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Admirabile est nomen tuum. Attributi divini e causalità nei commentari dionisiani di Alberto Magno

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea in Filosofia e Forme del Sapere

Tesi di Laurea

ADMIRABILE EST NOMEN TUUM

Attributi divini e causalità nei commentari dionisiani

di Alberto Magno

RELATORE:

Prof. Stefano Perfetti CORRELATORE: Prof. Cristina D’Ancona

CANDIDATO:

Paolo Mucciante

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INDICE

INTRODUZIONE p. 1

Capitolo 1

IL PROBLEMA DEI NOMI DIVINI p. 6

1.1 Anima, illuminazione e rivelazione: i presupposti di una teologia affermativa

p. 6 1.2 I limiti del pensiero discorsivo nella teologia affermativa p. 20 Capitolo 2

I PRESUPPOSTI DELL’INDAGINE TEOLOGICA p. 34

2.1 La trasmissione della conoscenza di Dio p. 36

2.2 Ragione produttiva divina e conoscenza umana p. 43

CAPITOLO 3

CONOSCENZA DI DIO MEDIANTE SCHEMI CAUSALI p. 58

3.1 L’azione divina come illuminazione: la posizione avicenniana p. 59

3.2 La risposta di Alberto: il meritus materiae p. 71

3.3 Gli schemi causali della conoscenza di Dio p. 81

CONCLUSIONE: Schemi causali e attributi divini p. 95

BIBLIOGRAFIA p. 105 APPENDICE I TAVOLA 1 TAVOLA 2 TAVOLA 3 APPENDICE II:

(3)

1

I

NTRODUZIONE

Poiché la natura di Dio si sottrae alla comprensione umana, anche il nome che la designa è così sfuggente da sembrare ineffabile. Tuttavia l’uomo durante la vita terrena può ambire a conoscere questo nome. Dio, servendosi di intermediari, comunica se stesso alle anime, parla attraverso il loro linguaggio. Nelle Scritture, gli autori sacri hanno posto la propria capacità discorsiva al Suo servizio e sono stati in grado di esprimere la natura divina attraverso gli strumenti che quest’ultima ha donato loro. Perfezionata nelle proprie capacità naturali dall’azione della luce divina, l’anima si dispiega in una ragione fondata su princìpi non razionali: lo studioso di teologia, entro i limiti della propria conoscenza discorsiva, arriva a conoscere Dio.

Nel presente lavoro intendo dimostrare in che modo Alberto Magno (1200 ca. – 1280), in parallelo alla fondazione dello studium generale a Colonia (1249 ca.), abbia elaborato una teologia razionale di carattere affermativo, attraverso cui i teologi dell’ordine domenicano avrebbero potuto legittimare l’essenzialità delle qualità di Dio – verum, unum, bonum, ecc. – espresse mediante le predicazioni sostanziali.

Con questo contributo tenterò di rispondere a uno dei problemi lasciati aperti dalla ricerca dell’ultimo ventennio. La tendenza a interpretare sistematicamente l’opera di Alberto Magno è condivisa da molti studiosi albertisti contemporanei. Tutti i lavori del Maestro di Colonia, dagli studi sui minerali alle esegesi bibliche, rispondono all’esigenza di convogliare ogni branca del sapere in un progetto unitario: sistematizzare la totalità dello scibile umano e porla al servizio dell’Ordine domenicano. Tra i promotori di un approccio di studi olistico al pensiero di Alberto, Henryk Anzulewicz è forse colui che ha avanzato la tesi più radicale: non solo le opere albertine sono state elaborate in vista di un unico progetto, ma queste rispondono addirittura ad un unico «principio strutturale» (Strukturprinzip) che guida la riflessione dell’autore.1

Lo Strukturprinzip di

1 H. Anzulewicz, Albertus Magnus. Der Denker des Ganzen, «Wort und Antwort», 41 (2000), pp.

148-154. //, Pseudo-Dionysius Areopagita und das Strukturprinzip des Denkens von Albert dem

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2

Alberto fa fede all’insegnamento neoplatonico-cristiano dello pseudo-Dionigi Areopagita, secondo cui tutta la realtà creata non è che un’estromissione della semplicità divina (exitus), che tramite un movimento circolare ritorna alla sua origine (reditus). L’anima stessa partecipa di questo movimento e può aspirare mediante la conoscenza a ricongiungersi con Dio.

Accolta questa posizione il problema da chiarire è il seguente: in che modo l’anima umana, durante la vita terrena, compie il movimento circolare e raggiunge la realtà divina? Un simile quesito richiede che venga elaborata una risposta tanto rispetto al modo in cui Alberto si appropria delle istanze dell’apofatismo dionisiano, ossia l’idea secondo cui Dio è al massimo grado inconoscibile e ineffabile, tanto rispetto al modo in cui le anime comunicano con le intelligenze superiori nella gerarchia delle cose create. Sembra che l’anima debba riporre le proprie certezze nell’oggetto mediato da queste ultime. Infatti, sebbene la realtà divina si sottragga tanto alla conoscenza umana quanto alla visione angelica, quest’ultima consiste in un contatto diretto con Dio e, dunque, gode di un maggior grado di certezza rispetto a quella perseguibile dalla ragione umana. Poiché il teologo può aspirare a questa forma di contatto con Dio soltanto dopo la morte (in patria), il suo compito durante la vita terrena (in via) sembra essere quello di rendere coerente l’argomentazione razionale con i princìpi sovrarazionali contenuti nel Testo Sacro e tramandati dagli autori sacri, che invece hanno ricevuto un’illuminazione divina.

Di recente lo studioso Lawrence Moonan ha sostenuto un’idea analoga a quella appena presentata, secondo cui la teologia albertina come scientia ha il compito di armonizzare la conoscenza secolare con quella teologica.2

I teologi, secondo Alberto,

Bis 11. April 1999 unter der Schirmherrschaft Société Internationale pour l’Ètude de la Philosophie Médiévale, T. Boiadjiev, G. Kapriev e A. Speer (eds.), Brepolis, Turnhout 2000. //, Der Bildcharakter der Seinswirklichkeit im Denksystem des Albertus Magnus, «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», 47 (2000), pp. 342-351. //, Die Emanationslehre des Albertus Magnus: Genese, Gestalt und Bedeutung, in Via Alberti, Texte – Quellen - Interpretationen, L.

Honnefelder, H. Möle, S. Bullido del Barrio (eds.), Aschendorff, Münster 2009, pp. 251-295.

2 L. Moonan, What is negative theology?, in Albertus Magnus. Zum Gedenken nach 800 Jahren:

Neue Zugänge, Aspekte, und Perspektiven, W. Senner (ed.), Akademie Verlag, Berlin 2001, pp.

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sarebbero in grado di compiere affermazioni su Dio soltanto se guidati da un principio regolativo: tutte le negazioni sono vere, tutte le affermazioni invece sono inadeguate ad esprimere la realtà divina. In questo modo è possibile impegnarsi in un’affermazione su Dio solamente sotto previa dichiarazione di stare per compiere un esplicito e volontario errore categoriale.

Al contrario, ritengo che il discorso teologico possa spingersi oltre nella comprensione e nella dichiarazione degli attributi divini. Nel primo capitolo sosterrò la tesi che nel commentario Super de divinis nominibus (1250 ca.) Alberto espone la propria teologia affermativa.3

Inizialmente, chiarirò quali motivi giustificano la supposizione che il Maestro di Colonia abbia formulato un simile progetto. Quest’ultimo emergerà come risposta alla riflessione sui limiti della conoscenza umana che il teologo domenicano elabora a partire dallo studio della psicologia di Aristotele e dei suoi commentatori. Successivamente, dovrò motivare perché la presente indagine si concentri proprio sul Super de divinis nominibus. Tra le opere di Alberto, infatti, quest’ultima non è l’unica che affronta il problema della conoscenza di Dio. Tuttavia, a differenza di tutti gli altri scritti del periodo in esame, essa gode di uno specifico metodo dell’indagine, finalizzato alla conoscenza affermativa della realtà divina.

Nel secondo capitolo tenterò di risalire alle ragioni che inducono lo stesso Alberto ad affrontare il problema della conoscenza umana di Dio proprio nel Super de divinis

nominibus. Occorrerà chiarire perché il Maestro di Colonia discuta una questione tanto

delicata in un commentario e non in un’opera autonoma. La motivazione più lampante di questa scelta è quella di dare prestigio alla propria dottrina all’ombra della reputazione di Dionigi, all’epoca ritenuto diretto discepolo di San Paolo. Tuttavia esiste

3 Per le opere di Alberto l’edizione critica di riferimento è la seguente: Alberti Magni ordinis

fratrum praedicatorum episcopi opera omnia, Bernhard Geyer e.a. (eds.), Aschendorff, Münster

1951-in corso. Ogni volume dell’opera sarà segnalato ad ogni prima occorrenza, successivamente sarà indicato con una sigla, così come segue: Alberti Magni opera omnia, t. 37, pars 1, Super

Dionysium de divinis nominibus, P. Simon (ed.), Aschendorff,Münstera1972. (sup. div. nom.). Per la cronologia delle opere di Alberto vedi J. A. Weisheipl, The life and works of St. Albert the Great in Albertus Magnus and the sciences. Commemorative essays 1980, Weisheipl (ed.), Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1980, pp. 13-51.

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una ragione più profonda di questa scelta, che è di natura teoretica: dalla lettura del testo dionisiano, Alberto ricava l’idea che la trasmissione della verità divina avvenga secondo gradi proporzionali. A partire da questo insegnamento il Maestro di Colonia comprende che la realtà divina non è un oggetto di conoscenza univoco per le creature: l’immagine di Dio nell’anima non è lo stesso oggetto di visione per gli angeli, così come la loro visione di Dio non consiste in una comprensione dell’essenza divina. Quest’ultima, infatti, è negata tanto alle anime quanto agli intelletti angelici, perché l’idea ‘pura’ dell’essenza di Dio non esiste. Al contrario, ogni realtà conoscente si rapporta a Dio secondo i limiti delle sue facoltà, rispetto alle quali Dio è visione vera e conoscenza certa. In definitiva, ciò dipende dal fatto che Dio non offre se stesso alle creature nella misura del suo essere, ma in quella del suo comunicarsi.

Nel terzo capitolo mostrerò che Alberto elabora un modello di causalità finalizzato a descrivere in che modo Dio si comunica a tutte le cose secondo diversi gradi. Nel decennio 1240-1250 il teologo domenicano mostra interesse per i modelli filosofici che descrivono l’azione delle sostanze superiori su quelle inferiori. Per esprimere il rapporto tra Dio e la realtà creata, Alberto ha premura di liberare il campo da ogni prevedibile errore, scopo che richiederà in primo luogo un superamento della teoria causale avicenniana, secondo cui il mondo deriva da un unico principio formale. Per comprendere le ragioni del rifiuto di questa posizione e l’alternativa proposta dal teologo domenicano, occorre esaminare l’indagine sullo statuto della materia che Alberto elabora già negli stessi anni del Super de divinis nominibus, ma che esporrà pochi anni più avanti nella Physica (1254 ca.).4

Da quest’indagine emergerà il modello di

causalità di cui Alberto si serve per spiegare in che modo Dio si comunica alle creature. Ciò consentirà, successivamente, di individuare due distinti schemi causali che rendono conto della complessa disposizione delle creature rispetto alla Causa Prima.

Il capitolo conclusivo sarà dedicato al contenuto dei nomi divini. Il Maestro di Colonia risale al significato dei nomi sostanziali attraverso l’ordine creaturale, nel

4 Alberti Magni Opera omnia, t. 4, pt. 1/2, Physica, P. Hossfeld (ed.), Aschendorff, Münster

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5

rispetto delle diverse modalità secondo cui Dio comunica con le creature in qualità di causa (ut causa). Questo procedimento seguirà i due schemi causali precedentemente rilevati, attraverso i quali l’anima potrà risalire a Dio in maniera diversa. Nel primo modo la realtà divina sarà intesa nella sua assoluta semplicità. Il secondo procedimento, invece, consentirà di risalire al solo nome che esprime natura divina in senso proprio:

aeternitas. Di qualsiasi altro attributo sostanziale, l’anima astrae il significato dalle

creature e, successivamente, quest’ultimo viene attribuito al Creatore soltanto in seconda battuta. L’eternità, invece, non può essere conosciuta secondo ragioni diverse da quelle che sono presenti in Dio e, di conseguenza, è il contenuto affermativo che ne esprime la natura. Attraverso una sintesi della ragione dell’eternità e di quella dell’assoluta semplicità divine l’anima apprenderà, nei limiti delle sue possibilità, che Dio è uno e dispone contemporaneamente di molteplici attributi sostanziali.

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6

Capitolo 1

I

L PROBLEMA DEI NOMI DIVINI

1.1 Anima, illuminazione e rivelazione: i presupposti di una teologia affermativa

In parallelo alla fondazione e all’organizzazione dello studium generale a Colonia (1248-1250), Alberto elabora una teologia affermativa di stampo razionale. Un simile progetto mira a dimostrare che, anche durante la vita terrena, l’uomo gode di una conoscenza certa di Dio. Negli scritti del decennio immediatamente precedente – la

Summa de creaturis (1242 ca.) e il Super IV libros Sententiarum (1244-1249) e i commenti

all’opera dello pseudo-Dionigi (1248-1251) – l’autore si interroga sulla natura dell’anima, sulla sua natura individuale e sui limiti della sua conoscenza.5

A partire dalla Summa de creaturis, Alberto difende la concezione dell’anima come sostanza individuale.6 Il teologo domenicano vuole preservarne l’unità, messa a repentaglio tanto dalla teoria avicenniana dell’intelletto agente separato, tanto

5 Vedi Alberti Magni opera omnia, t. 27/2, De homine, H. Anzulewicz, J. R. Söder (eds.), Münster

2008. (de hom.); t. 36, pars. 1, Super Dionysium De caelesti hierarchia, edited by P. Simon and W. Kubel, Aschendorff, Münster, 1993 (sup. cael. hier.); t. 37, pars 2, Super Dionysii Mysticam theologiam et Epistulas, P. Simon (ed.), Aschendorff, Münster 1978. (sup. myst. theol. e sup. dion.

ept.). Per i passi tratti dalla prima pars della Summa de creaturis, dal Super IV libros Sententiarum

e dal Super Dionysium De caelesti hierarchia seguiranno l’edizione Borgnet. Vedi Alberti Magni

Opera omnia, éd. A. & E. Borgnet, 38 vol., Paris, 1890-1899, v. 14 (de cae. hier.), vv. 25-30 (sup. IV sent.), v. 34 (de IV coaeq.) e v. 35 (de hom.).

6 A. Petagine, Aristotelismo difficile. L’intelletto umano nella prospettiva di Alberto Magno,

Tommaso d’Aquino e Sigieri di Brabante, Vita e Pensiero, Milano 2003. In questa monografia

dedicata all’evoluzione del dibattito sull’intelletto nel XIII secolo, Petagine ha individuato negli scritti albertini del decennio 1240-1250 la genesi dei problemi che il Maestro di Colonia affronterà nelle successive opere, dedicate ai problemi della natura intellettuale dell’anima (1254-1260 ca.): De anima, De unitate intellectus, De intellectu et intellegibili, De natura et origine

animae, De XV problematibus. Vedi Weisheipl, The life and works, op. cit., pp. 13-51. In questa

prima fase del dibattito a più riprese, Alberto si confronta con le posizioni dei propugnatori islamici delle dottrine di Aristotele, i philosophi, e in particolare con la speculazione sull’intelletto di Avicenna. In questo modo il Maestro di Colonia prende posizione rispetto questioni dottrinali ancora aperte. Vedi infra § 3.1.

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7

dall’ipotesi di un intelletto possibile unico per tutta la specie umana.7 Contro queste teorie il teologo domenicano concilia le diverse funzioni dell’anima che paragona, nella

secunda pars della Summa de creaturis, ad un totum potestativum. Di questa nozione il

teologo domenicano si serve principalmente per descrivere la coesione tra gli ordini gerarchici della realtà creaturale, laddove ogni livello superiore esercita la propria

potestas su quelle inferiori.8 In senso derivato, anche la facoltà razionale deve essere concepita allo stesso modo e, in definitiva, non può essere separata dalle sue potenze inferiori:9

Anima in suis partibus est ut totum potestativum [. . .] Totum autem potestativum bene est in primis partibus suis sine sequentibus, in sequentibus autem non sine primis, secundum

7 Nella prima fase del suo pensiero Alberto ha ancora un’idea poco precisa circa la posizione

di Averroé sull’intelletto, tanto da non attribuirgli ancora l’idea che l’intelletto possibile possa essere separato rispetto all’anima umana. Tuttavia, ciò non impedisce al teologo domenicano di schierarsi contro una simile ipotesi. Infatti, è Alberto stesso ad elaborarla per altra via. Così in Alb., de hom., De anima rationali, 2.2.3, p. 412, 49-76. Queste dottrine minacciano la frammentazione dell’anima individuale perché interpretano e radicalizzano le posizioni aristoteliche. Così ad esempio dall’affermazione dello Stagirita secondo cui ogni conoscenza deve essere proporzionata al proprio oggetto (Aristotele, de anima, III 8, 431b-432a) viene dedotto che, per conoscere le realtà superiori, l’anima necessita di una facoltà che trascende la sua essenza individuale. Vedi Petagine, Aristotelismo difficile, op. cit., pp. 27-37. Per le posizioni di Avicenna e di Averroé sull’intelletto vedi H. A. Davidson, Alfarabi, Avicenna and Averroes on

intellect. their cosmologies, theories of the active intellect, and theories of human intellect, Oxford

University Press, New York 1992.

8 Nella prima pars della Summa de creaturis, ad esempio, Alberto afferma: «Hierarchia est

quoddam totum potestativum, et est quaedam potestas: et ideo essentialia ipsius habent naturam potestatis. In potestatibus autem ordinatis sic est, quod semper sequens supponit praecedentem et habet plus. Et hoc probatur tam in potestatibus nature, quam officiorum et gratiae. Id potestatibus enim naturae vegetativum est in sensitivo, et sensitivum in rationali, sed non convertitur.» vedi Alb., de IV coaeq., t. 4, q. 35, a. 3, p. 532b. Per il concetto di potestas vedi l’ultimo capitolo di questo lavoro.

9 Sulla nozione di totum potestativum applicata all’anima vedi S. Vanni Rovighi, Alberto Magno

e l’unità della forma sostanziale, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, v. II,

Sansoni, Firenze 1955, pp. 757-778. Per i problemi che scaturiscono dalla conciliazione delle funzioni biologiche e intellettuali nell’idea albertina di anima vedi K. Park, Albert's influence on

late medieval psychology, in Albertus Magnus and the sciences, op. cit., pp. 501-535. Vedi anche

H. Anzulewicz., Anthropology: the concept of man in Albert the Great, in A companion to Albert

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8

quod etiam dicit Philosophus quod vegetativum bene separabile est a sensitivo et rationali, sed non e converso.10

Alberto descrive l’intero funzionamento della conoscenza come un sistema ordinato di gerarchie. L’anima razionale ordina le altre facoltà e, al contempo è ordinata rispetto alle potenze superiori. Questa, così, può conoscere nei limiti della propria natura individuale ciò che le è superiore.

Il modello appena descritto, tuttavia, sembra inadatto rendere conto della conoscenza umana di Dio. Dagli esordi del pensiero cristiano agli inizi del XIII secolo, il pensiero cristiano non ha mai messo in discussione l’idea che l’anima possa avere un contatto intimo con la realtà divina. Tradotto in termini di illuminazione, l’anima non ha alcun bisogno di intermediari quando riceve la luce divina. Questa convinzione è antitetica rispetto all’idea, sostenuta da Alberto, di una conoscenza mediata gerarchicamente. A questo punto, il teologo domenicano ha davanti a sé tre opzioni:

(1) rinunciare al modello gerarchico;

(2) far coesistere i due modelli di illuminazione;

(3) superare il modello di illuminazione diretta a favore di quello gerarchico.

Assunto per vero che Alberto scansi da principio l’opzione (1), non restano che due possibilità.

In un recente articolo, Bernhard Blankenhorn ha sostenuto che Alberto nelle opere del decennio 1240-1250 – e in particolare nella Summa de creaturis, nel Super IV libros

Sententiarum e nei commenti dionisiani – ha tentato progressivamente di prendere le

distanze dalla dottrina della conoscenza agostiniana, senza mai riuscirvi davvero. Il teologo domenicano si è sforzato di superare l’idea secondo cui l’anima gode di

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9

un’illuminazione diretta (3) ma, non essendone stato capace, ha dovuto accettare la coesistenza di entrambi i modelli d’illuminazione (2). 11

Nel De homine, la seconda parte della Summa de creaturis, Alberto non riconosce la presenza nascosta di una verità già impressa dall’azione di Dio nell’uomo e rinuncia, così, a ciò che nel modello agostiniano costituisce la fonte diretta della luce divina.12Il teologo domenicano riduce la memoria agostiniana ad una capacità operativa interna all'intelletto individuale e la sostituisce, nel ruolo di fonte dell’illuminazione, con l’intelletto agente: la prima è relegata a contenere le forme potenziali, mentre il secondo funge da medium che le traduce in atto. 13 Eppure, per quanto significativo, ciò non costituisce ancora una svolta decisiva rispetto al modello noetico agostiniano, perché Alberto non supera l’idea di un’illuminazione diretta, mediante cui l’anima si congiunge direttamente a Dio. Il teologo domenicano vi fa costantemente ritorno quando deve spiegare la presenza nella mente umana di concetti che non possono derivare dalla conoscenza naturale, così come la cognizione del bonum, o del verum. L’anima, infatti, apprende queste nozioni quando si volge interiormente e riconosce in sé l’immagine di Dio.14 Dunque, in questa fase del suo pensiero, coesistono due tipi di illuminazione: l’uno si articola nei rapporti causali tra le realtà superiori e l’anima, tiene conto delle gerarchie del mondo creaturale e descrive la conoscenza delle realtà naturali; l’altro

11 B. Blankenhorn, How the early Albertus Magnus transformed augustinian interiority,

«Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie» 58 (2011), pp. 351-386.

12 In alcuni passi del De homine vengono richiamati i primi rudimenti della teoria agostiniana

abbozzati nel De magistro. Vedi Agostino, De magistro, W. M. Green & K. D. Daur (eds.), CCSL 29, Turnhout, Brepols 1970. (mag.) In quest’opera Agostino ha mostrato come i segni ricavati dal mondo esterno non possono insegnare alcunché, ma soltanto invitarci alla ricerca di quelle realtà la cui conoscenza dipende esclusivamente dal contatto interiore con la loro natura. Infatti, la conoscenza di ogni entità, tanto sensibile quanto intellegibile, può essere perseguita nella misura della capacità umana di volgersi a ciò che Dio ha impresso nell’anima e che costituisce il contenuto della memoria. Vedi Agostino, mag., XI, 38. Quest’ultima, che per il Vescovo di Ippona è il contenitore di tutta la conoscenza, viene identificata da Alberto con la

mens in cui sono racchiuse tutte le forme in potenza. Vedi Alb., de hom., De differentia intelligibilis, 1. - 3., pp. 443-454. Vedi Blankenhorn, How the early Albertus Magnus, op. cit., p. 356,

nota 28 e p. 358-359 con nota 35.

13 Ivi, p. 360.

14 Alb., de hom., De his motivis quae antecedunt istas, 6., p. 539. Blankenhorn, How the early

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10

denota il rapporto diretto tra l’anima e Dio, non ammette alcuna mediazione e giustifica la presenza nell’anima di nozioni divine. In questo secondo caso, Alberto rimane ancorato al nucleo della speculazione di Agostino.15

Soltanto i commenti dionisiani presentano un all0ntanamento più marcato dall'illuminazione agostiniana, in favore di un modello conoscitivo gerarchico che coinvolge tutta la conoscenza, sia quella naturale che quella delle cose divine. Blankenhorn ne ha rilevato i tre aspetti principali:

a) Negazione di qualsiasi conoscenza già in atto nell’anima. Tutta la conoscenza è

in potenza nell’intelletto potenziale e necessita di essere tradotta in atto. Infatti è lecito affermare che Dio è sempre presente nell’anima, soltanto nella misura in cui Lui è fonte tanto dell’essere di quest’ultima, quanto della luce con cui essa opera nei suoi processi conoscitivi.16

b) Primato dell’intelletto agente nella mediazione della luce divina. Alberto recupera

la descrizione averroista dell’intelletto agente separato e la applica a quello individuale. Il lume divino che splende in esso viene trasferito all’intelletto potenziale e, contemporaneamente, dà forma a tutti gli intellegibili.17 Nella contemplazione di questi ultimi, l’intelletto potenziale può volgersi alla sua fonte e riflettere verso di essa la medesima luce ricevuta (lumen proveniens a

primo in ipsam secundum esse reflectit in primum secundum intellectum).18 Alberto indentifica quest’azione con il moto circolare dell’anima trattato da Dionigi nel IV libro del De divinis nominibus e, in tal modo, può reinterpretare

15 Blankenhorn ritiene che lo stesso avvenga con maggiore evidenza nel Super IV libros

Sententiarum. Blankenhorn, How the early Albertus Magnus, op. cit., pp. 369-370.

16 Alb., sup. myst. theol., pp. 466.87–467.11. Blankenhorn, How the early Albertus Magnus, op. cit.,

pp. 380-381.

17 Ivi, p. 382.

(13)

11

in termini gerarchici l’auto-conversione descritta da Agostino nel IX libro del

De trinitate.19

c) L’apice raggiunto dall’anima nella sua auto-conversione è il presupposto dell’unione con Dio: la congiunzione dell’intelletto possibile con quello agente,

ossia la contemplazione da parte dell’anima del suo condotto di luce divina, non è altro che la sua ascesa a Dio.20

I punti (a) e (b) costituiscono una valida alternativa teologica al ruolo giocato dalla grazia agostiniana nella conoscenza umana di Dio. La realtà divina è conosciuta come fonte di luce mediante l’auto-conversione dell’anima, ossia quando l’intelletto possibile si converte interamente in quello agente e sfocia nel moto circolare. Invece, il punto (c) lascia intendere che, al di là dell’auto-conversione, l’anima possa spingersi oltre e conoscere Dio direttamente. Quando, attraverso il ragionamento, l’anima conosce i principi del suo essere, essa risale il suo condotto di luce interamente. A questo punto, però, non si arresta presso il punto più alto del condotto, ma può spingersi ancora più in là e congiungersi definitivamente alla sua fonte.

Tuttavia, secondo Blankenhorn, in quest’ultimo caso Alberto dimostra di non essere riuscito a liberarsi totalmente dell’influenza di Agostino. Infatti, per raggiungere l’apice della conoscenza di Dio in questa vita, l’anima ha bisogno di un intervento divino sui

generis che la spinga ad oltrepassare, come nel caso dei beati, le proprie capacità

naturali:

Albert does not explicitly state in this passage if such a process involves grace, but Albert’s Dionysian corpus is filled with the constant mantra that grace alone enables union with God “beyond mind”. Albert is clearly aware that Dionysius’ circular motion involves procession and return, meaning, he realizes that he is describing a path of divinizing union with God. Albert also insists that the whole teaching of the Divine Names is properly

19 Blankenhorn, How the early Albertus Magnus, op. cit., pp. 383-384. Approfondiremo più avanti

la ripresa da parte di Alberto dai moti dionisiani nell’impianto del Super de divinis nominibus.

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12

theological. That is, he hardly intends to construct a philosophical alternative to graced union with God.21

In definitiva, la speculazione di Alberto si arresta ad un passo dal traguardo sperato: quando l’anima pratica l’auto-conversione, ossia quando ripercorre l’ordine gerarchico delle cause attraverso il ragionamento e raggiunge la conoscenza dei princìpi, essa non conosce Dio. Secondo il teologo domenicano, infatti, l’ultimo contenuto a cui l’anima perviene in questa vita è opera della grazia e, soprattutto, questo non può essere oggetto dell’indagine filosofica.

Come corollario della sua conclusione, Blankenhorn osserva che, nel Super de

divinis nominibus, il Maestro di Colonia si riferisce in più occasioni ad un’unione super mentem con la realtà divina e, così, relega la conoscenza ultima che l’uomo ha di Dio in

questa vita al mistero della grazia divina. Il senso ultimo di qualsiasi conoscenza della realtà divina si può comprendere soltanto attraverso un’illuminazione speciale. Dunque, allo stesso modo, il significato degli attributi divini tramandati dagli autori ispirati attraverso le Scritture, può essere compreso soltanto da chi riceve un’illuminazione pari alla loro. In definitiva, la scienza che si occupa della predicazione degli attributi divini resta dominio esclusivo della teologia.

Al contrario, ritengo che questa soluzione contraddica il progetto che Alberto porta a compimento attorno alla metà del XIII secolo. Al suo arrivo a Colonia il teologo domenicano perfeziona e sistematizza le conoscenze acquisite nel decennio appena trascorso per coronare il progetto di una teologia razionale. Una volta epurata dagli errori, la ragione sarà consacrata al discorso su Dio: attraverso la speculazione filosofica, Alberto elabora una teologia affermativa di stampo razionale.22 Per dimostrarlo occorre innanzitutto dimostrare che, secondo il Maestro di Colonia:

21 Ivi, p. 384.

22 Nel Super de divinis nominibus, l’idea di un’unione super mentem tra Dio e l’anima durante la

sua vita terrena è assente da ognuna delle occorrenze segnalate da Blankenhorn. Quel ‘mantra’, ripetuto da Alberto in più occasioni per ricordare ai confratelli che l’ultima parola su Dio spetta all’anima elevata alla visione di Dio per illuminazione diretta è semplicemente inesistente. Infatti in questo modo il teologo domenicano non farebbe che dichiarare la sconfitta della sua

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13

- attraverso l’illuminazione gerarchica, l’anima può conoscere Dio;

- oltre a quella mediata dall’illuminazione gerarchica, non esiste altro tipo di conoscenza.

Mi concentrerò sul primo aspetto nell’ultima parte di questo paragrafo. Alla seconda tesi, invece, sarà dedicato l’intero paragrafo successivo di questo capitolo.23

L’illuminazione gerarchica consente all’anima di conoscere Dio, come di recente è stato sostenuto da MarkusFührer.24 Poiché, secondo i diversi gradi della gerarchia, ogni creatura manifesta la propria derivazione da Dio, l’anima può raggiungerlo risalendo il flusso dei Suoi effetti.25 Allo stesso modo, infatti, ripercorrere la successione dei corpi illuminati consente di risalire alla fonte del raggio luminoso. Lo studioso ha messo in evidenza i problemi che Alberto deve affrontare per arrivare a questa conclusione. I due corni del problema sono i seguenti:

- Diversamente dalla luce che è presente secondo diversi gradi nei corpi illuminati, Dio è assolutamente separato dalla realtà creaturale;

- Dio deve essere congiunto in qualche modo alla realtà creata, altrimenti nessuna creatura potrebbe conoscerlo.

indagine filosofica. Al contrario, è lecito supporre che, raggiunta la perfezione delle proprie capacità naturali, l’anima in questa vita possa conoscere la stessa realtà divina nei limiti di ciò che il ragionamento discorsivo le consente. Vedi Blankenhorn, How the early Albertus Magnus, op. cit., p. 384, n. 100.

23 Infra § 1.2.

24 M. Führer, Albert the great and mystical epistemology, in A Companion to Albert the Great, op.

cit., pp. 137-161.

25 Ivi, pp. 141-142. Secondo Führer, già a partire dal Super IV libros Sententiarum è possibile

rilevare l’adesione al filone della «metafisica della luce», secondo cui Dio è fonte dell’unico atto luminoso entro cui si colloca gradualmente l’intera realtà creata che discende da Lui. Vedi Alb.,

sup. IV sent., d. 49, a. 5, p.670a. Per un approfondimento sulla «metafisica della luce» Führer

segnala J. McEvoy, The metaphysics of light in the middle ages, «Philosophical Studies», 26 (1979), pp. 126-145.

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14

Il teologo domenicano non può accettare che Dio e le creature siano posti su uno stesso piano di realtà. Chi sostiene il contrario assume una posizione panteista inaccettabile, perché contraria alla dottrina cristiana. In questo modo si avrebbe, infatti, che Dio stesso - o parte della sua essenza - è presente in forma depotenziata in tutte le creature. Per allontanare questa eresia, Alberto si appella alla terminologia «atto-potenza», presa in prestito dal modello di emanazione dello pseudo-aristotelico Liber

de causis.26 La realtà creaturale non è l’essenza divina depotenziata, ma è in potenza rispetto a Dio: la definizione aristotelica di potenza come «principium permutationis in

alio, secundum quod est aliud» consente di attribuire il carattere della potenzialità a

tutto ciò che è altro dalla semplicità divina, garantendone così l’eminenza.27

D’altro canto, la negazione di qualsiasi proporzione tra il creatore e le creature ha rilevanti conseguenze sul piano conoscitivo, perché esclude la possibilità per le realtà che conoscono Dio di unirsi alla Sua essenza. In questo modo, l’inaccessibilità divina vanifica la possibilità di una conoscenza diretta, tanto per le anime dei viventi (in via), quanto per quelle dei beati (in patria). La verità di fede della visione beatifica, ribadita del vescovo di Parigi Guglielmo d’Auvergne nel 1241 impedisce di accettare questa conclusione.28

26 Alberti Magni opera omnia, t. 17, pars 2., De causis et processu universitatis a prima causa, W.

Fauser (ed.), Aschendorff, Münster 1993. (de caus. et proc.) Vedi Alb., de caus. et proc., l. 2., t. 2., c. 5, p. 98. Per l’influenza del Liber de causis sulla metafisica di Alberto vedi B. Tremblay, Albert

on metaphysics as first and most certain philosophy, in A companion to Albert the Great, op. cit.,

pp. 561-595.

27 Alberti Magni opera omnia, t. 16, Metaphysica (2 v.), B. Geyer (ed.), Aschendorff, Münster

1960-1964. (meth.) 5. 2. 15, p. 253. Führer, Albert the great and mystical epistemology, op. cit., pp. 144-145.

28 Vedi G. Allegro, Introduzione, in: Tenebra luminosissima. Commento alla Teologia Mistica di

Dionigi l’Areopagita, Giuseppe Allegro e Guglielmo Russino (eds.), Palermo, Officina di Studi

Medievali 2007, pp. 33-42. Vedi anche J. P. Hergan, St. Albert the Great’s Theory of the Beatific

Vision, Peter Lang, New York 2002; in particolare il capitolo 1, pp. 1-10. Per la posizione di

Guglielmo d’Auvergne vedi A. Masnovo, Una polemica di Guglielmo d'Auvergne. «Revue néo-scolastique de philosophie», 41 (1934), pp. 146-171. Per il testo della condanna e le relative tesi vedi H. Denifle e E. Chatelain, Chartularium Universitatis Parisiensis, 4 vols, Paris 1889/97; vol.1, n.128, pp. 170–171. Il modo in cui Alberto cerca una soluzione al problema sarà affrontato più avanti.

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Führer ritiene che Alberto sia in grado di uscire dall’aporia perché, dopo aver letto l’opera dello pseudo-Dionigi, comprende il senso super-affermativo della teologia mistica. Nel commento Super mysticam theologiam, Alberto indaga il senso dell’espressione «nebbia di un dotto silenzio» (docti silentii caligo) e comprende di dover indagare in che modo ciò che sfugge a qualsiasi tentativo di comprensione è motivo di conoscenza per l’anima. Comprendere la natura (quid) della realtà divina è impossibile, ma si può intuire solo il fatto che essa c’è (quia).29 Dal momento che la

caligo è definita superlucens, è lecito supporre un’azione della luce divina sulle realtà

inferiori. Questo agire non consente alle creature di avvicinarsi alla realtà divina in ciò che è, ma di vederla o conoscerla secondo la modalità in cui Dio manifesta se stesso.30 Così, Alberto commenta:

Precamur nos fieri a deo in hac caligine in qua est deus, obscura quoad nos, superlucenti in

se […]; et videre referatur ad simplicem intuitum intellectus qui est principiorum, et cognoscere ad notitiam conclusionum quae oriuntur ex principiis; et secundum hoc deus cognoscetur ut principium, quando accipimus ipsum ut lumen nostri intellectus, et per lumen divinum ducimur in divina attributa sicut in conclusiones quasdam, dum

cognoscimus eum sapientem, bonum etc.31

Attraverso l’illuminazione gerarchica, l’anima conosce i princìpi dello stesso comunicarsi divino. Fino a questo punto sottoscrivo l’analisi di Führer, grazie alla quale è possibile ribadire che l’anima conosce Dio attraverso l’illuminazione gerarchica.

29 Alb., sup. myst. theol., p. 456, 1-74. La traduzione della coppia di termini quid-quia con

«realtà-datità» è un calco dall’inglese di Führer che traduce i medesimi con whatness-thatness. Führer,

Albert the great and mystical epistemology, op. cit., pp. 153-154.

30 Alb., sup. myst. theol., 457, 50-75. Vedi anche il testo dionisiano commentato. I riferimenti al

testo dello pseudo-Dionigi seguiranno l’edizione dei rispettivi commenti albertini. Per disambiguare queste citazioni dei passi dionisiani sarà adottata la seguente formula: Dion., in Alb., sup. myst. theol., p. 457, 66-69. Führer, Albert the great and mystical epistemology, op. cit., p. 158.

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Tuttavia, la descrizione dell’ultima conoscenza che l’anima raggiunge una volta risalito il flusso causale, è meno convincente, perché Führer non ne indaga a fondo la natura. Lo studioso si limita a mostrare, tramite il ricorso di seconda mano ad uno studio di Umberto Eco, che le forme delle cose ci consentono di accedere alla bellezza divina.32 Infatti, la bellezza che traspare dalla forma di ognuna delle creature nei loro rispettivi rapporti d’ordine è, al contempo, il limite della perfettibilità di ciascuna. L’anima umana che, da una parte, pone Dio al di là di questo limite e, dall’altra, ne riconosce l’impronta su tutte le creature è in grado di intuire in Lui la medesima qualità impressa in ogni cosa.

Più che una descrizione del pensiero di Alberto, quella di Führer è una riformulazione della dottrina agostiniana del De doctrina christiana. In quest’opera il Vescovo d’Ippona si domanda fino a che punto l’uomo possa innalzarsi ad una conoscenza superiore grazie all’osservazione della realtà creata.33 Nel rispondere, Agostino sostiene che è possibile risalire alla conoscenza delle cose invisibili appartenenti a Dio (invisibilia Dei) ma, a causa dell’eminenza della realtà divina, è difficile stabilire quale nome si addica a questa realtà.34 In un primo momento, ci si può accontentare di definire “Dio” come ciò da cui (ex quo), per cui (per quem) e in cui (in

quo) tutte le cose sono, ma molte difficoltà sorgono quando si tenta di capire cosa si può

attribuire a Lui in senso proprio. Gli attributi con cui ci riferiamo a Dio nella sua unità

32 Führer, Albert the great and mystical epistemology, op. cit., p. 158. Per lo studio in questione

vedi Umberto Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Bompiani, Milano, 1987.

33 Alberto manifesta un esplicito avvicinamento alla soluzione agostiniana solo nel Super IV

libros Sententiarum «Dicendum ad hoc secundum Augustinum in primo De doctrina christiana,

ubi dicit sic: Deus cum de illo nihil digne dici possit, admisit humanae vocis obsequium, et verbis

suis gaudere nos voluit. Unde dicendum, quod Deus innominabilis est nomine repraesentante

perfecte id quod est ipse, sive id signante complete. Sed propter nominum inopiam condescendit nobis ut nominemus ipsum dictione imperfecte significante, dummodo illam imperfectionem in eum non ponamus. sed supereminere eum intelligamus: et sic intelliguntur omnia quae adducta sunt de Dionysio ad hoc quod sit nominabilis.» (Alb., sup. IV sent. l.1, d. 2, a. 16, p. 72a). Tuttavia nella produzione posteriore Alberto non prenderà le distanze dal De

doctrina christiana: ciò è indicativo di una svolta della sua speculazione rispetto al problema

dell’inadeguatezza della significazione di Dio in termini umani. Vedi Agostino, De doctrina

christiana, J. Martin (ed.), CCSL 32, Turnhout, Brepols 1982. (doc. chris.)

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(come aeternitas, incommunicabilitas, maiestas e potestas) non sono degni di Dio che è ineffabile (ineffabilis), a tal punto che anche quest’ultima predicazione si rivela inadeguata alla Sua espressione. Il miglior modo di esprimere Dio è il silenzio, ma all’uomo è stata concessa la possibilità di omaggiarlo mediante la parola:

Et tamen Deus, cum de illo nihil digne dici possit admisit humanae vocis obsequium et verbis nostris in laude sua gaudere nos voluit. Nam inde est quod dicitur Deus. Non enim re vera in strepitu istarum duarum syllabarum ipse cognoscitur, sed tamen omnes latinae linguae socios cum aures eorum sonus iste tetigerit movet ad cogitandam

excellentissimam quandam immortalemque naturam.35

Per Agostino il nome di Dio non garantisce alcuna conoscenza, ma è la molla che induce l’essere umano a innalzarsi al coglimento della realtà eminente.36

Allo stesso modo, la visione di Dio «confusa e indeterminata» descritta da Alberto consente all’uomo di cogliere la realtà divina nella sua lontananza e assoluta semplicità, senza comprendere alcunché di noto. Secondo Führer, al grado massimo propria conoscenza l’anima lascia dietro di sé ogni forma acquisita mediante la conoscenza naturale si eleva a Dio che è “forma al di là della forma”.37

Nella descrizione di quest’ultimo stadio del conoscere, anche Führer finisce per sostenere che l’anima compie un’azione che oltrepassa le sue facoltà naturali. Se l’ultima conoscenza che l’anima può ottenere riguardo al Creatore è frutto di un’intuizione, la posizione di Führer non è tanto distante da quella di Blankenhorn.

35 Ivi, l. I, c. 6,6.

36 Anche i pagani, secondo le proprie capacità, così come i cristiani si concepiscono Dio come

colui di cui nulla può essere creduto più grande. Coloro che non si accontentano di rappresentazioni immaginifiche e si servono della sola intelligenza lo comprendono come “vita sapiente priva di mutamento” (incommutabilem sapiens vita), secondo quanto di meglio sono in grado di cogliere a partire dalla realtà creata. Per coloro la cui mente è stata educata a guardare le cose oltre le ombre della realtà carnale è evidente che la vita sia preferibile all’assenza di vita, l’immutabile al mutevole e la sapienza all’ignoranza. Costoro possono risalire alla luce della verità posta nell’anima da Dio, la cui sapienza si è degnata di abbassarsi debolezza sotto forma di Parola che «si è fatta carne per abitare in mezzo a noi» [Io. 1:14].

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Secondo quest’ultimo studioso l’auto-conversione dell’anima non è necessaria per conoscere Dio, Führer invece la ritiene necessaria ma non sufficiente: in entrambi i casi, la conoscenza razionale non basta a comprendere la realtà divina.

Per risalire al motivo dell’affinità fra le due posizioni finora presentate, occorre guardare al modo in cui ambedue interpretano la riflessione sui procedimenti da adottare in teologia, condotta da Alberto nei commentari dionisiani. Entrambi gli studiosi immaginano il procedimento affermativo del Super de divinis nominibus in continuità progressiva con quello negativo del Super mysthicam theologiam.38 In questo modo, sia Führer che Blankenhorn lasciano intendere che la conoscenza «confusa e indeterminata» è collocata sempre più in alto rispetto a quella certa e razionale. Che quest’idea non rispecchi il pensiero di Alberto, emergerà con più chiarezza dall’analisi condotta nel successivo paragrafo.

Prima di proseguire, è opportuno richiamare l’attenzione su un contributo di una studiosa che ha colto il senso generale del progetto razionale di Alberto. Maria Burger ha mostrato in che modo il teologo domenicano riflette sul rapporto tra la verità espressa dalla rivelazione e quella che la ragione umana può perseguire contando esclusivamente sulle proprie capacità naturali.39 La contemplazione in cui culmina l’esercizio delle facoltà naturali si colloca al di sotto di quella garantita dall’influsso del

lumen divinum. Queste modalità di accesso alla conoscenza definiscono due scientiae

distinte in habitu, in fine e in obiecto. La prima è la scientia humana che studia i fenomeni naturali, la seconda è la scientia divina che ha come oggetto la realtà divina.

scientia humana scientia divina

habitus ratio lumen

finis notitia fides

obiectum esse/natura Deus

38 Per la differenza tra i due proicedimenti vedi infra § 2.2, p. 21.

39 M. Burger, Fides et ratio als Erkenntnisprinzipien der Theologie bei Albertus Magnus, in Via

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Ciò che è utile comprendere ai fini della presente indagine è in che modo Dio sia oggetto della scientia divina.

Burger fornisce una risposta attraverso l’esame di due lettere dionisiane commentate da Alberto. In un passaggio della Epistula V, Alberto ribadisce che le sostanze spirituali non possono mai unirsi a Dio in senso pieno. Dio è infinitamente distante dalle sue creature tanto in questa vita (in via) quanto in quella ultraterrena (in

patria).40 Così, quando agisce sulle realtà inferiori, l’azione della luce divina non muta questo stato di cose: nessuna creatura è introdotta, congiunta o unita all’essenza di Dio quando viene illuminata dalla sua luce. Ogni realtà conosce Dio nella misura della propria natura, senza oltrepassarne i limiti. Così, anche l’anima durante la vita terrena non conosce se non nella modalità che le è propria, ossia quella razionale.

Allora, sembra che l’illuminazione non aggiunga nulla alla conoscenza naturale: l’anima secondo la propria natura conosce già razionalmente, dunque non ha bisogno di alcuna illuminazione e può risalire a Dio contando sulle sue sole forze. Tuttavia Alberto ribadisce la superiorità della conoscenza nell’Epistula VII. Il sapere divino non può essere perseguito esclusivamente contando sui principi della conoscenza naturale.41 L’illuminazione divina fornisce all’anima una certezza che essa non può trarre da sé. Ricevuta questa certezza, l’anima dispone di un nuovo principio attorno a cui può svolgere il proprio ragionamento. Infatti, è possibile argomentare attorno alle perfezioni divine, alla semplicità del Creatore e ad altre cose che riflettono la realtà di Dio attraverso lo specchio della realtà creata. L’anima che articola queste verità non segue i princìpi naturali, ma si ricongiunge a quelli supersostanziali. In tal modo risulta comprensibile perché chiunque ascolti discorsi attorno a Dio riconosce quasi immediatamente che essi non sembrano seguire affatto i princìpi della ragione. Un passo della lettera in esame riassume quanto chiarito finora:

40 Alb., sup. dion. ept., e. 5, p. 495, 33–43. Vedi Burger, Fides et ratio, op. cit., p. 45. 41 Alb., sup. dion. ept., e. 7, p. 505, 30sqq. Vedi Burger, Fides et ratio, op. cit., p. 50.

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Ad hoc ultimum dicendum est, quod veritas aliarum scientiarum traditur per conexiones syllogisticas necessarias, quia habet ordinem ad principia rationis, ex quibus deducitur, et ideo habet virtutem coactivam et etiam resistentes invitos trahit ad se, sicut dicit Philosophus in V Metaphysicae, et ideo potest communicari malis et resistentibus. Sed veritas sacrae scripturae est supra principia rationis, unde non deducitur ex illis per aliquas conexiones argumentroum, sed manifestatur quodam simplici lumine divino, quod est quaedam res informans conscientiam, ut sibi consentiatur. Et ideo non communicatur nisi his qui devote se convertunt ad ipsam.42

Tramite l’illuminazione la capacità discorsiva può mettersi al servizio della verità rivelata. In questo modo la ragione risponde ad un compito che soltanto lei può assolvere per conto di Dio: imitare la sua essenza in un discorso, così da tramandarla agli altri uomini. Le Scritture non sono che il massimo esempio di questa missione. Il compito della teologia affermativa sarà dunque quello di risalire ai princìpi di questo discorso attraverso l’indagine razionale. Grazie all’azione della luce divina che le consente di perfezionarsi entro i propri limiti naturali, l’anima si dispiega in una ragione fondata su princìpi non razionali, senza per questo oltrepassare i limiti della propria natura.

1.2 I limiti del pensiero discorsivo nella teologia affermativa

Dall’indagine fin qui condotta è emerso che il modello d’illuminazione gerarchica descrive compiutamente la conoscenza naturale, ma soltanto in parte quella che l’uomo ha di Dio in via. L’anima non dispone da sé degli strumenti per conoscere la realtà divina. Di conseguenza deve oltrepassare i limiti della razionalità o, quantomeno, intuire ciò che le è superiore. Ciò sembra giustificato da una presunta incapacità da parte del teologo domenicano di sbarazzarsi dell’idea di illuminazione interiore agostiniana, secondo cui l’anima entra in contatto diretto con Dio.

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Per formulare un’alternativa a questa posizione, ho suggerito di non pensare che la conoscenza «confusa e indeterminata» sia superiore a quella razionale. Attraverso l’illuminazione gerarchica l’anima conosce i princìpi del comunicarsi divino, quindi è lecito ritenere che essa, una volta praticata l’auto-conversione, conosca Dio come contenuto razionale e non altrimenti.

Ciò può essere dimostrato a partire dal modo in cui la teologia albertina studia i

nomina divina. Per esprimere propriamente Dio, Alberto non considera gli attributi

metaforici (nomina symbolica), ma soltanto i nomi sostanziali, ossia quelli che denotano l’essenza divina. Questa seconda modalità di significazione è problematica perché Dio, a causa della sua assoluta semplicità, non ammette alcuna determinazione particolare. Per non fare torto all’eminenza della natura divina, questa difficoltà viene risolta attraverso l’elaborazione di due distinte branche interne alla disciplina della denominazione di Dio (ars nominandi deum):43

- ex omnium affirmatione. Questa è la branca affermativa della teologia e il suo procedimento è compositivo (modus compositivus). Essa, infatti, studia il passaggio dal semplice al molteplice e individua gli aspetti che, a partire dalla natura divina, si propagano nella realtà creata secondo i diversi gradi di composizione. A questo procedimento è dedicato il commentario dionisiano Super de divinis nominibus;

- ex omnium remotione. Questa è la branca negativa della teologia e il suo procedimento è analitico (modus resolutivus). Essa, infatti, prevede la rimozione (ablatio) da Dio di qualsiasi ragione conosciuta attraverso lo studio delle creature. A questo procedimento è dedicato il commentario dionisiano Super mysticam theologiam.

43 Alberto distingue il procedimento della teologia affermativa da quella negativa nel suo

commento alla Mystica theologia, in cui ribadisce che mentre la prima conduce la conoscenza da ciò che è nascosto a ciò che è manifesto, la seconda a seguito della rimozione di ogni cosa lascia l’intelletto in uno stato di confusione. Alb., sup myst. theol., pp. 454,78 - 455,6.

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I medesimi attributi divini sostanziali possono essere considerati secondo l’assoluta eminenza della realtà denotata e, per questo motivo, sono detti anche nomina mystica. Attraverso il procedimento negativo, l’anima raggiunge il termine ultimo della risoluzione e si trova così in uno stato di confusione perché, priva di qualsiasi oggetto di conoscenza, sa che c’è ancora qualcosa (quia) oltre i suoi limiti. In questo modo, l’anima ‘intuisce’ la realtà divina, senza tuttavia ricavarne alcuna conoscenza di cui si possa servire per predicare Dio affermativamente.

Soltanto all’ars nominandi deum ex omnium affirmatione spetta il compito di esprimere Dio, per come l’anima è in grado di conoscerlo in questa vita. Tuttavia, questo sembra un progetto irrealizzabile. L’anima non conosce Dio direttamente e non pare in grado di risalire al primo termine della composizione. Ma, in assenza di questo, non è possibile procedere con il modus compositivus. Così, Alberto intraprende un’indagine analitica (per modum resolutivum), con il compito di risalire a questo termine a partire dallo studio del mondo creaturale. Infatti, Alberto è convinto di poter risalire al primo termine che denota Dio a partire dalla considerazione dei suoi effetti, ossia della realtà creaturale.

Nella sua monografia Les “noms divins” et leurs “raisons” selon Albert le Grand

commentateur du “De divinis nominibus”, Francis Ruello è stato il primo studioso a

suggerire che, per comprendere la teologia affermativa elaborata dal Maestro di Colonia nel Super de divinis nominibus, occorre muovere dall’indagine sulla causalità divina.44 L’importanza della causalità, infatti, emerge già dalla citazione biblica che Alberto pone in esergo e commenta:

Admirabile est nomen tuum in universa terra.45

44 F. Ruello, Les “noms divins” et leurs “raisons” selon saint Albert le Grand commentateur du “De

divinis nominibus”, J. Vrin, Paris 1963. Per una sintesi più recente delle medesime posizioni vedi F. Ruello, Le commentaire du De divinis nominibus de Denys par Albert le Grand: problèmes de

méthode, «Archives de Philosophie» 43:4 (1980), pp. 589-613.

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Agli occhi di Alberto qui sono racchiusi i tre aspetti sotto cui può essere considerato il contenuto del testo dionisiano: l’eminenza dei nomi divini, i nomi divini stessi e ciò rispetto a cui tali nomi sono eminenti.

Come per Aristotele la filosofia nasce in reazione alla meraviglia di fronte agli eventi naturali, il teologo domenicano attribuisce il carattere della mirabilitas ai nomi divini.46 Come quei fenomeni che, dopo uno spaesamento iniziale, l’anima può ambire a conoscere, per Alberto è possibile risalire agli stessi attributi divini mediante un’indagine causale. L’essere admirabilia si dice dei nomi divini a causa della relazione tra Dio e l’uomo, quindi è una proprietà derivata. Infatti, i nomi divini non sono affatto eminenti rispetto a chi, come gli angeli o i beati, può vedere Dio sine aliquo velamine.47 A motivo della distanza che separa la realtà divina dagli esseri umani, il teologo ha bisogno di intermediari tra lui e la realtà contemplata. Quest’ultima si offre alla conoscenza umana solamente in speculo et in aenigmate.48 Questi attributi possono essere ricavati dallo studio della realtà creata: tali nomi danno notitia di Dio in quanto ne è la causa.

Ruello individua la chiave di lettura del Super de divinis nominibus, ma sostiene che il contenuto conoscitivo ottenuto dall’anima attraverso l’indagine causale (per causam) oltrepassi la conoscenza di Dio in quanto causa (ut causa). A partire dal medesimo presupposto ritengo, al contrario, che l’indagine di Alberto culmini nella conoscenza che l’anima ha di Dio in quanto causa (ut causa): inizierò ad argomentarlo a partire dal prossimo capitolo. Nella restante parte di questo paragrafo, invece, intendo ripercorrere l’argomentazione di Ruello e chiarire i motivi per cui non credo sia accettabile.

Ruello sostiene che l’analisi causale consenta alla ragione di risalire ai termini più semplici della conoscenza, ma questa non si arresta alla conoscenza di Dio come causa. La ragione raggiunge, da una parte, le perfezioni tra loro irriducibili della realtà creata (ad esempio assenza di divisione, conoscenza e amore) e, dall’altra, l’idea dell’assoluta

46 Arist., metaphysica, l. 1, c. 2, 982b 12-13. 47 Alb., sup. div. nom., c.1, p. 1, 38-44. 48 Cor. 13,12.

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semplicità di Dio. Mediante l’accostamento delle perfezioni alla semplicità divina è possibile risalire al contenuto degli attributi divini (Uno, Vero, Buono, etc…):

Nous attachons des concepts composés à des concepts simples: ainsi rapportons-nous à l’être toutes nos notions. […] Le premier rattachement ou, si l’on préfere, la première «résolution» suppose l’existence d’un terme qui est principe de la composition. Mais elle ne supprime pas la possible «com-position» des élements ainsi analysés. Ainsi dirions-nous, l’un, le vrai, le bien se rattachent à l’être, leur prìncipe, mais parce que l’un est l’être non divisé, le vrai, l’être connu, le bien l’être aimé, nous estimons que la notion de non-division «com-pose» avec celle d’être pour former la notion de un, la notion de connu (connaissable ou connu de fait) «com-pose» avec celle d’être pour former la notion de vrai etc… De Dieu on ne peut rien dire de semblable. Sa simplicité même empeche qu’il entre en «com-position» avec quoi que ce soit.49

Ogni nome divino non esprime Dio come causa (ut causa), ma nella Sua essenza. Infatti, tutti i termini ultimi, ricavati dall’analisi (per resolutionem) della realtà creata, acquisiscono un nuovo significato in virtù della natura del primo principio componente, ossia del qui est (colui che è).50 Questo termine, infatti, non è un principio delle cose create ma la ragione che consente di attribuire in maniera analoga a Dio e alla realtà creata. Così, i nomi divini esprimono secondo una certa univocità d’analogia ciò che primariamente è in Dio secundum substantiam e, successivamente, si predica delle cose create per participationem.51

Secondo lo studioso, grazie al termine qui est è possibile riferire gli stessi attributi creaturali a Dio. Nel Super IV libros Sententiarum, spiega Ruello, Alberto dichiara che uno stesso attributo può predicarsi di due distinte realtà in virtù di diverse rationes.52 49 Ruello, Les “noms divins”, op. cit., p. 87.

50 «Nous dirons donc du nom qui est ce qu’il faut dire de tout autre nom divin: il désigne Dieu

sans le définir, à la façon dont notre intellect peut atteindre la substance divine. Nous devons écarter, en effet, tout désir de nommer Dieu en le définissant, car on ne peut définir que ce qui a un terme.», Ruello, Les “noms divins”, op. cit., p. 89.

51 Ruello, Les “noms divins”, op. cit., p. 83.

52 In alcuni passi del Super IV libros Sententiarum Alberto accenna al problema degli attributi

divini, ma non imposta ancora il problema in termini causali. Anche quando afferma che tali attributi sono presso Dio essentialiter, ma l’uomo li ricava dalla realtà creata che ne partecipa attraverso gli effetti (per posterius), il teologo domenicano sta richiamando i problemi già

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Nell’opera in questione, Alberto introduce l’idea di modus intelligendi o ratio

intelligentiae in merito alla possibilità di nominare Dio secondo le diverse proprietà tra

le Persone.53 Ad esempio, quando un teologo parla della paternità divina, non intende quest’ultima allo stesso modo della paternità umana.

sollevati dalla tradizione immediatamente precedente sugli attributi divini. Vedi Alb., sup. IV

sent., l. I, d. 2, a.11, p. 66b. Gli studi di Marie-Dominique Chenu hanno aperto il problema sulla

trasposizione dei problemi grammaticali in teologia a cavallo tra XII e XIII secolo. Vedi M. -D. Chenu, La théologie comme science au XIII siècle, «Archives d'histoire doctrinale et littéraire du moyen âge», 2 (1927), pp. 31-72. Parzialmente riproposto in La théologie au XII siècle, J. Vrin, Paris 1957; trad.it. La teologia nel XII secolo, Jaca Book, Milano 1983, pp. 103-122. Un contributo più recente di Alain de Libera è utile alla comprensione dell’intreccio di questa tradizione con i problemi della logica boeziana. Vedi A. de Libera, A propos de quelques théories logiques de

Maître Eckhart: existe-t-il une tradition médiévale de la logique néo-platonicienne?, «Revue de

Théologie et de Philosophie» 113 (1981), pp. 1-24. Per lo sviluppo di questo filone nel XII secolo può essere utile anche il contributo di Karin Fredborg sulle origini della “grammatica speculativa”. Vedi K. M. Fredborg, Speculative Grammar, in A History of Twelfth-Century Western

Philosophy, P. Dronke (ed.), Cambridge University Press, Cambridge 1988. Martin Grabmann, ha

notato, invece, il proliferare di capitoli de divinis nominibus nelle Summae di Prepostino da Cremona, Martino da Cremona, Pietro da Capua, Goffredo d’Auxerre, fino ad arrivare alla

Summa theologiae di Alessandro di Hales; questa intuizione che troverà poi più ampio spazio

nella sua Storia del metodo scolastico. Vedi M. Grabmann, I Papi del Duecento e l’aristotelismo. I

divieti ecclesiastici di Aristotele sotto Innocenzo III e Gregorio IX, Saler, Roma 1941; p. 97. e M.

Grabmann, Die Geschichte der scholastichen methode. Nach den gedruckten und ungedruckten

Quellen, Akademie-Verlag, 2 vol, Berlin 1957; vol.2 pp. 501-563. La riflessione grammaticale,

inoltre, ha preso origine l’idea di partecipazione ad un nome secondo gli effetti (per posterius) rispetto a quanto contenuto nella causa (per prius): «one type of equivocation arises when a word signifies one thing primarily and another secondarily (per posterius), for instance, “healthy” said of “animal” and of “urine”». Vedi J. A. Aersten, Medieval philosophy as

transcendental thought. From Philip the Chancellor (ca. 1225) to Francisco Suárez, Brill,

Leiden-Boston, 2012, p. 43 e anche tutto il capitolo conclusivo (The importance of the transcendental way

of thought for medieval philosophy), pp. 656-705.

53 R Ruello, Les “noms divins”, op. cit., p. 63. Quest’idea inizia a farsi avanti quando il teologo

domenicano, nel discutere circa il corretto modo di intendere le relazioni personali nell’essenza di Dio (paternità, filiazione e processione), propone una propria confutazione della nozione di

relationes assistentes di Gilberto della Porrée. Poiché l’assoluta semplicità della Trinità non

ammette composizione, costui aveva sostenuto che anche le relazioni stesse tra le persone non avrebbero dovuto trovarvi posto al di fuori della Trinità. Per il teologo domenicano, invece, tali relazioni, oltre ad essere sostanziali, devono disporre di un proprio modo di significazione. Alberto infatti, ammette che non si può dire che qualcosa esista in Dio (inesse), dal momento che la preposizione in denota una diversità tra contenente e contenuto. Ciò si può evitare qualora l’inesse sia inteso per modum intelligendi e non per diversitatem rei, Alb., sup. IV sent., l. 1, d. 33, a. 5, p. 147b sqq. La relazione trinitaria è nella sostanza divina e, sebbene la ratio della relazione (esse ad aliud) non coincida con la ratio della sostanza (in esse), la differenza tra le

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Secondo Ruello, la nozione di ratio può essere estesa anche al contenuto degli attributi divini sostanziali: i termini ultimi che l’anima conosce attraverso le rationes creaturali, possono essere riferiti all’essenza di Dio secondo rationes ulteriori. L’uomo è incapace di comprendere queste ultime, ma può averne ugualmente un’idea confusa grazie al primo termine della composizione: il nome qui est. Quest’ultimo, infatti non è che il quia est, l’idea «confusa e indistinta» di Dio che, posta accanto ai termini ultimi dell’indagine razionale, a consente di oltrepassare la considerazione a titolo di causa della realtà divina: l’anima intuisce le rationes divine e può così riferirsi in maniera affermativa alla realtà divina.54

Dunque, anche secondo Ruello, la conoscenza negativa per ablationem garantisce una conoscenza più elevata della realtà divina. La conoscenza razionale è funzionale soltanto a conoscere i termini ultimi che, da soli, non informano l’anima circa la natura di Dio. L’anima può soltanto intuire che quest’ultima ha caratteristiche analoghe a quelle delle creature, ma può comprenderne le rispettive rationes solamente in maniera confusa. In definitiva, la conoscenza di Dio ut causa non afferma nulla che sia realmente presente nella realtà divina, la cui comprensione attraversa lo studio della causalità (per causam), ma culmina in un contenuto non razionale.

Nella ricostruzione di Ruello, la nozione di modus intelligendi di Alberto sembra essere modellata su quella di modus significandi formulata da Tommaso d’Aquino, sia quanto ai problemi a cui rispondono che al rispettivo ruolo giocato nell’elaborazione del discorso teologico. Infatti, Gregory Rocca ha mostrato che l’Aquinate elabora un progetto di teologia positiva, in cui la riflessione sulla predicazione dei nomi sostanziali assume un ruolo centrale. Questa è formulata allo scopo di esprimere gli attributi che ineriscono all’essere reale di Dio e rientra in un più ampio progetto di un’ontologia

realtà semplice senza introdurvi alcuna molteplicità [Ruello, Les “noms divins”, op. cit., pp. 57-59]. Su Gilberto e le posizioni oggetto di condanna del 1148 vedi A. Hayen, La décision doctrinale

de Reims et la théologie de Gilbert de la Porrée, in «Archives d'histoire doctrinale et littéraire du

Moyen Age» 10 (1935/1936), pp. 29-102. A tal proposito è utile il contributo di John Marenbon che cerca di ricostruire lo sviluppo della speculazione di Gilberto. Vedi J. Marenbon, Gilbert of

Poitiers, in A history of Twelfth-Century western philosophy, op. cit., pp. 328-357.

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teologica.55 A tal proposito, Tommaso si serve del dispositivo dell’analogia dell’essere per superare l’agnosticismo diffuso tra i sostenitori dell’assoluta inconoscibilità della realtà divina.56 L’Aquinate deve rispondere da un lato a questa esigenza e, dall’altro, preservare l’eminenza di Dio. Così, nella sua soluzione, il teologo non può:

- stabilire che qualsiasi predicazione sulla realtà divina deve essere riferita a qualcosa di estrinseco rispetto alla Sua natura.

- dichiarare che gli attributi sostanziali di Dio possono essere riferiti al Creatore e alle creature in maniera univoca, o secondo diversi gradi.57

L’alternativa di Tommaso alle posizioni appena presentate è fondata principalmente su due pilastri: 58

- l’isomorfismo tra modalità d’essere (modus essendi), modalità di conoscere (modus cognoscendi) e modalità di significare (modus significandi), che si manifesta secondo i diversi gradi in cui si dispone la realtà creata;

- la distinzione tra res significata e modus significandi.

55 G. P. Rocca, Speaking the incomprehensible God: Thomas Aquinas on the interplay of positive

and negative theology, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2004, p. 297.

Per un approfondimento sullo sviluppo del pensiero metafisico di Tommaso vedi J. F. Wippel,

The metaphysical thought of Thomas Aquinas. From finite being to uncreated being, The Catholic

University of America Press, Washington D.C. 2000; cap. 13, Quidditative knowledge of God and

analogical knowledge, pp. 501-575.

56 Rocca, Speaking the incomprehensible God, op. cit., pp. 77-195. Di recente anche Alan Darley

ha mostrato come Tommaso si sia servito del dispositivo dell’analogia in contrasto con le tendenze apofatiche del suo tempo. Vedi A. P. Darley, ‘We know in part’: how the positive

apophaticism of Aquinas transforms the negative theology of pseudo-Dionysius, «The Heythrop

Journal», (2011), pp. 1-30.

57 Per un approfondimento sulle posizioni dalle quali l’analisi di Tommaso prende le distanze

relativamente alla predicazione divina vedi D. B. Burrell, Aquinas and Islamic and Jewish

thinkers, in The Cambridge Companion of Thomas Aquinas, N. Kretzmann e E. Stump (eds.),

Cambridge University Press, Cambridge 1993; pp. 60-84; in particolare il paragrafo Naming God, pp. 75-79.

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