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"Frumenti grana repono": gli strumenti agricoli nei contesti rurali della Toscana medievale

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea triennale di Scienze dei Beni Culturali

(Curriculum Archeologico)

TESI DI LAUREA

Frumenti grana repono : gli strumenti agricoli nei contesti

rurali della Toscana medievale

RELATORE

Prof. FEDERICO CANTINI

Candidato

MARCO BERTUCCELLI

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“ Ecce, ligoniso, multoque labore laboro, sol mea membra coquit, laxat mea corpora sudor, panem quem comedo mereor; sed Ianus ad ignem presidet et nostro vivit gaudendo labore. Plus meret omnis homo manuum vivendo labore

135 quam mendicando vel vi reliquis rapiendo; et dare quam ca[r]pere legitur plus esse beatum.”

Bonvesin De La Riva, De Controversia Mensium,

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3 Introduzione

Con questo lavoro ci siamo proposti di portare a sintesi quanto edito sugli strumenti agricoli di età medievale, in termini di analisi cronotipologica e di storia e archeologia della produzione, soprattutto prendendo in esame i rinvenimenti fatti nel territorio toscano. Particolare attenzione è stata posta agli aspetti iconografici, lessicali e tecnologici legati agli strumenti agricoli, poi riassunti in una serie di tavole poste a corredo del testo. Lo spoglio di quanto pubblicato fino ad oggi ci ha poi permesso di fare alcune considerazioni critiche sui tipi di archeologia che hanno riguardato più da vicino l’analisi dei manufatti legati al mondo agricolo e di presentare alcune proposte metodologiche per migliorare lo studio di questa particolare classe di manufatti

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Introduzione pp. 3-6 Cap.1

Gli strumenti agricoli nel Medioevo: breve storia degli studi pp. 6-14

Cap. 2

Tipi e funzioni pp. 15- 96

2.1. Strumenti per la lavorazione del terreno

a. Zappe e zapponi pp. 15-28

b. Vanghe e pale pp. 29-36

c. Aratro pp. 37-39

1. Le componenti pp. 40-54 2. Origini e sviluppi del vomere asimmetrico pp. 55- 59

3. Tipi di aratro in uso in Toscana pp. 60-64

2.2. Gli strumenti per la raccolta pp. 65-83

Cap. 3

Le testimonianze dai contesti rurali toscani pp. 97- 135

3.1. I contesti di rinvenimento

3.1.1. Provincia di Grosseto pp. 98-104 I. Castel di Pietra (Gavorrano, GR)

II. Montemassi (Roccastrada, GR) III. Rocchette Pannocchieschi (Massa M.ma, GR)

3.1.2. Provincia di Livorno pp. 105-111 I. Campiglia Marittima (LI)

II. Donoratico (Castagneto Carducci, LI)

3.1.3. Provincia di Pisa pp. 112-120 I. Cigoli (S. Miniato, PI)

II. Podere Migliana (S. Miniato, PI) III. Ripafratta (PI) IV. S. Michele alla Verruca (Vicopisano, PI)

3.1.4. Provincia di Siena pp. 121-131 I. Miranduolo (Chiusdino, SI)

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5 II. Montarrenti (Sovicille, SI)

3.2. Tavole cronotipologiche pp. 132-135

Conclusione pp. 136-137 Bibliografia pp. 138-142

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Cap. 1

Breve storia degli studi

La ricerca storico-archeologica applicata allo studio dei manufatti metallici e più specificatamente degli attrezzi utilizzati nel mondo agricolo durante il Medioevo ha da sempre teso ad avvalersi principalmente delle fonti iconografiche e di alcune tipologie di documenti scritti come inventari ed atti notarili, piuttosto che delle sporadiche testimonianze archeologiche, discostandosi talora metodologicamente dai criteri comunemente adoperati in analoghi campi di studio come quello ceramologico. La ragione di questa scelta metodologica affonda le sue motivazioni nella difficile conservazione di questa categoria di manufatti, in quanto fabbricati con materiali deperibili ed in parte riciclabili come il legno e soprattutto il ferro. Gli utensili ottenuti mediante l’impiego di questo metallo infatti una volta arrivati alla fine del loro ciclo vitale vengono quasi sempre rifusi col preciso scopo di ottenere materia prima per la creazione di nuovi oggetti d’uso, e nei rari casi in cui, una volta esaurita la loro vita funzionale, siano stati scartati e successivamente entrati a far parte di un deposito archeologico, si dovrà tenere conto del fatto che quasi sempre a sopravvivere sono solo le parti metalliche, che inevitabilmente offrono una visione incompleta e parziale sull’effettivo panorama degli strumenti utilizzati nel periodo medievale per il lavoro agricolo1. Un ulteriore problema che affligge notoriamente tutti i manufatti metallici rinvenibili in un contesto archeologico risiede nelle problematiche legate al loro stato di conservazione: il materiale più idoneo per la loro fabbricazione è infatti il ferro, metallo però

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7 tra i più sensibile all’aggressione di agenti esterni presenti nel terreno come acqua, ossigeno ed anidride carbonica e solforosa. Questi elementi infatti sono capaci di reagire con il metallo ossidandolo ed innescando in esso un progressivo processo di corrosione che nei casi estremi può arrivare a distruggere completamente il manufatto, degradandolo in un ammasso squamoso ed irriconoscibile di ruggine (ossido di ferro), che per di più è un materiale fragile ed incline a disintegrarsi al momento stesso del rinvenimento2: ciò riduce altamente il numero dei pezzi riconoscibili in un contesto archeologico, e nella fase post-scavo, se i reperti non verranno conservati in maniera adeguata. È opportuno a tal proposito ricordare anche che l’ossidazione corrodendo la superficie di un manufatto comporta problemi anche nella fase di studio dei reperti in quanto ne altera il peso e cancella eventuali tracce di lavorazione, usure e restauri.

Dal punto di vista del contesto bisogna invece tener conto dell’endemica scarsità di materiali metallici che caratterizza l’Alto Medioevo, situazione che si spiega anche con l’impoverimento delle aristocrazie, la contrazione dei commerci e la diminuzione delle attività estrattive verificatasi alla fine della tarda Antichità. La rarità di utensili metallici in questo periodo può essere anche in parte spiegata da dinamiche interne agli ambiti produttivi, come la tendenza da parte di artigiani e lavoratori a garantire ai loro attrezzi una conservazione ed una vita d’utilizzo il più possibile lunga, in ragione del loro alto valore giustificato dalla lunghezza, difficoltà e costo dei processi produttivi ed affinché possano essere tramandati in eredità. Ciò ha fatto si che risulti difficile rinvenire manufatti che siano stati abbandonati di spontanea

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8 volontà oppure gettati senza aver subito qualche tipo di reimpiego3, a meno che non ci siano stati fattori straordinari, come guerre, razzie, terremoti, etc., capaci di comportare un loro abbandono repentino e brusco e di poter giustificare il loro nascondimento in ripostigli (come avviene in alcuni pozzi romagnoli). Un’ulteriore problematica con cui gli studiosi si scontrano regolarmente è quella legata alla morfologia stessa dei reperti: i manufatti agricoli infatti presentano forme funzionali, venutesi a consolidare nelle loro matrici fondamentali già nell’Età del Ferro. Una volta che l’esperienza ha perfezionato i caratteri generali di un attrezzo non c’è infatti motivo per cui quest’ ultimo debba essere modificato, a mano che a mutare non siano le tecniche impiegate per fabbricarlo4. Ciò ha fatto si che le effettive variazioni apportate nei secoli siano state relativamente poche e di importanza secondaria, salvo che per alcuni strumenti particolari, come l’aratro. La tendenza a preferire forme polifunzionali negli attrezzi, accentuata nel corso dell’ Alto Medioevo, rappresenta inoltre un problema quando si arriva a classificare e dividere i reperti per tipologia e funzione.

Si può pertanto affermare, parafrasando Mannoni e Giannichedda, che per cause in parte dipendenti dai materiali ed in parte a dovute al conservatorismo delle tecniche ed all’attribuzione di significati e valori ipertecnici, gli utensili qui elevati ad oggetto di studio vengano spesso a trovarsi nel record archeologico come pezzi isolati, non studiabili in modo seriale e neppure come insieme dello strumentario di una bottega, in cui perlomeno la presenza di un determinato strumento avrebbe potuto servire d’aiuto per la comprensione

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Il riutilizzo del metallo infatti consentiva, analogamente al vetro, di risparmiare tempo (in quanto riduceva le fasi di lavorazione) e denaro, limitando la durata dalla produzione nonché l’impiego di combustibile, ZAGARI 2005, p. 18.

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9 degli altri. Risulta del resto ancora attuale l’esortazione dei due studiosi ad approfondire le ricerche sugli attrezzi metallici e la loro evoluzione utilizzando un tipo di approccio ergologico che non si limiti solo allo studio tipologico, ma che approfondisca la conoscenza del manufatto attraverso uno studio approfondito che, partendo dalle modalità di produzione, giunga fino all’analisi delle informazioni che si possono ricavare da esso sulla sua “vita” ed i suoi effettivi utilizzi attraverso tracce come usure, restauri, inserimenti ed immanicature, con la speranza che questo approccio, partendo da grandi aree e periodi, possa ricondurre le conoscenze acquisite ad un unico quadro storico-geografico5, offrendone una panoramica capace di illustrarne i vari aspetti socio-economici (commercializzazione, produzione ed organizzazione artigianale).

La natura dei metalli costringe quindi lo studioso ad adottare approcci dianalitici che non siano di natura esclusivamente archeologica, ma che possono anche essere presi in prestito da altre discipline: in primis quello antropologico ed etnografico sulla cultura contadina, utile per riconoscere le forme dei manufatti ed attribuire loro delle differenziazioni funzionali. In questo campo di ricerca (che poi è lo stesso utilizzato dagli aratrologi) si deve anche porgere molta attenzione alle fonti orali ed alle modalità in cui certi elementi siano rimasti in uso fino ad oggi6. Per quanto riguarda invece l’analisi delle fonti iconografiche lo studio si è fino ad oggi essenzialmente basato sulle rappresentazioni realistiche di manufatti che si possono apprezzare nelle opere d’arte o in quelle grafiche di vario livello, predisposte per svariate finalità come le illustrazioni di alcuni trattati tecnici, che oltre alle modalità di

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MANNONI GIANNICHEDDA 1996, pp. 188-190; ZAGARI 2005, p. 111; FORNI 2002, p. 19.

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10 produzione dei manufatti ne illustrano anche forma ed utilizzo7, oppure i cataloghi, utili soprattutto per un mero riconoscimento degli oggetti8. Le opere d’arte che tradizionalmente forniscono un valido repertorio iconografico per la tipologia di manufatti che qui si vuole esaminare sono per la maggior parte pitture di interni e i cicli decorativi dei mesi. Nonostante queste fonti siano indubbiamente valide va detto che in esse è rappresentata soprattutto l’idea che pittori e scultori medievali avevano di questi manufatti. Questo tipo di raffigurazioni non ambiva infatti rappresentare le varie scene della vita quotidiana con taglio documentaristico, ma si proponevano piuttosto di scandire simbolicamente l’alternarsi dei fenomeni, anche astronomici, che accompagnavano i mesi, le stagioni e le fatiche degli uomini, che a partire dal XII secolo furono considerate una presenza costante ed ineluttabile nelle vicende umane in quanto conseguenza del peccato originale9. In questo campo sono notevoli i lavori di Gaetano Forni e Giuseppe Sebesta. Mentre il primo infatti ha corredato il suo lavoro di un valido schedario che raccoglie in ordine cronologico tutte le testimonianze iconografiche ed archeologiche a sua disposizione10 col fine di documentare lo sviluppo degli strumenti atti a lavorare il terreno ed alla raccolta dei prodotti agricoli, l’opera di Sebesta si segnala per uno studio approfondito dello strumentario che compare nelle scene del Ciclo delle Ore affrescato sulle pareti di Torre Aquila a Trento,

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Trattati di questo tipo sono il De Re Metallica di Giorgio Agricola, il De la Pirotechnia di Vannoccio Biringuccio e l’ Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, vedi AGRICOLA 1563, BIRINGUCCIO 1540 e DIDEROT E D’ALEMBERT 1751-1772.

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Per esempio i volumi del Medieval Catalogue (edito tra gli anni 1940-1975) forniscono un ottimo aiuto.

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Questa concezione di matrice profondamente cristiana si innesta infatti sulla preesistente tradizione iconografica di tipo calendaristico, che già a partire dalla civiltà caldaica doveva assegnare precisi schemi rappresentativi non solo ai mesi ma anche alle costellazioni dello Zodiaco (molti dei nomi di queste ultime infatti –es. Gemelli, Scorpione, Ariete- sono infatti di sicura derivazione babilonese), BRESCIANI 1968, pp. 12, 17-22.

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11 utilizzato come base per effettuare un’efficace e suggestiva panoramica della storia di ogni singolo manufatto. Un’ulteriore strumento è offerto inoltre dalle illustrazioni dei Tacuina Sanitatis, genere di manuali miniati in voga tra 1350 e 1450 che trattavano di scienza medica ed in cui venivano descritte sotto forma di brevi precetti le proprietà mediche di piante, frutti, cibi, stagioni e moti d’animo, riportando i loro effetti sul corpo umano assieme ai modi per correggerli oppure favorirli11.

Nel caso delle fonti scritte invece occorre fare una distinzione tra fonti archivistiche e fonti letterarie propriamente dette. Nel primo caso rientrano documenti di lavoro come atti giudiziari, contratti e libri di conti, che nella maggioranza dei casi si limitano a fornire informazioni sommarie, cioè il nome ed il costo (talora anche il peso) dei manufatti e delle materie prime adoperate per la loro fabbricazione. Dall’analisi di queste fonti traspare anche la grande diffusione della pratica del restauro degli attrezzi, ed a volte la descrizione dello strumentario in uso nelle botteghe o nelle case 12. Per quanto concerne invece le fonti letterarie propriamente dette va osservato che i numerosi trattati tecnici a carattere agricolo e metallurgico scritti a partire dall’età antica fino ad arrivare a quella rinascimentale non illustrano le tecniche effettivamente utilizzate, che nella realtà venivano apprese in bottega con la pratica, in quanto erano stati concepiti e scritti per un pubblico colto ma non specializzato. In questa scelta programmatica si può intravedere un riflesso della bassa considerazione che il mondo antico aveva delle attività tecniche rispetto alle

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Vedi COGLIATI ARANO 1973.

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Questo avviene per esempio nei registri di bottega del fabbro casentinese Deo di Buono e di suo figlio Giovanni, compilati tra 1458 e 1497 (DE ANGELIS 1976, pp. 429-432) e nell’elenco stilato per il risarcimento danni stilato nel primo quarto del XIII sec. dal pievano di Borgocapanne Pietro di Succida, depredato durante una scorreria degli uomini del comune di Pistoia attraverso le zone contese con Bologna (REDI 1977, pp. 262-275). Anche l’inventario redatto per Bonamico di Sinibaldo, mirava ad ottenere un risarcimento, in quanto un incendio aveva distrutto la sua capanna e le masserizie dentro contenute, PICCINNI 1976 pp. 395-99.

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12 discipline umanistiche, ed è probabilmente proprio a causa di questa concezione che per buona parte dell’epoca medievale i trattati agronomici romani di Palladio e Columella (De Re Rustica) resteranno i principali punti di riferimento nella trattatistica agronomica assieme alla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Questa scarsa attenzione dedicata alla trattatistica riguardante l’organizzazione delle attività manuali, tipica dalla visione ascetica e provvidenziale del lavoro maturata dal monachesimo e più in generale dell’élite dei chierici (la quale era ben più propensa ad occuparsi di spiritualità e teologia che non delle logiche agronomiche legate al profitto commerciale ed al benessere materiale), sarebbe perdurata fino alla rivalutazione delle arti meccaniche operata nel IX° secolo dai trattatisti d’arte legati agli ambienti di corte carolingi, ai quali si deve una sostanziale ripresa dello studio dei principali trattati antichi: le testimonianze secondo le quali nella biblioteca di Carlo Magno si sarebbe trovata l’enciclopedia di Plinio il Vecchio, mentre sarebbe ad Alcuino di York che si dovrebbe la copia più antica esistente di un manoscritto di Vitruvio sono molto eloquenti a tal proposito, così come la larga preferenza accordata a Palladio, portatore di una visione dell’agricoltura molto più vicina alle logiche di sussistenza ed autarchia tipicamente curtensi. Il fatto che questo tipo di impostazione pratica nei riguardi della gestione delle attività agricole venisse promossa dai vertici del regno franco potrebbe essere interpretabile come un tentativo dall’alto di razionalizzare i processi produttivi e di controllare il lavoro contadino all’interno delle aziende curtensi tipiche dei territori sotto il dominio carolingio13.

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13 La seguente tabella riassume i principali agronomi antichi noti nel medioevo e le loro impostazioni teoriche.

Marco Porcio Catone (234-149 a.C.)

De Agricultura (De Re Rustica): il trattato

si distingue per la sua concretezza e si riferisce alla gestione delle proprietà fondiarie medio- grandi (50-100 ettari) coltivate da una manodopera di tipo servile, caratterizzate da un tipo di coltura dominante (es. vite-olivo) ed inserite in un sistema di scambi a corto e largo raggio, come accadeva in Lazio e nel Sannio.

Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.)

De Re Rustica: si tratta di un’opera divisa

in tre libri (uno sull’agricoltura e gli altri 2 sull’allevamento), redatta sotto forma di dialogo e sostanziamente finalizzata alla buona gestione dei possedimenti della classe senatoria, ancora provati all’epoca dalle guerre civili.

Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.)

Georgicae: si tratta di un poema diviso in

quattro canti in cui il poeta, cantando i piaceri dell’ otium rurale (che dipingono un quadro della vita nelle campagne molto diverso dalla ben più dura realtà quotidiana) si voleva ergere a portavoce di un’esigenza di rivitalizzazione dell’agricoltura ed in particolare delle piccole imprese agrarie a conduzione diretta contro lo sviluppo dell’allevamento intensivo .

Lucio Giunio Moderato Columella (70-80 d.C.)

De Re Rustica: il trattato si propone di

migliorare lo stato di recessione in cui versava l’agricoltura italica offrendo una valida alternativa alla gestione di tipo catoniano, non più applicabile alle realtà dei latifondi. Pertanto vi si teorizza un modello di azienda agricola estesa per un minimo di circa 1000 ettari, sottoposta a coltura intensiva, curata da manodopera schiavile ed amministrata attivamente dal proprietario.

Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) Naturalis Historia, Liber XVIII: questo

libro cerca di offrire un quadro d’insieme dell’agricoltura ad un pubblico di estrazione essenzialmente modesta (piccoli e medi agricoltori), senza entrare troppo nei dettagli ma denunciando

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14

comunque il principio stesso del grande latifondo estensivo.

Rutilio Tauro Emiliano Palladio (IV-V sec.)

Opus Agricolturae: l’opera elenca diligentemente e con precisione le divere pratiche agrarie scandendole attraverso un calendario annuale e nello stesso tempo espone i principi generali del lavoro, assieme a nozioni sul tempo e sulla meteorologia (libri II- XIII). Il libro XIV contiene invece un “Carmen de institutione arborum” che tratta dei

metodi di coltura ed innesto delle coltivazioni arboree.

Per quanto riguarda i trattati propriamente composti in epoca medievale, la ricerca archivistica ha permesso di individuarne diversi esemplari, la maggioranza dei quali è spesso caratterizzata da una impostazione erudita che procede sulla falsariga degli autori classici. Le opere più importanti sono il De rerum Naturis di Rabano Mauro e per quanto riguarda il basso medioevo i trattati di Pier De’ Crescenzi, Paganino Bonafede e Michelangelo Tanaglia14, scritti e pensati per insegnare ad un pubblico di proprietari terrieri come gestire al meglio i propri possedimenti ma non ancora molto indagati dagli studiosi moderni come fonte per una conoscenza più approfondita della strumentazione agricola.

14

Si tratta rispettivamente del Liber Ruralium Commodorum (inizio XIV sec.), del Thesaurus

Rusticorum (1360) e del De Agricultura (1490 c.a), in DEANGELIS1981, pp. 83-92. Mentre il Liber di Pier de’Crescenzi è un’opera di carattere enciclopedico ( nel caso dell’agricoltura la fonte presa a modello è Palladio), il Thesaurus di Bonafede, ben più breve e circoscritto, si struttura come un vero trattato specialistico di agronomia, in cui si analizzano attentamente le pratiche agrarie più complesse come l’arboricoltura e la cerealicoltura. Il De Agricultura di Tanaglia infine si presenta come l’opera più complessa ed originale dei tre trattati, in quanto pur attingendo dagli scriptores rerum rusticarum e da Virgilio trae ispirazione (nonostante non lo citi espressamente) anche dall’opera di De’Crescenzi e non pone mai in secondo piano la comprensione della vita economica del proprio tempo.

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Cap. 2:

Gli attrezzi agricoli medievali: tipi e funzioni

Sulla base delle precedenti considerazioni si è dunque ritenuto opportuno affrontare lo studio dei manufatti usati in agricoltura suddividendoli in due grandi gruppi, così come già fatto da G. Forni: gli attrezzi utilizzati per la lavorazione del terreno e quelli impiegati nella raccolta dei frutti della terra.

2.1 Strumenti per la lavorazione del terreno: 2.1a. Zappe e zapponi

Questo primo raggruppamento include tutti gli attrezzi agricoli che presentano un’angolazione di 90° tra manico e lama: questa caratteristica strutturale conferisce ai manufatti che ne sono provvisti resistenza ed una grande funzionalità nei vari tipi di lavorazione del terreno, che per questa classe spaziano dallo scavo superficiale allo scasso profondo. Questa situazione si traduce sul piano della documentazione materiale in un’alta varietà di morfologie ed utilizzi di questi utensili15, che specialmente durante l’Alto Medioevo presentavano tratti molto sfumati tra loro: non a caso a questo periodo risalgono molti attrezzi che presentano forme tipologicamente ibride come i picconi-zappa rinvenuti a Villa Clelia, Monte Barro e Belmonte. Le ragioni della fabbricazione di utensili polifunzionali non devono essere ricercate unicamente nella scarsità di metallo disponibile, ma anche nell’estrema frantumazione delle attività produttive che, ormai confinate ad ambiti ristretti e privi di reciproci collegamenti, si avvalevano di manodopere formatesi esclusivamente

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16 attraverso un’esperienza concreta e manuale16

e creavano una domanda di prodotti caratterizzati da resistenza, poliedricità17 ed una morfologia tendente a cambiare di luogo in luogo. Gli strumenti inclusi in questo gruppo sono la zappa, il piccone, il

sarculum ed il bidente.

La zappa è uno strumento costituito da una lama di ferro dalla forma e dimensioni variabili, fissata ad un manico ligneo. Nel Medioevo è attestato l’utilizzo della ligo18

romana (non sembra si possa dire altrettanto di una sua variante più leggera, la

marra), caratterizzata da una lama larga, curvata verso l’interno e talora trapezoidale

e stretta alla base. Il suo utilizzo principale consisteva nella frantumazione del terreno, ottenuta facendo calare con forza l’utensile sul suolo dopo averlo alzato fin sopra la testa, ma gli agronomi antichi la indicavano anche per scavare solchi in orti e giardini19, eliminare erbacce e tronchi d’albero20 e soprattutto come valido sostituto dell’aratro nelle aree collinari. Nella documentazione iconografica vanno ricordati gli esemplari rappresentati nell’affresco di S. Elbrando zappatore in Novalesa, nel bassorilievo con il lavoro di Adamo ed Eva nel duomo di Modena ed in Emilia a Montale; si deve comunque ricordare che una differenziazione vera e propria delle varie tipologie di lama comparirà solo a partire dal trattato rinascimentale di Agostino Gallo21.

Anche il piccone era utilizzato per rompere i suoli duri: la polifunzionalità di questo strumento per quel che riguarda il suo esclusivo impiego agricolo22 è comunque attestata anche dall’uso –di eredità romana- di attrezzi a doppia lama, i cosiddetti “picconi-zappa” ed “asce-piccone”. In età tardoromana e nel il corso del Medioevo si

16

ZAGARI, LA SALVIA 2001, pp. 874-875.

17

La polifunzionalità in epoca longobarda pare estendersi anche agli scramasax, i quali avrebbero avuto anche impieghi domestici, per un maggiore approfondimento SALIN 1958.

18

WHITE 1967, pp. 37-40 ; ZAGARI 2005, pp. 116-117.

19

COLUMELLA 10, 88-89.

20

Come testimoniano gli antichi autori Varrone, Isidoro ed Ovidio, WHITE 1967, p. 38.

21

FORNI 2003, p. 24.

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17 possono distinguere secures e dolabrae: questi due tipi di utensili si inseriscono in questa classe in virtù dell’angolazione tra manico e lama, nonostante il differente tipo di impiego. La securis presenta i lati della lama più o meno concavi, un taglio dalla convessità variabile e lo spessore della lama decrescente via via che si allontana dal manico, mentre qualora la lama si presenti doppia e con taglio sia orizzontale che verticale sarà opportuno parlare di securis dolabrata.23 I picconi utilizzati negli ambiti dell’agricoltura e del disboscamento (dolabrae) erano più grandi e lunghi di manico rispetto agli esemplari utilizzati nella carpenteria, e venivano adoperati anche per il taglio delle radici e la ripulitura della superficie del terreno da piante ed erbe infestanti, specialmente nella coltivazione di vitigni e leguminacee24. La dolabra propriamente detta si presentava con una lama doppia, formata per metà da una stretta ascia e per l’altra metà da una sottile punta di piccone, che poteva avere tre tipi di terminazione: diritta, rivolta verso l’alto e rivolta verso il basso. Mentre il taglio della lama anteriore era orizzontale, quello della lama posteriore era invece verticale. Il suo impiego è attestato inoltre nella rottura delle zolle rimaste intatte dopo l’aratura, venendo a sostituire in questa operazione il rastrum25. L’attestazione

di picconi veri e propri nell’iconografia è piuttosto tarda (per esempio nell’Allegoria del buongoverno di Lorenzetti) ed il modello attuale si svilupperà solo a partire dall’epoca rinascimentale, come si vede dal trattato di Agostino Gallo e dal ciclo di affreschi dei mesi di Bramantino26.

Il sarculum è una piccola zappa a collo lungo e pala stretta (gli autori antichi riportano che ne esistevano diversi tipi per peso e forma27), la cui lama presenta lati arrotondati. Il suo impiego principale consisteva nello smuovere il terreno ed 23 ZAGARI 2005, p. 113. 24 WHITE 1967, pp. 53, 60-64. 25

Come testimonia Palladio nel suo trattato De Re Rustica, WHITE 1967, p. 63.

26

FORNI 2003, p. 25.

27

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18 eliminare le erbe infestanti. Dalle fonti si evince solo che veniva impiegato nella lavorazione di campi ed orti e che ne esistevano due tipi: uno leggero ed uno pesante. Il primo tipo serviva per eliminare le erbacce specialmente nei campi coltivati a cereali e legumi28, mentre il secondo veniva utilizzato al posto dell’aratro nei terreni collinari, in maniera analoga a quanto avviene con la zappa-ligo. L’agronomo Palladio distingue inoltre sarculum simplex e sarculum bidens. Il sarculum veniva inoltre impiegato per interrare delicatamente i semi delle piante affinchè attecchissero meglio29, per riassestare piante danneggiate dal passaggio di animali30 e per aprire e chiudere canali di irrigazione31. In età medievale probabili esemplari di questo strumento sono stati rinvenuti a Belmonte (Piemonte), a Villa Clelia di Imola, Gorzano (Modena), nel pozzo 1 di Spilamberto di San Cesario (Modena) ed a Castelvecchio di Peveragno (Piemonte)32.

Ulteriore strumento atto alla frantumazione del suolo33 è il bidente, tipo di zappa la cui lama è costituita da due lame separate e parallele unite al manico da un unico pezzo34 e funzionali a smuovere orizzontalmente il terreno. Si tratta pertanto di un attrezzo inadatto a scavi profondi e più consono ad operazioni come l’erpicatura35 e la ripulitura del suolo da sterpi ed erbe infestanti36. Questo tipo di utensile era talmente noto ai trattatisti e frequente nell’uso da assurgere in antico a simbolo stesso del lavoro nei campi. Anche di questo manufatto esistevano un tipo leggero ed uno pesante: mentre il primo veniva più che altro impiegato nella coltivazione vinicola in quanto capace di smuovere, drenare ed aerare il suolo senza danneggiare con i denti

28

Columella, De Re Rustica, 2-11; Plinio, Naturalis Historia, 18. 241 e 18. 495.

29

Columella, De Re Rustica, 2.10.

30

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 18, 186.

31 Catone, De Re Rustica, 155.1. 32 FORNI 2003, pp. 24-25. 33 Columella, De Re Rustica, 4.5.1. 34

Il nome attuale deriva infatti dal latino rastrum bidens (rastrello a due denti).

35

Virgilio, Georgiche, vv. 355-356.

36

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19 le radici, a differenza di altri strumenti come l’aratro37

, il tipo pesante era invece utilizzato per la coltivazione dei terreni rocciosi oppure infestati da sterpaglie, talvolta per la rottura delle zolle al pari di un rastrum38 romano, e solo a partire dalla

tarda antichità per la ripulitura delle vigne in una variante a doppia testa (per metà bidente e metà punta di piccone). I denti della lama potevano avere estremità di forma squadrata oppure arrotondata. Gli esemplari medievali di questa tipologia di attrezzo sono molto scarsi, probabilmente sia a causa della fragilità dello strumento, dovuta alla lama non molto massiccia, che al perfezionamento dell’aratro ed alla concorrenza parallela di zappe e sarchi. Gli esemplari altomedievali meglio conservati sono quelli rinvenuti all’interno del pozzo di Spilamberto e nel pozzo Casini a Bazzano (Bologna). La maggior parte delle rappresentazioni iconografiche risale alla tarda antichità. Tra di esse sono notevoli le miniature del manoscritto Vat. Lat. 3226 ed il mosaico raffigurante una scena di lavoro in una vigna proveniente dal Grande Palazzo di Costantinopoli. La tabella di seguito illustra l’aspetto di questi strumenti e le fonti a cui su è fatto riferimento.

37

Columella, De Re Rustica, 3.13.3; Columella, De Arboribus, 12.2; Plinio il Vecchio, Naturalis

Historia, 18.46; Palladio, De Re Rustica, 4.7.1. 38

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20

Tipologia Nome

strumento

Illustrazione Fonti principali Passi citati

Zappe Ligo Varrone, De

Lingua Latina, 5.134.

“Ligo, quod eo propter

latitudinem quod sub terra est facilius legitur”

Isidoro,

Etymologiae, 20.14.16.

“Ligones, quod terram levent quasi levones”

Columella, De Re

Rustica, 10.88-89.

“mox bene cum glebis vivacem caespitis herbam/ contudat marrae vel fracti dente ligonis” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XVIII, 41. “ferramenta egregie facta, graves ligones” (il nome compare in un inventario degli strumenti utilizzati nelle aziende agricole) Ovidio, Amores, 3.10.31 Ovidio, Ponticae, 1.8.59

“cum bene iactati pulsarent arva ligones”

“nec dubitem

longis purgare ligonibus herbam”

(21)

21 Marra Columella, De Re

Rustica, 10. 72-73.

Columella, De Re Rustica, 10. 88-89.

“tu paenitus latis eradere viscera marris/ne dubita, et summo ferventia caespite mixta/ ponere”

“mox bene cum glebis vivacem caespitis herbam/ contundat marrae veel fracti dente ligonis.” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, IX. 45. Ibid. XVII.159. Sulla pesca: “silurus (..) in Danuvio marris extrahitur” Sulla viticoltura: “solum apricum et quam mollissimum in seminario sive in vinea bidente pastinari debet ternos pedes, bippalio aut marra

(22)

22 Ibid. XVIII. 147. reici quaternum pedum fermento” “medica ad trimatum marris ad solum radi (debet)” Sarculum Varrone, De Lingua Latina, 5.134. Varrone, De Re Rustica, 1.22.3. “Sarculum ab serendo ac sariendo” Citazione di Catone, 10.3. Palladio, De Re Rustica, 1.43.3. “sarculos vel simplices vel bicornes” Catone, De Agri Cultura, 10.3. Ibid. 155.1. “sarcula VIII” “cum pluere incipiet, familiam cum ferreis sarculisque exire oportet, incilia aperire, aquam diducere in vias et curare oportet uti fluat”

Columella, De Re

Rustica, 2.10.33.

Ibid. 2.15.2.

Ibid. 2.17.4.

“propter quod non nulli prius quam serant, minimis aratris proscindunt atque ita iaciunt semina et sarculis adobruunt” “caprinum manu iacere atque ita terram sarculis permiscere” “glaebas sarculis resolvemus” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, “in collibus traverso tantum

(23)

23 XVIII. 178. Ibid. 186. Ibid. 241. Ibid. 295. Ibid. XIX. 109. monte aratur (…) tantumque est laboris homini ut etiam boum vice fungatur: certe sine hoc animali montanae gentes sarculi arant” Riferito al raccolto

mangiato dal

bestiame:

“quae depasta sunt sarculum iterum excitari necessarium” Riferito alla zappatura dei fagioli: “levi sarculo purgare verius quam fodere” Operazione agricola di fine estate: “seminaria purgare sarculo” Sulla coltivazione dei porri: “nunc sarculo leviter convelluntur radices” Bidens Palladio, De Re Rustica, 1.43.1, Ibid. 2.10.2 (inventario) “bidentes, dolabras, falces putatorias, quibus in arbore utamur et vite” Riferito all’eliminazione delle erbe infestanti:

“fiunt ergo sulci(..) latitudine pedum duorum et semis, vel trium, ita ut iuncti duo fossores designatum linea spatio bidentibus persequantur altitudine trium ve

(24)

24 Ibid. 4.7.1 Ibid. 8.5. duorrum et semis pedum” Sulle modalità di polverizzazione del suolo e di cura delle vigne: “hoc mense (Martius) novella vinea incipit pulverari, quod nunc et deinceps per omnes Kalendas, usque ad octobres,

faciendum est, non solum propter herbas, sed ne tenera adhuc semina solidata terra constringat” Sulle modalità di estirpazione delle erbe infestanti: “per eos (bidentes) erutum gramen extingui” Columella, De Re Rustica, 3.13.3. Ibid. 4.5.1. Sul sistema di solchi necessario ad impiantare una vigna: “tum deinde relicto spatio, prout quique mos est vineas colendi veel aratro vel bidente, sequentem ordinem instituunt” Sulla frequenza di zappatura nei vigneti: “numerus autem vertendi soli bidentibus (..) definiendus non est, sed (..) satis plerisque visum est, ex Kalendis Martiis usque in Octobres tricesimo quoque die novella vineta confodere”

(25)

25 Ibid. 4.14.1. Ibid. 5.9.12. Columella, De Arboribus, 12.2. Sulla coltivazione di giovani vitigni attraverso il sistema a telaio (dopo il fissaggio a quest’ultimo dei rami): “inesquitur deinde fossor , qui crebris bidentibus aequaliter et minute soli terga comminuat” Sulle modalità di coltivazione degli oliveti:

“id minime bis anno arari debet: et bidentibus alte circumfodiri” Sulla preparazione del suolo nella vigna:

“bidentibus terram vertere utilius est

quam aratro. Bidens aequaliter totam terram vertit: aratrum praeterquam quod scammnum facit, tum etiam boves,

qui arant, aliquantum virgarum et interdum totas vites frangunt” Plinio il vecchio, Naturalis Historia, XVII.54. Ibid. XVIII.46. Sull’utilizzo dei lupini come sovescio:

“nihil esse utilius lupini segete priusquam siliquetur aratro vel bidentibus versa” Sulla manutenzione contro le erbacce: “iuncosus ager verti pala debet, ante infractus bidentibus”

(26)

26 Securis Palladio, De Re Rustica, 1.43.3. “Secures simplices vel dolabratas” Columella, De Re Rustica, 4.25.1. “(rostro) cui superposita semiformis lunae species securis dicitur”

(27)

27 Dolabra Palladio, De Re Rustica, 1.43.1. Ibid. 2.1. Ibid. 2.3. Ibid. 3.21.2. “dolabras (..) quibus in arbore utamur et vite” Sull’ operazione di ablaequatio: “ablaequandae sunt vites (..)id est, circa vitis codicem dolabra terram diligenter aperire et(..) velut lacus efficere.” Dopo la prima aratura: “glebae omnes dolabris dissipandae sunt” Su come risanare i roseti: “antiqua rosaria (..) curcumfodiuntur sarculis vel dolabris” Columella, De Re Rustica, 2.2.28; Ibid. De Arboribus, 10.2 Sull’aratura: “nec minus dolabra quam vomere bubulcus utatur, et praefractas stirpes summasque radices (..) refodiat at persequatur” Sulla potatura delle viti:

(28)

28 falce quae amputari non possunt, acuta dolabra abradito” Dolabella Columella, De Re Rustica, 4.24.4; Ibid. 4.24.5.

Sulla potatura nei vigneti:

“nam ut ab ima vite incipiam, semper circa crus dolabella

dimovenda terra est.”

“si vero trunci pars (..) peraruit, aut (..) cava vitis est, dolabella conveniet

expurgare quicquid emortuum est”

(29)

29

Pale e vanghe

Si tratta di una classe di strumenti a mano concepiti per lo scavo di fosse, il trasporto di materiale e la realizzazione di opere di giardinaggio39. Elementi comuni ad entrambe le tipologie di manufatto sono l’orientamento rispetto al suolo con cui venivano impiegate nei lavori manuali, prossimo alla verticalità e l’ampio angolo tra lama e manico.

La vanga è formata da una lama robusta (di varie forme e dimensioni a seconda del tipo) che va a inserirsi in un manico ligneo dotato di staffa (vangile). L’assenza di inclinazione tra manico e lama trova spiegazione nel fatto che l’utilizzo principale di questi attrezzi risiede nello scavo di fosse. White opera un’ulteriore classificazione distinguendo le vanghe mediterranee da quelle nordiche: il tipo romano e meridionale infatti è molto più leggero e particolarmente adatto allo scavo di terreni duri e secchi, a differenza delle vanghe usate nell’Europa settentrionale, caratterizzate inoltre da una lama asimmetrica o “mezza lama”, funzionale a facilitare la penetrazione in terreni morbidi e umidi in quanto offriva una sola superficie di appoggio al piede e non si fletteva da un lato40. I tipi utilizzati in epoca medievale non dovevano discostarsi dalle tre tipologie individuate da White per l’epoca romana, ovvero bipalium, pala-vanga e scudicia: i primi 3 termini indicano sostanzialmente lo stesso strumento, anche se la pala presenta un peso minore, una lama la cui forma varia da triangolare a quella a scudo e un angolo lama-manico meno netto, oltre a non avere staffe e maniglia. Di essa si sa che era utilizzata per

39

Come per esempio lascia presupporre il ritrovamento di una pala nel sito urbano del conservatorio romano di S. Caterina, in SPIONALA 1989, p. 191; ZAGARI LA SALVIA 2003 p. 874.

40L’unico svantaggio era una maggiore difficoltà nell’estrazione della terra. Numerosi esemplari di

questo tipo di strumento inoltre sono attestati da illustrazioni miniate nei codici anglosassoni di XI-XIII sec., ZAGARI 2005 pp.34 e 117; CAMILLE 1995 figg. 32-37, 39, 41-44 (pp. 252-256, 258, 260, 263,266,268-269, 271); BARAGLI 2001, p. 144.

(30)

30 rivoltare e trasportare terriccio leggero e ben lavorato in orti e giardini41; in ambito mediterraneo la si utilizzava anche per lo scavo di canali di irrigazione. Per quanto riguarda il bipalium invece, pare che in origine esso fosse una doppia pala con due lame triangolari saldate alla base. Lo si adoperava impugnandolo con entrambe le mani al fine di garantire uno scasso profondo, un’operazione che veniva facilitata dell’ausilio della staffa, che aiutava la penetrazione della lama sfruttando la pressione esercitata dai piedi. Ciononostante è attestata iconograficamente l’esistenza di

bipalia provvisti di vangile su entrambi i lati. Questo tipo di attrezzo era infatti usato

per lo scasso profondo di terreni pesanti42 (come ad esempio i vigneti), nello scavo di fosse per piantare alberi43 oppure per rimescolare il terreno44. Le testimonianze iconografiche che raffigurano questo tipo di manufatto ne illustrano l’utilizzo anche da parte dei fossori nelle catacombe45. Si nota comunque una certa scarsità di illustrazioni di questo manufatto, che potrebbe essere dovuta al fatto che si trattava di uno strumento usato in lavori molto umili e pesanti, solitamente riservati agli schiavi46. Solo nel medioevo i bipalia vennero ribattezzati come vangae47, termine che viene utilizzato ancora oggi in buona parte dell’Italia per indicare i tipi di pala provvisti di staffa e dotati di lama non inclinata rispetto al manico. Esemplari altomedievali a lama rettangolare e manico corto sono documentati a Belmonte e negli affreschi antelamici a Parma e Cremona48, mentre quelle rappresentate nei trattati di De Predis ed Agostino Gallo, a S. Marco a Venezia ed a Montale presentano una lama di legno coi bordi rinforzati in ferro.

41

Columella, De Re Rustica, 10. 45-46; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 18.46.

42

In questo caso poteva anche essere sostituito dal bidens. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 17.59.

43

Catone, De Re Rustica, 151.2.

44

WHITE 1967, pp. 22-23.

45

White adduce come esempio un bassorilievo proveniente dalle Catacombe di Callisto a Roma e risalente al IV secolo (Fabretti, Inscriptiones Antiquae, Romae 1699,C. VIII, no. LX, p. 514).

46

WHITE 1967, pp. 17-27.

47

Termine di radici germaniche, equivalente all’anglosassone “spaedun”, da cui discende l’attuale “spade” inglese, WHITE 1967, p. 24.

48

(31)

31 La scudicia o ferrum fossorium doveva infine essere un tipo di vanga atta ad aprire il terreno intorno alle piante49, oltre che a scavare e zappare (come indicato dal termine fossorium)50. Un’ulteriore tipologia attestata quasi esclusivamente dalle fonti iconografiche è quella della pala cum ferro o vanga ferrata, comunissima per tutta la seconda parte del medioevo nei paesi anglosassoni in quanto legata alle tipologie di suolo del centro e nord Europa, ma documentata anche in contesti italiani, dove forse è giunta dal VI-VII secolo51.

Gli attrezzi più simili alle vanghe sono le pale, costituite da una lama piatta e larga dotata di un codolo cui è fissato un lungo manico di legno. La lama è inclinata rispetto al manico ed ha una forma a cucchiaio funzionale, assieme ad altre caratteristiche come i bordi rialzati52, a spostare e rimuovere il terreno ed eventuali elementi presenti sulla sua superficie come ghiaia, malte e cementi, visto che questi attrezzi avevano un impiego anche nell’edilizia. White ha distinto 3 principali tipi di pala, utilizzati fin dall’età romana: il rutrum, la pala lignea ed il ventilabrum.

Il rutrum deriva il suo nome dal verbo latino “ruere”, ovvero “rimuovere, sollevare ed accatastare”53

. Secondo Varrone era un tipo di pala multifunzionale, i cui usi potevano variare dallo spalare sabbie alla tritatura e miscelatura di malte e cementi54. L’impiego di questo strumento non è molto chiaro almeno nelle fonti di età romana, che non menzionano apertamente un suo utilizzo nel campo dell’agricoltura: a causa di questa carenza di dati (e della scarsa affidabilità delle ipotesi ricostruttive mosse dagli storici antichi a partire dal nome dell’attrezzo) il legame con le azioni di accumulo e la rimozione che si riscontra nel moderno campo etimologico fornisce un

49 Isidoro, Etymologiae, 20.14.7. 50 Vedi WHITE 1967, p.p. 25-26. 51 ZAGARI 2005, p. 34, p. 119. 52

Si tratta di un accorgimento funzionale per contenere il materiale di scavo, WHITE 1967, p. 28.

53

Varrone, De Lingua Latina, 5.134.

54

(32)

32 indizio molto indicativo per stabilire quali fossero i suoi utilizzi originali. Il verbo

ruere pare inoltre connesso al concetto di scavo profondo, e ciò, se confermato,

indicherebbe che il rutrum era un tipo di pala che poteva svolgere gli stessi compiti della vanga: difatti i manufatti di questo tipo dovevano servire a lavorare il suolo prima dell’aratura o della zappatura per mezzo di sarcula (meno indicati tra l’altro dei rutra per eseguire scassi in profondità). Gli unici reperti collegabili a questa tipologia di attrezzo sono gli esemplari conservati al museo del castrum di Saalburg (sorto lungo l’antico limes germanico ed attualmente ubicato nei dintorni della città di Bad Homburg in Assia), che dovevano far parte dell’armamentario da scavo in dotazione ai legionari. Nei paesi mediterranei si riscontrano comunque manufatti dalla funzionalità analoga ed in tempi relativamente recenti strumenti simili sono stati adoperati anche in scavi archeologici in Grecia, Palestina e Nordafrica. È a questi strumenti che somigliano le pale medievali, con peso e dimensioni ridotte55 oppure con lama arrotondata, triangolare, leggermente concava e dotata al centro di una piccola costolatura56. Nell’alto medioevo esemplari di pala utilizzati in ambito agricolo sono attestati a Belmonte (TO) e Villa Clelia (Imola).

Di seguito é presentata una tabella che illustra schematicamente i tipi di strumento e le fonti che ne parlano.

55

Come avviene negli esemplari di villa Clelia, BARUZZI 1987 p.

56

Come si riscontra negli esemplari rinvenuti a Roma rispettivamente nel giardino del Conservatorio di S. Caterina della Rosa e nella Crypta Balbi, SPINOLA TESEI 1989, p. 185, SFLIGIOTTI 1990, pp. 526-527.

(33)

33

57

Le illustrazioni sono tratte da WHITE 1967, rispettivamente alle pp. 17-20 (figg. 1-2-3); 23 (fig.5); 26 (fig.6); 27-29 (figg. 7-8-9).

58

WHITE 1967, p. 24.

Nome attrezzo Illustrazione57 Fonti di riferimento Passaggi citati

Pala-Vanga Varrone, De Lingua

Latina, 5.134.

“pala a pangendo”

Columella, De Re

Rustica, 10.45-46.

“tum mihi ferrato versetur robore palae/ dulcis humus (..)”

Plinio il Vecchio,

Naturalis Historia,

XVIII, 46.

“iuncosus ager verti pala debet; aut in saxoso bidentibus” Palladio, De Re Rustica, 1.43.3. “serrulas minores, vangas, runcones, quibus vepreta persequimur” Bipalium (= vanga58) Catone, De Agri cultura, 6.3 (cf. Varrone 1.24.4, Columella 4.30.3, Plinio il Vecchio XVI. 173) Catone, De Agri cultura, 45.1. Su come impiantare un roseto: “id (harundinetum) hoc modo serito: bipalio vertito”

Sulla cura e lo scasso negli uliveti:

“locus bipalio subpactus siet beneque terra tenera siet beneque glittus siet”

(34)

34

Varrone, De Re

Rustica, 1.37.5

Sull’impianto di alberi:

“ad quaedam bipalio

vertenda terra plius aut minus” Columella, De Re Rustica, 3.5.23 Columella, De Re Rustica, 5.6.6 (cf. Plinio il vecchio XVII, 69-XVIII.230, XVIII.236) Columella, De Re Rustica, 11.2.17 Columella, De Re Rustica, 11.3.11 Columella, De Arboribus, 1.5 (sull’allevamento delle viti) “isque

(ager) bipalio prius subigi debet, quae est altitudo

pastinationis, cum in duos pedes et semissem convertitur humus”

(sulla cura degli olmi) “igitur pingui

solo et modice humido bipalio terram pastinabimus”

(sullo scasso per le viti) “ pastinatur

autem terreni iugerum ita, ut solum (..) ad bipalium quae est altitudo duorum pedum, operis XL”

(indicazioni per preparare un orticello da cucina) “at ubi

copia est rigandi, satis erit non alto bipalio, id est minus quam duo pedes ferramento novale converti”

(sulla cura delle viti)

“sat erit bipalio vertere quod rustici vocant sestertium” Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XVII. 159 (sulla preparazione di superfici di coltura o vigne)”solum apricum et quam mollissimum in seminario sive in vinea bidente pastinari debet ternos pedes, bipalio aut marra reici quaternum pedum fermento, ita ut in

(35)

35 pedes binos fossa procedat”

Scudicia (= ferrum fossorium)

Isidoro,

Etymologiae, 20.14.7

“scudicia dicta eo,

quod circa codicem terram aperiat; et quamvis eius usus in reliquis operibus habeatur, nomen tamen ex codice retinet. Hanc alii generaliter fossorium vocant, quasi fovessorium” Ferrea (= pala ferrea?) Non esistono rappresentazioni grafiche certe Catone, De Agri cultura, 10.3 ( cf. Varrone, De Re Rustica 1.22.3) Catone, De Agri cultura. 11.4 ( cf. ibidem) (dall’inventario degli attrezzi di olivicoltura) “ferreas VIII” (dall’inventario degli attrezzi di vitivinicoltura) “ferreas X”

Pala cum ferro

Strumento non menzionato dagli antichi trattatisti di agronomia

Rutrum Varrone, De Lingua

Latina , 5.134 “rutrum ruitrum a ruendo” Festo, De Verborum significatu, 263 “rutrum dictum, quod eo harena eruitur” Catone, De Agri Cultura, 37. 2 (sulla produzione di concime dagli scarti di lavorazione delle

(36)

36 Ibid. 10.3 Ibid. 11.4 olive)”permisceto rutro bene” (attrezzi per la piantatura degli olivi)

“Rutra V”

(attrezzi per la vigna) “rutra IV”

Palladio, De Re

Rustica, 1.15

(per una corretta modalità di impasto della malta) “quae

inductio tam diu subigenda est, ut rutrum, quo calx subigitur, mundum levemus” Livio, Ab Urbe Condita, 28.45 “Arretini secures, rutra, falces, alveolos, molas (..) polliciti sunt” Vitruvio, De Architectura, 7.3

“dum ita materies temperetur, uti cum subigitur non haereat ad rutrum”

Vegezio, De Re

Militari, 2.25

(lista di strumenti in dotazione alle legioni del tardo impero)

“bidentes, ligones, palas, rutra”

Pala lignea Non esistono illustrazioni certe di questo strumento

Catone, De Agri

cultura, 11.5

(37)

37 Aratro

L’aratro è l’unico strumento che dall’età del ferro abbia subito un’evoluzione significativa, in merito dell’importanza cruciale che ha rivestito nelle tecniche agricole, fungendo da moltiplicatore della resa produttiva ed innescando di conseguenza una rivoluzione nella produzione rurale con grandi ricadute per lo sviluppo economico e culturale. Questo tipo di manufatto risale al 6000-5000 a.C. circa59 e sostanziamente deriva dall’idea di utilizzare un bastone da scavo trattenendolo e forzandolo verso terra ed allo stesso tempo trainandolo in avanti, così che tracci nel terreno un solco profondo quanto basta per garantire una semina. Di conseguenza i primi tipi conosciuti di aratro erano molto semplici e consistevano in porzioni di tronchi d’albero sagomate ed appuntite all’estremità che fungevano da piede per solcare il terreno unite ad un ramo lungo e robusto che serviva per il traino (bure). Nei secoli ci sono state delle variazioni come l’adozione (avvenuta verso il 1000 a.C.) dei vomeri in ferro al posto di quelli precedenti in pietra, legno abbrustolito, corno, rame e bronzo, che ha segnato il passaggio dall’aratro per l’assolcatura da semina all’aratro da dissodamento propriamente detto60

, ma le principali forme funzionali rimasero comunque praticamente invariate fino all’età medievale. Per tutto questo periodo di tempo si possono distinguere due grandi raggruppamenti tipologici che gli aratrologi hanno riscontrato a partire dalle incisioni rupestri camune, ovvero l’aratro tipo massa, predominante nell’Europa Occidentale e detto anche a ferro di lancia-bastone, in quanto presenta una struttura a ceppo allungato ed (a partire dall’età dei metalli) un vomere a ferro di vanga. Un’altra

59

Nel nostro paese è stato però introdotto a partire dal 3000 a.C., per ulteriori approfondimenti vedi FORNI 2002a, pp. 102-108

60

Si tratta di un tipo di aratro dotato inoltre di forma più robusta, stiva più tozza e manicchia (che conferisce maggiore manovrabilità, tanto che nessun aratro dell’età del ferro necessitava di essere guidato a due mani. Queste considerazioni sono state tratte dallo studio statistico effettuato sulle quarantaquattro raffigurazioni di aratro della Valcamonica, dove nessun aratro in ferro presenta una forma particolarmente lunga. FORNI 2002a, pp. 120-123.

(38)

38 grande tipologia è quella dell’aratro Riss, forse originario dell’Europa Sarmatica61: infatti questo aratro é caratterizzato da un ceppo-vomere corto che fende verticalmente il terreno, particolarmente funzionale per porre a coltura appezzamenti di prateria in quanto taglia molto bene la cotica erbosa superficiale62. Mentre alla tipologia Riss corrispondevano dunque aratri instabili e faticosi da condurre ma facilmente sollevabili da terra in presenza di eventuali ostacoli, molto indicabili per terreni ad alta adesività63, gli aratri tipo massa si presentavano molto più stabili e facili da manovrare grazie alla posizione bassa del loro centro di gravità ed alla pressione che i maneggiatori esercitando sulla stiva64 andavano a sommare all’attrito del vomere65. Questo tipo di aratro era dunque adatto a terreni asciutti e senza pietre e radici, tipici delle regioni mediterranee, che presentavano aree coltivate già da secoli o millenni. L’aratro tipo Riss invece era diffuso in area padana centro-occidentale, orientale e nella Venezia Giulia, ovvero nelle aree di tradizione celtica66. Per quanto riguarda le fonti si possono trovare molti riferimenti al tipo massa nei testi di agronomi ed autori rustici latini come Varrone, Catone e Palladio67. Esistono anche molte riproduzioni figurate oppure in scala negli ambiti greco-romano ed etrusco (principalmente bronzetti votivi e raffigurazioni numismatiche). Sul piano della documentazione archeologica invece se i reperti per questa classe si riducono ai

61

Anche se la sua presenza in Valcamonica precede quella presunta in area sarmatica e fa propendere gli studiosi per un’origine piuttosto circum-mesopotamica, da dove poi sarebbe stato esportato in area euro-mediterranea, FORNI 2002a, p. 125.

62

Anche se la posizione verticale del ceppo comporta una rapidissima usura del vomere, specialmente se non è metallico.

63

Il vomere infatti veniva sottoposto ad uno sforzo limitato di trazione in quanto solo esso veniva immerso nel terreno, ZAGARI 2005, p. 120. Del tipo a ceppo-vomere verticale invece si hanno rare attestazioni, come il modellino di Talamone ed (in parte) l’esemplare di Cornaggia Castiglioni (WHITE 1962, pp. 39-57; FORNI 1989, pp. 312-313, 321-323, FORNI 2002b, p. 94).

64

La stiva infatti è sempre perpendicolare al ceppo (lungo, stretto e senza ali), arrivando all’altezza dell’ombelico dell’aratore

65

Questo elemento si presenta inoltre legato al vomere con legacci od anelli e per mezzo di un’ immanicatura ad unghia-ditale

66

Non mancavano forme ibride, specialmente nelle regioni centromeridionali dell’arco alpino (per approfondimmenti, FORNI 2002b, p. 96).

67

(39)

39 soli vomeri metallici altrettanto non si può dire per il tipo Riss, del quale si sono conservati perfettamente numerosi esemplari, rinvenuti in acquitrini e paludi dell’Europa settentrionale.

(40)

40

Le componenti dell’aratro

Per quanto riguarda la struttura di questa tipologia di attrezzi, sfortunatamente le fonti antiche sono pochissime: la descrizione più completa infatti pare essere quella di Virgilio nel primo libro delle Georgiche, dove vengono elencate 4 componenti dell’aratro, mentre altri autori come Isidoro ne menzionano solo 368

, ed occorre anche notare che tutti questi autori tendono ad un tipo di trattazione separata delle singole componenti più che ad uno studio che tenga concretamente conto dello strumento e del suo funzionamento complessivo. Le uniche eccezioni sono rappresentate da Columella, che descrive lo strumento durante il suo funzionamento, e Palladio, che illustra sinteticamente l’esistenza di 2 tipi fondamentali di aratro, uno semplice ed uno denominato auritum in quanto munito di orecchie. Le restanti speculazioni di carattere etimologico degli autori antichi sono in linea di massima errate e fuorvianti. Un’ulteriore fonte è Plinio il Vecchio, che nonostante non fornisca una descrizione d’insieme di questo attrezzo offre comunque sia un’affidabile testimonianza riguardo i tipi in uso alla sua epoca che una delle poche testimonianze esistenti sui tipi di aratro muniti di avantreno. Le testimonianze iconografiche dei monumenti antichi rappresentano anch’esse un archivio assai vasto, anche se non sempre affidabile69 (un’eccellente eccezione è rappresentata dal mosaico rinvenuto a Cherchel in Algeria, dove in entrambi i registri superiori della figurazione la struttura degli aratri rappresentati è chiaramente visibile. Questa penuria di dettagli accurati nelle fonti, unitamente ad una lunga serie di studi

68

Virgilio, Georgiche I, vv. 169-172, 174; Varrone, De Lingua Latina 5, 134 ; Isidoro, Etymologiae, 20.14.2. Va fatto notare in proposito che la testimonianza di Virgilio omette tout court qualsiasi riferimento ai vomeri, non avendo presumibilmente l’autore interesse ad una completa trattazione scientifica.

69

Per esempio è molto comune che nelle rappresentazioni numismatiche ci sia una certa stilizzazione, oltre all’ inevitabile occultamento di alcune porzioni dello strumento dovuto alla presenza dei buoi ed al solco nel terre: queste soluzioni rappresentative spiegano la scarsità di dettagli per questo tipo di documentazione, FORNI 2003.

(41)

41 generalmente isolati ed eseguiti perlopiù da studiosi poco esperti delle effettive componenti meccaniche degli aratri ha fatto sì che molte delle ipotesi ricostruttive elaborate in passato si siano rivelate non funzionanti alla prova dei fatti. A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge anche il fatto che per lungo tempo la resa terminologica nelle traduzioni dai trattatisti latini è stata molto approssimativa, e che solo a partire da White negli anni ’60 si è cominciato a rimediare a questo grave limite, stabilendo una terminologia specialistica fissa e precisa. Se la distinzione di componenti interne dell’aratro come vomere, stiva, maniculae e timone non si è rivelata difficile, altrettanto non può dirsi per la bure ed il dentale:

1) Dentale-ceppo:

questo termine designa una componente essenziale dell’aratro, ovvero il suo piede ligneo, spesso confuso col vomere dagli autori latini in quanto quest’ultimo solitamentesi presenta come il suo rivestimento metallico.70

Plinio riporta che tutti gli aratri comuni (volgare genus) avevano questo tipo di protezione.71 Per quanto riguarda invece l’esistenza di un piede a doppio dorso come citato da Virgilio72 esistono due interpretazioni differenti: se per alcuni studiosi infatti il termine duplex significa “scanalato”, per molti altri questo termine designa un tipo di piede che nella parte posteriore si divide in 2 sezioni73. Dal momento che il modello di aratro ipotizzato dai sostenitori della prima teoria74 non ha riscontro nei dati archeologici la seconda ipotesi

70

L’usura che l’attrito contro il suolo causava era infatti molto aggressiva, ed un guscio metallico di rivestimento impediva dunque che il manufatto si consumasse troppo rapidamente, WHITE 1967, p. 130.

71

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 18. 171-2.

72

Virgilio, Georgiche, 1.172.

73

Aratri biforcati di questo tipo sono infatti comuni in Italia, tanto che erano ancora in uso negli anni ‘60 del secolo scorso presso la popolazione rurale della baia di Taranto, WHITE 1967, p.130.

74

Nello specifico la teoria più accreditata era che in questo caso il vomere dovesse essere dotato di una linguetta longitudinale apposita per fissarsi alla scanalatura del piede, WHITE 1967, Ibid.

(42)

42 appare la più plausibile: questo tipo di accorgimento infatti aveva il pregio di ottenere una resa maggiore rispetto ai tradizionali aratri simmetrici, permettendo anche all’aratore di tracciare un solco ben definito. Una rappresentazione fedele di questo tipo di aratro viene data oltre che dagli esemplari moderni italiani da un antico bronzetto votivo rinvenuto in Inghilterra nel Sussex ed attualmente conservato al British Museum (tav.1a).

2) Bure:

si tratta di un elemento strutturale ricurvo e distinto dal piede (componente che esso anzi connette funzionalmente al timone75). La confusione talora sorta intorno a questa parte si deve principalmente a due fattori, l’inaccuratezza delle affermazioni negli autori antichi e l’evoluzione formale che lo strumento ha seguito: se Varrone infatti descrive la bure come una singola asta ricurva che connette i buoi al piede dell’aratro in altre fonti si vede come timone e bure, sebbene connessi, siano due elementi ben distinti. Ogni perplessità a tale riguardo può essere superata tramite il confronto operato da White tra queste 3 tipologie di aratro:

a. Tipo primo o primitivo: in esso piede, bure e timone sono tutti ricavati

da un singolo pezzo di legno, solitamente una sezione di tronco con ramo annesso (tav.1b, fig. 1).

b. Secondo tipo: in questo caso la bure è incassata nel piede orizzontale

e prosegue incurvandosi più o meno fino al timone. Questo tipo corrisponde all’aratro descritto da Isidoro, con bure e dentale separati

75

Il timone invece è l’asta dove si aggiogano le bestie da traino che forniscono allo strumento la potenza motrice necessaria ad adempiere il suo dovere, WHITE 1967, p. 131.

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