la presunta tumore-specificità si fonda, di fatto, solo su una modulazione differenziale del biomarcatore in presenza o assenza di neoplasia: la presenza in circolo di una quota dell’indicatore prodotto dai compartimenti extra-neoplastici crea inoltre un “rumore di fondo” che diminuisce la sensibilità del biomarcatore.

Infine, escludendo alcuni casi specifici rappresentati dal PSA (antigene prostatico specifico) per il tessuto prostatico, l’enolasi neurono specifica (lNSE) per i tessuti di derivazione neuroendocrina, la calcitonina (CT) per le cellule C parafollicolari tiroidee e poche altre molecole, l’assenza di organo-specificità non permette una assoluta associazione fra elevazione dei marcatori e definizione di una sede anatomica di origine della neoplasia. Pertanto, elevati livelli di marcatore da soli non consentono di porre diagnosi, ma devono essere usati, in tal senso, in associazione con altri test diagnostici.

Nel follow-up del tumore del colon retto è ormai validata la ricerca di 64:

• Ca19.9: è un marcatore della famiglia delle mucine, il cui valore normale viene considerato inferiore a 37 U/ml: valori aumentati possono essere riscontrati anche in patologie benigne del tratto gastroenterico, del pancreas, del fegato, in alcune nefropatie e nelle malattie reumatiche65. Il dosaggio del CA 19-9 è utile anche in altre neoplasie del tratto gastroenterico, in quelle del tratto respiratorio e genito-urinario, soprattutto nel monitoraggio della malattia in corso di trattamento.

Soltanto nel carcinoma del pancreas, concentrazioni elevate, in genere >200, possono assumere significato diagnostico ed indurre il sospetto della presenza della neoplasia in un soggetto sano.

(32)

• CEA (antigene carcinoembrionario): è una glicoproteina la cui concentrazione ematica può essere elevata in diverse situazioni di flogosi acuta o cronica (fumatori, poliposi intestinale, bronchite cronica, epatiti, ulcera peptica, pancreatine etc.). Il valore normale è considerato tra 0 e 5 ng/ml.

Il CEA aumenta negli adenocarcinomi del colon-retto e del polmone, ma anche nel carcinoma mammario, nel carcinoma gastrico, del pancreas, del corpo dell’utero e della vescica.

E’ il più utilizzato nei tumori del colon-retto, allo scopo di monitorare la malattia, valutare l’efficacia dei trattamenti e nel follow-up post-chirurgico, per il possibile significato predittivo che può avere un suo aumento ai fini di una anticipazione diagnostica; ha inoltre un certo valore prognostico (valori elevati pre-intervento possono correlare con una prognosi peggiore)6667. Lo studio della cinetica del CEA e la determinazione della sua emivita secondo un modello di tipo bicompartimentale, ha permesso di utilizzare il marcatore come indice di radicalità chirurgica: livelli pre-operatori elevati di CEA si normalizzano in meno di 30 giorni. La persistenza di elevati valori con mancata normalizzazione o un trend incrementale indicano la persistenza di tessuto neoplastico residuo o la diffusione metastatica.

Il tempo di anticipazione del CEA rispetto alla documentazione clinico-strumentale di recidiva o metastasi varia da 2 fino a 18 mesi.

Il dosaggio del CEA con determinazione dinamica dev’essere interpretato sulla base di precisi assunti metodologici e biologici considerando che gli aumenti della concentrazione sierica sono più rilevanti per metastasi a distanza che per recidive loco-regionali, che la causa più frequente di incremento è costituita dalle metastasi epatiche (>90% CEA+) e che tendenze incrementali in corso di follow up sono indicative di relapse. Tuttavia dev’essere ben conosciuta l’esistenza di innalzamenti aspecifici del CEA, la possibile esistenza di metastasi che non esprimono il CEA o che, pur esprimendolo a livello cellulare, non ne determinano una

(33)

significativa immissione in circolo, ad esempio per problemi di vascolarizzazione locale68.

• TPA:( antigene polipeptidico tissutale): è stato descritto per la prima volta da Bjorklund e Bjorklund nel 1957 come un principio antigenico proteico isolato da carcinomi umani69. Fa parte della famiglia delle citocheratine , ed è un’espressione dell’attività proliferativi e necrotica della neoplasia, anche se l’esperienza clinica ha dimostrato la possibilità d’innalzamento in situazioni non neoplastiche quali epatiti, cirrosi, colestasi, processi flogistici ed infettivi caratterizzati da fenomeni di citolisi con conseguente frammentazione e liberazione di parti del citoscheletro. E’ forse il più aspecifico di tutti i marcatori tumorali, dal momento che elevati valori si possono riscontrare praticamente in tutti i tumori solidi. L'intepretazione è sostanzialmente basata sul valore soglia piuttosto che su una valutazione dinamica di pazienti sottoposti a trattamento, e l'ampio spettro di applicazioni suggerisce il ricorso ad ulteriori e più approfondite valutazioni cliniche e strumentali dei pazienti con alti valori di TPA.

Risulta quindi chiaro come i valori plasmatici dei marcatori siano di per sé degli elementi solamente “suggestivi”, che andrebbero concordati con esami strumentali.

In assenza di sintomatologia, lo scopo di un attento monitoraggio post-chirurgico dovrebbe essere finalizzato, come già detto in precedenza, alla verifica di assenza di malattia a livello locoregionale e a distanza. Per il tumore del colon-retto, particolare importanza assume quest’ultimo aspetto, in quanto è radicalmente cambiato, nel corso degli ultimi anni, l’approccio alla malattia metastatica: il riscontro precoce di presenza di malattia limitatamente al fegato o al polmone (gli organi in cui le metastasi da colocarcinoma sono maggiormente rappresentate), permetterebbe un approccio interventistico sicuro e abbastanza efficace nel controllo di malattia, aumentando la sopravvivenza del paziente70.

Ovvio è che le indagini diagnostiche siano rivolte all’esplorazione addominale, per la ricerca di ripresa di malattia primitiva e di metastasi epatiche, e alla cavità toracica, per la ricerca di metastasi polmonari. Le indagini strumentali cui

(34)

vengono sottoposti i pazienti (aldilà del consueto follow-up, sempre sulla base dell’elevazione dei markers o della presenza di sintomatologia), sono state per anni Ecografia, TC e Risonanza Magnetica71.

L’avvento dei mezzi di contrasto ecografici, ha notevolmente aumentato il ricontro diagnostico di lesioni epatiche focali, sebbene bisognerebbe ricordare come tale metodica sia fortemente operatore-dipendente e possa dare risultati equivoci in pazienti con steatosi epatica chemio-indotta ( e considerato il gran numero di pazienti con tumore del colon trattati con chemioterapia, l’evenienza non è assolutamente trascurabile). Inoltre evidenti sono i limiti dell’imaging ecografico nella detezione di metastasi e extra-addominali, per le quali bisognerebbe ricorrere ad altre tipologie di indagini.

D’indiscussa utilità è il ricorso alla TC, utile per l’esplorazione del fegato, dei linfonodi ma soprattutto del polmone. In ambito toracico, infatti, resta indiscutibile la superiorità diagnostica dell’ indagine ma, nella detezione di metastasi epatiche, essa risulta più condizionata da alcuni fattori, in primis dalla lievemente inferiore risoluzione spaziale rispetto alla localizzazione toracica, e poi dal fatto che non è rara la possibilità che le metastasi epatiche siano ipovascolarizzate, con un basso enhancement da parte de mezzo di contrasto. Inoltre, nel caso di cicatrici pregresse, la metodica non sarebbe in grado di discriminare ottimamente queste ultime dalla presenza di malattia.

A livello toracico la RM ha un’utilità più o meno sovrapponibile alla TC, mentre alcuni studi72 hanno evidenziato che a livello epatico essa è in grado di rilevare un maggior numero di lesioni, soprattutto quelle piccole; il difetto della tecnica sarebbe però l’incapacità di determinarne un’esatta caratterizzazione biologica: a tal proposito, potrebbe essere utile l’uso di mdc epato-specifici.

Un discorso a parte va affrontato per la caratterizzazione del criterio “N”, il cui riscontro da parte di TC e RM è sempre stato basato su criteri dimensionali. Linfonodi al di sopra di un centimetro di diametro sono considerati anormali, e tale criterio non è propriamente scientifico, bensì di tipo probabilistico: in realtà, vi sono linfonodi al di sotto di un cm istologicamente maligni; di contro sono molte le patologie infiammatorie benigne che determinano un aumento del

(35)

diametro linfonodale anche maggiore al cm. TC e RM pertanto sarebbero non del tutto affidabili nel differenziare le lesioni benigne da quelle maligne.

Nella valutazione della ripresa di malattia, effettuate le precedenti è più agevole da un punto di vista pratico il ricorso alla TC.

Vi sono però casi in cui le immagini TC si mostrano silenti, nonostante l’aumento dei markers, o sono considerate dubbie, riguardo ai casi sopra citati di aumentate dimensioni linfonodali (per dimensioni borderline, ad esempio), o alla discriminazione tra lesioni benigne o maligne. Certo, questi casi non sono la regola, ma considerata l’importanza rivestita dall’accuratezza e dalla tempestività diagnostica nel paziente oncologico, considerate le ovvie implicazioni prognostiche, è proprio in questi casi dubbi che risulta appropriato il ricorso alla PET.

(36)

SCOPO DELLA TESI

Nella presente tesi viene riportato uno studio retrospettivo su una casistica di 71 pazienti consecutivi affetti da adenocarcinoma del colon retto che dal luglio 2006 al maggio 2007 sono afferiti alla Sezione PET del Centro Regionale di Medicina Nucleare dell’Università di Pisa in fase di ristadiazione clinica. Tutti i pazienti sottoposti all’esame PET presentavano un sospetto di ripresa di malattia loco-regionale, linfonodale o a distanza sulla base dei risultati di esami di laboratorio (vaolori elevati di CEA o Ca 19.9) o di reperti evidenziati con altre tecniche di imaging (ecografia addominale, TC addome o torace).

Lo scopo del lavoro è stato quello di valutare il valore aggiunto e le informazioni complementari della PET con FDG rispetto alle altre indagini di laboratorio e di imaging radiologico nell’iter diagnostico del paziente affetto da carcinoma del colon-retto in fase di ristadiazione clinica. In particolare sono state analizzate quali fossero le situazioni cliniche nelle quali l’impatto della PET fosse risultato più efficace.

Figura

Figura 1: il fenomeno dell’annichilazione
Figura  2:  Schema  del  modello  di  intrappolamento  del  FDG  (Cp  =  compartimento  plasmatici;  Cf  =  compartimento  tessutale  FDG  scambiabile;  Cm = compartimento FDG metabolizzato)
Tabella 4  Stadiazione TNM  T-TUMORE PRIMITIVO
Figura 3: fasi principali dell’acquisizione
+4

Riferimenti

Documenti correlati

Spesso il tumo- re del colon di stadio II si indica anche come tumore di Dukes B..

Presented By Michael Morse at 2018 ASCO Annual Meeting... Response rate to anti-PD1 and mutational

Review Performance of imaging modalities in diagnosis of liver metastases from colorectal cancer: a systematic review and meta-analysis...

Conclusion: Functional contrast aids lesion detection and characterization, whereas morphologic contrast improves lesion localization.. CT contrast agents and PET tracers do

Tomoscintigrafia Globale Corporea PET con [18F]FDG, Tomoscintigrafia Miocardica PET con [18F]FDG per neoplasie ad elevato metabolismo glucidico e per lo studio della

Nell’età del poeta latino, anche se indipendentemente da lui, «la favola diviene oggetto dell’interesse dei retori che ne sostengono l’uso

Comitato Scientifico: Francesco Badessi, Nuoro • Felice Borghi, Cuneo • Ferdinando Cafiero, Genova Paolo De Paolis, Torino • Carlo de Werra, Napoli • Mauro Salizzoni, Torino..