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L’abuso del processo tributario: con particolare riferimento agli strumenti di tutela cautelare

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT Corso di Laurea magistrale in Consulenza

Professionale alle Aziende

TESI DI LAUREA

L’abuso del processo tributario:

con particolare riferimento agli strumenti di tutela cautelare

Relatore Controrelatore Prof.re Simone Lombardi Prof.re Nicolò Zanotti

Candidata Elisa Della Pina

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Alla mia famiglia, fonte di amore incondizionato.

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Indice sommario

Introduzione……….VI

Capitolo I

L’abuso del processo civile ed amministrativo

1.1 Dall’abuso del diritto all’abuso del processo………..8 1.2 Abuso del processo: tra diritto di azione e giusto processo.………..14 1.3 Sanzioni e rimedi previsti dal nostro ordinamento

in caso di abuso del processo………...23

Capitolo II

L’abuso del processo tributario

2.1 Alla ricerca di possibili fattispecie………34 2.2 I casi di abuso riconosciuti dalla giurisprudenza………..41 2.3 I rimedi applicabili alle situazioni di abuso………46

Capitolo III

La tutela cautelare come possibile caso di abuso

3.1 Possibile abuso nel processo tributario delle misure cautelari………50 3.2 L’abuso dello strumento cautelare da parte del contribuente………..52 3.3 L’abuso dello strumento cautelare da parte

dell’Amministrazione finanziaria……….57 Conclusioni……….63

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Introduzione

Negli ultimi anni, il tema dell'abuso del processo ha suscitato grande interesse in dottrina e giurisprudenza, le quali si sono interrogate non solo sulla possibilità dalla astratta configurabilità dell'abuso, ma sui casi in cui lo stesso può essere ravvisato e sui limiti entro i quali le condotte abusive possono essere sanzionate, nel necessario rispetto del diritto di azione e di difesa.

Tale interesse è dovuto al fatto che sia innegabile come la realtà offra moltissimi esempi di utilizzo distorto degli strumenti processuali, anche nel processo tributario: dalle azioni promosse con intenti emulativi, alle resistenze opposte per finalità defatigatorie, ai comportamenti fraudolenti finalizzati ad assicurarsi con mezzi sleali l'esito favorevole della lite.

È da ritenersi conseguenza di tale focus sul tema non solo l’osservazione della realtà empirica dei processi, ma anche del mutato contesto normativo, in quanto la costituzionalizzazione del principio del giusto processo e della sua ragionevole durata rende necessario il bilanciamento fra il diritto del singolo all’utilizzo dello strumento processuale è quello della collettività, ossia il sistema di giustizia non sia compromesso da comportamenti che ledono l’efficienza della macchina giudiziaria.

Si tratta quindi di un tema nel quale a questioni più strettamente teoriche si affiancano scelte di politica legislativa e soprattutto giudiziaria e che impone la ricerca di un non facile equilibrio fra la necessità di assicurare il diritto di azione e di difesa e l’esigenza di garantire che il processo oltre a svolgersi in tempi ragionevoli, sia veramente giusto, termine, questo inconciliabile con comportamenti che non siano improntati a correttezza, buona fede e lealtà.

L’oggetto del presente lavoro sarà, quindi, l’abuso del processo, con particolare interesse per il processo tributario, in quanto nel nostro settore ancora non è stato dato, soprattutto dalla giurisprudenza, un particolare peso a tele fenomeno. Soltanto di recente sta nascendo un interesse, anche nel contenzioso tributario, di individuare e sanzionare le possibili condotte abusive.

Nel primo capitolo, si affronterà il tema in ambito civile ed amministrativo per comprendere al meglio il fenomeno studiato, passando dalla definizione di abuso del diritto a quella di abuso del processo, nonché focalizzando la nostra attenzione sul diritto d’azione e il principio del giusto processo, per poi analizzare le sanzioni ed i rimedi previsti dal c.p.c. e c.p.a..

Nel secondo capitolo, trasleremo i principi che permettono di qualificare tale abuso cercando di individuare le fattispecie che nel contenzioso tributario costituirebbero

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abuso dello strumento difensivo ed i casi, fin ora, rilevati dalla giurisprudenza; esaminando, poi, quali siano i rimedi previsti, in caso di un abuso processuale, dal nostro ordinamento.

Da ultimo parleremo della possibilità di abuso, come strumento processuale, della tutela cautelare, data la sua importanza, attribuita dal nostro ordinamento a garanzia del principio di effettività della funzione giurisdizionale del processo. Passeremo poi ad analizzare un possibile abuso di tale strumento, prima da parte del contribuente ripercorrendo la disciplina della tutela cautelare ex articolo 47 del d. lgs. n. 546/1992 e successivamente da parte dell’Amministrazione finanziaria ripercorrendo la disciplina delle misure a tutela del credito erariale ex articolo 22 del d.lgs. 472/1997.

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Capitolo I

L’abuso del processo civile ed amministrativo

1.1 Dall’abuso del diritto all’abuso del processo. 1.2 Abuso del processo: tra diritto di azione e giusto processo. 1.3 Sanzioni e rimedi previsti dal nostro

ordinamento in caso di abuso del processo.

1.1 Dall’abuso del diritto all’abuso del processo.

Per comprendere a pieno l’oggetto del nostro lavoro, è necessario partire dalla definizione di abuso del diritto, che costituisce il più vasto genus dell’abuso del processo.

L’accostamento del termine diritto a quello di abuso inizialmente apparirebbe come un ossimoro. Secondo la definizione tradizionale il diritto o, più specificatamente, il diritto soggettivo, è il potere di agire per soddisfare un interesse individuale protetto dall’ordinamento giuridico.

Al soggetto titolare del diritto l’ordinamento attribuisce una serie di poteri il cui esercizio è pienamente lecito, ancorché dallo stesso consegua la compressione o la frustrazione di interessi altrui.

In linea di principio, pertanto, dalla suddetta liceità del comportamento consegue che chi esercita correttamente un proprio diritto non può commettere un atto illecito e quindi non può essere tenuto a risarcire il danno.

Coloro che ipotizzano la configurabilità di un abuso ammettono, però, che l’esercizio di quel diritto, tutelato e protetto dalla legge, possa essere fonte di responsabilità.

La nozione di abuso viene elaborata dai glossatori e dagli scrittori del diritto comune come strumento di raccordo fra la sfera del diritto e quella della morale. La dottrina è concorde nel ritenere che le più interessanti e meritevoli riflessioni in materia di abuso si svilupparono con le critiche alle ideologie dei codici liberali dell’Ottocento da parte di quelle correnti di pensiero che rinvenivano nei codici un’intrinseca contraddizione fra la libertà e l’uguaglianza formale da questi esaltata e la stridente situazione di disuguaglianza reale fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

Questo stridente contrasto fu messo in risalto sia da giuristi ispirati dalla ideologia cattolica, sia da quegli studiosi che interpretavano gli istituti giuridici muovendo dai principi della teoria marxista1.

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Tali concezioni dell’abuso finiscono, quindi, per risolversi in una valutazione sulla moralità dell’atto o sulla meritevolezza sociale dello stesso e conducono, necessariamente, da un sistema di diritto positivo, ad un indagine sui motivi e sulla causa dei negozi giuridici2.

Il nostro ordinamento, invece non riconosce alcuna rilevanza al motivo (con l’unica eccezione di quello comune, determinante ed illecito ex art. 1345 c.c.) e concepisce la causa come tipica, tipicità che presuppone quel consenso della collettività dalla cui mancanza sorgerebbe l’abuso.

Si può, pertanto, dire che l’abuso può fare ingresso nel nostro sistema in quanto venga concepito come comparazione di interessi in conflitto di interessi nello svolgimento di un rapporto.

In nome della certezza del diritto il legislatore del ’42 preferì non inserire nella stesura definitiva del nostro codice civile il precetto generale “nessuno può

esercitare un proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato riconosciuto” che nel progetto era stato, invece, collocato

nelle “disposizioni sulla pubblicazione e l’applicazione della legge in generale”, all’art. 7.

L’opzione seguita fu, invece, quella di individuare e tipizzare singole ipotesi di “abuso”, non solo in tema di esercizio del diritto di proprietà, con l’art. 833 c.c., e della responsabilità genitoriale, il cui abuso è represso dall’art. 330 c.c., ma anche in relazione al potere di autonomia contrattuale, limitato nei diversi ambiti delle trattative, della conclusione e della esecuzione del contratto dagli art. 1337, 1438, 1447 e 1375 c.c. .

Era prevedibile che la questione si ponesse a livello comunitario, e fosse affrontata dalla Corte di Giustizia, chiamata ad interpretare il diritto dell’Unione ed a valutare la compatibilità con lo stesso dei singoli ordinamenti nazionali3.

La Corte ha ritenuto senz’altro configurabile l’abuso, inteso come strumento di controllo dell’esercizio dei diritti soggettivi, ed ha evidenziato che il diritto dell’Unione non impedisce ai giudici nazionali di applicare una disposizione di diritto interno che reprima l’esercizio abusivo del diritto, anche se detto diritto è attribuito da una norma giuridicamente sovraordinata quale è quella comunitaria4. L’elaborazione giurisprudenziale è stata recepita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000.

2 Basta infatti considerare come l’indagine sulla moralità dell’atto, si sostanzi in una indagine sui motivi

dello stesso, mentre quella sulla socialità o meritevolezza sociale, sia in realtà un’indagine sulla causa, risolvendosi nella ricerca dell’interesse meritevole di tutela.

3 Sulla nozione di abuso di diritto in ambito comunitario si rinvia a M. Gestri Abuso del diritto e frode alla

legge nel diritto comunitario, Milano, 2003, p.21 e ss.

4 Corte di Giustizia 23 marzo 2000, in causa C 373/1997, in Raccolta 2000, I, 01705 ove si afferma che “Il

diritto comunitario non osta a che i giudici nazionali applichino una disposizione di diritto interno che consenta loro di valutare se un diritto riconosciuto da una norma comunitaria venga esercitato in modo abusivo.”

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L’art. 54 della carta, infatti, riproducendo il contenuto dell’art. 17 della CEDU, fa espresso “divieto dell’abuso del diritto” e, con il chiaro intento di scongiurare una attuazione impropria dei diritti e delle libertà, prevede che:

“ nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di

comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta”.

Attraverso il divieto dell’abuso la Carta persegue con evidenza l’obiettivo di realizzare un adeguamento fra opposti interessi entrambi ritenuti meritevoli di tutela, escludendo che un diritto possa essere intenzionalmente esercitato con modalità tali da annullare o comprimere in modo eccessivo e non necessario, altra posizione giuridica soggettiva tutelata dal trattato.

Il dibattito che aveva accompagnato la codificazione, a cui sopra si è fatto cenno, proprio per le ragioni ideologiche sottese alla diverse posizioni, era destinato a riaccendersi in occasione dei lavori della Assemblea Costituente, nel corso dei quali non mancò la proposta di costituzionalizzare il divieto prevedendo che “nessuno può esercitare il proprio diritto per uno scopo diverso da quello per il quale gli è stato attribuito”5.

Non a caso, quindi, la sentenza della Corte di Cassazione n. 20106/20096, che ha riacceso il dibattito sulla configurabilità dell’abuso come istituto di carattere generale, valorizza proprio il dettato costituzionale e lo pone a confronto con il quadro normativo preesistente, per sottolineare che, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, si impone una rimeditazione del concetto di abuso, al quale deve essere riconosciuta una valenza di carattere generale, andando al di là delle singole ipotesi nelle quali è espressamente previsto dal codice.

L’abuso diviene così uno strumento idoneo a tutelare le più svariate situazioni nelle quali dall’esercizio distorto è scorretto di un diritto, consegue la lesione di un interesse altrui.

Ad avviso della Corte “per abuso del diritto si deve intendere l’esercizio di un

diritto, riconosciuto dalla legge o da un contratto, finalizzato non al

5 L’emendamento venne proposto, nel corso della seduta del 28 marzo 1947, da Giuseppe Codacci Pisanelli

il quale sottolineò che “come nel campo del diritto pubblico ogni autorità deriva il suo potere in relazione ad un fine determinato…nello stesso modo, applicando questi principi nel diritto privato, si è visto come ogni facoltà, ogni interesse protetto in modo particolare attribuito ai singoli, venga attribuito e tutelato in vista di uno scopo determinato. Quando il diritto viene usato per uno scopo diverso da quello per cui è stato attribuito, evidentemente si commette un abuso dannoso alla società che sarebbe opportuno fosse vietato in genere proprio nella costituzione”. Il testo dell’intervento è riportato da G. Cazzetta, op. cit. p. 101.

6 Cass. III 18 settembre 2009 n. 20106 in Guida al diritto, 2009, 40, p.38 con nota di P. Pirruccio La

clausola di recesso ad nutum del contratto può configurare un’ipotesi di abuso del diritto. La buona fede e la correttezza nei rapporti diventano un vero e proprio dovere giuridico; in Giur. It. 2010, n. 4, p. 809

con nota di F. Salerno Abuso del diritto, buona fede, proporzionalità: i limiti del diritto di recesso in un

esempio di jus dicere “per principi”; in Foro.it 2010, n.1, p. 85 con nota di A. Palmieri e R. Pardolesi Della serie “a volte ritornano”: l’abuso del diritto alla riscossa.

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perseguimento di un fine ritenuto meritevole di tutela quanto piuttosto alla realizzazione di un obiettivo in contrasto con questa”.

In altri termini si definisce abusivo l’utilizzo distorto di un diritto ovverosia quel comportamento che, travalicando i limiti e la ratio sottesa all’attribuzione di quel particolare potere, miri a conseguire un interesse diverso da quello tutelato dall’ordinamento.

Dalla lettura della articolata motivazione, che da’ conto anche della evoluzione giurisprudenziale e dei precedenti pronunciamenti del giudice di legittimità, si evince che la Corte ritiene integrato l’abuso del diritto allorquando ricorrano i seguenti presupposti:

▪ Esistenza di un diritto soggettivo in capo alla parte; ▪ Possibilità di differenti modalità di esercizio del diritto; ▪ Animus nocendi, ovvero l’intenzione di nuocere ad altri; ▪ Danno ingiusto;

A differenza di quanto accaduto con l’abuso del diritto, sulla cui configurabilità dottrina e giurisprudenza si sono da sempre interrogate, l’idea che vi possa essere abuso del processo, benché non del tutto assente, è affiorata “di rado e con fatica nella giurisprudenza e nella dottrina processualcivilistica”7.

Ma, in realtà, già al tempo delle istituzioni gaiane si avvertiva la necessità di frenare l’utilizzo abusivo di strumenti processuali e di evitare il proliferare di controversie fittizie od inesistenti, mediante la previsione di specifiche sanzioni. Gaio evidenziò come per ottenere una diminuzione del ricorso alla tutela giurisdizionale, sia necessario reprimere l’utilizzo temerario del processo. Individua, quindi, nella pena pecuniaria, nella iuris iurandi religione nell’infamia i rimedi volti ad evitare che l’attore o il convenuto utilizzino, attraverso la proposizione di domande infondate o di difese inesistenti, l’istituto processuale con fini abusivi e vessatori.

Le sanzioni, che secondo Gaio, dovevano fungere da deterrente all’abuso dello strumento processuale, si collocavano su due piani differenti: quello interamente giuridico, rappresentato dalla pena pecuniaria; quello più etico-morale del giuramento o dell’infamia8.

La necessità di reprimere il fenomeno dell’abuso processuale fu avvertita dal legislatore del 19409 il quale tentò un approccio moralizzante al processo attraverso il richiamo ai doveri di lealtà e probità , che avrebbero dovuto guidare ogni condotta processuale.

7 M. Taruffo, Elementi per una definizione di Abuso del processo, in Diritto privato III, 1997, p. 435 e ss. 8 Il giuramento nel processo consisteva nell’affermare di aver detto la verità e di essere nel giusto. Qualora

il giuramento si fosse rivelato falso o menzognero si sarebbe attirata la vendetta degli dei, i quali, secondo il comune sentire dell’epoca, non erano affatto magnanimi. Non va poi dimenticato che nel mondo romano la sfera religiosa si intrecciava in modo quasi inscindibile con quella giuridica. Per una trattazione più dettagliata si rimanda a C. Bozzacchi L’abuso del processo nel diritto romano, Milano, 2002, cap. V.

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Il monito, però, fu accolto tiepidamente, tanto che alcuni commentatori giunsero anche ad affermare che la norma non conteneva un precetto giuridico, bensì solo una direttiva di carattere morale10.

Abbandonato progressivamente, fino quasi a scomparire all’interno dell’abuso del diritto, il tema dell’abuso del processo sta, negli ultimi anni, riacquistando una sua autonomia.

Il nostro ordinamento è carente di una precisa definizione di abuso del processo. Dottrina e giurisprudenza, hanno proteso nel tempo a considerarlo quale proiezione dell’abuso del diritto11, incentrata negli articoli 88 e 145 del c.p.c., i quali impongono il dovere di lealtà e probità tra le parti ed al giudice il dovere di esercizio del potere finalizzato “al più sollecito svolgimento del processo”. Si tratta, però, di una base testuale precaria in quanto alla previsione dell’art. 88 c.p.c. non corrisponde un adeguato apparato sanzionatorio.

Solo il codice deontologico forense contiene un’azione disciplinare a carico dell’avvocato12, effettivamente esercitata dal Consiglio dell’ordine anche se raramente ed in casi eclatanti.

Autorevole dottrina13 definisce abuso del processo l’utilizzo scorretto e distorsivo degli strumenti processuali, finalizzato al conseguimento di scopi diversi ed ulteriori rispetto a quelli che gli sono propri, ovvero come sviamento dell’interesse riconosciuto dall’ordinamento, attraverso la manipolazione degli strumenti che il legislatore concede ai cittadini per soddisfare i propri fini.

Viene definito come illecito plurioffensivo14 poiché, da un lato è direttamente lesivo degli interessi della controparte processuale, dall’altro è capace di nuocere indirettamente al sistema di giustizia.

Ovvero a tale abuso viene riconosciuta una duplice prospettiva: privatistica, intesa come ricorso allo strumento processuale per fini che non gli sono propri, con dolo della parte che vi ricorra, e pubblicistica in quanto l’abuso del processo è considerato come antitesi al giusto processo e alla ragionevole durata dello stesso15.

Pertanto l’abuso, ha come presupposto il compimento di un atto, che formalmente appare lecito, o comunque conforme alle regole o ai poteri attribuiti dall’ordinamento e che solo in seconda battuta si rivela antigiuridico, in quanto l’interesse sotteso al compimento dell’atto trascende integralmente o parzialmente dai fini per i quali quell’atto è stato previsto è regolato dal legislatore.

10 E. Redenti, Diritto processuale civile I, Milano, 1952, p. 188, che parla di un “criterio generico (piuttosto

che generale) vagamente moraleggiante”.

11 Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1209 del 02.03.2012, ha affermato che il divieto di abuso del diritto

diviene anche abuso del processo, inteso quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategia di difesa.

12 Articolo n. 9 codice deontologico forense, Doveri di proibita, dignità, decoro e indipendenza. 13 In tal senso M.F. Ghirga, Abuso del processo e sanzioni, Milano 2012, p.27 e ss.; Dondi-Giussani

Appunti sul problema dell’abuso nel processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. Trim. dir.

e pro. Civ., 2007, p. 193 e seg. Taruffo op. cit..

14 M.F. Ghirga, Abuso del processo e sanzioni, Milano 2012, p.30 e ss.

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L’abuso del processo, al pari di quello del diritto, non si presta ad essere semplificato e ridotto all’antitesi fra ciò che è giusto e ciò che non lo è, fra ciò che è consentito e ciò che è vietato.

Necessita, invece, di una valutazione diversa ed ulteriore, poiché nell’individuare l’abuso il giudice è chiamato ad indagare sui motivi sottesi al compimento delle azioni processuali, che, in quanto atti discrezionali, si prestano ad utilizzi distorti, scorretti o nocivi.

La discrezionalità dell’atto è, quindi, un presupposto necessario dell’abuso giacché, solo qualora la parte possieda una libertà di scelta che trascenda la mera alternativa fra il compimento dell’atto o il non compimento dell’atto, vi può essere spazio per una figura diversa dal semplice atto illecito16.

La dottrina17 ritiene necessario, inoltre, distinguere l’abuso del processo dall’abuso

nel processo.

Si definisce abuso nel processo quelle tecniche o quei comportamenti che, partendo da un’attività pienamente lecita, distorcono o abusano di un mezzo di tutela, disciplinato e previsto dal legislatore, per raggiungere determinati fini che non sarebbero consentiti.

Si tratta, quindi, di un’attività che si svolge e si completa nel processo, al suo interno, e che si sostanzia nell’abuso di uno o più atti processuali.

L’abuso del processo, al contrario, si configura come “abuso della tutela giurisdizionale globalmente intesa18ed allo stesso possono essere ricondotte specifiche ipotesi, le azioni poste in essere al solo scopo di recare disturbo alla controparte o pregiudizio all’avversario19, nonché le azioni atte ad ottenere un vantaggio dall’avversario che altrimenti non si sarebbe conseguito20 o che si sarebbe conseguito più lentamente21.

16 Per un maggior approfondimento si riamanda a M.Taruffo Elementi per una definizione di abuso del

processo, p. 441 e ss. e L. P. Comoglio Abuso del processo e garanzie costituzionali in Riv. Dir. proc.

2008, p. 327 e ss..

17 M.Taruffo op. cit..

18 M. Taruffo Elementi per una definizione di abuso del processo, p. 437

19 Si pensi all’impiego del processo come strumento di concorrenza sleale, ovverosia quando la

proposizione di un’azione contro un proprio concorrente, integralmente diffamatoria, sia posta in essere con il solo fine di metterlo in cattiva luce con la propria clientela. Nonostante sia ragionevole presumere che la causa sarà persa, il litigante avrà raggiunto il suo scopo: ingenerare un dubbio nella collettività dei consumatori e piegare il mercato a suo favore. P. Calamandrei Il processo come giuoco in Riv. Dir. Proc. 1950 p. 23 e ss.

20 P. Calamandrei op. cit.

21 Si pensi alla proposizione di una causa al solo, fine di portare la controparte, poco incline alla lite, ad una

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1.2 Abuso del processo: tra diritto di azione e giusto processo.

Volendoci occupare dell’abuso del processo civile ed amministrativo, non si può non considerare l’articolo 24 ed l’articolo 111 della Costituzione.

Si tratta di due principi costituzionali, sanciti anche a livello europeo22, i quali debbono coesistere tra loro laddove il possessore di un diritto voglia farlo valere in giudizio.

Così da una parte abbiamo l’art. 24 Cost., il quale al primo comma recita: “Tutti

possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.

Dall’altra l’art. 111, primo comma, Cost., “ La giurisdizione si attua mediante il

giusto processo regolato dalla legge”23.

L’art 24 Cost., mediante la preposizione per, coordina l’agire in giudizio, quale diritto del singolo individuo di accesso ai tribunali, all' esigenza di tutela di una situazione sostanziale, escludendo, pertanto, che l’uso di mezzi giurisdizionali possa essere asservito a interessi diversi.

Ecco che subentra il problema del c.d. Abuso del processo, che si fonda sulla considerazione degli altri scopi ed effetti, che un soggetto, esercitando il potere di azione, si propone di conseguire.

Si potrebbe ipotizzare, allora, che l’espressione abuso del processo, o meglio

dell’azione giudiziale, fotografi il negativo del diritto di agire, nel senso che

rappresenti, nel momento del suo esercizio, e dunque dell’assunzione dell’iniziativa processuale, la sua negazione intesa come malafede del soggetto agente, sulla quale torneremo.

Pertanto, entrambe le norme sono poste a garanzia dei diritti individuali del cittadino, mentre l’art. 24 ha come diretto referente il singolo titolare di situazioni giuridiche sostanziali, che in quanto tale è legittimato a richiederne la tutela in sede giudiziaria; l’art. 111 allude alle modalità di esercizio dell’attività giurisdizionale che, in virtù di interessi, non solo del singolo, ma più generali, deve svolgersi attraverso giusti processi.

Possiamo, quindi, affermare: “laddove vi è abuso del diritto di agire non può

esservi giusto processo”24.

22

Tali principi sono fissati, anche in ambito internazionale, dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, resa esecutiva in Italia con legge n. 848 del 1957, il quale al suo primo paragrafo dispone che “ogni persona ha diritto ad un equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti

ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile”.

23 L’art 111 della Costituzione è stato novellato dall’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999 n.

2, e nella sua attuale formazione prevede, al primo comma che: “La giurisdizione si attua mediante il

giusto processo regolato dalla legge”. Al secondo coma che: “ Ogni processo si svolge nel

contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

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In altri termini possiamo sostenere che l’abusivo ricorso ai tribunali impedisce agli stessi la realizzazione di quel giusto processo nel quale deve estrinsecarsi la loro attività quale esercizio del potere giurisdizionale ad essi riconosciuto. Dunque l’accesso ai tribunali, deve considerarsi funzionale alla realizzazione del giusto processo.

Ma proprio la necessità di non esasperare la possibilità di ricorrere ai tribunali, quale potere generico di agire in giudizio, ha determinato la ricerca di un filtro, individuato nell’interesse di agire stesso in quanto l’esercizio di questo diritto di iniziativa processuale è però condizionato dalla presenza dell’interesse, ovvero dal

bisogno di tutela, nozione questa che esercita una funzione selettiva rispetto alla

generica possibilità di disporre del processo per dare un assetto ai propri interessi. È noto, infatti, che in difetto di questo requisito si parla di carenza di azione. La sua assenza è elemento impeditivo della fattispecie costitutiva del diritto di azione, quale diritto ad un provvedimento di merito, comportando la chiusura del processo con una sentenza di rito.

Inoltre dobbiamo chiederci se vi sia spazio per sottoporre, l’iniziativa processuale, ad un controllo sulla meritevolezza della tutela richiesta; poiché

l’interesse ad agire, come iniziativa processuale, non esaurisce la portata dell’articolo 100 c.p.c., ma impone altresì di valutare la meritevolezza della tutela

richiesta.

In altri termini, sembra di dover sostenere che il giudizio di meritevolezza interviene quando uno degli interessi coinvolti viene affermato come leso nell’ambito di un giudizio, e dunque quando lo stesso interesse è posto a base dell’esercizio del diritto di azione.

È in questo caso necessario per il giudice chiedersi se la situazione sostanziale azionata è meritevole di essere presa in considerazione dall’ordinamento giuridico, e dunque astrattamente idonea ad ottenere tutela. Qual è lo strumento utilizzabile per compiere questa verifica?

Per rispondere a tale quesito possiamo utilizzare il parallelo25 con lo strumento contrattuale e l’autonomia privata, ovvero possiamo prendere ad esame l’articolo 1322 c.c., il quale dispone che:

“le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti

imposti dalla legge”

e prevede, nel suo secondo coma, che si possono concludere anche “contratti che

non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.

La semplice lettura di questa norma pare suggerirci una prima immediata osservazione: anche nel caso dell’autonomia contrattuale accanto ad un principio di libertà contenuto nel primo coma della norma, è pur sempre previsto, data la

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possibilità di configurare contratti atipici, un limite definito con riferimento alla meritevolezza degli interessi da tutelare, valutata in relazione all’ordinamento giuridico.

È proprio nei confronti di questi contratti atipici che diventa rilevante l’esigenza di accertare, da parte del giudice, se in essi ricorre il requisito della causa a valutazione della meritevolezza citata.

La causa è, infatti, ai sensi dell’art. 1325 c.c., uno degli elementi essenziali del contratto, e concepirla come funzione economico-sociale, significa confondere elementi del negozio e criteri di valutazione dell’ordinamento.

In questa concezione, la causa diventa l’elemento che collega l’operazione economica oggettiva ai soggetti che ne sono autori, è quindi l’indice di come il regolamento negoziale di interessi sia l’espressione oggettiva di talune finalità soggettive.

Ma allora, utilizzando il parallelismo di cui abbiamo parlato, possiamo chiederci se: la domanda giudiziale, atto attraverso il quale la situazione sostanziale entra nel processo, deve anch'essa presentare, necessariamente, il requisito causale di cui si sta discutendo.

Si tratta in sostanza di vedere se nell’ambito della disciplina degli atti processuali vi sia un qualche spazio da riconoscere al requisito causale.

La disciplina dagli atti processuali non si occupa della causa degli stessi, ma dello

scopo obiettivo dell’atto, in quanto criterio ispiratore della disciplina della forma

degli atti.

Allora se nello scopo dell’atto ravvisiamo le finalità, che nell’ambito del processo, sono attribuite all’atto stesso, emerge che tale definizione è elemento comune con la nozione finalistica di causa; del resto scopo e causa sono due concetti molto simili.

Se, dunque, la causa appare come ciò che giustifica al compimento dell’atto, è con il raggiungimento dello scopo che la stessa può dirsi realizzata.

Da tale ragionamento scaturisce il fatto che aver ricondotto l’interesse ad agire al criterio dell’utilità, comporta necessariamente un’indagine sulla presenza della “volontà” ovvero l’intenzione negli atti processuali, requisito che deve essere valutato con esclusivo riferimento al soggetto agente ed al risultato che lo stesso intende perseguire sul piano sostanziale attraverso il processo.

Ciò costringerà il giudice a non soffermarsi sulla sola verifica della sussistenza dell’interesse, quale condizione dell’azione esercitata con la domanda formulata, ma anche sulla utilità per l’attore della tutela richiesta.

Pertanto in risposta al precedente quesito possiamo concludere che: l’azione, anche se tipica, deve risultare meritevole di tutela in considerazione sia dell’utilità perseguita dal soggetto agente sia di quelli che sono i valori e i principi espressi dall’ordinamento giuridico, in quanto, la causa, quale requisito autonomo della domanda giudiziale, permette, attraverso la verifica della sua sussistenza, di

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confrontare l’esercizio di qualunque azione con i principi e valori dell’ordinamento giudiziario ed individuare così i casi di abuso della domanda giudiziale ovvero di abuso del processo.

A questo punto, il tema della “meritevolezza della tutela” deve essere affrontato sotto un’ulteriore ottica.

La nostra attenzione ricade sull’antico istituto dell’exceptio doli generalis, forse unica forma di repressione dell’abuso di matrice romana, costituisce ancora oggi un valido rimedio generale che, seppur non previsto da alcun articolo di legge, mira a difendere il contraente di buona fede da colui che, seppur in forza di un diritto previsto dall’ordinamento, agisce in modo abusivo o pretestuoso.

Sia la dottrina26 che la giurisprudenza sono solite ricondurre ad esso il principio di buona fede processuale.

Pertanto il richiamo alla voluntas nocendi, cioè alla volontà della parte di arrecare ad altri un danno, necessariamente evoca i canoni di correttezza e buona fede che permeano il diritto delle obbligazioni e dei contratti.

La buona fede che qui rileva è quella intesa in senso oggettivo, che impone alle parti di mantenere un comportamento conforme alle regole di correttezza, lealtà ed onestà.

La lettura costituzionalmente orientata del testo codicistico ha notevolmente esteso l’ambito applicativo degli articoli 1175 e 1375 c.c. che, interpretati nel combinato disposto con l’articolo 2 Cost., impongono alle parti “inderogabili doveri di solidarietà”, fra i quali spiccano gli obblighi di protezione della persona e delle cose della controparte, funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partener negoziale27

.

Il rapporto “sinergico” che lega il canone di buona fede al disposto costituzionale ha notevolmente esteso i poteri dell’organo giudicante, il quale può servirsi del principio, non solo in senso interpretativo della volontà delle parti, ma anche e soprattutto modificativo ed integrativo, divenendo strumento di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi anche in sede processuale28.

Il giudice viene, quindi, dotato del potere di sindacare la condotta processuale della parte anche in relazione agli effetti che tale condotta produce nella sfera giuridica della controparte; in altre parole, l’interpretazione costituzionalmente orientata del principio di buona fede e la conseguente trasposizione dello stesso dal piano sostanziale a quello processuale, attribuisce al giudice il potere di individuare, reprimere e sanzionare quelle condotte che potremmo definire di malafede processuale.

La rilevabilità in giudizio della malafede processuale diviene, pertanto, lo strumento per limitare l’esercizio del diritto di difesa ogniqualvolta, nel

26 C. Marseglia, Exceptio doli generalis ed exceptio doli specialis in Nuova Giu. Civ. Com. 2008, p.560 e

ss.

27 Cass. Civ. Sezioni Unite n.23723/2007 in Obbligazioni e contratti, 2008.

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comportamento assunto dalla parte, si riscontri una violazione dei canoni di correttezza, idonea a provocare un pregiudizio ai diritti della controparte.

In buona sostanza l’exceptio doli generalis sembra attualmente sovrapporsi a quella concezione della buona fede come clausola protesa a limitare funzionalmente le pretese del creditore, e in generale, anche grazie all’art. 2 Cost., l’intero panorama dell’esercizio dei diritti; in tal senso, peraltro finiscono per confondersi anche exeptio doli generalis e abuso del diritto, che a sua volta incarna in modo sempre più accentuato quest’accezione valutativo/correttiva della buona fede29.

Da qui, infine, l’ulteriore passaggio alla categoria dell’abuso del processo; la buona fede penetra nel processo sfruttando le potenzialità insite nell’exceptio doli

generalis.

Si spiega così perché una delle figure sintomatiche, oggi più ricorrenti utilizzate dalla giurisprudenza per individuare l’abuso del processo, sia rappresentata dal divieto di venire contra factum proprium, principio a sua volta tradizionalmente considerato come concreta manifestazione dell’execptio doli generalis.

È con la nota sentenza delle Sezioni Unite n. 23726 del 15 novembre 2007, in tema di frazionamento del credito, che la giurisprudenza ha individuato la fattispecie

29 Vedi sentenza n.20106/2009 della III Sez. della Cassazione. La Corte di Cassazione ha deciso così, sul

caso di una multinazionale che si era avvalsa della facoltà di recesso ad nutum prevista all’interno del contratto di concessione in vendita, lasciando in grave difficoltà le controparti contrattuali. I ricorrenti hanno impugnato la sentenza della Corte di Appello, denunciando, in particolare, la violazione e la falsa applicazione delle clausole generali della buona fede sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell’abuso del diritto all’esercizio del recesso al nutum. La Corte affermando il principio di buona fede oggettiva e cioè della reciproca lealtà di condotta che deve presiedere ogni fase della vita di un contratto, ha inquadrato il comportamento della multinazionale nella figura di “abuso del diritto”; in quanto disporre di un potere non è condizione sufficiente per il suo legittimo esercizio. Con la formula “abuso del diritto” si tende ad indicare un limite esterno all’esercizio, potenzialmente pieno ed assoluto, del diritto soggettivo, il cui risarcimento implica l’attribuzione al soggetto di una duplice posizione: libertà e di forza. Pertanto si ha abuso nel caso di un uso anomalo del diritto che conduca il comportamento del singolo fuori dalla sfera del diritto soggettivo esercitato, per il fatto di porsi in contrasto con gli scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico positivo. Nel caso di specie, infatti, la patologia del rapporto poteva essere superata facendo ricorso a rimedi che incidessero sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. Quindi il criterio della buona fede costituisce per il giudice strumento atto a controllare lo statuto negoziale in funzione di garanzia del giusto equilibrio di interessi opposti. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico “nei binari dell’equilibrio e della proporzione”. Ed è su questa impostazione, secondo la Suprema Corte, che la Corte di merito, la quale ha affermato che l’abuso fosse configurabile in termini di “neutralità”, nel senso che, una volta che l’ordinamento ha previsto il mezzo “diritto di recesso” per conseguire quel determinato fine, sono indifferenti le modalità del suo concreto esercizio; avrebbe dovuto, invece, valutare ed interpretare le clausole del contratto, in particolare quella che prendeva il recesso ad nutum, anche al fine di riconoscere l’eventuale diritto al risarcimento del danno per l’esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza e buona fede e attuata con modalità e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti. In conclusione, partendo dal, presupposto che il giudice non ha potere di valutare le scelte di tipo imprenditoriale, per loro natura discrezionali, questi può tuttavia intervenire a posteriori con il controllo giurisdizionale per porre correttivi e integrazioni ove dall’esecuzione del contratto risulti uno squilibrio tra le parti. In tal senso il recesso ad nutum, anche se formalmente legittimo, assume la forma dell’abuso di posizione dominante e il soggetto economico incriminato è tenuto a risarcire i danni causati dalla controparte. Commentata da Francesca Picierno, in Filidiritto.com.

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dell’abuso processuale, mutando il precedente orientamento interpretativo30, ispirato ai principi di buona fede e correttezza riletti alla luce degli articoli 2 e 111 della Costituzione, per cui anche l’azione fondata può in concreto risultare abusiva perché superflua ed inutile31.

Ecco come la sentenza citata introduce un elemento di novità, ricostruendo per la prima volta la figura dell’abuso del processo come abuso del diritto di azione; in altri termini come abuso delle modalità attraverso le quali il bisogno di tutela manifestato da una parte viene portato in giudizio per la sua soddisfazione. La pronuncia è occasionata da quattro ricorsi per Cassazione promossi da una società creditrice e aventi per oggetto quattro sentenze rese secondo equità dal giudice di pace, in esito a distinti procedimenti per opposizione a decreto ingiuntivo.

Benché il giudice di pace avesse ritenuto fondate le pretese creditorie, con conseguente condanna della società debitrice al pagamento dell’intero credito, ma con compensazione delle spese di lite, i decreti ingiuntivi, una volta opposti furono revocati dato il comportamento contrario a buona fede e correttezza della società creditrice consistente nell’aver richiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo per ogni fattura non pagata, anziché un solo decreto ingiuntivo per l’intero ammontare del credito vantato nei confronti dello stesso debitore.

Pertanto, davanti alla Corte di Cassazione, la società creditrice proponeva quattro ricorsi in punto di attribuzione delle spese di lite dei diversi giudizi di opposizione, in quanto il giudice a quo aveva errato nel ritenere contrario ai principi di buona fede e correttezza il comportamento volto ad ottenere la condanna al pagamento del credito in plurimi giudizi, essendo i crediti oggetto dei decreti ingiuntivi distinti dal punto di vista sostanziale.

Vista la particolare importanza sulla questione, i quattro ricorsi vennero riuniti e assegnati alle Sezioni Unite le quali, com’è noto, rigettarono il ricorso della società creditrice, ritenendo il frazionamento della domanda contrario alla regola generale di correttezza e buona fede oggettiva, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’articolo 2 Cost., che come tale si risolve in abuso del processo ostativo all’esame della domanda.

30

Con la sentenza n.108 del 10 aprile 2000, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, veniva ritenuta "ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, chiedeva un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni".

Non vi è dubbio infatti che tale posizione esprimeva un preciso rafforzamento delle ragioni creditorie a discapito di quelle debitorie che venivano seriamente compromesse attraverso la sanzione della plurima percorribilità processuale da parte del creditore medesimo.

Il mancato e tempestivo adempimento dell’obbligazione legittimava infatti il creditore ad aggredire parte debitoria a più riprese fino alla piena soddisfazione del proprio credito esponendo l’obbligato ad un considerevole aggravio in termini di maggior somme dovute a titolo di interessi moratori e di rivalutazione monetaria oltre che di spese processuali. Per un’analisi vedi M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela

richiesta, 2004, Milano, p. 205 e ss.

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Sebbene le norme processuali non escludano in via astratta la tutela frazionata di un credito, in concreto, tale azione deve rispondere ad un interesse meritevole del creditore.

Tale non può essere l’interesse ad instaurare il giudizio davanti ad un giudice la cui competenza per valore è inferiore rispetto al giudice che sarebbe competente se si chiedesse l’adempimento dell’intero credito, perché così facendo, si arriva alla conclusione di prolungare oltremodo il vincolo obbligatorio per il debitore. Buona fede e correttezza consentono un bilanciamento degli opposti interessi in gioco32: consentire al creditore di aggredire a più riprese il debitore, esporrebbe quest’ultimo ad un considerevole aggravio in termini di maggior somme dovute a titolo di interessi moratori e di rivalutazione monetaria oltre che di spese processuali, contro gli stessi principi che nel rapporto obbligatorio rendono attuali gli “inderogabili doveri di solidarietà” dell’art. 2 Cost..

Pertanto i principi sanciti agli articoli 1175 e 1375 del codice civile devono trarre applicazione anche nel processo.

Quindi com’è consentito al giudice di intervenire sul rapporto negoziale in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi delle parti, anche in senso modificativo o integrativo, così allo stesso modo deve riconoscersi al giudice il potere di intervenire sull’equilibrio di quel rapporto in sede processuale. Fare con più di un processo quello che si potrebbe fare con uno solo, non soltanto danneggia la parte convenuta in giudizio moltiplicando gli atti necessari a risolvere la controversia e ritardandone la decisione, ma sottrae la disponibilità del giudice alla risoluzione di altre liti allungando altresì i tempi necessari alla soluzione di queste, che come ormai risulta pacifico sono già lunghi.

In questo senso, l’utilizzo dello strumento processuale con modalità che non solo determinano un danno alla controparte, ma vanno altresì ad infierire con il funzionamento dell’apparato giudiziario, si scontra con i principi di rango costituzionale quali appunto il principio del giusto processo e quello della sua

ragionevole durata sanciti dall’articolo 111 della Costituzione.

Spunti interessanti sul nostro tema emergono anche da alcune sentenze del Consiglio di Stato.

Il passaggio dall’abuso del diritto all’abuso del processo amministrativo avviene con l’importante sentenza del 23 marzo 2011 n. 3, resa dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato33, in tema di c.d. Pregiudizialità.

32 M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta, 2004, Milano, cit. p.199.

33 Cons. di Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011, n. 3, in Corr. Giur., 2011, p. 979 e ss., con nota di Socca,

Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo, in Foro it.,

2012. Con tale sentenza L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha messo un punto fermo sulla dibattuta questione della pregiudiziale amministrativa, ossia la necessità di impugnare ed ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo prima di poter conseguire il risarcimento del danno in ordine agli effetti pregiudizievoli di quel medesimo atto. I Giudici Amministrativi concentrano la loro attenzione sul rapporto

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L’Adunanza plenaria ritiene che la soluzione di compromesso sul punto dell’articolo 30, comma 3, c.p.a., che da un lato riconosce l’autonomia dell’azione

tra l’azione di annullamento è quella del risarcimento del danno davanti al Giudice amministrativo domandandosi se azione di annullamento e azione di risarcimento nel processo amministrativo sono collegate da un punto di vista strettamente processuale, nel senso della necessaria anteriorità dell’azione di annullamento rispetto alla seconda, pena una pronuncia di inammissibilità in rito di questa, oppure sono autonome? La Plenaria opta per la seconda soluzione, suffragata anche dal nuovo codice del processo amministrativo che all’art. 30, coma 1, così disciplina l’azione di condanna: “L’azione di condanna può

essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi in cui al presente articolo, anche in via autonoma.” Il privato, dunque, può agire in giudizio per il risarcimento

di un danno derivatogli da un provvedimento amministrativo anche senza essersi preventivamente rivolto al giudice per richiedere l’annullamento di quel provvedimento, purché lo faccia nel termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo (art. 30, Cost.3). Con l’affermazione del principio dell’autonomia tra le due azioni la Consulta ritiene pertanto realizzata la trasformazione del giudizio amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto e ulteriormente potenziata la dimensione sostanziale dell’interesse legittimo. Tale autonomia, tuttavia, non è completa. La Plenaria osserva infatti come l’art. 30, coma 3, prevede che: “ Nel determinare il risarcimento il giudice

valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle partite, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.”, dimostrando così di voler aderire ai principi civilistici in

materia di responsabilità risarcitorie (artt. 1223 e ss. C.c.), ed in particolare all’art. 1227, coma 2, c.c. in tema di concorso colposo del creditore, secondo cui: “ Il risarcimento non è dovuto per i danni che il

creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”. L’Adunanza ricorda come l’evoluzione

interpretativa abbia portato a riconoscere in capo al creditore non solo il dovere di astenersi dall’aggravare il danno, ma anche l’obbligo di comportarsi attivamente per evitarlo o ridurlo in ossequio al principio di correttezza nei rapporti bilaterali ed al canone della diligenza. Tali principi sono ora accolti dall’art. 30 del c.p.a., assimilando la posizione del creditore a quella del destinatario di un provvedimento lesivo. Viene dunque data rilevanza, non più dal punto di vista strettamente processuale bensì sostanziale, nel rapporto tra azione di annullamento e di risarcimento del danno. Il rilievo attribuito al comportamento del creditore pone dunque l’ulteriore questione della possibilità di ricomprendere nel novero di questi comportamenti esigibili, anche la formazione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte ciò sarebbe idoneo ad evitare in tutto o in parte il danno. Pur riconoscendo il principio di insindacabilità delle scelte processuali, i Giudici Amministrativi colgono l’esigenza di un generale divieto di abuso del processo, quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa. L’omessa impugnazione assume dunque, sul versante sostanziale, un rilievo causale, come fatto da valutare al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio di tipo ipotetico, sarebbero stati presubimilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso. Come si legge nella sentenza in questione: “Si deve

allora reputare che la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe possibilmente (ossia più probabile che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c, implica la non risarcibilità del danno evitabile”. In altre parole, il cittadino che si presenta davanti al giudice per ottenere il risarcimento del

danno subito da un provvedimento amministrativo può non vedersi risarcito nel caso in cui risulti che avrebbe potuto evitare i danni lamentati impugnando per tempo il provvedimento illegittimo. L’art. 30 del c.p.a. Impone al giudice di valutare, nella determinazione del danno tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti. Riconoscendo a tale inciso la portata attualmente attribuita all’art. 1227, comma 2, c.c., il potere valutativo del giudice si dovrebbe reputare esteso fino al punto di poter vagliare non solo le scelte processuali del ricorrente (il fatto che abbia impugnato o meno il provvedimento), ma anche i comportamenti tenuti dalle parti al di fuori e precedentemente al processo. Per approfondimento vedi G. Tropea, L’abuso del processo

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risarcitoria, dall’altro predispone una “rete di contenimento” rappresentata dal termine decadenziale e da un meccanismo che evoca, seppur non richiamandolo espressamente, l’art. 1227 c.c.

Tale orientamento si fonda su una lettura dell’art. 1227, comma 2, c.c., alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. e soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost. Su questa base, ai sensi del comma 2, dell’art. 1227 c.c., il Consiglio di Stato esclude il risarcimento dei danni che il ricorrente avrebbe potuto evitare con la tempestiva impugnazione del provvedimento dannoso o con il, pronto utilizzo degli altri strumenti di tutela.

La mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno.

Si giunge, così, all’elaborazione della figura dell’abuso del processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa.

Ciò implica “che ogni soggetto di diritto non può esercitare un’azione con modalità tali implicare un aggravio della sfera della controparte”.34

A distanza di poco tempo, il giudice amministrativo torna nuovamente sul tema dell’abuso del processo con la sentenza del 2 marzo 2012, n. 1209, la IV Sezione in questo caso riconosce l’abuso del processo nel comportamento della Pubblica Amministrazione che, contravvenendo ad una decisione del T.A.R. Lazio, con cui si accoglieva un ricorso avverso il provvedimento di esclusione da un concorso indetto dalla Guardia di finanza.

Il ricorrente aveva superato le prove scritte ma era stato giudicato non idoneo nella prova relativa alle capacità psico-attitudinali.

In sede di accoglimento della domanda di sospensione del relativo provvedimento, il T.A.R. aveva prescritto di sottoporre ad una nuova prova il ricorrente.

L’Amministrazione disattendeva l’ordinanza, proponendo appello contro la stessa. Il Consiglio di Stato rigettava il ricorso, giudicando come scorretto il comportamento tenuto dall’Amministrazione nella scelta impropria dello strumento processuale adoperato: anziché istaurare un secondo grado di giudizio, la P.A. avrebbe dovuto rinnovare l’esecuzione della prova come previsto in sede cautelare, risolvendo così in maniera più rapida ed economica la controversia. Anche in questo caso il giudice amministrativo richiama i principi enunciati dall’Adunanza Plenaria nella pronuncia n. 3/2011.

Sussiste, pertanto, “un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva”, che trova applicazione anche sul versante processuale, laddove la parte eserciti in modo funzionalmente improprio il potere discrezionale di individuare le strategie

34 In questo senso anche cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, 6 maggio 2011, n. 654, secondo cui “il divieto di

abuso del diritto va inteso anche come divieto di abuso del processo e, pertanto, il, creditore deve evitare di esercitare un’azione con modalità tali da impedire un aggravio della sfera del debitore”. Vedi anche

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difensive più opportune, in dispregio dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c. e quindi del principio di collaborazione procedimentale che ispira il rapporto amministrativo.

Tale principio implica che il dovere di buona fede ha una valenza reciproca35, ovvero le regole della correttezza devono essere osservate tanto dal cittadino quanto dall’Amministrazione.

1.3 Sanzioni e rimedi previsti dal nostro ordinamento in caso di abuso del processo.

Rimane, a questo punto, a conclusione del capitolo, da affrontare il problema dell’individuazione delle sanzioni e possibili rimedi al fenomeno dell’abuso. Se partiamo dal presupposto che la reazione implica un abuso già compiuto, occorre allora verificare se il nostro sistema abbia al suo interno strumenti idonei ad evitare tale accadimento.

Al riguardo vale la pena evidenziare come non manchino nel codice di rito norme che potrebbero essere utilizzate a fini di prevenzione egli abusi processuali. L’esame delle disposizioni, che notoriamente sono poste a presidio di un processo giusto, muove dagli articoli 88, 89 e 96 del codice di procedura civile.

L’articolo 88 c.p.c., intitolato “dovere di lealtà e probità” stabilisce che:

“Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e

probità. In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle Autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi”.

La scarsa applicazione dell’articolo da parte della giurisprudenza, ha fatto sì che nel tempo tale norma sia stata considerata più come semplice “dichiarazione di principio”36.

Il rinnovato interesse per il tema dell’abuso ha, invece, fatto assumere alla disposizione un ruolo centrale, utilizzandola come criterio di valutazione delle

35 G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo, Napoli, 2015, p. 451 e ss.

36 D. Borghesi, L’abuso del processo, in www.associazionicivilisti.it definisce l’art. 88 c.p.c. come

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condotte processuali delle parti, costituendo anche il presupposto per la irrogazione di sanzioni37.

L’articolo che apre il capo dedicato ai doveri delle parti e dei difensori prescrive agli stessi soggetti di comportarsi secondo lealtà e probità nel processo, così da consentire il suo lineare svolgimento38.

Il richiamo al necessario rispetto degli obblighi di lealtà e probità comporta che la parte è lasciata libera di utilizzare gli strumenti previsti dall’ordinamento, per far valere gli elementi a se favorevoli e per conseguire una posizione di vantaggio, a condizione che detta posizione sia il frutto di abilità ed accortezza nell’uso degli strumenti processuali e non consegua, invece, a condotte sleali e fraudolente, ossia condotte processuali contrarie alla buona fede oggettiva, che provochino ritardo o intralcio alla causa.

Così intesi, gli obblighi suddetti assumono un ruolo centrale nell’esperienza processuale39, divenendo anche modalità imprescindibile per l’attuazione del contraddittorio e, attraverso di esso, del giusto processo; in quanto lealtà e probità sono qualità della morale umana40.

Si definiscono comportamenti leali quelli che sono posti in essere nel rispetto di valori di correttezza fissati da un codice comportamentale; probi quelli che risultano essere stati ispirati da una integrità di coscienza e di costumi41.

Per trasgredire ai doveri comportamentali è, pertanto, necessario che il soggetto violi il codice di condotta a cui deve attenersi allo svolgimento di atti processuali, tenendo un comportamento contrario alle normali regole di correttezza.

La violazione deve essere sorretta dal necessario elemento soggettivo, ossia dalla volontà di compiere l’atto espressione di malafede processuale.

Apparentemente l’art. 88 c.p.c. non prevede alcun potere del giudice di sanzionare i comportamenti sleali o improbi tenuti dalle parti.

Infatti il primo comma si limita a dettare la regola di condotta, mentre il secondo comma impone al giudice di riferire alle autorità competenti, per l’esercizio del potere disciplinare, il comportamento scorretto del difensore. Pertanto la portata e la rilevanza dell’art. 88, nel caso in cui la violazione dei principi in esso contenuti sia ascrivibile alla parte, si coglie solo leggendo la norma unitamente ad altre disposizioni del codice ed in particolare all’articolo 92 c.p.c., che prevede il potere del giudice di condannare la parte, indipendentemente dalla soccombenza, al rimborso delle spese che la controparte abbia dovuto sostenere a seguito della violazione degli obblighi di lealtà e probità.

Nella formulazione originaria del codice il primo comma dell’articolo 92 c.p.c. costituiva l’unica ipotesi di liquidazione delle spese in favore della parte

37 C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, Torino, 2006, p. 198.

38 All’art. 88 c.p.c. fanno da corollario l’art. 5 ( “Doveri di probita, dignità e decoro”) e l’art. 6 ( “Dovere

di lealtà e correttezza”) del Codice deontologico forense.

39 N. Picardi, Manuale del processo civile, cit. p. 191.

40 G. Romualdi, Dall’abuso del processo all’abuso del sistema di giustizia, Torino, 2013, cit. p. 37. 41 G. Romualdi, op. cit. p. 37.

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soccombente, fondata sul principio di causalità, cioè sulla necessità che, a prescindere dall’esito della lite, debbano ricadere sulla parte che ha volontariamente trasgredito le regole di condotta del corretto agire processuale, le conseguenze provocate da detto comportamento.

La disposizione ha quindi un indubbia valenza sanzionatoria, poiché si pone come eccezione rispetto alla regola della soccombenza, la cui giustificazione non può che essere ravvisata nella necessità di reprimere le violazioni di quegli obblighi comportamentali che garantiscono il corretto e leale svolgimento del processo. In sintesi, quindi, l’esplicito riferimento operato dall’articolo 92 c.p.c. all’articolo 88 c.p.c., fa si che si possa affermare che dalla violazione dei principi di lealtà e probità discendono diverse responsabilità e sanzioni: una di natura esclusivamente disciplinare, strettamente connessa alla violazione delle regole deontologiche; l’altra ascrivibile alla responsabilità civilistica, sanzionata in sede di condanna alle spese.

Mentre l’art. 88 c.p.c., come si è visto, non prevede espressamente il potere dell’organo giudicante di sanzionare i comportamenti sleali delle parti, il successivo articolo 89 c.p.c., dopo aver dettato la regola di condotta, stabilendo che:

“ Negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i

loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive”, nel

comma successivo prevede che il giudice possa disporne la cancellazione e possa anche, in sede di decisione della causa, “assegnare alla persona offesa una somma

a titolo di risarcimento del danno anche patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa”.

Si definisce offensiva ogni espressione utilizzata negli scritti e nei discorsi difensivi con intento dispregiativo dell’avversario, ossia al solo fine di arrecare un danno non patrimoniale al soggetto cui è indirizzata.

Sono quindi, offensive le frasi ingiuriose, oltraggianti, calunniose. Vanno, invece, qualificate sconvenienti quelle che, non essendo dirette contro il valore o i meriti di qualcuno, si caratterizzano per una lesività di grado minore, ravvisabile nel semplice contrasto delle espressioni con il decoro che deve essere mantenuto nel processo42.

La norma quindi ha la medesima ratio dell’articolo 88, in quanto prescrive alle parti ed ai difensori di partecipare al processo in modo composto e rispettoso, astenendosi dall’utilizzo di espressioni che non siano in alcun modo giustificate dalle esigenze difensive e che abbiano come unico scopo quello di umiliare l’avversario.

Pertanto dalla violazione dell’art. 89 c.p.c., discendono due sanzioni diverse e distinte l’una dall’altra.

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Una è la cancellazione delle espressioni offensive e l’altra è il risarcimento del danno, il quale non è subordinato alla preventiva cancellazione.

Quindi la prima sanzione, che non ha funzione risarcitoria, può avere luogo senza la seconda e viceversa43.

A completamento, dei principi di soccombenza-causalità dai quali discende la regola secondo cui ciascuna parte, benché vincitrice, deve farsi carico di quelle spese che ha causato con istanze o atti non necessari al perseguimento dello scopo di tutela o di riconoscimento dei propri diritti, è previsto l’articolo 96 comma primo del c.p.c., che appare come una sorta di aggravamento della regola oggettiva della soccombenza, finalizzata a colpire la malafede della parte soccombente e perciò già destinataria di condanna alle spese, nei cui confronti l’altra parte avesse avanzato domanda risarcitoria del danno patito in conseguenza dell’azione o della resistenza in giudizio con dolo o colpa grave44.

La disciplina delle spese, quindi, realizza il giusto contemperamento degli interessi in gioco, poiché l’ordinamento deve da un lato garantire la possibilità di ricorrere al mezzo processuale, dall’altro assicurarsi che iniziative processuali pretestuose pregiudichino non solo i soggetti coinvolti in processi ingiustificati e lesivi, ma anche tutti coloro i quali, avendo diritto alla tutela, non la ricevono o la ricevono in tempi irragionevoli, a causa dei ritardi dovuti alla proliferazione di cause temerarie.

Su dette ragioni riposa il fondamento dell’articolo 96 c.p.c. che nella sua formazione attuale, recita:

“ Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con malafede

o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida anche d’ufficio, nella sentenza. Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.

In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice anche d’ufficio può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a

favore della controparte, di una somma equitativamente determinata45“.

43 Corte di Appello di Napoli, Sez. III, 14 aprile 2008.

44 Vedi sul punto C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2009, p. 385 e ss., secondo il quale,

poiché il risarcimento del danno presuppone un fatto illecito, questo fenomeno si verifica allorché l’agire o il resistere in giudizio, di per se nient’affatto illeciti, perché espressione di un diritto, siano esercitati con modalità estranee al loro schema tipico o al di là dei limiti determinati dalla loro funzione, così costituendo una forma di abuso di quei diritti.

45 Il terzo comma dell’art. 96 c.p.c, è stato introdotto con la legge 18 giugno 2009 n. 69 “Disposizioni per

lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”. Tale

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